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Quegli oggetti che ci soffocano fino a morire: il disturbo da accumulo compulsivo

Un articolo di Sara Gandolfi pubblicato sul Corriere della Sera del 6 Marzo 2015 sul Disturbo da Accumulo Compulsivo.

Quegli oggetti che ci soffocano sino a morire. Il disturbo da accumulo compulsivo può devastare le nostre vite. I primi sintomi compaiono nell’adolescenza

 

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La manipolazione delle immagini mentali nella Sclerosi Multipla

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

La manipolazione delle immagini mentali nella Sclerosi Multipla

Autrice: Costabile Teresa 

Abstract 

Background: Le immagini mentali costituiscono una rappresentazione della realtà, oggetti, scene od altro che si realizzano in assenza di stimoli percettivi esterni ad esse correlate. Tra queste immagini figura anche un particolare tipo definito immagine motoria, definito come uno stato dinamico durante il quale il soggetto simula mentalmente una data azione (Jeannerod & Decety, 1995). Le immagini motorie si stanno rivelando uno strumento sempre più  utile all’interno della neuroriabilitazione. Tuttavia, l’abilità nel manipolarle è compromessa in misura diversa all’interno delle diverse patologie neurologiche. Obiettivo: Il principale obiettivo è stato indagare l’abilità di pazienti con Sclerosi Multipla Recidivante – Remittente di manipolare le immagini mentali, incluse quelle motorie. Metodi: Venti pazienti e venti soggetti di controllo sani appaiati per età, sesso e scolarizzazione sono stati sottoposti ad un rapido screening cognitivo, ad un questionario sull’immaginazione motoria (Hall et al., 1997) e ad un compito computerizzato di rotazione di lettere, di corpi stilizzati e mani. Per i pazienti affetti da SM sono stati inoltre rilevati indici quali grado di disabilità (EDSS), impatto della fatica (MFIS), qualità del sonno (PSQI) e presenza di sintomi depressivi (BDI). Risultati: Dai risultati emerge una differenza significativa nei tempi di reazione esibiti dai due gruppi in relazione al compito di rotazione delle mani, ma non al compito della rotazione delle lettere. Inoltre emerge come la presenza di vincoli biomeccanici influenzi la performance in entrambi i gruppi, soprattutto in merito al compito della rotazione delle mani e dei corpi stilizzati. Conclusioni: Questi risultati confermano i deficit dei pazienti a carico della velocità delle elaborazioni delle informazioni. Quando vengono considerate poi le immagini motorie tali difficoltà divengono ancora più evidenti, anche se ulteriori studi dovrebbero indagare la relazione tra la manipolazione delle immagini mentali, incluse le motorie, ed i deficit cognitivi e motori dei pazienti con SM, nonchè le potenzialità delle immagini motorie stesse Parole chiave: sclerosi multipla, immagini mentali, immagini motorie, rotazione mentale, riabilitazione neurocognitiva.

English Abstract 

Background: A mental image is the representation in a person’s mind of the physical world outside of that person. Among these kind of mental images, there are the motor one. Motor imagery (MI) can be defined as “a dynamic state during which a subject mentally simulates a given action (Jeannerod & Decety, 1995) and was recently shown to be a promising tool in neurorehabilitation. However the ability to perform MI, however, may be impaired in some patients with neurological dysfunction. Objective: The objective was to assess the global Mental Imagery ability in patients with multiple sclerosis (MS). Methods: Twenty patients with MS and twenty age-sex and years of school healthy controls underwent cognitive screening, Movement Imagery Questionnaire and also performed a computer-based test to assess their Mental Imagery ability. EDSS, Fatigue, Sleep quality and Depression were also investigated in the patients group. Results: The average temporal organization of MI significantly differed between MS patients and controls, especially for the hand rotation task. Moreover, both groups show greater reaction times for the motor tasks, probably due to the biomechanics constraints. Conclusion: These findings confirm the impairment of the speed information processing in patients with MS. Moreover, these deficits become more clear when patients manipulate motor imagery. Further studies should be done to investigate the relation between motor and cognitive deficit and the ability to manipulate the Mental Images. Plus, considering the application of MI practice in MS patients’ rehabilitation. Key words: multiple sclerosis, mental imagery, motor imagery, mental rotation, neurocognitive rehabilitation.

 

 

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Pizza, cioccolato e patatine fritte: i cibi altamente trattati che creano dipendenza

FLASH NEWS

Un recente studio condotto presso l’Università del Michigan conferma ciò che abbiamo sempre sospettato: i cibi altamente trattati a livello industriale sono anche quelli che causano maggiore dipendenza tra i consumatori.

Perchè cibi come la pizza, il cioccolato e le patatine fritte ci piacciono tanto? C’è un trucco e se c’è, qual è? Per quale ragione questi alimenti, ritenuti peraltro dannosi per il nostro organismo, fanno tanto impazzire il nostro palato? Quante volte abbiamo sentito le signore affermare sospiranti: “Perché i cibi più buoni sono anche quelli che fanno più ingrassare?”.

ALIMENTAZIONE

Un recente studio condotto presso l’Università del Michigan conferma ciò che abbiamo sempre sospettato: i cibi altamente trattati a livello industriale sono anche quelli che causano maggiore dipendenza tra i consumatori. Si tratta della prima ricerca che indaga a livello specifico quali cibi causano dipendenza, tematica che assume una certa rilevanza sia tra gli studiosi che tra i consumatori, soprattutto alla luce di una crescente diffusione dei problemi di obesità.

Studi precedenti effettuati sugli animali hanno dimostrato che cibi altamente trattati, sarebbe a dire cibi con grassi aggiunti, così come cibi contenenti carboidrati raffinati (farina bianca o zucchero, per esempio), possono indurre comportamenti di vera e propria dipendenza. Studi clinici hanno dimostrato che alcuni individui soddisfano i criteri per dipendenza da sostanze quando la sostanza in questione è il cibo.

DIPENDENZE

[blockquote style=”1″]Nonostante fosse ben noto che i cibi eccessivamente grassi siano i preferiti e i più apprezzati da gran parte delle persone, non si sapeva che questi potessero provocare reazioni di dipendenza negli esseri umani, né quali cibi specifici possano provocare tali risposte[/blockquote]

dice Ashley Gearhardt, assistente docente della facoltà di Psicologia presso l’Università del Michigan. I cibi non lavorati, senza grassi aggiunti o carboidrati raffinati, quali ad esempio il riso integrale o il salmone, non sembrano provocare reazioni di dipendenza nei soggetti.

Individui con sintomi di dipendenza da cibo o con indici di massa corporea molto elevati riportano seri problemi ad evitare cibi industriali e molto grassi, suggerendo che alcune persone possano essere particolarmente sensibili alle funzioni di ricompensa di tali alimenti.

[blockquote style=”1″]Se le proprietà di alcuni cibi sono associate a comportamenti di dipendenza, questo potrebbe avere un serio impatto negativo su quanto apprendono bambini e ragazzi nel campo dell’alimentazione, come dimostrato dalla politiche di marketing e pubblicitarie adottate dalle grandi aziende, che fanno leva proprio sulla funzione di ricompensa di questi alimenti che, di fatto, sono quasi tossici[/blockquote]

afferma Schulte, autrice dello studio e dottoranda presso l’Università del Michigan.

Nicole Avena, assistente docente presso la School Medicine di Mount Sinai, a New York, e coautrice dello studio presentato, spiega l’importanza di tali scoperte:

Questo è il primo passo verso la comprensione di quali cibi causino dipendenza e dei fattori precisi coinvolti in questo meccanismo. Tutto ciò potrebbe essere di grande aiuto nel trattamento dell’obesità. Non si tratta infatti semplicemente di diminuire o sospendere il consumo di certi cibi, quanto piuttosto di valutare l’opportunità di adottare metodi simili a quelli utilizzati per smettere di fumare, bere, o assumere sostanze”.

Studi futuri dovrebbero anche indagare se i cibi che causano dipendenza possano modificare certi meccanismi cerebrali o certi comportamenti, come avviene nel caso dell’assunzione di sostanze stupefacenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Nasce il progetto di psicologia sostenibile "Psicologi per Milano" per chi versa in difficoltà economiche

Il Progetto “Psicologi per Milano” nasce dalla collaborazione tra il Comune di Milano e l’Ordine degli Psicologi della Lombardia, con lo scopo di agevolare coloro che, pur necessitando di un supporto psicologico o psicoterapico, versano in situazioni di disagio economico tale da non potersi rivolgere ad un professionista privato, mentre i tempi di attesa nelle strutture pubbliche sono spesso troppo lunghi; in questo modo, essi possono usufruire di servizi di psicologia a tariffe agevolate. 

 

Si riporta il comunicato Stampa del Comune di Milano:

Il progetto “Psicologi per Milano”, o della cosiddetta “psicologia sostenibile”, nasce dalla collaborazione tra il Comune di Milano e l’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Nella consapevolezza che la salute mentale dei cittadini non può essere messa in secondo piano dalla crisi, è stato stipulato un protocollo d’intesa tra le due istituzioni affinché i cittadini milanesi che necessitano o desiderano essere seguiti da uno psicologo, ma che al contempo si trovano in una situazione di disagio economico, possano usufruire di servizi di psicologia a tariffe agevolate, senza limiti di tempo né di numero di colloqui, ma in base ai bisogni della persona e delle famiglie.

