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L’importanza della comunicazione assertiva e dell’ascolto attivo tra agente di polizia penitenziaria e detenuto

Gli stili comunicativi passivo e aggressivo nel contesto penitenziario hanno effetti negativi sui detenuti, più efficace è invece la comunicazione assertiva

Di Livia Etiopia

Pubblicato il 30 Apr. 2021

La comunicazione assertiva si interpone tra quella passiva e quella aggressiva. Nello stile comunicativo assertivo c’è consapevolezza e rispetto per l’altro e per i diritti degli altri.

Livia Etiopia – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La comunicazione

La comunicazione è uno scambio di messaggi che avviene tra un emittente e un destinatario, il primo invia un messaggio di tipo verbale o non verbale al secondo che risponde elaborando il messaggio e codificando una risposta. La risposta può essere anche di tipo non verbale risultando comunque molto significativa. La comunicazione comprende dunque qualunque tipo di messaggio dotato di senso e significato che gli individui si scambiano quando interagiscono, di intenzionalità intesa come la consapevolezza di voler comunicare e che produce un fine, quello dello scambio comunicativo.

I primi tentativi di definire la comunicazione nacquero in ambito matematico. I modelli prevalenti erano quelli che prevedevano il semplice passaggio di informazioni da un emittente ad un destinatario attraverso un canale. La comunicazione avveniva in modo meccanico. La prima teoria della comunicazione, infatti, ispirata ad un modello matematico era quella di Shannon e Weawer, formulata nel 1949 negli Stati Uniti. Inizialmente nacque con lo scopo di migliorare l’efficienza della comunicazione telefonica, applicata poi in un secondo momento a quella interpersonale. In questa visione l’atto comunicativo è un processo di trasmissione di informazioni tra soggetti interagenti attraverso una sequenza ben precisa. La sorgente di informazione è il soggetto che produce il messaggio, il trasmettitore attraverso cui si trasmette il messaggio, il segnale ovvero il messaggio inviato, il canale ossia il mezzo di trasmissione, il destinatario che è il soggetto ricevente e il ricettore (gli organi di senso e la percezione del soggetto ricevente). Qui il messaggio viene codificato dal trasmettitore e decodificato dal destinatario in base alle proprie capacità di decifrazione. La trasmissione dell’informazione ha una gamma di possibilità prefissate. Sebbene questo modello abbia avuto molta importanza dal punto di vista storico, i suoi limiti sono quelli di non contemplare alcuna forma di feedback e di come la comunicazione avvenga solo parzialmente, di verificarsi in maniera errata o di non verificarsi per niente.

Un contributo fondamentale al chiarimento delle istanze in gioco nel processo comunicativo è giunto dal modello semiotico informazionale, nato dall’interazione tra il modello semiotico della comunicazione con il modello informazionale di Shannon e Weaver. Secondo tale teoria mittente e destinatario hanno competenze linguistico-comunicative differenti, ma sono accomunati dalla capacità di produrre, attraverso codici denotativi, messaggi significativi. Il mittente codifica un messaggio al destinatario, come un insieme di parti, di frasi e parole, scelte all’interno di un codice comune, la lingua, comune sia al codificatore sia al decodificatore. Per lo studioso Jakobson, a strutturare un sistema comunicativo, ci sono i seguenti elementi: un mittente, un destinatario, un codice comune ed un contesto di riferimento.

In questa prospettiva svolge un ruolo fondamentale la funzione della decodificazione del messaggio da parte del destinatario che svolge un ruolo attivo e che si realizza in una complessa attività di elaborazione e di trasformazione del dato per la decodifica e la comprensione del messaggio.

L’approccio interazionista alla comunicazione è fondato sullo studio e l’analisi in cui le singole interazioni si definiscono reciprocamente, in particolar modo analizza il comportamento non verbale all’interno del processo comunicativo e l’incidenza della comunicazione sulla formazione dell’individuo. La struttura dell’azione comunicativa viene scomposta in tutte quelle azioni verbali e non verbali che fanno emergere tutti gli elementi che favoriscono la trasmissione dei contenuti e i comportamenti in gioco nello scambio comunicativo. Inoltre secondo tale teoria la comunicazione non può essere definita come uno scambio di informazioni tra fonti diverse, ma come un’occasione dove più individui collaborano per coordinare il comportamento comunicativo.

