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Per una biografia della fame – Psicologia & Teatro

Maria Francesca Sarnelli

 

Per una Biografia della Fame

Spettacolo teatrale presso Teatro della Cooperativa a Milano(2-8 marzo 2015) con protagonista Annagaia Marchioro e regia di Alessia Gennari

 

Lo spettacolo che va in scena al teatro della cooperativa è breve, ma intenso, grazie alla bravura della protagonista.

Il testo, in cui si alternano note drammatiche con toni ironici, liberamente ispirato al’omonimo romanzo di Amelie Nothomb, è un monologo in cui la protagonista racconta della propria infanzia e adolescenza attraverso la chiave di lettura del cibo e della fame: croce e delizia della vita della ragazza.

RUBRICA: PSICOLOGIA A TEATRO

L’infanzia è narrata come il periodo della spensieratezza, in cui la protagonista, sostenuta dall’amore e dalle cure della nonna, è felice, senza pensieri ed è libera di poter mangiare le leccornìe che in casa sua le sono vietate dalla madre.

Non manca nella rappresentazione il quadro della famiglia che spesso si ritrova nelle persone con disordini del comportamento alimentare: la madre della protagonista è fredda, ipercritica, vieta che si consumino dolci in casa e per fare questo li nasconde nei posti più impensabili. Alla richiesta della protagonista-bambina di essere amata, la madre le risponde che l’amore va meritato ed è proprio in quel momento, dopo quella risposta inattesa, che la bambina sembra perdere la spensieratezza della propria età per iniziare il lungo cammino del doversi meritare l’amore e la stima altrui.

ARGOMENTO CORRELATO: DISTURBI ALIMENTARI

Con la morte della nonna, l’unica figura che la accudiva con amore, l’unico ambito di serenità e sicurezza rimane il cibo. Ben presto però, questa passione si tramuta in odio perché il cibo diventa ben presto motivo di esposizioni a critiche continue della madre e del prossimo per le proprie rotondità, per cui la protagonista appena adolescente decide, a malincuore ma con fermezza, di mettere in atto il piano che da tempo stava progettando: rinunciare al cibo, l’unico piacere rimasto, per poter conservare una buona immagine di sé e per essere accettata dagli altri.

 

La lotta estrema con il cibo, ormai nemico, è durata due mesi, ma la protagonista alla fine ha vinto ed è riuscita a fare a meno del cibo; si dice orgogliosa ed euforica di questo successo perché è riuscita si a dominare le proprie emozioni e ciò che la circonda (il tema del controllo è il tema cardine per l’anoressia nervosa).

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Ben presto però la spirale dell’anoressia la avvolge, la assale, portandola a pesare a soli 15 anni 32 kg e l’euforia iniziale scompare, lasciando spazio al vuoto emotivo ed affettivo, alla costante fatica di trascinare un corpo privo di energia e al totale dominio delle trappole della mente sulle necessità fisiologiche del corpo.

La fortuna per la protagonista è che il proprio corpo una notte si ribella: la protagonista cede alla fame, il corpo, che vuole disperatamente mangiare, prende un temporaneo sopravvento e la porta ad abbuffarsi, mentre la propria mente assiste inerme a questa disfatta.

Questo atto di ribellione del proprio corpo sarà un grido di allarme che verrà colto dai genitori e che costituirà il primo passo verso un lungo percorso di guarigione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Biografia della Fame di Amelie Nothomb, 146 pag., Edizioni Voland (Amazzoni)

Salute e malattia: uomini e donne a confronto

FLASH NEWS

Per gli uomini è più una questione di numeri: più sono i sintomi maggiore è la preoccupazione, per le donne invece è la personalità a fare la differenza sulla gestione della malattia ma la reazione non cambia al cambiare dei sintomi.

Uno dei tanti luoghi comuni a proposito delle differenze tra uomini e donne riguarda come si affronta la malattia. Nonostante ormai persino le pubblicità ironizzino sulle esagerate reazioni maschili ai più banali sintomi influenzali, viene comunque da chiedersi se sia davvero così.

Una recente ricerca dimostra che effettivamente sia il genere che la personalità influenzano il modo in cui si affronta la malattia.

Robert Rosenman e i suoi colleghi della Washington State University hanno infatti condotto uno studio longitudinale che ha coinvolto 2859 persone del Regno Unito in cui, tra altre cose, hanno registrato dati circa le loro malattie fisiche e mentali, la personalità dei partecipanti, la loro felicità e il livello di soddisfazione della propria vita.

Secondo quanto raccolto per gli uomini è più una questione di numeri: più sono i sintomi maggiore è la preoccupazione, per le donne invece è la personalità a fare la differenza sulla gestione della malattia ma la reazione non cambia al cambiare dei sintomi.

Non è tutto sembrerebbe che mentre per gli uomini non sussista alcuna correlazione tra personalità e malattia, per il gentil sesso ci siano due tipi distinti di personalità che sembrano essere meno colpite dalle malattie mentali rispetto a tutti gli altri: il primo tipo è caratterizzato da alti livelli di amabilità, il secondo da bassi livelli di coscienziosità.

Le donne appartenenti alla prima categoria hanno più probabilità di avere una migliore rete sociale e quindi di ricevere maggior supporto per far fronte a eventuali malattie e dunque riprendersi prima e meglio e subirne meno le conseguenze, nel secondo caso invece l’autore sostiene che esperendo con più frequenza la sensazione di non avere il controllo di ciò che accade non risentono eccessivamente dell’impatto di una malattia mentale.

GENDER STUDIES

In ogni caso dover affrontare una malattia, specie se mentale, è sempre una sfida e ogni individuo deve far ricorso alle proprie risorse per gestire al meglio il decorso e le eventuali conseguenze.

 

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Ambiente e benessere. L’educazione ambientale come educazione alla salute

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Effetto McCollough: un gioco di linee che altera la percezione dei colori

Si tratta di un esperimento che circola anche nel web, e si basa sulla percezione dei colori: se si fissano delle righe, orizzontali e verticali, per un certo lasso di tempo si altererà la visione dei colori, in alcuni casi fino a tre mesi (se i nostri occhi le guardano per almeno 15 minuti).

