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Nella pratica clinica: lo svuotamento identitario e il “terapeuta killer”

L'esperienza angosciante dello “svuotamento identitario” è sperimentabile quando l'interlocutore non ci riconosce il ruolo in cui ci siamo identificati

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 13 Gen. 2015

Roberto Lorenzini, Valeria Valenti, Marika Ferri

 

L’esperienza dello “svuotamento identitario” con il vissuto emotivo di angoscia di perdita di identità e di rabbia verso l’altro che ce la fa provare è sperimentabile in ogni sistema motivazionale interpersonale quando l’interlocutore non ci riconosce il ruolo in cui ci siamo identificati che sia di amante, di competitor, di accudente o di accudito (si pensi alle rabbie e alle angosce di separazione di un piccolo il cui ruolo di oggetto di cure non viene riconosciuto).

Nella pratica clinica capita spesso di sentir narrare l’angoscia che alcuni provano a non sentirsi amati o peggio a non sentirsi rappresentati nella mente dell’altro significativo. Non c’è soltanto il timore di perdere l’oggetto amato e dunque di fallire uno scopo giudicato importante quanto piuttosto il timore di perdere se stessi. Poiché il soggetto si vede soltanto all’interno di tale relazione, se la relazione viene a mancare è il soggetto stesso a scomparire. In effetti la cifra emotiva che viene esperita non è lungo la dimensione della tristezza quanto piuttosto dell’angoscia, un angoscia che chiameremo di “svuotamento identitario”.

Lo svuotamento è avvertito come una implosione  dei propri centrali pilastri identitari con il contemporaneo collasso della gerarchia degli scopi. Quello che risulta più evidente nel racconto del soggetto è la paralisi, la sospensione di tutto il sistema motivazionale e dunque il vissuto premortale della noia: “se non c’è lei nella mia vita….allora nulla ha più senso…..non so cosa fare…. non desidero niente. Il rapporto con l’altro è la porta per ritrovare se stesso e dare un senso al mondo. Tutte le cose che avevano significato per la funzione che potevano avere all’interno del rapporto perdono qualsiasi importanza, si svuotano di ogni interesse. Senza l’altro il mondo è vuoto.

L’angoscia sperimentata non è dunque simile alla minaccia per il fallimento di uno scopo e la perdita di un oggetto esterno, quanto piuttosto, come nell’angoscia psicotica, simile alla perdita della propria soggettività, identità, agentività. Il soggetto sente di restare mutilato e tale condizione può risultare così insopportabile da preferire di sopprimere la parte rimasta in vita perché non abbia a rendersi conto  della condizione dimezzata e cessi di soffrirne. Emozione associata è di frequente l’ostilità verso chi ci cancella e ci priva di noi stessi. Il danno che ci procura è irreparabile, è il più grande possibile, ci fa perdere, ci deruba noi stessi.

Questa esperienza è frequente in due situazioni prototipiche che hanno dato origine alle pagine forse più belle dell’arte mondiale di tutti i tempi: la fine dell’amore romantico e l’esperienza del lutto, entrambe accomunate dalla perdita dell’oggetto d’amore e, come detto sopra, insieme a lui di noi stessi. Tali sentimenti sono talmente diffusi e socialmente approvati che vengono facilmente riconosciuti, espressi e condivisi. Trascriviamo in proposito il funeral blues di Auden per la perdita del suo compagno omosessuale :

Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,

fate tacere il cane con un osso succulento,

chiudete i pianoforte, e tra un rullio smorzato

portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù

e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,

allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,

i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,

la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,

il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;

pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;

imballate la luna, smontate pure il sole;

svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;

perché ormai più nulla può giovare.

Quanto detto fin qui, per la sua ovvietà, non meritava certamente il tempo impiegato per farlo. Cercherò dunque di giustificare tale investimento ampliando il concetto di “svuotamento identitario” ed estendendolo ad altri sistemi interpersonali (gli SMI liottiani). Questa operazione in genere poco feconda di ampliamento di un concetto con forte potere euristico a zone più ampie del suo focus originario con il risultato di annacquarlo e renderlo generico e banale, nasce dall’esperienza clinica ed in particolare dalla constatazione di un errore, ghiotta occasione per imparare.

Mi capita di osservare di frequente personale dedito a professioni di aiuto, quali medici, infermieri o assistenti sociali, ma anche psicoterapeuti, dei quali si dà ingiustamente per scontata una lucida consapevolezza di sè, diventare francamente ostili e persecutori nei confronti dei propri assistiti.

Tale disastroso fenomeno scatta quando il paziente, nonostante gli sforzi del curante non migliora come questo si aspetterebbe: il suo continuare a star male è una ferita grandissima all’identità del curante posta tutta nel ruolo di accudente e la sofferenza del malato gli fa sperimentare l’esperienza intollerabile dello svuotamento identitario scatenando la sua ostilità. Qualcosa del genere può spiegare gli agiti di violenza, anche drammatici, di un caregiver verso un bambino piccolissimo che si dimostra inconsolabile nonostante tutte le cure.

Il paziente che nonostante tutti gli sforzi e la dedizione del suo psicoterapeuta non guarisce o peggiora o vuole interrompere la relazione è come se gli mandasse il messaggio che il terapeuta è un accudente impotente e questo in modo esplicito o peggio camuffato scatena la sua rabbia e il tentativo di colpevolizzare il paziente per l’esito non soddisfacente del lavoro svolto, ad esempio recuperando il concetto consolatorio di resistenza e di vantaggio secondario. Questo rischio di evoluzione iatrogena della relazione è tanto più presente quanto più il curante pone la sua identità nel suo lavoro e non lo considera un semplice mestiere per guadagnarsi la vita. Sono quelli che hanno la vocazione ad essere i più pericolosi: i migliori possono diventare i peggiori.

Per concludere, quello che sosteniamo, è che l’esperienza dello “svuotamento identitario” con il vissuto emotivo di angoscia di perdita di identità e di rabbia verso l’altro che ce la fa provare è sperimentabile in ogni sistema motivazionale interpersonale quando l’interlocutore non ci riconosce il ruolo in cui ci siamo identificati che sia di amante, di competitor, di accudente o di accudito (si pensi alle rabbie e alle angosce di separazione di un piccolo il cui ruolo di oggetto di cure non viene riconosciuto).

Insomma ogni sistema motivazionale se non viene riconosciuto dall’interlocutore cui viene proposto e tanto più quanto più si pone in esso gran parte dell’identità, genera l’angosciante esperienza dello svuotamento identitario come perdita di se stesso e rabbia verso il partner non riconoscente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Liotti G. (2001). Le opere della coscienza. Raffaello Cortina Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Liotti G. , Monticelli F. (2008). I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Raffaello Cortina Milano. ACQUISTA ONLINE
  • Liotti G. Farina B.  (2011). Sviluppi Traumatici. Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • R.Lorenzini, S.Sassaroli. (2000).  La mente prigioniera: strategie di terapia cognitiva. Ed. Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • S.Sassaroli, R.Lorenzini, G.Ruggiero. (2006). La psicoterapia cognitiva dell’ansia. Ed. Raffaello Cortina, Milano. ACQUISTA ONLINE
  • R. Lorenzini, B. Coratti. (2008). La dimensione delirante. Ed. Raffaello Cortina Milano. ACQUISTA ONLINE
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