CRONACHE LONDINESI #1
La Mentalization Based Therapy di Peter Fonagy:
Il corso all’Anna Freud Institute di Londra
Il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a mentalizzare, cioè a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato che è al fondo cognitivo: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o certi impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive.
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Qualche anno fa ho affrontato al Freud Institute di Francoforte il primo livello di addestramento nella Mentalisation Based Therapy (MBT) di Peter Fonagy e mi accingo, in questi giorni a Londra all’Anna Freud Institute, a tuffarmi nel livello avanzato (advanced) di questa terapia. Domani e dopodomani cercherò di trasmettervi le mie impressioni. Oggi invece rievoco brevemente quel mio primo addestramento.
A Francoforte eravamo una trentina di allievi, seguiti da Peter Fonagy e Anthony Bateman. Il corso, vi dirò, era soprattutto teorico, con tante diapositive su questa mentalizzazione. Concetto che mi pareva molto simile alla metacognizione di cui tanto si parla in campo cognitivo. Ricordo anche che chiesi a Fonagy quale fosse la differenza. La riposta fu comprensibilmente non molto dettagliata, dato il poco tempo a disposizione: la mentalizzazione –disse Fonagy- è più ampia della metacognizione.
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Il che in parte è vero. Ciò che interessa è in cosa consiste questa maggiore ampiezza. Dal ciò che diceva il corso, appariva che la mentalizzazione finiva per coincidere con gran parte dell’attività cognitiva stessa. Sembrava quasi che Fonagy avesse improvvisamente scoperto che l’attività mentale è fatta di stati intenzionali in cui l’informazione è elaborata in termini di scopi. La cosa mi lasciava quasi a bocca aperta, perché mi pareva la base del modello cognitivo. Non potevo fare a meno di dirmi: sono venuto fino a Francoforte per sentirmi dire quel che ogni studente di terapia cognitiva sa dalla prima lezione del suo corso?
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La reazione degli allievi non cognitivisti (su trenta presenti eravamo solo due terapeuti cognitivi) era altrettanto sbalordita, ma in senso opposto al mio. Dov’era l’inconscio, dov’era il transfert, dov’erano i conflitti? Tutto sparito. Teniamo conto che il modello di Fonagy, la MBT, nasce e cresce in ambiente psicodinamico. E teniamo conto che in questo ambiente Fonagy arriva a raccomandare l’astensione dalle interpretazioni di transfert. Queste intepretazioni, diceva Fonagy, sono potenzialmente dannose per il paziente affetto da disturbo di personalità. Lo fanno sentire invaso e giudicato e gli generano sentimenti di rabbi e dolore che perpetuano la sua sofferenza. Dunque niente interpretazioni di transfert. E allora che si fa?
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In Fonagy le interpretazioni di transfert sono sostituite da un continuo stimolo a mentalizzare, ovvero il paziente è costantemente incoraggiato a riflettere su ogni suo impulso rabbioso per comprenderne il processo intenzionale che ne sta alla base. Ovvero la sua base cognitiva: perché sei arrabbiato? Cosa ti ha fatto arrabbiare? Come pensi di reagire? E perché questa reazione ti sembra conveniente? E così via.
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Qualcosa che somiglia molto alla parte di accertamento delle credenze cognitive, e che Fonagy chiama: promozione della mentalizzazione. Questo intervento è adatto, nella sua semplicità, al paziente con disturbo di personalità, in quanto incrementa la sua capacità di regolare i suoi stati emotivi invece di agirli immediatamente e impulsivamente. Infatti Fonagy, come tutti i maggiori teorici dei disturbi di personalità (ovvero Otto Kernberg, Marsha Linehan, Giovanni Liotti e Antonio Semerari) concepisce l’attività mentale consapevole come una attività di secondo livello che regola la valutazione primaria della realtà che avviene a livello emotivo.
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La valutazione razionale diretta si svolge sia direttamente sulla realtà, in parallelo con quella emotiva, sia in forma di supervisione di secondo livello sulla valutazione emotiva stessa. Fonagy e Linehan definiscono questa funzione “regolazione degli stati emotivi”. Quest’ultima espressione è una descrizione prudente e ragionevole delle facoltà e dei limiti della ragione, una formulazione frutto della crescente consapevolezza che gli stati emotivi sono influenzabili dal pensiero cosciente, ma mai del tutto manipolabili a piacimento. Forse in questo senso Fonagy può continuare a considerarsi psicodinamico: per questa residua attenzione ai limiti della padroneggiabilità degli stati emotivi. Ma anche nel cognitivismo clinico ormai è nozione comune che non possiamo modificare a piacimento le nostre emozioni pensando pensieri diversi.
Insomma il lavoro terapeutico di Fonagy appare, dal punto di vista tecnico, un continuo incoraggiare il paziente a mentalizzare, cioè a riflettere sui propri stati di sofferenza emotiva e sui propri impulsi per fornire loro un significato che è al fondo cognitivo: ragionare sul perché si percepiscano certe emozioni o certi impulsi, rielaborarli in termini di pensieri, e cioè credenze cognitive. Il tutto legato al qui e ora piuttosto che alla ricerca di ragioni nel passato.
Questa è la teoria. Il secondo livello della MBT che sto per affrontare dovrebbe passare maggiormente alla pratica. Vi farò sapere.
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