 

[blockquote style=”1″]The McCollough effect is a phenomenon of human visual perception in which colorless gratings appear colored contingent on the orientation of the gratings. It is an aftereffect requiring a period of induction to produce it. For example, if someone alternately looks at a red horizontal grating and a green vertical grating for a few minutes, a black-and-white horizontal grating will then look greenish and a black-and-white vertical grating will then look pinkish. The effect is remarkable for often lasting an hour or more, and in some cases after prolonged exposure to the grids, the effect can last up to three and a half months. The effect was discovered by American psychologist Celeste McCollough in 1965. (Wikipedia)[/blockquote]

VIDEO (In inglese)

Immagini che fanno impazzire il cervelloConsigliato dalla Redazione

È l’effetto McCollough, un “gioco” che altera la percezione dei colori (in certi casi anche a lungo) (…)

Tratto da: Linkiesta.it

 

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Ascoltare la voce della propria mamma aiuta lo sviluppo cerebrale nei bambini nati prematuri

I primi suoni sentiti da ognuno di noi sono senza dubbio il battito cardiaco e la voce di nostra madre. In passato è stato notato come il feto abbia notevoli vantaggi dall’esposizione a questi due suoni. Tali effetti positivi si hanno soprattutto nelle regioni cerebrali associate all’ascolto e al linguaggio.

I bambini nati prematuri, invece, non avendo modo di passare nel grembo materno le ultime settimane di vita intrauterina, importanti per un completo sviluppo, spesso presentano problemi proprio nelle aree cerebrali coinvolte nell’ascolto e nel linguaggio.
E’ per questo motivo che in un recente studio, i ricercatori hanno esposto dei bambini nati prematuri al suono del battito cardiaco e della voce della loro mamma, ricreando per loro un ambiente simile a quello uterino… i risultati sono sorprendenti.

 

To test whether the sounds a fetus would hear in utero can have a positive effect on preemies, [the researchers] asked the parents of 40 such babies at Brigham and Women’s Hospital in Boston for their participation in a monthlong experiment. The researchers asked mothers of half the infants to sing and read “Twinkle, Twinkle, Little Star” and Goodnight Moon in a recording studio and record their heartbeats through a stethoscope connected to a microphone.
The scientist … piped [the sound] for 45-minute sessions totaling 3 hours per day into 21 infants’ incubators, while the other infants received standard care. After 30 days, they compared ultrasound images of the brains of both groups.

L’ascolto della voce materna aiuta lo sviluppo cerebrale nei bambini nati prematuriConsigliato dalla Redazione

Un nuovo studio mette in luce l’importanza dell’ascolto della voce materna nello sviluppo cerebrale dei bambini nati prematuri. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Che cosa sono le fobie? – Introduzione alla Psicologia Nr. 05

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (05)

 

 

Le fobie sono paure sproporzionate rispetto a qualcosa che non rappresenta un reale pericolo, ma la persona percepisce questo stato d’ansia come non controllabile, anche mettendo in atto strategie comportamentali o rimuginii utili per fronteggiare la situazione.

 

La fobia, dunque, è una paura, intensa, persistente e duratura, provata per una specifica cosa. Ma come è possibile riconoscerla? Si tratta di una manifestazione emotiva sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia. Chi soffre di fobie, infatti, è sopraffatto dal terrore di entrare in contatto con ciò che teme: un ragno o una lucertola, etc.

 

Sintomi delle Fobie

I sintomi fisiologici provati da chi soffre di fobie sono: tachicardia, vertigini, disturbi gastrici e urinari, nausea, diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e spossatezza. Ovviamente, tali manifestazioni patologiche si attuano solo alla vista della cosa temuta o al pensiero di poterla vedere.

 

Fobie & Evitamento

I fobici, sono sostanzialmente degli ansiosi e come tali funzionano, nel senso che tendono a evitare le situazioni associate alla paura, ma alla lunga questo meccanismo diventa una vera e propria trappola. Infatti, l’evitamento non fa altro che andare a conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara all’evitamento successivo. Si crea, così un circolo vizioso, che da una parte porta a essere sfiduciati nelle proprie capacità e dall’altra compromette le relazioni sociali, perché pur di evitare la cosa temuta si è pronti a rinunciare a una serata tra amici. Ad esempio chi ha la fobia degli aghi e delle siringhe può rinunciare ai controlli medici; chi ha paura dei piccioni non attraversa le piazze, chi teme i cani, eviterà tutte le situazioni in cui saranno presenti, e così via.

 

Principali tipi di Fobie

Esistono le fobie generalizzate, come l’agorafobia, paura degli spazi aperti, e la fobia sociale, paura di esporsi in pubblico, e le fobie specifiche, generalmente gestite evitando gli stimoli temuti, che posso essere:

  • Tipo situazionale. Nei casi in cui la paura è provocata da una situazione specifica, come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare, guidare, oppure luoghi chiusi (claustrofobia o agorafobia).
  • Tipo animali. Fobia dei ragni (aracnofobia), fobia degli uccelli o fobia dei piccioni (ornitofobia), fobia degli insetti, fobia dei cani (cinofobia), fobia dei gatti (ailurofobia), fobia dei topi, ecc..
  • Tipo ambiente naturale. Fobia dei temporali (brontofobia), fobia delle altezze (acrofobia), fobia del buio (scotofobia), fobia dell’acqua (idrofobia), ecc..
  • Tipo sangue-iniezioni-ferite. Fobia del sangue (emofobia), fobia degli aghi, fobia delle siringhe, ecc.. In generale, se la paura viene provocata dalla vista di sangue o di una ferita o dal ricevere un’iniezione o altre procedure mediche invasive.
  • Altro tipo. In questo caso la paura è scatenata da altri stimoli come: il timore di situazioni che potrebbero portare a contrarre una malattia ecc. Esiste una particolare forma di fobia che riguarda il proprio corpo o parti di esso che la persona percepisce come sproporzionate, inguardabili, orribili rispetto a come realmente si mostrano (dismorfofobia).

Le fobie non celano nessun significato simbolico inconscio e la paura è semplicemente legata a esperienze di apprendimento errato involontario nei confronti di qualcosa. In questo caso, l’organismo associa automaticamente la pericolosità a un oggetto o situazione oggettivamente non pericolosa.

Questa associazione avviene per condizionamento classico, ovvero la relazione tra pensiero e oggetto si crea grazie alla prima esposizione spaventante che si è verificata ed è mantenuta nel tempo a causa dell’evitamento messo in atto per non provare quella terribile emozione di forte ansia che ne consegue.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Solitudine e Depressione sono legate al binge watching

Un recente studio, condotto da ricercatori dell’Università del Texas a Austin, ha scoperto che più le persone soffrono di solitudine e depressione e più è probabile che si rendano protagonisti di episodi di binge watching.

Gli studiosi hanno condotto una indagine su 316 individui tra i 18 e i 29 anni di età, chiedendo loro:

  • quanto spesso guardassero la televisione;
  • quanto spesso si sentissero soli, depressi;
  • quanto fossero incapaci di darsi delle regole (deficit di autoregolazione);
  • quanto spesso fossero coinvolti in binge watching.