La teoria interazionista si consolida intorno alla fine degli anni Quaranta, grazie al contributo fornito dalla Teoria Generale dei Sistemi di Von Bertalanffy. Nasce in contrapposizione al concetto di causalità lineare facendo riferimento invece a quello di causalità circolare in base al quale un sistema è determinato dalle relazioni fra i suoi elementi e dalle relazioni tra queste e l’ambiente. Negli anni Sessanta si svilupparono diversi studi sulla comunicazione che rivolgevano la loro attenzione soprattutto agli aspetti non-verbali, tra cui gli studi di Ekman e Friesen. Alcuni studiosi, invece, hanno posto al centro dei lori studi l’analisi della conversazione “state of talk”. Secondo tali autori la comunicazione tra individui si struttura come “un’interazione conversazionale” in apparenza libera e priva di regole, ma costituita in realtà da un ordine ben preciso. In tal modo i partecipanti ad una comunicazione devono dimostrare di comprendere non solo le informazioni, ma di saper organizzare il proprio comportamento comunicativo in modo intelligente. Questa vera e propria competenza conversazionale permette la sincronia e la sintonia della conversazione, il rispetto dei turni di intervento e i processi decisionali.

Un contributo a questo modello è giunto dall’analisi della conversazione compiuta da un gruppo di sociologi americani che si ricollegavano al modello teorico di Goffman e a quello dell’etnometodologia. Secondo tali studi la conversazione è un’attività retta da regole, procedure e competenze linguistiche e conversazionali. Un contributo decisivo alla teoria interazionista è giunto dalla cosiddetta Scuola di Palo Alto, Bateson, Watzlawick e altri. Secondo la teoria Pragmatica della Comunicazione è impossibile non comunicare, anche il silenzio è una forma di comunicazione. Rispetto all’approccio interazionista secondo tale teoria la comunicazione è una vera e propria azione comunicativa che segue delle regole ben precise e che ha degli effetti concreti sugli individui.

La Comunicazione non verbale è un aspetto imprenscindibile in grado di influenzare la comunicazione per il 60%. Quando all’interno di una comunicazione si creano delle discrepanze tra il modulo verbale e quello non verbale, a prevalere è quest’ultimo, come quando affermiamo qualcosa ma con il modulo non verbale smentiamo ciò che abbiamo detto. Essa si suddivide in:

  • Paralinguistica
  • Cinesica
  • Prossemica

La paralinguistica, chiamata anche, sistema vocale non verbale, è costituito da tutti i suoni che emettiamo a prescindere dal significato delle parole. Essa comprende il tono e la frequenza della voce e il silenzio.

Il sistema cinesico comprende il movimento degli occhi, del volto e del corpo, comprende anche i gesti che nella comunicazione umana riguardano in primo luogo le mani e la postura.

La prossemica consiste nella gestione dello spazio e del territorio, esistono 4 zone di distanza in cui suddividiamo lo spazio che ci circonda (zona intima, personale, sociale e pubblica).