Hanno diritto ad accedere a queste facilitazioni solo le persone segnalate e inviate dai Servizi Sociali della nostra città, dopo avere valutato e concordato con l’interessato l’opportunità della scelta e la modalità di accesso.

L’elenco degli enti convenzionati con il Comune, però, rimane disponibile a tutti sul sito www.psicologipermilano.it: ogni cittadino, se lo desidera e pensa di averne bisogno, anche se in assenza delle agevolazioni di cui sopra, può quindi cercare il servizio più adatto a sé e/o ai propri familiari utilizzando delle pratiche chiavi di ricerca.

I servizi presenti nell’elenco fanno tutti parte del mondo del privato sociale e sono stati selezionati dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia secondo precisi criteri di qualità e specializzazione, elemento che ne garantisce la massima professionalità e serietà.

 

I cittadini che necessitano di un aiuto psicologico ma che sono in condizione di disagio economico possono accedere direttamente a percorsi gratuiti o a tariffe agevolate, senza limiti di durata nel tempo o di numero di colloqui, attraverso la segnalazione e l’invio da parte dei Servizi Sociali del Comune di Milano, che hanno anche la funzione di orientamento e di informazione sui diversi enti.

Psicologi per Milano. Il soccorso per aiutare la comunità. / Carlotta Longhi | ArcipelagoMilanoConsigliato dalla Redazione

Psicologi per Milano
In Italia, circa un quarto della popolazione adulta presenta ogni anno una criticità psicologica tale da dover richiedere l’aiuto specialistico, ma solo il 10% di essa, generalmente i casi più gravi, approda ai servizi psicologici e psicoterapeutici pubblici. (…)

Tratto da:

 

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Consumer Psychology and E-Commerce Checkouts: l’infografica sulle abitudini dei consumatori online

Un’ infografica dei dati chiamata Consumer Psychology and the eCommerce Checkout (Fonte: Voucher Cloud) nella quale sono state analizzate le differenti interazioni dei consumatori con siti di ecommerce, specialmente nel momento in cui effettuano un acquisto.

Con questa infografica potrai trovare risposte a domande come: Cosa si aspettano i consumatori dal sito? oppure, Cosa li scoraggia dal fare un acquisto?

 

Risultati:

– Dopo aver aspettato 3 secondi, il 57% dei consumatori online abbandona il sito e l’80% di loro non ci ritorna più

– Un consumatore su due ha più fiducia in un prodotto dopo aver visto un video online

– Perchè abbandonano il sito? Addebiti nascosti durante la spesa, necessità di doversi registrare prima dell’acquisto, dettagli della consegna poco chiari, o lunghi processi di acquisto.

– Gli uomini sono più propensi ad abbandonare il loro carrello

– Più dell’80% dei consumatori si sente più al sicuro nel vedere dei marchi di fiducia bene in vista sullo schermo all’interno del negozio online

 

Consumer Psychology and ECommerce Checkouts Infographic

(Fonte: Voucher Cloud)

 

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Humans of New York: quando i social network promuovono l’alfabetizzazione emotiva

Marco Pontalti, Open School Studi Cognitivi

La letteratura scientifica sembra far emergere che l’uso dei social network abbia ricadute sull’ uomo dal punto di vista psicologico, in particolare, nel processo di riconoscimento ed espressione emotiva (di alfabetizzazione emotiva), generando comportamenti che possono essere funzionali o disfunzionali.

Facebook, Instagram, Twitter, Google+ sono solo alcune delle piattaforme social che dal loro avvento ad oggi hanno conquistato in maniera esponenziale il Web, primeggiando sulla rete sia per numero di utenti attivi che per media di ore spese sui social network.

Limitandosi al contesto italiano, per esempio, gli account social attivi sono all’incirca 28 milioni, con un livello di penetrazione  del 46%, dato superiore alla media mondiale del 29%, in linea con quella Europea. Sebbene il numero di account attivi non indichi il numero di utenti unici (un utente potrebbe avere più account), si potrebbe ipotizzare che circa un italiano su due/tre ha almeno un profilo social e lo usa attivamente. Inoltre, dato non meno interessante, è che un italiano, sebbene mediamente navighi circa 6.7 ore su Internet (accedendo sia dal PC che dal mobile), dedica ben 2.5 ore ai soli social media (Della Dora, 2015).

Non è una novità che i social media abbiano cambiato radicalmente l’utilizzo di Internet. Inoltre, come si vedrà più in dettaglio successivamente, la letteratura scientifica sembra far emergere che l’uso dei social network abbia ricadute sull’ uomo dal punto di vista psicologico, in particolare, nel processo di riconoscimento ed espressione emotiva (di alfabetizzazione emotiva), generando comportamenti che possono essere funzionali o disfunzionali (Bernardi & Pennati, 2012; Riva, 2010; Goleman, 2011; Galimberti, 2007).

Riva (2010), per esempio, ha evidenziato come le persone possano offrire supporto ed attività spontaneamante e gratuitamente alla luce del riconoscimento dei bisogni degli individui all’interno della propria Rete. Tuttavia, ha altrettanto sottolineato come un eccessivo uso delle piattaforme social possa favorire il disinteresse emotivo dei soggetti legato ad un loro deficit di lettura delle emozioni altrui.

L’interazione con gli altri genera un’esperienza sociale che consente di comportarsi in un certo modo e di intraprendere delle azioni all’ interno di un contesto di riferimento. Questo perché ognuno di noi si contraddistingue da un’identità sociale, intesa come l’insieme di identificazioni e sentimenti relativi al contesto di appartenenza (Smith & Mackie, 2004), e da una rete sociale di supporto, ossia tutte le persone legate a noi da un certo tipo di relazione. Se l’identità sociale definisce la propria “posizione” all’ interno di una determinata situazione (Riva, 2010; Davies e Harré, 1990), per esempio, essere psicologo nello studio professionale e cestista nella squadra di pallacanestro, la rete sociale distingue i rapporti familiari da quelli amicali.

I social network, con la caratteristica di dare agli interlocutori la libera gestione e personalizzazione di un proprio profilo e con la capacità di rompere le barriere spazio-temporali per interagire con gli altri, permettono di espandere o modificare esponenzialmente sia la propria identità sociale sia la propria rete sociale. Così si può decidere di essere chi si vuole essere e di appartenere a innumerevoli reti sociali, in qualsiasi momento e luogo. Le piattaforme social potrebbero essere intese, in altre parole, «uno spazio sociale ibrido, l’interrealtà, che permette di fare entrare il virtuale nel nostro mondo reale e viceversa, offrendo a tutti noi uno strumento potentissimo per creare e/o modificare la nostra esperienza sociale» (Riva, 2010, p.29).

Pertanto i social network aprono la strada a moltissime opportunità, valicando limiti come probabilmente nessun altro medium è stato in grado di fare. Tuttavia, essendo per definizione dei media, e pertanto degli strumenti di mediazione, essi si interpongono tra gli interlocutori: per quanto l’esperienza sociale possa essere elevata, i social media estrapolano la corporeità del singolo individuo dall’interazione sociale e la sostituiscono con un messaggio composto da un insieme di informazioni frammentate di natura multimediale (Riva 2010). Per esempio, il volto triste di una ragazza potrebbe essere sostituito sul suo profilo Facebook da un link che rimanda ad una canzone straziante su Youtube oppure su quello Instragram da una fotografia che ritrae una giornata di pioggia con una didascalia sottostante “Mi manchi”.

Diventando un post, una foto, un link, una notifica, etc. la mancanza del corpo toglie tutta una serie di informazioni presenti nell’interazione face-to-face. L’attività dei neuroni bimodali motori e percettivi, o neuroni mirrors (Rizzolati & Sinigalia, 2006), mentre si esegue un’azione verso oggetti e mentre si osserva un interlocutore svolgere la medesima azione, giustificherebbe l’importanza di tali informazioni: queste infatti vengono inconsciamente rappresentate o simulate nella mente, come se si stesse compiendo un’azione simile o vivendo la medesima azione. Mentre A osserva che B allunga la mano per prendere una posata, tale azione viene simulata nella mente di A attraverso l’attivazione dei neuroni mirrors, consentendo di vivere la medesima azione di B. Tale rappresentazione permetterebbe ad A, per esempio, di prevenire  ed aiutare B avvicinandogli la posata, e/o di riconoscere che B ha bisogno di essere aiutato.

Appare evidente come la presenza del corpo sia un elemento importante e facilitante nel processo di comprensione delle intenzioni ed emozioni altrui, ossia del processo di alfabetizzazione emotiva. Di contro, quando gli interlocutori sono privati della presenza del corpo e interagiscono assiduamente attraverso un medium, aumenta il rischio di favorire l’«analfabetismo emotivo» (Goleman, 2011).