Il gruppo di ricerca ha rilevato dal sondaggio che le persone depresse e in solitudine erano quelle che mostravano un frequente comportamento binge watching per cercare di allontanare i sentimenti negativi;

lo stesso atteggiamento è stato evidenziato anche in individui che presentavano deficit di autoregolazione, in quanto si dichiaravano incapaci di spegnere il televisore anche quando erano consapevoli del fatto che avevano altri impegni.

Fattori psicologici come la solitudine, la depressione e la mancanza di autocontrollo (impulsività) sono già conosciuti come importanti indicatori per un comportamento binge watching.
Persone che denotano tale comportamento di dipendenza dimenticano temporaneamente la realtà e vengono a trovarsi in situazioni che li trascinano facilmente nella depressione e nella solitudine; inoltre la mancanza di autocontrollo influenza i loro comportamenti di dipendenza innescando un circolo vizioso.

“Anche se alcune persone sostengono che il binge watching è una dipendenza innocua, i risultati del nostro studio dimostrano che non è proprio così”.
Inoltre “affaticamento, obesità e altri problemi di salute possono essere legati a questo e ciò è motivo di preoccupazione. Quando poi il binge watching diventa dilagante gli individui possono iniziare a trascurare il loro lavoro, a compromettere le relazioni sociali riducendo la possibilità di condurre uno stile di vita sana” spiega Yoon Sung Hi.

TELEVISIONE E TV SERIES

Fino ad oggi sull’argomento sono state svolte poche ricerche empiriche, in quanto si tratta di un comportamento relativamente recente.
Gli studiosi presenteranno i loro risultati alla 65° Conferenza annuale dell’Associazione Comunicazione Internazionale di San Juan, Puerto Rico nel maggio 2015.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Metacognizione e deterioramento del funzionamento sociale nella depressione

BIBLIOGRAFIA

  • Sung, Y. H., Kang, E. Y., Lee, W. N. (2015). A Bad Habit for Your Health? An Exploration of Psychological Factors for Binge – Watching Behavior. International Communication Association. January 29, 2015.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) – Report dal corso di Firenze, 21-22 Febbraio 2015

Report:

Corso base di Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) – I Parte

Firenze, 21-22 Febbraio 2015

 

GUARDA L’EVENTO

La TMI punta ad incentivare la narrazione di episodi autobiografici in modo tale che il paziente, bypassando il livello semantico, acceda alla memoria episodica facilitando l’accesso alle emozioni legate all’episodio narrato.

Contenuti o processi? Questo sembra essere uno dei dilemmi principali attorno a cui si sta focalizzando il dibattito all’interno della psicoterapia cognitiva, che negli ultimi anni ha visto prendere sempre più piede le cosiddette terapie di terza ondata che privilegiano gli interventi sui processi anziché sui contenuti. All’interno di questo filone si pone la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), modello volto al trattamento dei disturbi di personalità elaborato da Giancarlo Dimaggio, Raffaele Popolo e Giampaolo Salvatore. 

In un’ottica di continuo aggiornamento della propria offerta formativa, la Scuola Cognitiva Firenze ha organizzato il Corso di TMI Base (21-22 febbraio e 7-8 marzo) e il Corso di TMI Avanzato (23-24 maggio e 6-7 giugno) e noi di State of Mind siamo qui per raccontarvi se valga o meno la pena frequentare il corso (e la risposta è sì).

Quando in terapia lavoriamo sui contenuti (es. sulle credenze disfunzionali causa di disturbi emotivi), per poter avere una rappresentazione onesta della problematica del paziente dobbiamo evidentemente partire da ciò che il paziente ci racconta. È però esperienza comune trovare pazienti che hanno difficoltà nella narrazione, che faticano ad accedere ai propri stati interni o alla catena causale tra pensieri ed emozioni, e questa difficoltà nell’utilizzo delle funzioni metacognitive rende arduo l’utilizzo di strumenti standard CBT, come per esempio l’ABC, e di conseguenza la formulazione del caso.

Ciò accade in particolar modo, ma non solo, con pazienti con disturbo di personalità, caratterizzati da uno stile narrativo intellettualizzato, cioè che rimanda a concetti esterni, generali (es. “Perché è così!!” oppure “Tutte le persone sono…”), che non permette l’accesso agli stati interni. La TMI punta pertanto ad incentivare la narrazione di episodi autobiografici in modo tale che il paziente, bypassando il livello semantico, acceda alla memoria episodica facilitando l’accesso alle emozioni legate all’episodio narrato.

Una buona narrazione permetterà così al terapeuta di ricostruire quelli che sono gli schemi interpersonali disfunzionali del paziente, che saranno poi il bersaglio della promozione del cambiamento. Una buona memoria autobiografica, infatti, includerà informazioni da cui si potranno inferire lo scopo che spinge il paziente ad agire (che è legato alla rappresentazione che ha di sé), cosa ha fatto o pensato di fare per realizzare tale scopo, come gli altri hanno risposto e come lui ha reagito alle loro risposte. La TMI offre pertanto validi strumenti per lavorare sull’incremento delle funzioni metacognitive dei pazienti tramite la promozione della narrazione episodica.

Come suggerito dal nome stesso, nella TMI oltre alla componente metacognitiva è centrale la componente relazionale. Poiché le capacità metacognitive sono oscillanti, contesto-dipendenti e risentono della relazione, acquista un ruolo importante la gestione della terapia in chiave relazionale. La relazione terapeutica diventa fonte di informazione, strumento di cura e oggetto di cura attraverso la regolazione dei cicli interpersonali che emergono in seduta (cioè di ciò che accade nella realtà nell’interazione con l’altro) e la disconferma degli schemi disfunzionali del paziente.

Buona parte della formazione si focalizza pertanto sull’imparare a prestare attenzione a ciò che accade in seduta alla relazione terapeutica, per identificare eventuali marker di rottura della relazione (es. aumento delle reazioni difensive, assenza di cambiamenti degli stati emotivi a seguito degli interventi) e porvi rimedio.

Nella prima parte del corso Raffaele Popolo ha illustrato con estrema chiarezza la fase di Stage Setting del modello TMI, in cui si ricostruisce l’esperienza interna del paziente attraverso la memoria autobiografica, e la gestione della relazione terapeutica. Durante le lezioni sono stati presentati casi clinici, trascrizioni e registrazioni audio di spezzoni di sedute che sono stati commentati evidenziando di volta in volta i diversi tipi di interventi messi in atto dal terapeuta, fornendo un’idea chiara del lavoro che un terapeuta TMI svolge in seduta.