La comunicazione assertiva

La comunicazione ha un ruolo imprenscindibile in ogni contesto di vita e oggigiorno è ampiamente documentato il suo ruolo chiave che riveste in certi contesti istituzionali, come anche in quello penitenziario, che non assolve più la mera funzione di custodia e sorveglianza del reo, ma soprattutto quella di rieducazione e reinserimento sociale. In tale ottica anche il mandato degli operatori di polizia penitenziaria cambia, ai quali non viene più richiesto di assolvere solo ad un compito istituzionale di sorveglianza, ma di fornire alle persone recluse l’opportunità di spendere il loro tempo in carcere in modo positivo, trattandole con dignità e rispetto. Per fare ciò devono sapersi approcciare al detenuto con modalità comunicative efficaci e porsi all’ascolto attivo ed empatico affinchè sappiano cogliere i momenti di bisogno e gestire eventi critici in maniera più risolutiva. Pertanto devono imparare ad acquisire tecniche comunicative assertive rimarcando con sicurezza e chiarezza quello che è il loro ruolo, senza assoggettarsi passivamente alla volontà del ristretto e senza prevaricarlo o farsi valere con aggressività. Tali comportamenti hanno dei benefici a lungo termine e, anche se non sempre sortiscono gli effetti desiderati, non inducono ad aggravare le sorti di un evento già in atto. E poiché nel carcere tali situazioni si verificano spesso, uno stile comunicativo assertivo aiuta a comunicare efficacemente. L’assertività, la capacità di esprimere i propri bisogni, pensieri e comportamenti in maniera chiara e sicura senza prevaricare gli altri è un tipo di comunicazione efficace. La comunicazione assertiva si interpone tra quella passiva e quella aggressiva. Nello stile comunicativo assertivo c’è consapevolezza e rispetto per l’altro. Ci si esprime attraverso la capacità di comunicare sentimenti ed emozioni, riconoscendoli in primis. Vi è consapevolezza dei diritti degli altri, l’obiettivo dell’assertività è proprio quello di mediare le esigenze personali con quelle altrui, la disponibilità ad apprezzarli, facendo valere i propri diritti senza ledere gli altri. Nel caso specifico, all’interno del carcere, uno stile comunicativo assertivo aiuta l’agente a progettare e gestire l’azione comunicativa in modo coerente ed efficace rispetto ai propri obiettivi comunicativi. Acquisire e interiorizzare uno stile comunicativo assertivo utilizzandolo con consapevolezza diviene una caratteristica fondamentale che facilita l’operatore di polizia penitenziaria ad esprimersi con intenzionalità e chiarezza senza timori e garantendo una risposta più efficace e positiva nel detenuto. In tal modo quest’ultimo non si sentirà attaccato verbalmente o giudicato per quello che sta chiedendo o facendo, ma trattato umanamente con dignità e rispetto.

Salter nel 1949 fu il primo a delineare la persona assertiva definendola come personalità “eccitatoria”, ovvero quell’individuo in grado di esprimere il proprio punto di vista e le proprie emozioni apertamente senza difficoltà. Inoltre lo definì non solo come comportamento interpersonale, ma proprio come uno stato di benessere emotivo per coloro che lo mettono in atto. Nel 1959 tale concetto venne ripreso da Wolpe che lo definì come “assertiveness” intesa come la capacità di esprimere liberamente i propri sentimenti. La persona assertiva, infatti, è capace di riconoscere le proprie emozioni, di comunicarle ed esprimerle. Ha consapevolezza dei diritti della persona, riconosce e valuta i propri diritti in relazione a quelli altrui, è disponibile ad apprezzare se stessa e gli altri, è capace di valorizzare aspetti positivi dell’esperienza.

Uno stile di comunicazione passivo porta la persona a sottomettersi agli altri, rinunciando alle proprie opinioni, bisogni, facendo valere unicamente quelli degli altri. Alla base vi è la paura di essere giudicati negativamente e un bisogno di essere accettati dagli altri ed evitare scontri e conflitti che possono generare emozioni negative (ansia, sensi di colpa, tristezza) e accrescere le proprie credenze disfunzionali circa il senso di sé come inadeguati e incapaci. Nel tempo tale comportamento non favorisce buoni esiti all’interno di una comunicazione perché si viene sopraffati dagli altri rinunciando definitivamente alle proprie priorità e bisogni, innescando sentimenti di rabbia e frustrazione in relazione a obiettivi non realizzati.