Un basso livello di conoscenza del lessico emotivo e di lettura delle relazioni sociali, costituisce un buon predittore di comportamenti disfunzionali quali il bullismo, le dipendenze dall’alcol e da sostanze stupefacenti (Goleman, 2011) o la psicopatia (Galimberti, 2007). Potrebbe anche favorire la cyberdipendenza e un insieme di sensazioni di malessere come depressione, ansia, tremori e nausee.

In poche parole, si potrebbe dire che a limitare il processo di alfabetizzazione emotiva sia l’assenza della corporietà degli interlocutori, delle informazioni necessarie per il riconoscimento e l’espressione degli stati mentali ed emotivi. Ciò vuol dire che se si volessero promuovere comportamenti funzionali alla crescita della competenza emotiva sui social network, bisognerebbe predisporre quella dose di informazioni in grado di favorire la lettura efficace delle emozioni altrui.

Brendon Stanton, volente o nolente, sembra essere riuscito nell’ intento. Humans of New York (http://www.humansofnewyork.com), HONY da qui in poi, è il suo blog, nato da un progetto personale di fare un censimento fotografico di New York: camminare per le vie della città, chiedere ai passanti di poterli fotografare, pubblicare le foto categorizzandole per borghi. L’incontro con lo sconosciuto e l’inevitabile scambio di parole, ha portato Brendon a integrare una variante alla sua idea originaria: associare alla fotografia pubblicata, una didascalia che ripercorresse uno stralcio di conversazione con il soggetto della fotografia stessa.

Così HONY è diventato molto più di un censimento fotografico, si è infatti trasformato in un immenso raccoglitore di piccole biografie. La straordinaria abilità di Brandon di entrare in sintonia con lo sconosciuto gli ha dato la possibilità di dar voce ad un pezzo della sua vita. Attivando successivamente le pagine su Facebook e su Instagram, grazie alla loro caratteristica social, la sua storia prende vita e sembra fondersi col collettivo: i fans e i followers la vedono, la leggono, la commentano, la condividono, ma soprattutto sembrano esperirla come se fosse propria, riconoscendo i suoi pensieri e vivendo le sue emozioni. Tra le righe dei commenti si possono trovare parole di supporto per storie tristi, di approvazione per quelle di successo, di stupore per quelle bizzarre e via discorrendo.

Brandon ha sì permesso di presentare lo sconosciuto per come davvero è, «unico ed inimitabile» (Girolami, 2014), ma lo ha anche reso presente e “corporeo”, dotato di mente propria ed emozioni. Ha infatti consentito di fondere la sua storia con le proprie esperienze, perché per quanto essa sia singolare, si troveranno in essa sensazioni, azioni e pensieri che sono vicini alle proprie storie di vita. In questo modo lo sconosciuto non è poi così tanto lontano e diverso da ciascuno di noi: non si è soli ad aver esperito determinate esperienze, c’è anche lui.

HONY insomma rappresenterebbe un ottimo esempio di come la narrazione della propria storia per immagini e parole sui social media abbia consentito di promuovere comportamenti funzionali al processo di riconoscimento e di comprensione delle emozioni altrui, all’alfabetizzazione emotiva appunto.

Oggi la pagina Facebook di HONY conta quasi 12 milioni di “likes”, mentre quella di Instagram più di 2.5 milioni di followers. Ogni fotoritratto raccoglie migliaia e migliaia di commenti di fans e followers. Il suo libro, basato sull’omonimo blog, è restato per più di 28 settimane di fila nella classifica dei bestellers del New York Times. E i numeri sembrano non fermarsi. Brandon è stato nominato dal Time come uno tra i 30 under 30 che saranno in grado di cambiare il mondo (Schweitzer, 2013). Le Nazioni Unite lo hanno recentemente sponsorizzato per documentare la vita di strada di cinque zone di guerra (Kweifio-Okai, 2014). Molti bloggers si sono ispirati al suo sito e la mappa mondiale ci presenta una rete di centinaia di spinoffs. Per esempio, in Italia, c’è Umani a Milano (http://umaniamilano.tumblr.com) che, in maniera non tanto dissimile, ritrae persone incontrate a Milano e stralci di interviste.

Infine, Brandon è stato in grado attraverso le storie altrui di coinvolgere, di far ridere e arrabbiare milioni di persone, ma anche di far commuovere. Alcuni episodi di vita hanno così toccato il cuore degli utenti che li hanno mossi spontaneamente a mettere in atto comportamenti altruistici, tra i quali, il dono.

Il più recente riguarda la storia di Vidal, un tredicenne che vive in una delle zone di New York con il più alto tasso di criminalità, Brownsville. Egli racconta che sta frequentando una scuola, Mott Hall Brigges Accademy, la cui direttrice Lopez gli è fonte di ispirazione.

Così dice di lei: “Quando combiniamo dei guai lei non ci sospende, ma ci convoca nel suo ufficio e ci spiega come la società viene costruita intorno a noi. Ci dice che ogni volta che un ragazzo non va a scuola, una nuova cella viene costruita nelle prigioni”.

Il post ha avuto più di un milione di visualizzazioni e migliaia di condivisioni.

Successivamente, Brandon decide di far visita alla scuola e di incontrare la signora Lopez. Viene a sapere che sta raccogliendo fondi per dare la possibilità ad allievi di visitare l’Università di Harvard. Si unisce alla causa con l’obiettivo di riuscire a raccogliere 100 mila dollari. Nel giro di 4 giorni hanno raccolto più di 700 mila dollari, permettendo agli studenti della scuola di beneficiare di programmi estivi dell’Università di Harvard per i prossimi dieci anni. Inoltre è stato possibile istituire un fondo, “The Scholarship Fund Vidal”, per assegnare una borsa di studio all’ anno per lo studente più meritevole. Il successo della campagna ha sorpreso il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama il quale ha invitato Brandon, la signora Lopez e Vidal alla Casa Bianca il 5 febbraio del 2015 (Schulman, 2015).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Terapia Metacognitiva (MCT) – Definizione Psicopedia

La Terapia Metacognitiva (MCT) mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti.

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

La metacognizione è l’aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi attentivi e di pensiero. Molte persone hanno dirette esperienze metacognitive, per esempio quando sono incapaci di ricordare il nome di una persona pur sapendo di conoscerlo.

Questo esempio chiarisce come le componenti metacognitive lavorino per informare una persona che un ricordo è immagazzinato da qualche parte nella memoria anche se le persone non sono in grado di ricordarlo.

Molti altri aspetti della metacognizione operano al di fuori della nostra coscienza. Una delle caratteristiche dei disturbi psicologici come ansia e depressione è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare o tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi.

Questa modalità di funzionamento viene definita Sindrome Cognitivo-Attentiva (Cognitive Attentional Syndrome o CAS). La CAS consiste solitamente in rimuginio, ruminazione, fissazione dell’attenzione su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali. La CAS è controllata da credenze e regole metacognitive. 

La Terapia Metacognitiva ha come obiettivo ridurre questo stile di pensiero, vale a dire rimuovere la CAS, e riportarla sotto il controllo cosciente.

La MCT mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti.

Protocolli di intervento basati sulla teoria metacognitiva sono stati sviluppati per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione (Wells, 2008).

 

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Terapia Metacognitiva: come non usare la mente per controllare la mente! Congresso SITCC 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Norman, N., van Emmerik, A.A. & Morina, N. (2014). The efficacy of metacognitive therapy for anxiety and depression: a meta-analytic review. Depression & Anxiety, 31(5), 402-411.
  • Wells, A. (1995). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders: A practice manual and conceptual guide. Chichester, UK: Wiley. Trad it. Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. Milano: Mc-Graw-Hill
  • Wells, A. (2000). Emotional Disorders and Metacognition: Innovative Cognitive Therapy. Chichester, UK: Wiley. Trad it. Disturbi Emozionali e Metacognizione. Nuove strategie di psicoterapia cognitiva. Trento: Edizioni Erikson, 2002. ACQUISTA ONLINE
  • Wells, A.(2008). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York: Guilford. Trad it. Terapia Metacognitiva dei Disturbi d’Ansia e della Depressione. Firenze: Eclipsi.
  • Wells, A., & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.

Fame chimica da uso di marijuana: questione di neuroni

FLASH NEWS

Quella che in gergo si chiamerebbe fame chimica, la quale si potrebbe più correttamente definire come un esagerato senso di appetito prodotto dall’uso di marijuana, sembra essere indotta dall’attivazione di un gruppo di neuroni del cervello che, in condizioni normali, è coinvolto nella soppressione della sensazione di fame.

Sorprendente scoperta, effettuata grazie ad un recente studio dei ricercatori della Yale School of Medicine e pubblicata il 18 Febbraio sul giornale Nature.

L’autore Tamas Horvath e i suoi colleghi hanno monitorato il circuito cerebrale che promuove la ricerca di cibo manipolando selettivamente le cellule che mediano l’azione della marijuana sul cervello, tramite l’utilizzo di topi transgenici.