L’impressione avuta seguendo la prima parte del corso è che la TMI possa essere vista anche come una struttura per un trattamento integrato utilizzabile non solo con pazienti affetti da disturbo di personalità; un albero decisionale su cui impiantare altri interventi/tecniche a seconda del caso (ovviamente mantenendo sempre la consapevolezza della ratio che sta dietro tali interventi), e quindi un modello da conoscere in quanto potrebbe tornare utile in più occasioni nella propria pratica clinica.

Vedremo se durante la seconda parte del corso, in cui Giancarlo Dimaggio presenterà la fase relativa alla promozione del cambiamento, le nostre impressioni verranno confermate. Ci riaggiorniamo settimana prossima!

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La Terapia Metacognitiva Interpersonale e le domande stupide

 

BIBLIOGRAFIA:

Progetto Scientific 23: cosa spinge a diventare ricercatori?

FLASH NEWS

Che farò da grande? Per invogliare e motivare le giovani leve al mondo della scienza nel Regno Unito una scienziata cognitiva della University College London ha creato un sito tutto dedicato alla vita di uomini e donne di scienza.

The Scientific 23 è il nome del progetto in cui sono state poste ben 23 domande a un gruppo di scienziati afferenti alle più svariate discipline: domande relative ai dettagli del loro lavoro, ai loro background e da chi o da che cosa sono stati ispirati e spinti a intraprendere una carriera nel mondo della ricerca. Tra gli intervistati vi sono non solo psicologi, ma anche fisici, professori di arte e letteratura, e persino giornalisti.

E gli studenti delle scuole superiori sono il target del progetto, ma anche ne diventano protagonisti: le 23 domande vengono poste proprio da giovani ragazzi a ciascun ricercatore.

Ma perché proprio 23? Scelta poco scientifica, quasi più scaramantica: perché l’uomo ha ventitrè cromosomi, e perché se mettete in una stanza 23 persone insieme avrete il 50% delle possibilità che due di loro siano nate nello stesso giorno (il paradosso del compleanno – birthday paradox)! Vale la pena tenere monitorato il sito: ogni mese, per tutto il 2015, verranno pubblicate 23 nuove risposte!

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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Sviluppi della terapia cognitiva: tra processi e credenze

Da alcuni anni la psicoterapia cognitiva sta ripensando le sue basi teoriche e cliniche. Qual è la natura della sofferenza emotiva e quali sono le migliori strategie per affrontarla? 

Francesco Mancini aveva rilanciato la discussione alla fine del 2014, durante l’incontro di Assisi dedicato al disturbo ossessivo compulsivo (link) e patrocinato dalla società europea delle psicoterapie cognitive e comportamentali (EABCT, European Association of Behavioural and Cognitive Therapies). In quel luogo Mancini aveva ribadito la sua visione, che favorisce il ruolo degli scopi e delle rappresentazioni mentali, ovvero di quel che si pensa, dei contenuti mentali e della loro congruità con la realtà e funzionalità.

 In parole semplici, il paziente soffre di un disturbo d’ansia perché ritiene –sbagliando- che ci sia un’elevata probabilità che qualcosa di pericoloso possa accadere, che questi pericoli implichino gravi danni e che infine la capacità personale di fronteggiare questi pericoli sia bassa.

In formulazioni più sofisticate, l’ansia dipende dalla convinzione di non riuscire a sopportare l’incertezza, la semplice possibilità del pericolo, anche se bassa. Questa seconda formulazione consente di concepire in maniera meno semplicistica i pazienti, che non sono degli idioti che prendono fischi per fiaschi e vedono pericoli inesistenti, ma sarebbero meno attrezzati a sopportare lo stress quotidiano dei mille piccoli pericoli e disagi che costellano l’esistenza.

Insomma, l’ansioso non sbaglia nel valutare la realtà esterna ma l’intensità dei suoi stati emotivi e la sua capacità di regolarli.

Questa formulazione apre il varco ai cosiddetti sviluppi metacognitivi (che concepiscono l’attività mentale soprattutto come auto-regolativa) e funzionalistici, che danno maggiore importanza alle funzioni mentali piuttosto che ai contenuti cognitivi.

Mancini respinge questa ipotesi. La sua diffidenza sembra nascere dal timore che questi nuovi sviluppi concepiscano la sofferenza mentale come frutto di deficit, guasti di funzioni mentali. Se fosse così, il timore di Mancini sarebbe giustificato. Una simile concezione sembra suggerire trattamenti di tipo non psicoterapeutico: se qualcosa si è rotto, va aggiustato soprattutto attraverso interventi riabilititivi e forse perfino intervenendo materialmente sul supporto neurologico della funzione attraverso i farmaci. Così scrive Mancini (link):

Questo secondo approccio è in risonanza con un più generale trend della psichiatria verso una interpretazione neurologica delle cause dei disturbi mentali. Infatti e ad esempio, la tesi che il DOC dipenda da un deficit di inibizione, o di altre funzioni esecutive, o della memoria, si concilia con l’idea che il DOC sia una malattia neurologica molto di più della tesi che il DOC dipenda dallo scopo assoluto di prevenire una colpa.

Ci si chiede: è vero che una visione funzionalista della sofferenza implica interventi inevitabilmente non psicologici? Non proprio. I principali orientamenti metacognitivi, come la MCT (MetaCognitive Therapy) di Adrian Wells, la MBT (Mentalization Based Therapy) di Peter Fonagy e la TMI (Terapia Metacognitiva Interpersonale) di Dimaggio, Popolo e Salvatore propongono trattamenti psicologici e non neurologici.

Le funzioni possono essere ripristinate sia attraverso una discussione esplicita nello stile tradizionale (sia pure però focalizzata sui contenuti metacognitivi e non cognitivi), sia attraverso un lavoro di educazione, apprendimento e addestramento che ricostruisce le funzioni ingolfate perché trascurate, ma non guaste e perdute per sempre. Più che di deficit, si tratta di un’atrofia reversibile da scarso uso.

Effettivamente MBT e TMI parlano di deficit delle funzioni metacognitive, deficit che sarebbe maturato nella deprivazioni emotiva legata a un attaccamento non ottimale e che suggerisce un intervento compensativo di tipo relazionale, un intervento che va a compensare il deficit relazionale.

