A mio avviso, il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale, e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero, è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo. Questo limite è paradossale perché chiunque faccia psicoterapia attribuisce ai pazienti scopi, valori, intenzioni, aspettative, desideri, timori, speranze.
L’articolo di G.M. Ruggiero, apparso su State of Mind, offre l’occasione per chiarire alcuni punti di interesse generale.
Il primo l’affronterò partendo dalla tesi che Ruggiero mi attribuisce:
In parole semplici, il paziente soffre di un disturbo d’ansia perché ritiene –sbagliando- che ci sia un’elevata probabilità che qualcosa di pericoloso possa accadere, che questi pericoli implichino gravi danni e che infine la capacità personale di fronteggiare questi pericoli sia bassa” e che “i pazienti … sono degli idioti che prendono fischi per fiaschi e vedono pericoli inesistenti.
Non ho mai scritto cose del genere perché i dati della ricerca suggeriscono qualcosa di diverso (Mancini e Gangemi, 2002). Realismo e credenze sbagliate non coincidono rispettivamente con sanità mentale e con psicopatologia. Infatti, alcune illusioni, ad es. quelle ottimistiche di Taylor (1999), caratterizzano la sanità mentale e il realismo è del tutto compatibile con la psicopatologia, come nel caso del realismo depressivo, o, sempre ad esempio, i pazienti ossessivi possono essere più realistici dei non pazienti nel rilevare la sporcizia (Mancini, 2005; Romano e Mancini, 2012).
Correttezza logica e errori logici non corrispondono a sanità mentale e psicopatologia. I due unici premi Nobel dati a psicologi (Simon e Kahneman), sono stati per studi che hanno mostrato come la mente umana sana e normale ricorra continuamente a euristiche, cioè a processi di pensiero che si discostano sistematicamente dalla logica. Non solo, diverse ricerche hanno dimostrato come persone con disturbi d’ansia, disturbo ossessivo e disturbo dell’umore, commettono meno errori logici dei non pazienti, a condizione che il ragionamento riguardi temi connessi con i loro sintomi. (vedi ad es. Johnson Laird, Mancini and Gangemi, 2006; Mancini e Gangemi, 2006; Mancini, Gangemi e Johnson Laird, 2007)
Ma il punto che più mi preme di illuminare con chiarezza è un altro. La posizione di Ruggiero mette completamente da parte il ruolo degli scopi nei processi psicologici e psicopatologici, infatti, il suo titolo fa riferimento a processi cognitivi e credenze. Il concetto di scopo, come del resto qualunque altro concetto motivazionale, non è nemmeno considerato. A mio avviso, il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale, e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero, è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo (vedi Paglieri et al., 2012).
Questo limite è paradossale perché chiunque faccia psicoterapia attribuisce ai pazienti scopi, valori, intenzioni, aspettative, desideri, timori, speranze.
Il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti.
Questo limite, a mio avviso, è presente in larga parte degli studi sui deficit cognitivi o metacognitivi, nei quali si sottovaluta che i processi cognitivi e metacognitivi sono orientati dagli scopi dell’individuo, e dunque quello che appare come un deficit può dipendere da un uso dei processi cognitivi al servizio degli scopi dell’individuo.
Un filone ben noto in psicologia cognitiva, (vedi i numerosi lavori di Cosmides, Tooby, Trope e Liberman), dimostra che i processi cognitivi sono, come il comportamento, al servizio degli scopi dell’individuo e sono orientati in modo da minimizzare il rischio di errori costosi, con evidenti vantaggi evoluzionistici. Ad esempio, chi ha paura di commettere un errore colpevole tende a orientare i processi cognitivi, sia il decision making (Mancini and Gangemi, 2003; Gangemi and Mancini, 2007) sia il ragionamento in modo prudenziale che implica la conferma dell’ipotesi più temuta, anche quando, inizialmente, non era quella più credibile per il paziente (Mancini and Gangemi, 2002a, 2002b, 2004, 2006). Questo ultimo aspetto è importante perché suggerisce che nel mantenimento e aggravamento dei disturbi psicopatologici intervenga non tanto il confirmation bias, come sostenuto dal cognitivismo standard, cioè la tendenza a confermare le assunzioni più credibili, e dunque un fattore strettamente cognitivo, ma, piuttosto, l’intenzione di prevenire la compromissione dei propri scopi, cioè un fattore motivazionale. Per una rassegna in ambito clinico si veda Harvey et al., (2004).