Osservando come i neuroni dedicati alla regolazione dell’appetito reagiscono alla marijuana, siamo in grado di comprendere quale fattore specifico provochi l’incremento di appetito e in che modo un meccanismo che solitamente riduce la sensazione di fame, diventi invece un meccanismo che aumenta questa stessa sensazione

Questo è quanto afferma Horvath, Professore di Neurobiologia, Ostetricia, Ginecologia e Scienze della Riproduzione presso la Jean and David W. Wallace Foundation, direttore dello Yale Program in Cell Signaling and Neurobiology of Metabolism, nonché Presidente della sezione di Medicina Comparata.

Oltre a spiegare il motivo per cui si ha fame anche quando non si dovrebbe, questo studio potrebbe avere altri benefici, come ad esempio aiutare i malati di cancro che tendono a perdere l’appetito.

I ricercatori sanno da tempo che il consumo di marijuana spinge alla ricerca di cibo anche quando, di fatto, il soggetto dovrebbe essere sazio. Si sa anche che l’attivazione del recettore cannabinoide 1 (CBR1) può contribuire alla sovralimentazione. Un gruppo di cellule nervose chiamato pro-opiomelanocortiniche (POMC) sono responsabili della riduzione del senso di appetito quando si è sazi. L’utilizzo di marijuana interferisce nella comunicazione cellulare tra questi due sistemi del cervello (CBR1 e POMC), conducendo in questo modo al comportamento di immotivata ricerca di cibo altrimenti noto come fame chimica. Dice Horvath:

E’ come premere il freno della macchina e accelerare di conseguenza, è come se il sistema di regolazione dell’appetito impazzisse

Lo studioso afferma che è necessario effettuare altre ricerche in questo campo, al fine di approfondire ulteriormente tale tematica e poter descrivere con precisione il meccanismo in questione. Altro obiettivo delle future ricerche dovrebbe essere rivolto, sottolinea il ricercatore, a comprendere se questo stesso meccanismo coinvolto nella regolazione dell’appetito abbia o meno a che vedere con la sensazione di essere fuori tipica dei consumatori di marijuana. 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Koch, M., Varela, L.,  Geun Kim, J., Dae Kim, J., Hernández-Nuño, F., Simonds, S. E., Castorena, C. M., Vianna, C. R., Elmquist, J. K., Morozov, Y. M., Rakic, P., Bechmann, I., Cowley, M. A., Szigeti-Buck, K., Dietrich, M. O., Bing Gao, X., Diano, S., Horvath, T. L. (2015) Hypothalamic POMC neurons promote cannabinoid-induced feeding. Nature, doi:10.1038/nature14260.

Due tipi di estroversione: affiliative extraversion e agentic extraversion

L’introversione e l’estroversione sono delle caratteristiche psicologiche ampiamente studiate dai ricercatori, sia per il fascino che queste hanno sul pubblico di non esperti, sia per le innumerevoli sfaccettature che possono presentare. Proprio in ragione di questo ultimo punto non potremmo mai dirci completamente a conoscenza di questi tratti psicologici.

Nel caso dell’introversione e della timidezza grandi passi avanti sono stati fatti nella ricerca ad opera di illustri esperti in materia, primo tra tutti il Prof. Carducci dell’Indiana University Southeast (articolo 1, articolo 2), dell’estroversione potremmo dire lo stesso ma quali nuovi aspetti si possono ancora scoprire a riguardo?

Un nuovo studio, per esempio, ci parla ora di due tipi di estroversione: agentic extraversion e affiliative extraversion. Il primo tipo di estroversione è legato alla ricompensa: si diventa un leader in vista di un obiettivo, il secondo tipo di estroversione è più legato invece al bisogno di sentire la vicinanza degli altri. Curiosi di saperne di più? Leggete pure l’articolo consigliato!

 

In a new study in Cognitive, Affective, & Behavioral Neuroscience, Erica Grodin and Tara White of Brown University provide what they say is the first evidence of a neurological footprint that can help explain the two different types of extroversion. By giving a group of 83 healthy volunteers personality assessments and putting them through an MRI machine, the researchers were able to correlate each type of extroversion with greater volume in certain regions of the brain.

Due tipi di estroversione: affiliative extraversion e agentic extraversionConsigliato dalla Redazione

Due tipi di estroversione: affiliative extraversion e agentic extraversion - Immagine: 48747426
L’estroversione si può dividere, secondo una nuova ricerca, in due tipi: affiliative extraversion e agentic extraversion. (…)

Tratto da: Science of Us

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Birdman: l’imprevedibile virtù dell’ignoranza (2014) – Cinema & Psicologia

Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu.

La caduta nell’abisso di un’identità che non vuole morire – resa con altalenante efficacia da un Sé altro che si esprime col tono sepolcrale di una coscienza annichilita – è un percorso che dovrebbe uscire dallo schermo e travolgere il pubblico insieme al senso di fallimento, all’utopia del poter essere qualcosa che non si è mai stati per non dover odiare ciò che si è inseguito nell’interesse dei propri limiti.

Esistono tre categorie di film premiati con l’Oscar: le scelte sacrosante, le scelte inspiegabili se non con la logica del soldo al botteghino, e le scelte che si possono accogliere ma anche discutere. Birdman di A. G. Iñárritu appartiene alla terza classe. Il film attrae, non c’è dubbio; la trama invita ad andare al cinema già alla prima fugace lettura. Le aspettative crescono con l’approssimarsi dei titoli di testa e proprio l’introduzione sulle parole di Carver prepara lo spettatore per l’inizio del viaggio.

Michael Keaton interpreta un attore della sua stessa età, forse riflesso nella sua stessa carriera, incastrato senza rimedio nella parte dell’uomo uccello (Birdman) recitata vent’anni prima con esagerate ovazioni di pubblico, molto meno di critica. Il denaro, la celebrità, la vita molle e lussureggiante fra Hollywood e Malibù, nella dicotomia americana tra la California teatro del fatuo mestiere di star e Nel York Mecca del vero mestiere di attore. West Coast e East Coast, sole e pioggia, flash dei red carpet e fuliggine ombrosa delle scene di Broadway: queste e altre fantasie percorrono l’immaginario mentre l’uomo uccello si dibatte nella sua nuova avventura, riadatta a teatro un testo di Carver per dimostrare che anche lui, anche l’idolo che tutti in America riconoscono per le piume che indossa, è in grado di sbarcare nella Grande Mela che non fa sconti agli orfani del talento.

Birdman si dipana così, raccontando la genesi di uno spettacolo che nasce fra incidenti grotteschi, litigi furiosi di un cast di attori superlativi nella funzione esterna, cinematografica e altrettanto intensi in quella interna faticosamente negoziata fra solitudini, vagabondaggi esistenziali e occasioni perdute, davanti alla sentenza teatrale.

Una sola eccezione, parziale ma decisiva vista la centralità del ruolo: Michael Keaton non fugge dalla propria essenza di attore discreto ma non eccelso, donando solo un po’ di sé, solo un po’ di noi all’uomo uccello. Rimane a metà e non solo nel personaggio – lui sì legittimamente sospeso fra il desiderio di volare per sempre, libero dall’ira frustrante di un destino incompiuto e il tormento di scoprirsi reale, vecchio, inutile – bensì nella capacità di rendere penetrante, violento, torturante questo dilemma.

La disperazione che uno sfogo repentino di sua figlia rende sanguigna, crudele, con poche battute piene di uno sguardo smarrito che chi incrocia quegli occhi non può in alcun modo levigare, rimane per Birdman un’emozione poco trasformante.

La caduta nell’abisso di un’identità che non vuole morire – resa con altalenante efficacia da un Sé altro che si esprime col tono sepolcrale di una coscienza annichilita – è un percorso che dovrebbe uscire dallo schermo e travolgere il pubblico insieme al senso di fallimento, all’utopia del poter essere qualcosa che non si è mai stati per non dover odiare ciò che si è inseguito nell’interesse dei propri limiti.

Birdman manca di questa potenza, muove senza scuotere. Colpisce senza distruggere la certezza che si tratti pur sempre di un film. Un ottimo film che genera ammirazione per la precisione degli spunti, la pulizia con cui si sviluppa, senza però indurci un’angoscia reale per un tema al quale nessun essere umano può sfuggire.

Chi siamo di fronte alla consapevolezza delle nostre ambizioni fallite? Come reagiamo davanti a un raccomandato che riceve più elogi di noi? La coscienza sepolcrale del Birdman vorrebbe riportarlo al suo nido segretamente rabbioso, umiliato da invidie inconfessabili, mentre lo sguardo con cui si chiude l’opera sembra andare oltre, giungere all’abbraccio col Sé autentico. In quel cielo si affollano interrogativi rotondi, poi curvi, poi quasi incomprensibili, che il film in parte solleva e in parte nutre. Il sapore ai titoli di coda è un agrodolce che si può ugualmente gustare.

 

TRAILER DI BIRDMAN (2014):

Attività ludico – motorie e sviluppo delle competenze cognitive nell’età evolutiva

L’attività fisica migliora i processi cognitivi degli alunni di scuola primaria, in quanto implementa le funzioni esecutive, il cui ottimale funzionamento è alla base del successo nell’apprendimento.