Uno stile di comunicazione aggressivo invece porta la persona ad agire con violenza, indignazione e con una totale mancanza di rispetto nei confronti degli altri, andando a ledere quasi sempre i loro diritti. È presente una completa svalutazione dell’altro con sentimenti di disprezzo e superiorità. I bisogni alla base di simili comportamenti sono quelli di affermare se stessi dominando sugli altri e giudicandoli inferiori. Anche in questo caso gli effetti che produce un comportamento comunicativo aggressivo sono limitati nel tempo, perché a lungo andare generano allontanamenti da parte degli altri e inimicizie, che in un primo momento si adeguano alla volontà di assecondare certi comportamenti solo per il timore di avere delle ripercussioni negative, senza però la volontà vera e propria di assecondare certe richieste. Gli stili comunicativi passivo e aggressivo applicati in un contesto penitenziario producono degli effetti negativi sui detenuti, che nel primo caso si approfitterebbero di una personalità remissiva dell’operatore di polizia penitenziaria violando le regole da rispettare e nel secondo caso di fronte ad una personalità aggressiva si porrebbero con un atteggiamento di sfida e superiorità, alimentando sentimenti di rabbia e aumentando il rischio di comportamenti pericolosi. L’assertività oltre che come modo comunicativo, risponde anche al bisogno di trattare il detenuto con umanità e rispetto, accogliendolo nei suoi bisogni senza critiche o giudizi.

L’ascolto attivo ed empatico

Per comunicare efficacemente è necessario saper ascoltare, un ascolto inefficiente non produce i risultati attesi all’interno di una comunicazione. Infatti dopo aver ascoltato una persona parlare per circa dieci minuti, siamo in grado di valutare appieno e assorbire circa il 40% di quanto ci è stato detto. A conclusione del processo di ascolto riusciamo a trattenere solo un quarto di quanto abbiamo ricevuto.

L’ascolto attivo inoltre riduce la possibilità di interpretare un messaggio comunicativo in maniera errata permettendoci di sviluppare relazioni più chiare e autentiche. Uno dei rischi maggiori di un ascolto inefficace è quello di interpretare, ovvero di cogliere qualcosa di simile a quanto viene detto e di filtrarlo attraverso i nostri significati.

La nostra fantasia, il temperamento, le nostre ideologie, i nostri pensieri rappresentano dei “contesti personali” attraverso cui filtriamo ciò che arriva dall’esterno e dai nostri interlocutori.

A questo proposito sono di particolare interesse le barriere comunicative individuate da Gordon, come 12 modalità errate di comunicazione che rallentano, inibiscono o bloccano il processo comunicativo, innescando nell’interlocutore un senso di sfiducia. Spesso non siamo consapevoli di utilizzare queste modalità, bloccando il processo di ascolto attivo e concentrando la nostra attenzione sul nostro punto di vista e su ciò che giudichiamo giusto o sbagliato, anziché restare in comunicazione con i bisogni, idee ed emozioni che l’altro esprime.

La capacità di ascolto di ognuno di noi è strettamente connessa alla conoscenza dei nostri bisogni e stati d’animo, quanto più siamo consapevoli di ciò che ci accade tanto più saremo in grado di non proiettarlo sull’altro e di distinguere in modo chiaro e onesto il nostro vissuto per fare spazio al vissuto altrui.

Anche all’interno del contesto penitenziario agli operatori viene richiesto di imparare ad ascoltare in modo efficace. Porsi in una condizione di ascolto attivo fa sentire il detenuto accolto e non rifiutato anche quando elargisce delle richieste che non possono essere accolte. Un evento molto frequente che avviene in carcere è quello di fare domanda per ulteriori ore di colloquio con i familiari a fronte di quelle già terminate. L’agente in questo caso, pur sapendo di non poter soddisfare tale richiesta, dovrebbe comunque ascoltare empaticamente il detenuto, accogliendo quel suo bisogno e non rifiutandolo a priori. Quest’ultimo, sentendosi ascoltato, accolto e non rifiutato riuscirà a gestire meglio eventuali sentimenti di rabbia e risentimento e a non mettere in atto comportamenti disfunzionali. In tal senso l’ascolto attivo previene anche eventuali criticità in tale contesto.