 Anche in questo caso però, se deficit è, è un deficit funzionale e reversibile e non strutturale, e difatti è compensabile. Non basta. Nel modello di Wells il deficit è del tutto espulso dal modello, cosi che l’intervento è solo di promozione della consapevolezza metacognitiva e di riaddestramento attentivo a esercitare questa consapevolezza metacognitiva distaccata, consapevolezza necessaria a far sì che il riaddestramento attentivo non si riduca a essere un coping difensivo.

In conclusione, bene fa Mancini a combattere le derive neurologiste e anti-psicologiste della psicoterapia. Meno bene quando confonde approcci neuroscientifici e funzionalistici.

Questi ultimi non sono niente affatto riducibili alle neuroscienze, anzi. Certo, nel modello funzionalista le credenze diventano meri esiti, importanti come prodotti della mente ma privi di effetti interni. Così l’ossessivo non deve la sua condizione a pensieri di responsabilità e colpa, ma a funzioni mentali gestite in maniera improduttiva. Nel caso di Wells, l’attenzione. È il controllo attentivo sulle situazioni che genera l’ossessività dubbiosa, mentre la valutazione di responsabilità nascerebbe a posteriori.

La conseguenza terapeutica è che diventa primario addestrare il paziente a mollare il controllo attentivo ed è secondario confutare il grado di responsabilità.

E i contenuti? Ci sono, e quelli decisivi sono i contenuti metacognitivi. Ovvero i pensieri che ci convincono che sia conveniente mantenere fissa l’attenzione su un certo dubbio, come l’uscio che sia chiuso o aperto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Lucid dreams: osservare passivamente le proprie esperienze mentali

Il lucid dream è un sogno in cui la persona è consapevole del fatto che sta sognando. Avviene nel momento in cui, pur sognando, qualcosa nella nostra coscienza riconosce che ciò che sta accadendo non è nient’altro che parte di un sogno. Eppure non si oppone ad esso e lo lascia scorrere senza abbandonare lo stato del sogno.

Quando durante una lezione mi trovo a spiegare il concetto di distacco consapevole dai propri stati interni (detached mindfulness, Wells, 2008) faccio spesso riferimento alla comune esperienza dei sogni lucidi (lucid dreams) come esempio chiaro ed esaustivo di una prospettiva da passivo osservatore distaccato della propria esperienza mentale. 

Il lucid dream è un sogno in cui la persona è consapevole del fatto che sta sognando. Avviene nel momento in cui, pur sognando, qualcosa nella nostra coscienza riconosce che ciò che sta accadendo non è nient’altro che parte di un sogno. Eppure non si oppone ad esso e lo lascia scorrere senza abbandonare lo stato del sogno.

Recenti ricerche hanno mostrato che durante un lucid dream autoriflessività e controllo volitivo sono più pronunciati che nei sogni comuni. In particolare, uno studio recente sembra portare per la prima volta evidenze concrete che una prospettiva metacognitiva si associa all’esperienza dei lucid dream (Filevich, Dresler, Brick & Kuhn, 2015).

METACOGNIZIONE

Persone che tendono a monitorare con un certo distacco il proprio flusso di coscienza (thought monitoring) riportano una maggior tendenza a fare esperienza più frequente di lucid dream. Questo dato è confermato dal fatto che le due attività, vale a dire il monitoraggio distaccato dei propri pensieri e l’esperienza di lucid dream condividono l’attivazione delle medesime aree cerebrali.

In conclusione, alcune funzioni metacognitive, con una simile base neurale, sottostanno sia alla capacità di monitorare in modo distaccato i propri pensieri che alla tendenza a fare esperienza di lucid dreams. Un nuovo tassello nella comprensione delle basi neurali di una coscienza di ordine superiore.

 

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Dream: On – un App per fare sogni d’oro – Psicologia & Tecnologia

 

BIBLIOGRAFIA:

Gli anziani possono tenere più informazioni in mente, il trucco è nell’associazione positiva – Neuropsicologia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Gli anziani possono tenere più informazioni in mente, il trucco è nell’associazione positiva

 Autrice: Daiana Aufiero

Abstract

La memoria la si può definire la funzione psichica volta all’assimilazione, alla ritenzione e al richiamo di informazioni apprese durante l’esperienza (Baddeley, 1993). Nell’invecchiamento tale funzione cognitiva, come tutti gli aspetti biologici e funzionali dell’essere umano, va incontro ad un progressivo calo dell’efficienza. Il presente lavoro sperimentale ha lo scopo di valutare la valenza dell’unione (binding) tra informazioni neutre: parole, e informazioni emotive: volti con espressioni emotive a valenza positiva (volti felici), negativa (volti impauriti) e neutra, in un compito di memoria di lavoro per soggetti giovani e anziani. Le parole sono state presentate sempre associate ad un volto in una serie di trial, alla fine dei quali i partecipanti erano tenuti a riconoscere se gli era stato mostrato o meno solo la parola (nel caso in cui il cue era parola), solo il volto (se il cue era volto) o volto + parola (se il cue era combinazione). L’elaborato ha preso spunto dallo studio di Mara Mather, “Invecchiamento e processi riflessivi della memoria di lavoro: Deficit di carico da Binding e Test” (2000), dal quale è emerso che gli anziani hanno maggiori difficoltà nei compiti che richiedono funzione di associazione di informazioni e dall’ipotesi di Shafer (2011), secondo la quale le cose si ricordano meglio se legate a elementi emotivi. I risultati hanno mostrato che l’associazione delle informazioni agli stimoli emotivi non ha comportato buone performance mnestiche e che, piuttosto, gli anziani risultavano sovraccaricati da tale tipo di compito; L’Effetto Positività (Charles, 2003) atteso nelle ipotesi non è stato riscontrato, tuttavia, gli individui anziani hanno riportato prestazioni lievemente migliori.