 

Abstract

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Berna sembra confermare la validità dell’educazione motoria nell’età evolutiva. Secondo questa ricerca l’attività fisica migliora i processi cognitivi degli alunni di scuola primaria, in quanto implementa le funzioni esecutive, il cui ottimale funzionamento è alla base del successo nell’apprendimento.

Keywords: età evolutiva, funzioni esecutive, inibizione, attività motoria, psicologia dell’educazione.

 In uno studio (Jäger et al., 2014), effettuato dai ricercatori del Dipartimento di Psicologia e dell’Istituto di Scienze Sportive dell’Università di Berna (Svizzera), si è indagato l’effetto che una buona attività fisica produce sulle performance cognitive dei bambini di scuola primaria, nella fascia di età compresa fra sei ed otto anni.

Per compiere tale studio sono stati utilizzati 104 bambini, divisi in due gruppi, ovvero il gruppo sperimentale, costituito da 51 minori, e il gruppo di controllo, formato da 53 bimbi. Il gruppo sperimentale è stato sottoposto ad un’intensa attività motoria, della durata di venti minuti, che ha incluso anche compiti cognitivi relativi alle funzioni esecutive. Inoltre, nei bambini del gruppo sperimentale è stato prelevato un campione di saliva per misurare il livello di cortisolo, prima dell’attività motoria, subito dopo e a distanza di quaranta minuti.

Nello specifico, lo studio si è posto l’obiettivo di verificare se l’attività motoria modifica le funzioni esecutive dei bambini e se tali modificazioni sono in rapporto alle variazioni della concentrazione di cortisolo, prodotte dall’attività stessa.

Le funzioni esecutive possono essere definite come procedure cognitive che hanno lo scopo di pianificare ed organizzare i comportamenti e le emozioni di un individuo, allorquando si confronta con nuove realtà contestuali, particolarmente difficoltose, che richiedono la mobilizzazione di strategie adattative (Owen, 1997). Nel bambino le funzioni esecutive compaiono dal primo anno di vita e proseguono la loro strutturazione e implementazione nel corso dello sviluppo, fin oltre l’adolescenza. Queste abilità cognitive determinano le variazioni nell’adattamento sociale e nelle performance legate agli apprendimenti scolastici.

Le funzioni esecutive, secondo il modello elaborato da Miyake et al. (2000), sono costituite da tre capacità, utilizzate nelle strategie di problem solving. Esse sono:

  • l’inibizione o controllo inibitorio;
  • la memoria di lavoro;
  • la flessibilità di risposta cognitiva.

L’inibizione è rappresentata dall’abilità che consente di non far interferire, nel compito che si svolge, impulsi e informazioni non pertinenti, che potrebbero esercitare il ruolo di distrattori (Miyake et al., 2000).

La memoria di lavoro è quella competenza che permette di conservare il ricordo, per un breve lasso di tempo, di tutte quelle nuove informazioni utili allo svolgimento di un’attività (Miyake et al., op. cit.).

La flessibilità di risposta cognitiva è la capacità di variare i propri modi di pensare e di agire per adattarsi ai cambiamenti richiesti dall’ambiente o dalla natura del compito che si esegue (Miyake et. al., op. cit.).

 Già uno studio di Diamond (2012) ha dimostrato, a proposito dell’attività motoria, che nei bambini le funzioni esecutive possono essere implementate dalla pratica sportiva delle arti marziali. L’incremento di tali funzioni ha come conseguenza lo sviluppo delle capacità di attenzione selettiva e di ragionamento, responsabile di un miglioramento degli apprendimenti scolastici.

I risultati della ricerca di Jäger e collaboratori. (op. cit.) hanno appurato che un’intensa attività fisica, nell’ambito della quale sono contenuti dei giochi cognitivi, conduce ad un’implementazione del controllo inibitorio.

Probabilmente alla base di tale incremento ci potrebbe essere l’aumento del cortisolo, derivante proprio dall’attività fisica. Infatti il cortisolo, modulando la produzione di alcuni neurotrasmettitori, sembra intervenire su alcuni processi cognitivi, come la percezione, l’attenzione selettiva e la memoria (Erickson et al., 2003; Lupien et al., 2005).

Sempre secondo la ricerca citata (Jäger et al., op. cit.) l’attività fisica ha, invece, un effetto più modesto sulle altre funzioni esecutive, ovvero sulla memoria di lavoro e sulla flessibilità di risposta cognitiva.

 

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A scuola con i Re: Educare e rieducare attraverso il gioco degli scacchi

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Jäger, K., Schmidt, M., Conzelmann, A. & Roebers, C., M. (2014). Cognitive and physiological effects of an acute physical activity intervention in elementary school children. Frontiers in Psychology, 5, 1 – 11, doi: 10.3389/fpsyg.2014.01473.
  • Owen, A., M. (1997). The functional organization of working memory processes within human lateral frontal cortex: the contribution of functional neuroimaging. European Journal of Neuroscience, 9, 1329 – 1339.
  • Miyake, A., Friedman, N., P., Emerson, M., J., Witzki, A., H., Howerter, A. & Wagner, T., D. (2000). The unity and diversity of executive function and their contributions to complex “frontal lobe” tasks: a latent variable analysis. Cognitive Psychology, 41, 49 – 100, doi: 10.1006/cogp. 1999.0734. DOWNLOAD
  • Diamond, A. (2012). Activities and programs that improve children’s executive functions. Current Directions in Psychological Science, 21, 335 – 341, doi: 10.1177/0963721412453722.
  • Erickson, K., Drevets, W. & Schulkin, J. (2003). Glucocorticoid regulation of diverse cognitive functions in normal and pathological emotional states. Neuroscience Biobehavioral Review, 27, 233 – 246, doi: 10.1016/S0149 – 7634(03)00033-2. DOWNLOAD
  • Lupien, S., J., Fiocco, A., Wan, N., Maheu, F., Lord, C., Schramek, T. & al. (2005). Stress hormones and human memory function across the lifespan. Psychoneuroendocrinology, 30, 225 – 242, doi: 10.1016/j.psyneuen.2004.08.003.

Ortoressia: quando mangiare sano fa ammalare

Ortoressia deriva dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito) e indica l’ossessione psicologica per il mangiare sano. Chi soffre di ortoressia è infatti controllato da un vero e proprio fanatismo alimentare, un complesso di superiorità basato sul cibo che lo porta a disprezzare chi non mangia sano.

 

Incidenza dell’ ortoressia in Italia

Secondo i dati diffusi dal Ministero Italiano della Salute per i disturbi alimentari, le persone affette da ortoressia sarebbero 300 mila in Italia (a fronte di tre milioni di pazienti con disturbi alimentari), con una prevalenza maggiore tra gli uomini piuttosto che tra le donne (11.3% vs 3.9%) (Donini e coll. 2004).

 La maggior diffusione nel sesso maschile può spiegarsi con il proliferare di stereotipi culturali legati alla forma fisica maschile, e trova un interessante parallelismo nella corrispondente diffusione della vigoressia, o preoccupazione cronica di non avere un corpo sufficientemente muscoloso, prevalente tra i maschi.

Le caratteristiche dell’ ortoressia

Secondo Steven Bratman, il primo, nel 1997, a coniare il termine, tra i comportamenti tipici presenti nel disturbo, vi sono: lo spendere più di tre ore al giorno a pensare al cibo, selezionandolo più per i benefici sulla salute che per il gusto, il sentirsi in colpa qualora non si segua la dieta abituale, il sentirsi padroni di se stessi solo se si mangia nel modo ritenuto corretto. Tutti fattori che permettono di collocare l’ Ortoressia nella categoria delle nuove dipendenze a carattere ossessivo-compulsivo e distinguerla da altre patologie, in cui la fissazione è relativa alla qualità, più che alla quantità del cibo ingerito, come nell’Anoressia o della Bulimia.

L’ Ortoressia presenta i seguenti caratteri distintivi:

  • Ruminazione ossessiva sul cibo. La persona può trascorrere più di 3-4 ore al giorno a pensare a quali cibi scegliere, a come prepararli e consumarli, pretendendo solo ciò che fa stare bene, che può non corrispondere a ciò che piace realmente. Vengono solitamente messi in atto comportamenti ossessivi riguardanti la selezione, la ricerca, la preparazione ed il consumo degli alimenti, suddivisibili in varie fasi:
    • Pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, al fine di evitare i cibi ritenuti dannosi (contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati, oppure ricchi di zucchero o sale);
    • Impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività, fino a coltivare in prima persona verdure e ortaggi
    • Preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (cottura particolare, utilizzo di un certo tipo di stoviglie)
  • Insoddisfazione affettiva e isolamento sociale causati dalla persistente preoccupazione legata al mantenimento di tali rigide regole alimentari autoimposte (Brytek-Matera, 2012).

Una deviazione anche solo minima da esse provoca una serie di conseguenze emotive a cascata, quali colpa, rabbia e umore depresso, fino a somatizzazioni di disturbi fisici (indigestioni, nausea, vomito). A loro volta, i sensi colpa portano all’ulteriore irrigidimento delle regole alimentari, in un circolo vizioso, segnato da ansia sempre più crescente. Viceversa, dopo aver rispettato le regole alimentari, si provano generalmente sentimenti di soddisfazione e accresciuta autostima, collegati a un senso di controllo sulla propria vita.

