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Psicoanalisi e sociologia del detenuto: gestire l’emergenza ai tempi del Coronavirus

In una situazione di pandemia come quella da coronavirus che stiamo vivendo, nelle carceri i vissuti angoscianti dei detenuti vengono amplificati

Di Claudia Frau, Maria Adele Capone

Pubblicato il 11 Mag. 2020

Aggiornato il 12 Mag. 2020 12:42

All’interno delle carceri, in un’esistenza costellata da frustrazioni e relativi comportamenti impulsivi e aggressivi, una situazione di ulteriore deprivazione dovuta al contenimento del Coronavirus genera una condizione di ritraumatizzazione, di rabbia sorda, invisibilità e immutabilità, di diritti percepiti come nuovamente negati.

 

Il sistema detentivo dovrebbe consentire la tutela della dignità e della salute di ogni singolo cittadino, ma l’impegno fornito non sembra soddisfare la complessità dell’attuale stato di emergenza, in cui i problemi e i vissuti esistenti vengono oltremodo esasperati.

Il carcere è, per definizione, il luogo in cui viene rinchiuso chi viene privato della libertà personale, per ordine dell’autorità competente, in seguito ad aver commesso un reato. Simbolicamente potrebbe essere definito come un qualsiasi ambiente opprimente, tormentoso o dove sia impossibile uscire o scampare: quello che storicamente Dante rappresentava come l’Inferno. In una situazione di pandemia come quella che stiamo vivendo, in cui bisognerebbe garantire a ogni singolo cittadino quelle norme di sicurezza, igiene e contenimento che dovrebbero tutelarne la salute, i vissuti angoscianti dei detenuti vengono amplificati, e la condizione carceraria sembra rappresentare un’emergenza nell’emergenza.

Nell’intento di considerare una prospettiva prettamente civica, seguendo anche le linee guida dell’OMS in riferimento alla prevenzione e il contenimento del Covid nelle carceri, lo Stato dovrebbe garantire al cittadino in misura detentiva quei diritti che egli non è stato in grado di garantire alla comunità, riconoscendolo come persona e individuo, con le proprie esigenze, emotività e affetti, evitando ulteriori forme di vittimizzazione e tutelandone la dignità umana. Ciò risulta un’impresa ardua, in una realtà come quella penitenziaria caratterizzata di per sé da innumerevoli difficoltà quali ad esempio l’eterogeneità dei reclusi, la loro provenienza da contesti socio-culturali marginali e spesso disfunzionali, la tossicodipendenza e il rischio di suicidio, e in questo momento funestata dall’impossibilità di arginare il problema del sovraffollamento e di garantire un’adeguata distanza di sicurezza in un ambiente oltremodo promiscuo. A tutto ciò va aggiunto che chi sta scontando una pena viene privato, a causa delle norme anticontagio, degli affetti che rappresentavano l’unico contatto con il mondo esterno e bersagliato da notizie incerte che permeano dal di fuori. Si rischia, quindi, di sprofondare in un incubo di insicurezza e giustificati timori per la propria condizione fisica e psichica, alimentando il proprio vissuto di inaiutabilità e di mancanza di via di scampo (helplessness), dando il via alla dissociazione traumatica e causando reazioni difensive di aggressività e ipocondria.

Alla luce di quella che è la situazione carceraria appena descritta, potrebbe essere utile analizzare il fenomeno in una prospettiva psicoanalitica sulle dinamiche intrapsichiche che entrano in gioco e che modulano gli agiti e i vissuti in un contesto di sovraffollamento e continua disregolazione emotiva che tuttavia nasconde uno stato di deprivazione e isolamento profondo.