Non penso, dunque, che i pazienti … sono degli idioti che prendono fischi per fiaschi e vedono pericoli inesistenti, penso piuttosto che le persone con disturbi d’ansia percepiscano come catastrofica, cioè inaccettabile e insopportabile, la compromissione di alcuni scopi, ad es. la perdita della coscienza nel disturbo d’attacchi di panico, una brutta figura nei pazienti con fobia sociale, una colpa o una contaminazione nel disturbo ossessivo, e che i processi cognitivi con i quali elaborano le informazioni rilevanti per i loro timori, siano orientati in un modo che minimizza il rischio temuto ma che, allo stesso tempo, mantiene ed aggrava le credenze di pericolo. Se soffro di fobia sociale cioè attribuisco un valore molto negativo, alla possibilità di essere giudicato male, farò particolare attenzione a segnali di disapprovazione, e interpreterò segnali ambigui come espressione di giudizio negativo, in questo modo eviterò illusioni positive che potrebbero di rendermi ancora più ridicolo, ma, al contempo, dal mio punto di vista, avrò molte conferme della fondatezza dei miei timori.
Riconoscere il ruolo degli scopi e dunque degli investimenti protettivi dei pazienti, implica l’opportunità di indirizzare l’intervento psicoterapeutico verso una maggiore accettazione dei rischi di compromissione dei propri scopi (Mancini e Gragnani, 2005; Cosentino et al., 2012; Mancini e Perdighe, 2012; l’intero vol 9, N 2, Dicembre 2012 di Cognitivismo Clinico)
Infatti, l’accettazione di un rischio implica un minore investimento protettivo e ciò modifica i processi cognitivi in un modo che può facilitare il cambiamento delle rappresentazioni di pericolo. Ad esempio se si accetta il rischio di essere rifiutati dagli altri, si percepiscono meno segnali di rifiuto.
Un secondo punto di Ruggiero merita delle considerazioni.
In formulazioni più sofisticate, l’ansia dipende dalla convinzione di non riuscire a sopportare l’incertezza, la semplice possibilità del pericolo, anche se bassa.
A me pare che il concetto di intolleranza alla incertezza non sia per nulla più sofisticato ma sia criticabile per diverse ragioni, alcune specifiche, altre generali. E comunque il ricorso a tale concetto disposizionale, come in generale a tutti i concetti disposizionali, implica il rischio di un regresso piuttosto che un progresso nella spiegazione dei disturbi psicopatologici.
Vediamo le critiche specifiche. Innanzitutto il concetto di intolleranza alla incertezza (IU) è vago e vi sono major conceptual problems with the construct of IU (Starcevic e Berle, 2006). Carlton (2012) riferisce almeno sette definizioni del costrutto IU. Ma tutte hanno a che vedere con la percezione di minacce, dunque implicitamente con il concetto di scopo, e non con l’intolleranza alla incertezza strettamente cognitiva, cioè intesa come bisogno di chiusura cognitiva (Kruglansky, passim).
Infatti autorità in questo campo (Birrell J. et al., 2011; Carlton, 2012) ritengono che l’intolleranza all’incertezza sia a dispositional fear of the unknown e con questo si intende la tendenza a immaginare minacce dove non si sa cosa potrebbe succedere, cioè a riempire le aree di ignoranza con possibilità di pericolo. Se si accetta questa definizione, allora è piuttosto chiaro che l’intolleranza alla incertezza sia, in ultima analisi, una strategia cognitiva difensiva tesa a prevenire la compromissione dei propri scopi.
Un altro problema affligge il concetto di IU. Si tratta davvero di una disposizione generale che entra in gioco indipendentemente da ciò che è importante per l’individuo? Intendo dire: chi ha un’alta IU tende a vedere qualunque genere di minaccia di fronte a qualunque tipo di ignoto, o, al contrario, tende a vedere minacce a specifici scopi solo se si trova di fronte all’ignoto in domini rilevanti per lui?
La prima possibilità non è molto credibile. Non è plausibile che, ad esempio, un paziente ossessivo immagini qualche minaccia se è incerto circa le probabilità della vittoria della Roma nel derby con la Lazio, se per lui il calcio è un argomento del tutto indifferente con nessuna implicazione per i suoi scopi e valori. In una ricerca abbiamo riscontrato che soggetti subclinicamente ossessivi non avevano alcuna intolleranza alla incertezza, intesa in senso puramente cognitivo, cioè come intolleranza per domande senza risposta il cui era neutro (Mancini et al., 2002).
Più in generale la ricerca sulla IU, come quella su altri costrutti disposizionali, è affetta da una serie di limiti.