 

Conseguenze dell’ ortoressia su vita sociale e benessere

L’isolamento sociale è spesso l’esito di una scelta di vita che non può essere condivisa da chi non ha le stesse abitudini, il che giustifica l’evitamento dei momenti di socialità, spesso basati sulla condivisione di cibo, come un semplice aperitivo o una pausa caffè (durante i quali limitarsi eventualmente a consumare quasi esclusivamente acqua).

Con il passare del tempo, diventa impossibile andare al ristorante o accettare un invito a cena; l’attenzione alla qualità del cibo prevale sui valori morali e sulle relazioni sociali, lavorative e affettive, minando il funzionamento globale e il benessere dell’individuo (Brytek-Matera, 2012).

Il paradosso dell’ Ortoressia risiede nel fatto che gli stessi comportamenti alimentari che si adottano per controllare la propria vita nella direzione del benessere arrivano a controllare il soggetto stesso, con l’illusione che tutta la salute dipenda dal cibo, mentre viene precluso quel benessere che apportano sane relazioni sociali fondate sulla condivisione delle differenze.

Chi soffre di ortoressia è infatti controllato da un vero e proprio fanatismo alimentare, un complesso di superiorità basato sul cibo che lo porta a disprezzare chi non mangia sano, fino a trovarlo poco intelligente, e poco degno di essere frequentato.

Si tratta di un fanatismo pericoloso che fonda le sue radici su una conoscenza superficiale e semplicistica delle stesse corrette regole alimentari seguite con tanta scrupolosità.

Il giudizio su cosa sia giusto mangiare o meno, infatti, si basa più che altro su un sentito dire, al punto che manca del tutto la capacità di distanziamento emotivo dai problemi, fino a vivere con problematica e solidaristica partecipazione disastri incombenti a livello planetario (consumare carni contaminate dal morbo di mucca pazza, o vegetali esposti a radiazioni).

Come sostengono Bratman e Knight (2000),

una persona che riempie le giornate mangiando tofu e biscotti a base di quinoa può sentirsi altrettanto pia di chi ha dedicato tutta la vita ad aiutare i senza tetto.

A complicare il quadro si aggiunge spesso l’evitamento attivo di un confronto con i veri esperti, al punto da denigrare teorie di eminenti medici e studiosi del campo, alla luce delle proprie personali teorie.

Oltre che sul benessere emotivo e sociale, le conseguenze dell’ Ortoressia si fanno evidenti sul benessere del corpo: squilibri elettrolitici, avitaminosi, osteoporosi, atrofie muscolari, tutti problemi che possono richiedere talvolta interventi di ospedalizzazione o configurarsi come condizioni irreversibili.

 L’ossessione nei confronti del cibo non di rado si associa anche ad altre forme maniacali come l’ossessione per l’esercizio fisico, per la pulizia, per massaggi e cure estetiche e spesso anche alla fobia dei farmaci. Non è di raro infatti che dietro l’ Ortoressia si nasconda la fobia delle malattie, delle contaminazioni e dell’invecchiamento, da cui scatta la mania di voler rendere il corpo resistente agli attacchi infettivi o al trascorrere del tempo, proprio attraverso un’alimentazione impeccabile.

 

Cura dell’ ortoressia

Curare l’ ortoressia non è un’impresa semplice: alla luce della ferma convinzione di agire in modo corretto, le persone che soffrono di ortoressia sono estremamente sicure delle loro convinzioni, che diventano veri e propri ideali di purezza interiore. Poiché si sentono superiori a chi non ha un simile autocontrollo, di norma rifiutano di riconoscere il loro problema e di conseguenza impegnarsi attivamente nel trattamento.

Un trattamento efficace deve essere graduale e procedere, da un lato, attraverso un lavoro sulle emozioni (in particolare, sulle paure di contaminazione e di malattia che mantengono l’ossessione) e, dall’altro, una reintroduzione dei componenti alimentari eliminati, puntando anche su eventuali malesseri fisici che possono essere causati dalla dieta squilibrata.

E’ necessario che chi soffre di ortoressia si riappropri di una corretta percezione del proprio corpo, affinché questo non venga privato di nessun principio nutrizionale, soprattutto quelli contenuti in dolci e grassi (può essere utile sottolineare l’importanza della tradizionale piramide degli alimenti per l’equilibrio alimentare).

Riguardo la tipologia di trattamento, esistono evidenze scientifiche di esiti positivi con l’utilizzo di trattamenti combinati di psicoterapia cognitivo-comportamentale e farmaci inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) (Bryteck-Matera, 2012).

In generale, il trattamento dell’ ortoressia dovrebbe avvalersi di un’équipe multidisciplinare composta da psicoterapeuti, medici e dietisti, attraverso un’azione integrata tra il paziente e la famiglia.

 

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Gruppi e identità: il senso di appartenenza migliora l’autostima e il senso di efficacia individuale

FLASH NEWS

Ogni individuo costruisce la propria identità su una serie di fattori diversi ma quando l’identità personale è costruita soprattutto nei termini dell’appartenenza ad un gruppo si è più preparati a far fronte alle difficoltà, si resiste e reagisce meglio agli svantaggi e agli ostacoli che la vita può far incontrare.

Se la psicologia sociale ha già mostrato la forza con cui l’identificazione con il gruppo riduce l’influenza di una svalutazione sociale, Mouna Bakouri nell’articolo pubblicato sul British Journal of Social Psychology conferma che la connessione con il gruppo ha un effetto “tampone” che attutisce l’impatto stressante degli eventi rafforzando le capacità di coping degli individui e, aggiunge, che il legame di appartenenza non è esclusivamente quello basato sull’identità collettiva (ad esempio etnica) ma può trovare le sue radici anche nell’identità relazionale basata sui rapporti con famiglia e amici.

Tramite l’uso di questionari somministrati a 365 Svizzeri di età compresa tra i 15 e i 30 anni, l’autrice ha raccolto dati circa le preoccupazioni finanziarie degli stessi, le barriere sociali percepite, la professione e i progetti ma anche i livelli di autostima, l’efficacia percepita e il criterio di definizione dell’identità che è stato successivamente codificato per distinguere tra soggetti con un sé basato sui legami e soggetti con un sé definito più su base individuale.

I risultati hanno mostrato che percepire difficoltà e ostacoli strutturali ha un impatto negativo sull’autostima,indipendentemente dallo status professionale, dalla nazionalità o dal livello di problemi economici.

Tuttavia ci sono state delle differenze nelle reazioni: la prima ipotesi era che i partecipanti provenienti da gruppi sociali svantaggiati percepissero maggiori ostacoli e questo si è rivelato particolarmente vero per le persone con problemi finanziari, disoccupati e stranieri. Seconda ipotesi era che la definizione di sé incidesse sul modo di affrontare queste stesse difficoltà ed effettivamente a fronte dei medesimi ostacoli l’autostima di coloro che si erano definiti sulla base di legami significativi ne usciva meno danneggiata, e un’autostima più protetta è connessa a credenze di efficacia personale più positive.

IDENTITA’ SOCIALE

Dunque, indipendentemente dalla natura del legame, chi si era definito sulla base di un’appartenenza sociale era più resiliente anche di fronte a limiti strutturali esterni.

Ogni individuo costruisce la propria identità su una serie di fattori diversi ma quando l’identità personale è costruita soprattutto nei termini dell’appartenenza ad un gruppo si è più preparati a far fronte alle difficoltà, si resiste e reagisce meglio agli svantaggi e agli ostacoli che la vita può far incontrare.

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Praticare Mindfulness può migliorare la qualità del sonno

FLASH NEWS

Questo studio dimostra che praticare Mindfulness potrebbe assumere un ruolo importante per prevenire e risolvere i problemi del sonno e per evitare che si presentino conseguenze nella vita di tutti i giorni.

ARTICOLI SU: SONNO

Secondo uno studio pubblicato dal JAMA Internal Medicine, le pratiche di Mindfulness migliorano la qualità del sonno in adulti più anziani. Nello specifico lo studio ha coinvolto in un trial clinico un gruppo di adulti anziani con moderati disturbi del sonno comparando l’efficacia della meditazione con un programma più strutturato, focalizzato sul cambiamento delle abitudini e della routine di persone che riferiscono una qualità del sonno precaria.

Il 50% degli individui che hanno all’incirca 55 anni di età presenta disturbi del sonno, un problema medico generale e della salute pubblica che riguarda gran parte della popolazione nazionale. La letteratura in merito ci segnala una stretta associazione tra i disturbi moderati del sonno in adulti più anziani e alti livelli di stanchezza, disturbi dell’umore, sintomi di depressione e ridotta qualità della vita.

DISTURBI DEL SONNO

Attraverso uno studio clinico randomizzato (RCT), David Black e i suoi collaboratori hanno reclutato 49 individui (con età media di 66 anni) a Los Angeles . Lo studio includeva 24 individui che prendevano parte ad un percorso di pratiche di consapevolezza standardizzate mindful (MAPs) e 25 individui che partecipavano un intervento di educazione all’ igiene del sonno (SHE). Le differenze tra i due gruppi erano misurate usando il Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI), e un questionario self-report sui disturbi del sonno. 