Rivolgendo lo sguardo allo sviluppo della personalità di ogni essere umano, l’aggressività stessa nasce da una forma, inevitabile e naturale, di deprivazione. Per Kohut questa non è una pulsione primaria: l’assertività aggressiva rappresenta quella naturale spinta volta a ristabilire l’equilibrio in seguito alla frustrazione di un bisogno – se il genitore ritarda a rispondere il bambino piange rabbiosamente – grazie alla quale il bambino inizia a differenziarsi, in quanto percepisce un altro da sé che non sempre è disponibile. Quando i fallimenti empatici rientrano entro certi limiti non traumatizzanti (frustrazione ottimale), ci saranno oscillazioni minori nell’equilibrio psichico del bambino, manifestate da un aumento dell’assertività aggressiva e della sua capacità di fare richieste sane. Se i fallimenti empatici sono traumatizzanti, la pulsione di tipo aggressivo-distruttivo e i comportamenti ad essa correlati risultano frutto di una disintegrazione strutturale. Per Kohut vi è una rabbia disperata di un sé che, a causa dei fallimenti empatici precoci, considera se stesso incapace di ottenere ciò che ha il diritto di ottenere. Ed ecco come, traslando questo concetto e applicandolo alla realtà delle carceri, in un’esistenza costellata da frustrazioni e relativi comportamenti impulsivi e aggressivi, una situazione di ulteriore deprivazione dovuta al contenimento del Coronavirus genera una condizione di ritraumatizzazione, di rabbia sorda, invisibilità e immutabilità, di diritti percepiti come nuovamente negati.

Gli agiti aggressivi successivi, auto o eterodiretti, sono ulteriormente enfatizzati da una disregolazione affettiva causata dalla cattività coatta con individui a loro volta altamente disregolati: le difficoltà personali e di personalità dei detenuti non permettono di mantenere la necessaria sintonizzazione per raggiungere il processo di regolazione affettiva ottimale o per effettuare la riparazione delle rotture di sintonizzazione modulate interattivamente, portando ad un’escalation di attivazione emotiva che può contagiare l’intera popolazione carceraria, portando, come abbiamo visto nel mese scorso, a rivolte ed episodi di acting-out.

Un altro aspetto da considerare, successivo alla frammentazione/dissociazione traumatica che su lunga scala sta caratterizzando a livelli diversi la psiche di ognuno, nonché allo stato di promiscuità, incertezza e perdita di controllo sulla propria salute, è l’ipocondria. Per i carcerati, costantemente a contatto e impossibilitati a mantenere una distanza di sicurezza tra di loro, la frammentazione dovuta alla frustrazione si acuisce sino a diventare una sorta di ossessione riguardante i propri sintomi e preoccupazioni per il proprio stato psico-fisico.

Nella visione kohutiana, l’ipocondria è già di per sé una delle tipiche manifestazioni dei disturbi narcisistici, dovuta a un’eccessiva attenzione verso il proprio sé, volta a contenere l’angoscia di frammentazione. Anche nei detenuti, avendo probabilmente sviluppato la propria personalità all’interno di un contesto socio-culturale molto spesso ai margini, fatto di privazioni, non riconoscimento, eventi di vita difficili, la scissione narcisistica si manifesta tramite la costante attenzione della mente vigile verso la parte della propria personalità che sente più vulnerabile, fragile, frammentata, e vi si rivolge in maniera preoccupata. In seguito poi a situazioni ulteriormente a rischio come quella che si sta verificando, questa preoccupazione assume ancor più il carattere di un vero e proprio rimuginio, in cui il bisogno frustrato sfocia in una ricerca costante di rassicurazioni sulla propria esistenza e continuità fisica.

Se si considera anche la visione ‘paranoica’ e oggettuale dell’ipocondria, condivisa dalla psicoanalisi classica e kleiniana, l’aggressività frammentata viene proiettata sull’esterno, e ci si percepisce come vulnerabili al ‘contagio’, proveniente da un altro inaffidabile e incontrollabile. In un contesto di pandemia, tale vissuto viene concretizzato e, oggettivamente giustificato, tramite l’altro che dall’esterno porta il virus, la malattia: ecco che l’aggressività e la fobia della malattia si concretizzano verso gli operatori e gli agenti di polizia penitenzaria che svolgono la propria vita ‘fuori’, e possono portare ‘dentro’ il virus, da cui essi sono impossibilitati a difendersi.