Abstract in inglese

The memory can be defined as the psychic function for assimilation, retention and recall of information learned during the experience (Baddeley, 1993). Cognitive function, in aold age, such as all aspects of biological and functional human being, undergoes a gradual decline in efficiency.
This experimental work evaluate the significance of the union (binding) between neutral information: words, and emotional information: faces with emotional expressions in positive valence (happy faces), negative (fearful faces) and neutral, in a task working memory in young and elderly subjects. The words were presented always associated to a face in a series of trials, the end of which the participants were required to recognize whether or not he was shown only the word (in the case where the cue word was), only the face (if the cue was intended) or face + word (if the cue was combination). The paper was inspired by the study of Mara Mather, “Aging and reflective processes of working memory: Binding and deficit load Test” (2000), which showed that older people have more difficulty in tasks that require function Association of information and assumption of Shafer (2011), according to which things are remembered better if tied to emotional elements. The results showed that the association of information to emotional stimuli did not result in good performance mnemonic and that, rather, the elderly were overloaded by this type of task; The Positivity Effect (Charles, 2003) expected in the hypothesis has not been found, however, elderly individuals have reported slightly better performance.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Autismo: nessun nesso con il vaccino trivalente

Articolo di Michele Bocci pubblicato su La Repubblica, il giorno 1 Marzo 2015

 

Bologna, ribaltata in appello la sentenza di Rimini che aveva stabilito un nesso tra profilassi anti morbillo e malattia di un bimbo La perizia su cui si sono basati fa a pezzi le tesi di chi aveva lanciato l’allarme: “Studi irrilevanti smentiti dalla comunità scientifica”. NON c’è un alcun nesso tra il vaccino trivalente e l’autismo. Non esistono evidenze scientifiche per stabilire che il primo provochi la sindrome, c’è solo un collegamento temporale. Nel senso che l’iniezione che previene morbillo, parotite e rosolia viene fatta prima della diagnosi di malattia autistica, che di solito arriva tra i 3 e i 6 anni. Tutto qui. La corte d’Appello di Bologna ha ribaltato una discussa sentenza del 2102 del giudice del lavoro di Rimini, che aveva riconosciuto il risarcimento ad una coppia romagnola il cui bambino era stato vaccinato dalla Asl nel 2002 e successivamente aveva avuto una diagnosi di autismo. Si trattava di una decisione “storica”, utilizzata come punto di riferimento in molte cause civili per danni che sono state avviate successivamente. E che, per via indiretta, insieme alle prese di posizione di certi pediatri, ha anche contribuito a rendere la Romagna una delle zone d’Italia dove il tasso di vaccinazione si sta riducendo. Il giudizio di secondo grado è del 13 febbraio. Il processo è iniziato per l’appello del ministero della Sanità, condannato a Rimini a pagare i danni da vaccino (stimati intorno ai 200 mila euro). La corte ha nominato un consulente tecnico d’ufficio, il dottor Lodi, che ha letteralmente demolito le ragioni del giudice del lavoro. Intanto, si legge nella sentenza, il medico “ha segnalato in modo minuzioso la non pertinenza e la non rilevanza degli studi in essa citati”. Il consulente della famiglia ha presentato le ricerche del medico inglese Wakefild, autore di un discusso articolo su Lancet sui collegamenti tra vaccini e autismo, che poi venne ritirato. “Sono studi irrilevanti  –  ha scritto il perito  –  smentiti dalla comunità scientifica”. Inoltre “nella storia clinica del bambino non c’è un’oggettiva correlazione temporale tra la progressiva comparsa dei disturbi della sfera autistica e il vaccino Mpr, vi è solo il fatto che i due eventi avvengano uno prima e uno dopo, ma come dimostrato, ciò non è sufficiente a mettere in relazione i due eventi “.

 

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Autismo e Vaccini: Intervista a Chiara Picinelli

 

Autismo, i giudici assolvono il vaccinoConsigliato dalla Redazione

Bologna, ribaltata in appello la sentenza di Rimini che aveva stabilito un nesso tra profilassi anti morbillo e malattia di un bimbo La perizia su cui si sono basati fa a pezzi le tesi di chi aveva lanciato l’allarme: “Studi irrilevanti smentiti dalla comunità scientifica” (…)

Tratto da: La Repubblica

 

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Articoli su: Disturbi dello spettro Autistico
La donna neurodivergente – Report
Riflessioni dal corso “Profili diagnostici e bias clinici in Asperger/Autismo livello 1, ADHD, DSA e APC (Alto Potenziale Cognitivo)” - 6-7 e 8 marzo 2025
Analisi della recente review sui probiotici nel trattamento per i disturbi dello spettro autistico: il ruolo fondamentale dell’asse microbiota-intestino-cervello-mente
Una recente revisione ha cercato di fare chiarezza sull’utilizzo dei probiotici per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico
Mio fratello è autistico: siblings, relazioni e benessere
Crescere con un fratello con diagnosi di autismo può essere una sfida, ma anche un’occasione per sviluppare empatia, resilienza e un legame unico
Intelligenza Artificiale (IA) e Realtà Estesa (XR): nuove frontiere nella riabilitazione nei disturbi del neurosviluppo
La diffusione delle tecnologie basate sull’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il panorama della riabilitazione nei disturbi del neurosviluppo
Selettività alimentare e autismo: aumentare la varietà di cibi consumati abitualmente utilizzando behavioral skills training e contratto comportamentale
I bambini con disturbi dello spettro autistico hanno maggiori probabilità di mostrare selettività alimentare. Quale trattamento è consigliato?
Riconoscimento delle emozioni, disturbi del neurosviluppo e ansia sociale
Una recente ricerca analizza il legame tra i disturbi del neurosviluppo, l'ansia sociale e la capacità di riconoscere le emozioni dal volto
Promuovere lo sviluppo delle abilità sociali nell’autismo
Attraverso interventi specifici è possibile promuovere lo sviluppo delle abilità sociali, spesso punto di debolezza nelle persone con autismo
Gli devo dire che è Asperger? (2014) di Tony Atwood e Carol Gray – Recensione
"Gli devo dire che è Asperger?" è un libro che esorta ad una comunicazione trasparente, leale e consapevole, tra genitori e figlio
Da diversità a neurodivergenza: la sindrome di Asperger esiste ancora?
La Sindrome di Asperger è una forma di neurodivergenza che può presentare limiti e difficoltà, ma anche abilità e interessi unici e funzionali
Il controverso utilizzo del packing come strumento terapeutico
Ad oggi il packing, una forma di contenimento fisico, è considerato una pratica non più accettabile all’interno del trattamento per l’autismo
Autismo al lavoro - Report da convegno di Milano con Tony Atwood_
Convegno Autismo al lavoro con Tony Atwood – Report dall’evento di Milano
Quali sono le caratteristiche tipiche dell’Autismo che possono avere un impatto in ambito lavorativo e che devono essere tenute in considerazione? 
Autismo: Report dall’ottavo Convegno Internazionale
8° Convegno Internazionale Autismi – Report dall’evento di Rimini
Viste le sfumature dell'autismo è necessario un approccio clinico specifico in base alle peculiari caratteristiche della persona e la sua famiglia
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L’esperto mondiale di autismo Tony Attwood risponde alle nostre domande su come funzionano le persone nello spettro autistico e sulle sfide che affrontano in contesti lavorativi
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Ieri è stato presentato “Il Mondo di Leo”, progetto multimediale inclusivo che racconta le avventure di un bambino con disturbo dello spettro autistico
Funzioni esecutive. Il programma Unstuck and on Target! - Recensione
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Un protocollo innovativo per lavorare sulle funzioni esecutive e migliorare flessibilità, regolazione emotiva, problem solving e pianificazione
Anoressia nervosa e co-occorrenza di tratti autistici
Tratti autistici nei giovani con anoressia nervosa prima e dopo il trattamento
Recenti ricerche indicano un'associazione positiva tra i tratti autistici e la psicopatologia dei disturbi alimentari, in particolare dell'anoressia
L’autismo a scuola, di Lucio Cottini - Recensione del libro
L’autismo a scuola. Quattro parole chiave per l’integrazione – Recensione del libro di L. Cottini
'L’autismo a scuola' propone, dopo una sezione introduttiva, quattro parti che analizzano in modo concreto ed esemplificativo le linee strategiche di lavoro
I sommi sacerdoti. Autismo e Psicosi infantili (2022) - Recensione del libro
I sommi sacerdoti. Autismo e Psicosi infantili (2022) di Carmine Saccu – Recensione
"I sommi sacerdoti" descrive il modello di lavoro con bambini autistici e psicosi infantile in un'ottica sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale
Autismo al lavoro (2022) di Attwood e Garnett – Recensione
"Autismo al lavoro" è il nome di un programma finalizzato a fornire pratici strumenti da impiegare adattivamente nei più vari contesti professionali
Terapia assistita con gli animali per il disturbo dello spettro autistico
Effetti della Dog Assisted Therapy per adulti con disturbo dello spettro autistico
La terapia assistita con gli animali (AAT) può essere particolarmente adatta alle persone con autismo permettendo una forma di interazione meno stressante
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Ascoltiamo buona musica? Ce lo dice il nostro cervello!

Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, mette in luce come quando ascoltiamo un brano che ci piace particolarmente, qualunque esso sia, lo schema di attivazione cerebrale è lo stesso per tutti. Non importa dunque quale genere di musica ascoltiamo, basta ascoltare il nostro brano preferito e il cervello attiva gli stessi schemi di connessione tra le aree cerebrali di chi sceglie brani di tutt’altro genere.

Le infinite discussioni tra amici su quale sia la musica migliore da ascoltare troveranno mai una risposta definitiva?

 

I fenomeni cerebrali connessi all’ascolto della musica sono un territorio in gran parte ancora inesplorato dalle neuroscienze. Negli studi sulle percezioni soggettive associate all’ascolto della musica, le persone riferiscono che i loro pezzi preferiti stimolano o evocano pensieri, ricordi e sentimenti con le medesime connotazioni emotive e autobiografiche. Com’è possibile che reazioni simili vengano innescate nel cervello da generi musicali che differiscono per molte caratteristiche melodiche, ritmiche e armoniche?

Bach o i Beatles, la risposta del cervello non cambia – Le ScienzeConsigliato dalla Redazione

L’ascolto di un brano musicale favorito stimola in tutti lo stesso schema di attivazione cerebrale, a prescindere dal genere musicale. Le connessioni appaiono rafforzate in particolare nel default mode network , associato al pensiero introspettivo e creativo, mentre l’ippocampo, associato alla memoria emotiva, appare sconnesso dalla corteccia uditiva. Ciò indicherebbe che l’ippocampo non sta elaborando gli input sonori, ma sta rievocando emozioni e pensieri che appartengono alla storia personale del soggetto (…)

Tratto da: Le Scienze

 

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Solo un’occhiata allo smartphone prima di andare a letto e il rischio insonnia aumenta

Quante volte prima di andare a letto usiamo lo smartphone anche solo per controllare l’ultimo post del nostro amico su facebook o se qualcuno ci ha mandato la buona notte tramite whatsapp? Un nuovo studio norvegese sottolinea però i rischi di tale pratica, soprattutto nei più giovani, chiamandola dose-response relationship: maggiore è l’uso di smartphone o tablet prima di andare a letto, più sarà facile passare una notte insonne. 

 

Does this scenario sound familiar? You’re browsing Facebook and come across a post from a friend complaining that they can’t sleep. You notice they posted it at 1 a.m. “Maybe stop staring at a screen, dummy,” you think. Then you realize it’s 2 a.m., you’re reading Facebook from a smartphone in bed, and you’ve never been more awake. It’s an inconvenient truth for an increasingly connected (and addicted) world, but LED screens are the enemies of sleep.

Seriously, stop using your smartphone in bedConsigliato dalla Redazione

The result? What researchers call a “dose-response relationship” — the more you dose yourself with devices, the higher your risk of sleeplessness. (…)

Tratto da: Mashable

 

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Troppa attenzione autoriferita va a scapito di performances e capacità di apprendimento

FLASH NEWS

Secondo un nuovo studio pubblicato su The Quarterly Journal of Experimental Psychology un eccessivo focus attentivo sui propri movimenti corporei così come il ricordo di performance già effettuate in passato, possono essere processi cognitivo-emotivi profondamente dannosi per l’apprendimento.

Il nostro peggior nemico può essere la nostra mente e l’attenzione che costantemente rivolgiamo a noi stessi. Spesso alla ricerca dell’eccellenza, ci focalizziamo intensamente su noi stessi in estenuanti tentativi di controllo delle nostre performance, siano esse fisiche o cognitive. Secondo un nuovo studio pubblicato su The Quartelry Journal of Experimental Psychology un eccessivo focus attentivo sui propri movimenti corporei così come il ricordo di performance già effettuate in passato, possono essere processi cognitivo-emotivi profondamente dannosi per l’apprendimento.

Ben lo sanno dalla loro esperienza clinica i terapisti alle prese con l’ansia o con la ruminazione. I ricercatori hanno reclutato 36 studenti dividendoli in due gruppi e chiedendo loro di lanciare 10 palline cercando di centrare un bersaglio. In seguito, il disegno sperimentale ha previsto che un gruppo pensasse per almeno un minuto di tempo a precedenti esperienze in simili attività e ai propri punti di forza e debolezza in merito; l’altro gruppo invece, il gruppo di controllo, semplicemente ha atteso per un minuto senza una consegna specifica a livello cognitivo.

Nelle performance successive – con una semplice manipolazione sperimentale dell’attività cognitiva di un solo minuto – era già evidente un peggioramento delle prestazioni: coloro che avevano pensato per un minuto alle loro capacità come lanciatori di palle presentavano un peggioramento significativo rispetto ai loro standard precedenti, mentre il gruppo di controllo ha mantenuto dei livelli simili di performances.