L’ascolto attivo è un ascolto empatico, l’empatia è la capacità di immedesimarsi e identificarsi con l’altro, vedere e sentire dal suo punto di vista, pur mantenendo il controllo del proprio. L’empatia migliora la qualità e la relazione dei nostri rapporti. L’ascolto empatico applicato nel contesto penitenziario aiuta a riportare il detenuto ad una situazione di equilibrio e calma, senza farlo sentire giudicato ed attaccato verbalmente, cercando di comprendere quali siano state le motivazioni che lo abbiano spinto a quel gesto o che abbiano scatenato quella crisi. Nel momento in cui si verifica un evento critico, infatti, l’agente è colui più vicino al detenuto che interviene per primo, successivamente saranno figure professionali specializzate ad occuparsene. Uno stile comunicativo assertivo ed un ascolto empatico, in situazioni critiche, possono così essere utilizzati in alternativa alla minaccia e all’avvertimento “Se non fai così …”, “Se continui così …”. Questi messaggi possono suscitare ancor più sentimenti di ostilità, rabbia e ribellione aggravando la situazione. Anche la critica e il giudizio in situazioni già pericolose sono da evitare perché non riducono le conseguenze ed il contenimento dell’evento critico, bensì lo aggravano. Il fine invece è quello di risolvere in maniera più funzionale la situazione che si è creata ed evitare che degeneri ulteriormente.

Il modulo di tecniche di comunicazione applicata al corso di formazione in polizia penitenziaria

Oggigiorno il sistema operativo penitenziario è interessato da molti cambiamenti organizzativi, tra cui le modalità operative del personale di Polizia Penitenziaria, a cui non è richiesto più solo un ruolo di sorveglianza, ma di inserirsi con consapevolezza e intenzionalità nel ruolo che svolgono che implica necessariamente anche la presa in carico della dimensione umana.

All’interno della Scuola della Polizia Penitenziaria di Sulmona, si è svolto il 175° corso di formazione rivolto agli allievi del Corpo della Polizia Penitenziaria. Il corso prevede l’acquisizione di vari moduli, tra cui quello su Tecniche di Comunicazione Applicata tenuto dalla scrivente.

Il corso di formazione degli allievi ha richiesto un’acquisizione delle competenze di ruolo più specifiche, ma anche di abilità diverse, come quelle comunicativo-relazionali, in funzione di una gestione più profittevole del proprio lavoro. Il fine era quello di sollecitare tali capacità con lo scopo di promuovere una comunicazione efficace e corretta nei confronti dell’utenza. Gli allievi hanno avuto modo di approfondire la complessità del fenomeno della comunicazione, costatando l’importanza che riveste. Nello specifico, hanno acquisito le capacità di trasmettere il proprio messaggio con chiarezza e forza persuasiva (comunicazione assertiva) e di utilizzare l’ascolto attivo, utili ad una efficace negoziazione, riscontrando positivamente la funzionalità di tali tecniche attraverso esercizi di role-playing. Hanno avuto modo di potersi osservare durante le simulazioni, comprendere il loro stile comunicativo e imparare a calibrarlo sul modello di quello assertivo. Acquisendo consapevolezza del proprio stile comunicativo e relazionale hanno potenziato i punti di forza e migliorato quelli più deboli. Attraverso le simulazioni di eventi critici hanno avuto modo di vedere come uno stile comunicativo assertivo ed un ascolto attivo siano più utili e funzionali per relazionarsi con i detenuti e gestire meglio queste situazioni, oltre che riuscire a prevenirle. Hanno sperimentato, a partire da loro stessi, come lo stile aggressivo generi ulteriore rabbia ed aggressività e quello passivo porti ad approfittarsi dell’altro, sottomettendolo.

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Brunetti, C., Sapia, C. (2007). Manuale di Psicologia Penitenziaria. Napoli: Edizioni scientifiche italiane.
  • Maldonato, M. (2002). Psicologia della Comunicazione. Napoli: Esselibri.
  • Anchisi , R., Gambotto Dessy, M. (1992). Non solo comunicare - teoria e pratica del comportamento assertivo. Torino: Cortina.
  • Assertività: aspetti e caratteristiche del comunicare in modo assertivo. State of mind.
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