La psicoanalisi intersoggettiva (Stolorow, Atwood, 1992) coglie aspetti dei due modelli integrandoli nel più ampio spettro delle relazioni interpersonali, suggerendo che le ferite precoci suggerite da Kohut, andando a ledere la fiducia che l’individuo può riporre nel mondo esterno e negli altri, farebbero sì che la persona tenti di sottrarsi all’inevitabile interdipendenza con l’ambiente concettualizzando il proprio corpo come un’entità isolata e vulnerabile. Le emozioni sono così impossibilitate a esprimersi genuinamente tramite il contatto con l’altro, concretizzandosi nel sintomo che dà significato al proprio malessere e tuttavia causa un ripiegamento su sé stesso, verso cui tutta l’attenzione e le rimuginazioni ossessive sono riversate. Il permanere del dubbio su di sé si interseca così con una difficoltà ad avere fiducia nell’altro.

C’è da considerare, infine, che nell’immaginario collettivo il carcere è da sempre stato inteso come una forma di contenimento e rieducazione del detenuto, e questo dovrebbe rappresentare in realtà un’opportunità di sviluppare, tramite un supporto emotivo e una regolazione affettiva adeguata, una  nuova rappresentazione di sé come individuo capace di gestire le proprie emozioni e agiti, modificare i propri schemi e tollerare le frustrazioni, che possono emergere in seguito ad eventi imprevedibili e scarsamente controllabili come appunto l’epidemia. Alla prova dei fatti, tuttavia, ciò risulta utopico, difficile, in un luogo in cui si cronicizzano e si disregolano ulteriormente sentimenti quali rabbia, solitudine, sofferenza e dolore mentale, esasperati ed esasperanti per i detenuti e gli operatori, e fin troppo spesso strumentalizzati dal crimine organizzato, portando in effetti a uno stravolgimento dell’obiettivo e a una situazione contraria alla rieducazione. Se la società è intesa come una comunità fatta di persone, regole da rispettare e istituzioni, allora il carcere è una società: con soggetti fondanti lo stato di diritto, che richiedono incessantemente una giusta tutela e prevenzione, anche della salute, spettante ad ogni singolo cittadino libero e purtroppo non attuabile in un contesto di costante emergenza, che andrebbe quindi riformulato dalle fondamenta.

Citando il noto sociologo Nils Christie “è molto importante rendersi conto che la prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui; esiste per far soffrire le persone, che effettivamente soffrono”. E’ del tutto naturale che nelle strutture carcerarie la gente quindi ceda alla disperazione e all’irrequietezza, soprattutto in una circostanza di emergenza sanitaria come quella esplosa negli ultimi mesi. La società dovrebbe sviluppare una visione empatica e relazionale della sofferenza dei detenuti, troppo spesso reietti e abbandonati a loro stessi per poi essere giudicati unicamente per il male commesso, in modo da creare nuovi modi di essere cittadini. Prendendosi carico dei vissuti sia di colpa che di sofferenza, attraverso il confronto e la relazione, si potrebbe dare la possibilità al colpevole di identificarsi con il dolore della vittima e alla vittima e alla società di vedere il colpevole nella sua condizione, spesso miserevole, e come dietro la facciata di uomo forte e terribile si nasconda, forse, un comunissimo essere umano, con le stesse incertezze e paure, prima tra tutte quella per la sua salute. Ma una cosa è pensare in astratto alla pena che uno merita, un’altra è vedere con i propri occhi il colpevole nella sua sofferenza. Onde evitare di cedere a una visione sadica e punitiva, è opportuno riflettere su come affrontare la devianza in un modo che tenga conto dei valori etici che ci contraddistinguono, in qualsiasi situazione, come società del diritto.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Christie, N (1981). Limits to Pain: The Role of Punishment in Penal Policy, Oxford: Martin Robertson, 1986.
  • Kohut H (1971). Narcisismo e analisi del Sé. Bollati Boringhieri, Torino 1976.
  • Paradiso, D. (2015). L’ipocondria dalla psicoanalisi classica alla prospettiva relazionale. Psichiatria e Psicoterapia, 34(4).
  • Stolorow RD, Atwood GE (1992). I contesti dell’essere: le basi intersoggettive della vita psichica. Bollati Boringhieri, Torino 1995
  • WHO, Preventing COVID-19 outbreak in prisons: a challenging but essential task for authorities.
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