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I pensieri che mantengono il panico

Il disturbo da attacchi di panico è mantenuto da fattori cognitivi come il pensiero catastrofico, l'ipervigilanza e il rimuginio

Di Linda Confalonieri

Pubblicato il 20 Feb. 2025

Che cosa è il disturbo da attacco di panico?

Articolo scritto in collaborazione con inTherapy – Unità Clinica Disturbi d’ansia

Il disturbo di panico è un disturbo d’ansia che insorge quando si sperimentano attacchi di panico. Questo porta alla preoccupazione e alla paura di ulteriori attacchi di panico, caratterizzate da un’intensa ondata di sintomi fisici e psicologici di ansia che raggiungono rapidamente il loro picco; frequente è un comportamento di evitamento, ovvero evitamento di situazioni che possono predisporre agli attacchi (ad esempio luoghi e situazioni in cui l’attacco di panico si è verificato oppure in cui il paziente immagina che potrebbe verificarsi). 

Un attacco di panico è l’improvvisa comparsa di intenso disagio, ansia o paura, che raggiungono il loro picco in pochi minuti e sono accompagnati da sintomi somatici e/o cognitivi, quali: battito cardiaco accelerato e palpitazioni cardiache, sudorazione, tremore, sensazione di mancanza di respiro o soffocamento, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazione di vertigine, instabilità o svenimento, brividi o sensazione di surriscaldamento, intorpidimento o formicolio, derealizzazione, (ovvero percezione del mondo come irreale, strano e distaccato), depersonalizzazione (ovvero sensazione di sentirsi estraneo rispetto a se stessi, al proprio corpo e alla propria mente), paura di perdere il controllo e di impazzire, paura di morire (APA, 2013).

Il circolo vizioso del panico

I pazienti che sperimentano l’attacco di panico, prima di iniziare un percorso terapeutico, interpretano erroneamente i segnali psico-fisiologici dell’ansia, ritenendo l’attivazione fisiologica intensa legata all’emozione dell’ansia come oggettivamente pericolosa per la propria salute. Vedendo questi segnali come reali pericoli si avvia, a partire dall’ansia, il circolo vizioso del panico: il paziente spaventato prova ancora più ansia, che attiva ulteriori risposte psicofisiologiche di allerta e allarme peggiorando quindi i sintomi fisici dell’ansia e innescando propriamente il panico. Si tratta della “paura della paura”: le risposte corporee diventano stimoli che innescano ulteriori reazioni di paura. La sensazione è che la situazione sia fuori controllo, alimentando ulteriormente il senso di paura e ansia, con il timore di morire, di impazzire e di perdere il controllo. 

In tal senso, i primi passi terapeutici consistono nel rendere consapevole il paziente che tali segnali sono parte dell’esperienza dell’ansia e del panico, che in quanto stati emotivi anche nelle loro componenti somatico-fisiologiche non costituiscono un pericolo.

Fattori cognitivi che mantengono il disturbo da attacco di panico

Vi sono alcuni fattori cognitivi, squisitamente psicologici, che di fatto contribuiscono a mantenere il panico. Infatti, durante l’attacco di panico si innescano anche modalità di pensiero e di lettura/interpretazione di una situazione nonché di focalizzazione dell’attenzione che sostengono il sintomo e il disturbo. 

Tra questi elementi cognitivi ritroviamo anzitutto il pensiero catastrofico, cioè la tendenza a interpretare in modo catastrofico i segnali dell’ansia e del panico, immaginando scenari terribili, catastrofici, il peggio che possa accadere (ad esempio, “sto per morire”). Le persone con attacchi di panico spesso interpretano i segnali corporei in modo distorto, come segni di un problema medico grave, come un infarto, o della perdita di controllo. 

Come già accennato in precedenza, questo tipo di interpretazioni cognitive degli stessi sintomi fisico-emotivi innesca ulteriori risposte emotivo-fisiologiche di allerta e di allarme. 

Un secondo fattore risiede nell’ipervigilanza e nell’attenzione selettiva: prestare selettivamente maggiore attenzione ai fenomeni corporei e focalizzarsi su di essi può comportare un aumento della intensità soggettivamente percepita, contribuendo a innescare ulteriori risposte di iper-vigilanza e iper-allerta, accompagnate da ansia e panico. Il monitoraggio costante e ipervigile dei propri sintomi fisici impedisce la riduzione dell’intensità della risposta emotiva (e delle sue componenti fisiologiche). 

Un terzo elemento cognitivo è il rimuginio, inteso come un pensiero negativo ripetitivo caratterizzato dalla tendenza a fare previsioni negative: immaginando una situazione futura nuovamente si rimugina prevedendo esiti negativi (anche catastrofici); queste previsioni anticipatorie negative aumentano l’ansia e sostengono i comportamenti di evitamento, che a loro volta, non consentendo sane esposizioni alle situazioni temute, sottraggono alla persona la possibilità di costruire scenari meno negativi e meno minacciosi. La tendenza a rimuginare facendo previsioni negative è parte dell’ansia anticipatoria. 

Un quarto fattore cognitivo che contribuisce a mantenere il panico sono le distorsioni cognitive, tra cui l’iper-generalizzazione (cioè, ad esempio, pensare che se ho avuto il panico in una data situazione, altre situazioni simili lo genereranno in futuro) o il pensiero dicotomico (interpretare le situazioni in modo assoluto, ad esempio, “se avrò un minimo segnale di ansia, sicuramente arriverà il panico“).

Inoltre, i pazienti possono avere la tendenza a sovrastimare il pericolo e a sottostimare le proprie capacità di tollerare e gestire i segnali di ansia e del panico; in questo ultimo aspetto entrano in gioco le credenze su di sé, che nel caso del panico si cristallizzano in un’ottica negativa: non avere fiducia nella possibilità di gestire l’ansia, la sensazione di non avere il controllo sui propri pensieri ed emozioni, amplificando la paura e l’impotenza per cui ogni episodio diventa sempre più minaccioso, rinforzando la convinzione che la persona sia vulnerabile e inadeguata, il che perpetua il ciclo di panico.

Infine, alcuni pazienti che vivono gli attacchi di panico hanno resistenze ad accettare che l’ansia sia un’emozione che ci accompagna in quanto esseri umani. Il minimo segnale di ansia non viene accettato, non si dà la possibilità di integrazione di alcuni momenti di ansia nella quotidianità. Si attivano dunque pensieri doverizzanti rigidi e inflessibili, quali ad esempio “Non devo avere alcun segno di ansia”, che inevitabilmente portano in modo paradossale a maggiori stati di tensione, ipervigilanza e ansia per evitare l’ansia stessa. Si innesca quindi un assetto di lotta e di non accettazione, di giudizio, che non facilita l’integrazione nel proprio essere di aspetti ansiosi che, se insorgono possono essere temporanei, divenire gestibili e naturalmente evolvere riducendosi per poi dissolversi. 

Riferimenti Bibliografici
  • American Psychiatric Association (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quinta Edizione, Raffaello Cortina Editore.
  • Clark, D.M. (1986). A cognitive approach to panic. Behavior Research Therapy. 24; 461-470
  • Wells, A. (2009). Metacognitive therapy for Anxiety and Depression. London, UK: Guilford Press. Trad. it. A. Wells, Terapia Metacognitiva dei Disturbi d’Ansia e della Depressione. Eclipsi. 
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