Innanzitutto i concetti disposizionali sono descrittivi e consentono, al più, previsioni ma non spiegazioni. Ad esempio, il concetto disposizionale di avaro può descrivere il comportamento abituale di una persona quando si tratta di spendere soldi e può consentire la previsione di un rifiuto se gli si chiede un prestito, ma non spiega il comportamento, cioè non dice le ragioni per cui è avaro. Dire che Tizio spende malvolentieri perché è avaro è come dire che l’oppio fa dormire perché ha la vis dormitiva, non è una spiegazione ma una tautologia.
Le stesse considerazioni valgono se si afferma che un paziente è affetto da un disturbo d’ansia perché ha una dispositional fear of the unknown. Con questo non voglio negare che studiare le disposizioni possa essere utile a una miglior descrizione dei disturbi psicopatologici o anche a prevedere la probabilità di certi comportamenti piuttosto che di altri, ma spiegare è cosa diversa. Quindi mi permetto di contestare l’affermazione di Ruggero che l’intolleranza all’incertezza sia una sofistica spiegazione dell’ansia nei disturbi psicopatologici. L’IU, come del resto i tanti altri costrutti disposizionali che affollano il nostro campo, non è una spiegazione.
Ma ci sono altre perplessità sulle ricerche analoghe a quelle sulla intolleranza all’incertezza, cioè sui costrutti disposizionali. Si tratta il più delle volte di ricerche con questionari che, non solo hanno tutti i limiti dei self report, e questo è un limite di tutta la nostra ricerca anche di quella nelle neuroscienze (McNally, 2000), ma articolano in domande dei concetti che sono quasi sempre molto mal definiti, oppure che, come l’IU, si prestano a numerose definizioni diverse fra loro.
Per giunta la pretesa di risolvere le ambiguità concettuali con l’analisi fattoriale, spesso, è illusoria e complica ancor più le cose; ci si trova una miriade di fattori con etichette verbali che non si capisce neanche bene a cosa si riferiscano e quale sia il quadro concettuale in cui assumono un senso. Secondo alcuni autorevoli ricercatori (Davey et al., 2013) uno dei difetti principali nella ricerca psicologica, soprattutto clinica, è il ricorso a concetti vaghi, approssimativi, semmai utili per la pratica terapeutica, prodotti dalle intuizioni di un clinico e che mal si applicano alla popolazione generale o con disturbi diversi.
Vorrei dedicare qualche rigo ad alcuni problemi connessi con il concetto di deficit.
Per affrontare la questione suggerisco di immaginare una persona con difficoltà a spiegare e prevedere accuratamente comportamenti e reazioni emotive degli altri. Possiamo spiegare le sue difficoltà con un deficit di rappresentazione della mente altrui? A mio avviso si rischia la tautologia, analoga ad es. a: perché quel bambino ha difficoltà a leggere e a scrivere? Perché ha una difficoltà di lettura e scrittura, e, soprattutto, si rischia di trascurare tante altre possibilità.
Innanzitutto la difficoltà metacognitiva potrebbe essere conseguente ai suoi investimenti protettivi, ad esempio un paranoico può apparire povero della capacità di comprendere gli altri, perché attribuisce solo e sistematicamente intenzioni ostili, anche laddove non vi è alcun ragionevole segnale di ciò. Non è peregrino supporre che la sua difficoltà sia dovuta a un investimento protettivo.
In secondo luogo la difficoltà a spiegare e prevedere accuratamente comportamenti e reazioni emotive degli altri, può essere dovuta a un sostanziale disinteresse per gli altri o addirittura alla rappresentazione degli altri come prede, come sembra accadere negli psicopatici. La difficoltà quindi può essere conseguenza non di un deficit, ma a specifici contenuti mentali, in particolare a come si connotano gli altri e a quali scopi si ritengono minacciati nel rapporto con gli altri. Se si pensa a un deficit rimangono tante possibilità, ci può essere un deficit di attenzione, ad es. ADHD, per cui la persona è talmente distraibile che fa fatica a investire tempo e risorse mentali per spiegare e prevedere comportamenti e reazioni emotive degli altri in modo sufficientemente adeguato. Oppure la difficoltà nasce da un livello intellettivo troppo basso.