I partecipanti al gruppo MAP hanno mostrato dopo l’intervento un miglioramento rispetto al gruppo SHE per quanto riguarda le misure secondarie di insonnia quali sintomi di depressione, stanchezza fisica e fatica. Al contrario non sono emerse differenze tra i due gruppi per quanto riguarda i livelli di ansia, stress, o segnali antinfiammatori, indici che sono diminuiti nel tempo in entrambi i gruppi.

Questo studio dimostra che praticare Mindfulness potrebbe assumere un ruolo importante per prevenire e risolvere i problemi del sonno e per evitare che si presentino conseguenze nella vita di tutti i giorni.

MINDFULNESS

Adam Spira, dottore di ricerca della Bloomberg School of Public Health in Baltimore, soddisfatto dei risultati ottenuti dalla ricerca di Black e colleghi, sostiene la necessità di incentivare l’utilizzo di trattamenti di comunità come la meditazione, sia per migliorare la condizione di coloro che soffrono di insonnia, sia per prevenire l’eventuale comparsa dell’associazione tra il raggiungimento dell’età adulta e la comparsa di insonnia.

 

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La psicologia dei Vigili del Fuoco: affrontare le catastrofi senza esserne traumatizzati

L’esposizione ripetuta a eventi catastrofici potrebbe avere ripercussioni psicologiche anche molto gravi in chi è costretto, per lavoro, ad affrontare determinate situazioni, primi tra tutti i Vigili del Fuoco. Tuttavia, in alcuni studi, è stato visto come alcuni Vigili del Fuoco, nonostante l’esposizione continua a terribili esperienze, non riportino alcun sintomo di Disturbo da Stress Post-Traumatico.

Come si spiega questo?  Secondo un team di psicologi, per capire questo fenomeno, dovremmo rimettere in discussione una vecchia ipotesi sulla regolazione delle emozioni, secondo la quale ridare significato alle esperienze negative sia una strategia di coping adattiva, mentre distrarsi dalla situazione sia una strategia disfunzionale.

COPING REAPPRAISAL

I ricercatori ipotizzano che la migliore arma per non incorrere nei sintomi del Disturbo da Stress Post Traumatico sia ponderare bene in quale situazione negativa distrarsi e su quale invece concentrarsi per trovare un nuovo significato. Tale ipotesi è stata così testata su un campione costituito da settanta Vigili del Fuoco. 

 

 

The scientists call this regulatory choice flexibility, and they tested its role as a moderator in a study of actual firefighters. Their premise is that it’s adaptive to engage and make sense of low-intensity situations but preferable to distract oneself from the worst traumatic incidents. They predicted that firefighters who know and do this are less likely to develop PTSD over time, while those who lack this strategy are more susceptible to the disorder. Here’s how they tested the idea.

La psicologia dei Vigili del Fuoco: affrontare le catastrofi senza esserne traumatizzatiConsigliato dalla Redazione

Contrariamente a quanto si possa pensare gli studi non hanno ancora confermato una correlazione tra il tempo di esposizione a un’esperienza traumatica e lo sviluppo del PTSD. (…)

 

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Quando il sesso non è più un piacere: il dolore pelvico femminile

 

Tra le disfunzioni sessuali (disturbi del desiderio, dell’eccitazione e dell’orgasmo) i disturbi da dolore cioè dispareunia, vaginismo e vulvodinia sono problematiche molto frequenti e hanno importanti ripercussioni sulla qualità della vita delle donne.

DISFUNZIONE SESSUALE FEMMINILE

Tra le varie dimensioni dell’esistenza umana, la sessualità costituisce un’area estremamente carica di emozioni, affetti, sentimenti e comprende aspetti biologici, culturali, relazionali e psicologici.

 Per quanto riguarda la sessualità femminile, fino alla fine degli anni Novanta, la ricerca si è occupata solo in minima parte delle disfunzioni sessuali. Come sottolinea Bartlik (1999) gli ostacoli che si sono frapposti alla ricerca in questo ambito affondano le radici nei pregiudizi e nei timori nei confronti della sessualità, in particolare femminile, di cui era permeata la nostra cultura.

Tra le disfunzioni sessuali (disturbi del desiderio, dell’eccitazione e dell’orgasmo) i disturbi da dolore cioè dispareunia, vaginismo e vulvodinia sono problematiche molto frequenti e hanno importanti ripercussioni sulla qualità della vita delle donne.

Il dolore è più di un semplice sintomo fisico. Il dolore, infatti, è influenzato dalle emozioni, dalle condizioni ambientali e sociali e da fattori psicologici.

Il dolore ha un ruolo importante nel percorso evolutivo femminile. La maturità psicobiologica della donna avviene, infatti, attraverso una serie di esperienze dolorose come il menarca e il parto. Le donne, inoltre, comunicano molto attraverso il corpo e tendono spesso a fare precipitare a livello somatico i propri conflitti emotivi (Puliatti, 2010). Ne deriva, dunque, che le donne frequentemente sono portate ad usare il dolore come segnale e mezzo per sentirsi riconosciute (Coglitore, 1997).

Sindromi dolorose di varia natura come cefalea, dolori lombari etc. sono, infatti, più frequenti nelle donne che negli uomini. Le donne, avendo dunque un legame più stretto con la propria fisicità, parlano prevalentemente un linguaggio corporeo e tendono più facilmente a far precipitare i conflitti emotivi a livello somatico. Il sintomo doloroso diventa dunque un grido del corpo (Puliatti, 2004). I genitali e le pelvi diventano luogo elettivo d’espressione degli affetti in quanto simboli di femminilità, vitalità ed erotismo.

Il dolore cronico è un’esperienza complessa influenzata da una molteplicità di stimoli anche non dolorifici. Tale esperienza cambia il modo in cui una persona processa le informazioni, non solo quelle legate al dolore. Il dolore porta ad una focalizzazione eccessiva di qualsiasi segnale corporeo, producendo una attribuzione dolorosa ad una maggior quantità di stimoli.

L’incremento di stimoli nocivi, che dalla periferia raggiungono il sistema nervoso centrale, può con il tempo provocare modificazioni neuroplastiche e causare cambiamenti nella memoria e nell’apprendimento. Il comportamento da dolore è influenzato da convinzioni, aspettative personali sulle conseguenze di un evento e sulla capacità di far fronte ad esso ed è inoltre mantenuto e modellato da rinforzi come l’attenzione e la comprensione degli altri.

Il ruolo della famiglia è un fattore molto importante nell’influenzare l’esperienza del dolore. La risposta che i genitori danno alla malattia del bambino sembra associarsi ad un futuro comportamento somatizzante.

Se la figura di riferimento, infatti, fornisce attenzione selettiva di fronte alle lamentele fisiche ignorando i bisogni emozionali, il bambino può sviluppare un modello dell’altro come accudente solo nei casi di sofferenza fisica. Questo tipo di risposta può rinforzare il comportamento da malato durante l’infanzia e trasformarsi, in età adulta, in una sintomatologia dolorosa (Puliatti, 2010).

DISTURBI SESSUALI FEMMINILI

Il dolore può diventare una forma di somatizzazione quando la persona tende a comunicare il proprio mondo emotivo a livello somatico. Quando l’espressione somatica diventa l’unica modalità di espressione di un conflitto, oppure quando non si trova una risoluzione fisiologica in un tempo adeguato allora la somatizzazione diventa patologica (Puliatti, 2010).

 Per quanto riguarda il ciclo di risposta sessuale femminile il dolore è la più potente causa di blocco riflesso dell’eccitazione. La donna può sentirsi eccitata ma, se all’inizio della penetrazione prova dolore, il ciclo della risposta sessuale può bloccarsi. L’eccitazione svanisce, la lubrificazione diminuisce e si genera tensione muscolare. L’atto sessuale è pertanto percepito come doloroso.

Il dolore sessuale e l’ansia anticipatoria innescano un circolo vizioso che, con il tempo, frena il desiderio e blocca il ciclo della risposta sessuale. Le pazienti, che affermano di provare dolore da molto tempo sostengono, infatti, di provare anche scarso desiderio e difficoltà di eccitazione (Graziottin, 2005). Il dolore provato dalla donna può avere inoltre effetti paralizzanti anche sul partner che spesso presenta disturbi di eiaculazione precoce, problemi di erezione e calo del desiderio.

Curare il dolore sessuale richiede competenza clinica ma anche umanità, empatia, dolcezza e ascolto attento in quanto gli organi genitali sono spesso il luogo in cui conflitti sessuali, relazionali o eventi traumatici trovano un modo per esprimersi.

La complessità del quadro sintomatologico dei disturbi da dolore sessuale prevede dunque una chiave di lettura che distingua le componenti strettamente psicologiche da quelle organiche. In tal senso diventa fondamentale un approccio integrato e multidisciplinare all’interno del quali i vari professionisti operino congiuntamente per la globale presa in carico della paziente. La prospettiva futura del trattamento prevede dunque un approccio interdisciplinare con integrazione di diversi approcci teorici e strumenti clinici differenti per individuare piani di intervento che si adattino alle esigenze reali della paziente (Simonelli, 2006).