PSICOLOGIA DELLO SPORT

In uno studio successivo una quarantina di studenti ha partecipato a un programma di training di baseball. Anche in questo caso per due gruppi erano previste diverse attività: da una parte un gruppo aveva la consegna di scrivere riguardo le proprie esperienze precedenti con il baseball e le proprie caratteristiche come atleta; il secondo gruppo invece aveva l’indicazione di descrivere per iscritto alcuni oggetti presenti nella stanza. Anche qui, in linea con i risultati precedenti, il gruppo di controllo ha dimostrato performance nettamente e significativamente superiori rispetto al gruppo sperimentale.

Seppur con semplici manipolazioni sperimentali, gli esiti degli studi sono curiosi poiché – indipendentemente da pensieri autocelebrativi o autodistruttivi – in questo caso la sola e apparentemente innocua contemplazione di sé, delle proprie capacità e attitudini può interferire nei processi di apprendimento di abilità motorie.

Certamente l’aspetto più critico dello studio è che non si interroga su quali siano i fattori che possono mediare la relazione tra focalizzazione sul sé e peggioramento nelle prestazioni.

 

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Apprendimento: i vantaggi della scrittura a mano

 

BIBLIOGRAFIA:

La reazione delle persone alla vista di un bambino solo e tremante per il freddo – VIDEO –

L’esperimento è stato condotto nel 2014 a Oslo, in Norvegia, all’interno di una campagna di solidarietà dell’organizzazione no-profit SOS Children’s Villages Norway. La finalità del video, ripreso con una telecamera nascosta, era quella di sensibilizzare l’opinione pubblica a donare vestiti in favore degli sfollati della Siria.

Solo nella prima settimana il video ha raggiunto 12 milioni di visualizzazioni.

Dal punto di vista psicologico è interessante perché richiama il concetto delle origini biologiche del sistema motivazionale di accudimento e di come esso si attivi anche alla vista di sconosciuti, purchè in condizioni che attivino il sistema, ovvero la valutazione di pericolo e minaccia (Cassidy e Shaver, 2002).

In questo caso il bambino è solo, poco vestito rispetto alle condizioni climatiche e il suo comportamento elicita una condizione di sofferenza fisica e di bisogno di cure. Alla domanda dei passanti sul perché si trovasse in quelle condizioni, il bambino rispondeva che qualcuno gli aveva rubato la giacca e che stava aspettando l’arrivo della maestra alla fermata dell’autobus.

 

VIDEO (Disponibili sottotitoli in inglese): 

PER DONAZIONI E’ POSSIBILE CONTATTARE IL CAPITOLO ITALIANO DI SOS CHILDREN’ VILLAGES: LINK

 

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RIFERIMENTO BIBLIOGRAFICO:

  • Cassidy J., Shaver P. (2002), Manuale dell’attaccamento. Giovanni Fioriti Editore

 

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Il Prof. David Clark ha parlato dei modelli di psicoterapia efficace in occasione del World CBT Day 2025
Stili genitoriali: che impatto hanno sui figli?
Siete genitori elicottero o genitori faro? Vediamo cosa dice la ricerca sugli stili genitoriali e su come influenzano il benessere dei figli
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Arriva a Piacenza lo psicoterapeuta sociale: la terapia a tariffa minima

Nasce a Piacenza un nuovo progetto che va a sommarsi a quelli già avviati sul territorio dal gruppo di Rifondazione Comunista, come il gruppo di acquisto popolare (Gap) e il dentista sociale. Si tratta questa volta dello psicoterapeuta sociale, una nuova figura che eroga un servizio finora assente in risposta alla situazione di disagio critico degli utenti. Il servizio offre una percorso di psicoterapia individuale e di gruppo a tariffa minima. “Non intendiamo fare concorrenza all’Asl – spiega la dottoressa Stefania Sartori, promotrice del Progetto – ma erogare un servizio che ad ora non viene offerto“.

 

La crisi c’è e incide sui redditi delle famiglie, privandole della possibilità di accedere a servizi fondamentali. E la crisi riguarda anche il servizio sanitario nazionale che dopo aver offerto certi servizi, li sta ora tagliando, con il risultato di un’erogazione assente o insufficiente che spinge i cittadini a rivolgersi al mercato privato per quanto riguarda il dentista o altre necessità di cura. […] “Non intendiamo fare concorrenza all’Asl – spiega la dottoressa – ma erogare un servizio che ad ora non viene offerto”, rivolto a tutte quelle persone che, pur non trovandosi in una situazione di disagio critico, necessitano un percorso psicoterapico che vada oltre il colloquio di sostegno. Il costo della seduta individuale sarà di 40 euro, mentre è in via di definizione quello relativo agli incontri di gruppo…

Politica Piacenza: Rifondazione, dopo il dentista arriva anche lo psicoterapeuta sociale – Notizie di PiacenzaConsigliato dalla Redazione

Piacenza 24 – Piacenza: Dopo il gruppo di acquisto popolare (Gap) e il dentista sociale che farà di nuovo visita a Piacenza sabato prossimo, Rifondazione si appresta a presentare il nuovo progetto dello psicoterapeuta sociale, i cui dettagli verranno svelati giovedì prossimo in conferenza. (…)

Tratto da: Piacenza 24

 

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L’efficacia della Psicoterapia nel prevenire un secondo tentativo di suicidio

Un nuovo studio conferma l’importanza della psicoterapia per evitare nuovamente il rischio di suicidio nei pazienti che hanno tentato, in passato, di togliersi la vita. Nella ricerca, di tipo longitudinale, i ricercatori hanno studiato il comportamento di chi è andato in terapia e di chi invece – pur avendo tentato il suicidio – non ha avuto nessun supporto psicoterapeutico. I risultati mostrano un calo significativo dei tentativi di suicidio da parte dei soggetti seguiti da uno psicoterapeuta.  

 

[blockquote style=”1″] Although deliberate self-harm is a strong predictor of suicide, evidence for effective interventions is missing. The aim of this study was to examine whether psychosocial therapy after self-harm was linked to lower risks of repeated self-harm, suicide, and general mortality. Our findings show a lower risk of repeated deliberate self-harm and general mortality in recipients of psychosocial therapy after short-term and long-term follow-up, and a protective effect for suicide after long-term follow-up, which favour the use of psychosocial therapy interventions after deliberate self-harm.[/blockquote]

L’efficacia della Psicoterapia per prevenire un secondo tentativo di suicidioConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Secondo uno studio condotto dai ricercatori della John Hopkins University, la psicoterapia riduce significativamente il rischio di suicidio per coloro che hanno già tentato di togliersi la vita. (…)

Tratto da: The Lancet

 

LINK AL PAPER

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