Oppure può dipendere da esperienze troppo limitate di rapporto con altri, ad esempio un adolescente isolato socialmente può avere difficoltà nella rappresentazione adeguata della mente degli altri. Infine, certamente, come sembra accadere nelle persone affette da disturbi dello spettro autistico, ci può essere una difficoltà dovuta, basicamente, a un danno neurale che compromette la Teoria della Mente del paziente. Dunque le possibilità sono tante. Chi tenta di spiegare la psicopatologia ricorrendo al concetto di deficit, dovrebbe chiarire quale di queste possibilità, o altre che a me sfuggono, è in gioco e, possibilmente, fornirne le prove. Almeno dovrebbe discriminare se si tratta di un defict di performance o di competenze.
Una questione del tutto diversa è se un deficit sia rimediabile e, nel caso, come. Si tratta di una questione pratica che in parte potrebbe prescindere dalla natura del deficit.
Da decenni, i deficit intellettivi e i deficit specifici di apprendimento sono oggetto di interventi riabilitativi di tipo psicologico e qualunque riabilitatore sa come anche in questi casi la parte emotiva e motivazionale, cioè il contenuto della mente, sia fondamentale.
Premesso che non sempre sembrano del tutto chiare le differenze tra metacognizione, mentalizzazione, coscienza, consapevolezza e metavalutazione (vedi Seminario SPC, 2013), vorrei soffermarmi su un punto sollevato da Ruggiero.
Così l’ossessivo non deve la sua condizione a pensieri di responsabilità e colpa, ma a funzioni mentali gestite in maniera improduttiva. Nel caso di Wells, l’attenzione. È il controllo attentivo sulle situazioni che genera l’ossessività dubbiosa, mentre la valutazione di responsabilità nascerebbe a posteriori.
Dunque l’attenzione è gestita, ma da cosa è gestita? Da contenuti metacognitivi, dice Ruggiero, e quali sono? Nel caso dei pazienti ossessivi molti dati sperimentali suggeriscono che sia lo scopo di prevenire disattenzioni che potrebbero avere conseguenze negative delle quali il paziente si sentirebbe colpevole (Mancini, D’Olimpio e Cieri, 2004; Mancini and Barcaccia, 2014; D’Olimpio and Mancini, 2014; Mancini and Gangemi 2004; Mancini and Gangemi, 2011).
Non so se vi sono altrettanti dati sperimentali a favore del fatto che la responsabilità nascerebbe a posteriori. Ma, tra l’altro, come nascerebbe?
Più in generale, intendo dire che le funzioni cognitive sono orientate dagli scopi dell’individuo ma è anche ovvio che le funzioni cognitive possano essere deficitarie o comunque alterate (vedi ad es l’attenzione nel ADHD), e analogamente si può ritenere per le funzioni metacognitive. Resta che sia per le funzioni sia per le metafunzioni si dovrebbe dire con chiarezza, dati alla mano, se nei vari tipi di pazienti esse sono orientate dagli scopi dell’individuo o se sono realmente deficitarie, e in questo caso, di che tipo di deficit si tratti. Per quanto riguarda i pazienti ossessivi, il confronto tra dati, fa pendere la bilancia a favore di una spiegazione in termini di contenuti mentali (vedi Mancini e Barcaccia, 2014 per un confronto tra teorie del deficit e appraisal theories nel DOC).
ARTICOLO CONSIGLIATO:
Sviluppi della terapia cognitiva: tra processi e credenze
BIBLIOGRAFIA:
- Carleton, N. (2012). The intolerance of uncertainty construct in the context of anxiety disorders: theoretical and practical perspectives. Expert Rev. Neurother. 12(8), 937–947 (2012)
- Davey G., Meeten, F., Barnes G. and Dash, S. (2013). Aversive intrusive thoughts as contributors to inflated responsibility, intolerance of uncertainity anf thought – action fusion. Clinical Neuropsychiatry – Supplement – June
- Harvey A.G., Watkins, E., Mansell, W., Shafran R.(2004). Cognitive behavioural processes across psychological disorders. Oxford University Press, Oxford.
- Paglieri, Tummolini, Falcone e Miceli (editors). The goals of cognition: essays in honour of Cristiano Castelfranchi. (2012) edited by. College Pubblications, pp 253-273 – London
- Starcevic V, Berle D. (2006). Cognitive specificity of anxiety disorders: a review of selected key constructs. Depress. Anxiety 23(2), 51–61
- Taylor S., (1999). Le illusioni ottimistiche. Giunti. Firenze
- Seminario organizzato da SPC. La mentalizzazione: dai modelli teorici alla psicopatologia. 13 dicembre 2013, Roma
- Tutte le ricerche citate e firmate anche da Mancini sono rintracciabili a questo LINK