 

LEGGI ANCHE:

Sesso – Sessualità

BIBLIOGRAFIA:

  • Bartilik, B. (1999). Recent developments in the evaluation and treatment of sexual disorders in women. Psychiatric Annals, 29, 19- 21.
  • Coglitore, M. T. (1997). Il dolore nell’esperienza femminile, in Di Benedetto P., Graziottin A., Piacere e dolore, Atti del 6° Meeting della Sezione di riabilitazione perineale della Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitazione, Edizioni Goliardiche, Trieste.
  • Graziottin, A. (2005), Il dolore segreto. Le cause e le terapie del dolore sessuale femminile durante i rapporti sessuali, Arnoldo Mondadori Editore S.P.A., Milano.
  • Puliatti M. (2004), L’approccio psicologico in patologia vulvare, CIC, Roma.
  • Puliatti M. (2010), Psicosomatica del dolore pelvico cronico femminile, Società Editrice Universo, Roma.
  • Simonelli C. (a cura di) (2006), L’approccio integrato in sessuologia clinica, Franco Angeli, Milano. ACQUISTA

La depressione e i pensieri negativi e pessimisti circa se stessi e il proprio futuro

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (06)

 

 

La Depressione è un Disturbo dell’Umore. Generalmente chi ne soffre prova frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza e tende a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa se stessi e il proprio futuro.

Spesso la depressione nasce dalla difficoltà di accettare una perdita o il non raggiungimento di un proprio scopo (che viene vissuto come un fallimento insuperabile). Si tratta per esempio di tutte le forme depressive che nascono da lutti personali piuttosto che dalla perdita del lavoro o dalla rottura di un’importante relazione affettiva.

 

SINTOMI DELLA DEPRESSIONE

La sintomatologia tipicamente è più intensa al mattino e migliora nel corso della giornata, ma vi sono delle eccezioni. La depressione può manifestarsi con diversi livelli di gravità. Si può soffrire di depressione in modo acuto (con fasi depressive molto intense ed improvvise) oppure soffrirne in modo cronico e continuo, anche se in forma leggera, con alcuni improvvisi momenti di peggioramento.

Le componenti psicologiche principali che caratterizzano e mantengono la depressione sono:

  • Ruminazione mentale (autoanalisi): la tendenza ad analizzare continuamente il proprio malessere (mancanza di energia, umore triste) e i propri problemi (perdite o fallimenti) cercando di capire cause e conseguenze (perchè mi è capitato? Perchè sto così male? Cosa ho fatto per meritarlo? Dove ho sbagliato?) con il risultato di prolungare lo stato depressivo.
  • Ritiro: indica la riduzione del contatto sociale, delle attività quotidiane o l’evitamento di compiti ed è motivato dall’idea di non essere capace o di non provare alcun piacere, che ha come risultato passività e ulteriore demotivazione.
  • Autovalutazione negativa (autocritica eccessiva): la tendenza a valutarsi negativamente come incapace, sfortunato, indegno di amore, difettoso, a fronte di errori e mancanze che appartengono alla vita di tutti i giorni.
  • Negativismo: mantenere l’attenzione costantemente puntata su ciò che manca per essere felici o soddisfatti di se stessi e della propria vita.

 

DEPRESSIONE E DISTURBI DELL’UMORE

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA
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Che cos’è la terapia cognitivo-comportamentale?
La psicoterapia cognitivo-comportamentale spiega il disagio emotivo attraverso una complessa relazione di pensieri, emozioni e comportamenti.
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Come funziona la Psicoterapia Cognitiva?
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è un percorso che vuole ridurre la sofferenza emotiva, aiutare a vivere meglio e a raggiungere i propri scopi.
Non curabilità: significato dell'espressione nell'ambito della salute mentale
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Fotolia_51943780 Disturbo Narcisista di Personalità
Il Disturbo Narcisistico di Personalità
Disturbo Narcisistico di Personalità caratterizzato da atteggiamento di autoesaltazione e autoaffermazione, distacco emotivo, risposte rabbiose di rivalsa
Disturbo di Personalità Borderline: disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità
Il disturbo Borderline di Personalità: disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità
E' un disturbo caratterizzato da disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità relazionale, dell'umore e dell'immagine di sè.
Alcol, gioco d'azzardo e dipendenza - Immagine: 67632798
Alcol, gioco d’azzardo e dipendenza
Le dipendenze includono disturbi associati a difficoltà nel controllo dei desideri e del comportamento che provoca forte disagio soggettivo - Psicoterapia
La depressione e i pensieri negativi e pessimisti su di sè e il mondo
La depressione e i pensieri negativi e pessimisti circa se stessi e il proprio futuro
La Depressione è un Disturbo dell’Umore caratterizzato da tristezza, mancanza di piacere nelle comuni attività quotidiane e pensieri negativi e pessimisti.
Ipocondria - vignetta
L’ipocondria, l’ansia per la propria salute
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Attacco di panico: che cos’è e come funziona?
L’Attacco di Panico è un periodo di paura o disagio intensi in assenza di vero pericolo e accompagnati da sintomi cognitivi o somatici - Psicoterapia
Disturbo ossessivo-compulsivo
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo – Introduzione alla Psicoterapia
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fobia sociale - Immagine: 68979136
La Fobia sociale – Introduzione alla Psicoterapia
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Ansia generalizzata Rimuginio - Immagine: 48824129
Ansia generalizzata & Rimuginio – Introduzione alla Psicoterapia
Il rimuginio, forma di pensiero ripetitivo negativo, è un elemento centrale del disturbo da ansia generalizzato su cui è utile lavorare in terapia

 

Per una biografia della fame – Psicologia & Teatro

Maria Francesca Sarnelli

 

Per una Biografia della Fame

Spettacolo teatrale presso Teatro della Cooperativa a Milano(2-8 marzo 2015) con protagonista Annagaia Marchioro e regia di Alessia Gennari

 

Lo spettacolo che va in scena al teatro della cooperativa è breve, ma intenso, grazie alla bravura della protagonista.

Il testo, in cui si alternano note drammatiche con toni ironici, liberamente ispirato al’omonimo romanzo di Amelie Nothomb, è un monologo in cui la protagonista racconta della propria infanzia e adolescenza attraverso la chiave di lettura del cibo e della fame: croce e delizia della vita della ragazza.

RUBRICA: PSICOLOGIA A TEATRO

L’infanzia è narrata come il periodo della spensieratezza, in cui la protagonista, sostenuta dall’amore e dalle cure della nonna, è felice, senza pensieri ed è libera di poter mangiare le leccornìe che in casa sua le sono vietate dalla madre.

Non manca nella rappresentazione il quadro della famiglia che spesso si ritrova nelle persone con disordini del comportamento alimentare: la madre della protagonista è fredda, ipercritica, vieta che si consumino dolci in casa e per fare questo li nasconde nei posti più impensabili. Alla richiesta della protagonista-bambina di essere amata, la madre le risponde che l’amore va meritato ed è proprio in quel momento, dopo quella risposta inattesa, che la bambina sembra perdere la spensieratezza della propria età per iniziare il lungo cammino del doversi meritare l’amore e la stima altrui.

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Con la morte della nonna, l’unica figura che la accudiva con amore, l’unico ambito di serenità e sicurezza rimane il cibo. Ben presto però, questa passione si tramuta in odio perché il cibo diventa ben presto motivo di esposizioni a critiche continue della madre e del prossimo per le proprie rotondità, per cui la protagonista appena adolescente decide, a malincuore ma con fermezza, di mettere in atto il piano che da tempo stava progettando: rinunciare al cibo, l’unico piacere rimasto, per poter conservare una buona immagine di sé e per essere accettata dagli altri.

 

La lotta estrema con il cibo, ormai nemico, è durata due mesi, ma la protagonista alla fine ha vinto ed è riuscita a fare a meno del cibo; si dice orgogliosa ed euforica di questo successo perché è riuscita si a dominare le proprie emozioni e ciò che la circonda (il tema del controllo è il tema cardine per l’anoressia nervosa).

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Ben presto però la spirale dell’anoressia la avvolge, la assale, portandola a pesare a soli 15 anni 32 kg e l’euforia iniziale scompare, lasciando spazio al vuoto emotivo ed affettivo, alla costante fatica di trascinare un corpo privo di energia e al totale dominio delle trappole della mente sulle necessità fisiologiche del corpo.

La fortuna per la protagonista è che il proprio corpo una notte si ribella: la protagonista cede alla fame, il corpo, che vuole disperatamente mangiare, prende un temporaneo sopravvento e la porta ad abbuffarsi, mentre la propria mente assiste inerme a questa disfatta.

Questo atto di ribellione del proprio corpo sarà un grido di allarme che verrà colto dai genitori e che costituirà il primo passo verso un lungo percorso di guarigione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Biografia della Fame di Amelie Nothomb, 146 pag., Edizioni Voland (Amazzoni)
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