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Cancellare i pensieri non voluti può essere controproducente

 

La ricerca dice che nella maggior parte dei casi l’annullamento dei pensieri non funziona, ma comporta un aumento dell’intensità o della ripetitività del pensiero.

Capita con una certa frequenza che i pensieri negativi ed invasivi che vogliamo bloccare ritornano tassativamente alla mente come i peperoni. E se vogliamo portare il paragone fino alla fine, tornano indietro forse proprio perché non digeriti, non masticati, ma inghiottiti per interi come una medicina amara che pensiamo ci curi.

Come mai la nostra mente, di cui spesso ci fidiamo più di qualsiasi altra istanza psichica, è così ribelle da non darci retta quando le chiediamo di sbarazzarci da questi ospiti non desiderati nella nostra testa? Come mai invece di mandarli via li invita più spesso? 

Pensiamo e ripensiamo ad uno sbaglio che abbiamo fatto, ad un problema economico, a qualcosa di cui abbiamo paura. E ci viene spontaneo dirci che quella cosa ce la dobbiamo togliere dalla mente. A voi è mai funzionato?  La ricerca dice che nella maggior parte dei casi l’annullamento dei pensieri non funziona, ma comporta un aumento dell’intensità o della ripetitività del pensiero.

Ci sono varie teorie che spiegano gli effetti paradossali della soppressione dei pensieri:

– l’associazione ai distrattori: durante la soppressione dei pensieri non voluti le persone si distraggono in maniera non focalizzata con stimoli che trovano nei dintorni (il muro, gli oggetti, ecc). Durante questo processo, si creerebbero delle associazioni tra i pensieri “proibiti” e i vari distrattori, per cui successivamente gli stessi stimoli diventano una sorta di promemoria per i pensieri da cui volevamo fuggire;

– il ritorno dei pensieri soppressi potrebbe essere dovuto alla motivazione a portare a termine un compito incompiuto, come spiegato dall’effetto Zeigarnic (nell’esperimento di Zeigarnic, confermato da studi successivi, i pensieri associati ad un compito non terminato rimangono attivi nel sistema cognitivo della persona, tanto che i più predisposti a ricordare un compito dell’esperimento se non lo avevano completato  per via di una interruzione).

– la teoria dei processi ironici di Wegner: sostiene che la soppressione dei pensieri suppone due meccanismi: un processo intenzionale che cerca i pensieri diversi da quelli non desiderati e un processo ironico di monitoraggio inconscio e cerca contenuti mentali che sono opposti all’obiettivo conscio di rimuovere quei pensieri. Più che ironia la possiamo chiamare sarcasmo, anche se alla base di questa vigilanza c’è un compito costruttivo: in primo luogo mi distraggo pensando intenzionalmente a qualcos’altro; in secondo luogo, e qui arriva l’ironia, la mia mente inizia un processo di monitoraggio inconscio per verificare se si sta ancora pensando alla cosa che non dovrei pensare, per verificare se il processo cosciente funziona o no. In altre parole, la parte inconscia allerta la parte conscia del bisogno di rinnovare la distrazione quando la consapevolezza dei pensieri non voluti diventa imminente.

– le metacognizioni: le aspettative, le credenze o i giudizi sulla propria mente possono influenzare l’efficacia della soppressione dei pensieri, come per esempio la credenza che alcuni pensieri sono controllabili e altri no, oppure che alcuni sono difficili da controllare. Queste credenze sono frutto delle esperienze lungo lo sviluppo: così può essere che l’esperienza di successo o di fallimento in alcuni casi possa aver creato una propensione a ripetere quelle esperienze, per poi diventare cognizioni intrusive, come nel caso della depressione, delle ossessioni o delle fobie.

Gli studiosi hanno individuato comunque alcuni fattori che possono influenzare il successo o il fallimento del processo di soppressione dei pensieri: le informazioni con una valenza emozionale sono più difficili da cancellare; è più facile sopprimere un pensiero in condizioni naturali rispetto a condizioni sperimentali in laboratorio; le differenze individuali e la presenza o meno di patologie.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I nostri pensieri sono influenzati dalle circostanze esterne, anche quando non lo vogliamo

BIBLIOGRAFIA:

  • Wenzlaff, R. M., Wegner, D. M. (2000). Thought Suppression. Annual Revue of Psychology, 51, 59–91.

Falsi Ricordi: potremmo confessare crimini mai compiuti?

Crimini e omicidi irrisolti costituiscono ormai gran parte dei casi di cronaca e le caratteristiche sembrano essere sempre le stesse: tante ipotesi sulla dinamica, numerosi moventi, molti testimoni e lunghi interrogatori da parte di agenti di Polizia fino alla tanto attesa confessione da parte del colpevole. Alle volte però si è assistito a casi in cui c’è chi confessa di aver commesso un omicidio, venendo così condannato, salvo scoprire poi che i colpevoli del reato sono altre persone.

In psicologia della testimonianza si è a lungo dibattuto sul ruolo della memoria e di come questa possa produrre dei falsi ricordi e numerosi sono gli studi che sembrano avvalere, con i loro risultati, questa ipotesi. Nell’articolo che vi consigliamo, oltre a leggere di alcune storiche confessioni di crimini mai compiuti, è esposto il contenuto di un recente articolo scientifico che indaga se sia possibile o meno indurre dei falsi ricordi.

 

We thought we’d have something like a thirty-per-cent success rate, and we ended up having over seventy (…) We only had a handful of people who didn’t believe us. After three debriefing sessions, seventy-six per cent of the students claimed to remember the false emotional event; nearly the same amount – seventy per cent – remembered the fictional crime. 

Remembering a Crime That You Didn?t CommitConsigliato dalla Redazione

A pair of forensic psychologists have created false memories of wrongdoing in law-abiding minds. (…)

Tratto da: The New Yorker

 

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Uno studio ha indagato l'impatto delle lettere d'addio alla fine di una psicoterapia interpersonale psicodinamica sugli episodi di autolesionismo in carcere
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Ansia in ufficio? Il rischio di essere vittima di mobbing è in agguato!

Le eccessive proeccupazioni, si sa, non sempre si rivelano un buon alleato sul posto di lavoro! Un recente studio ha indagato il rapporto esistente tra l’eccessiva ansia a lavoro e la propensione a diventare facili vittime di mobbing, evidenziando così l’esistenza di un circolo vizioso tra le due: maggiore è l’ansia che si prova in ufficio, più ci si mostra vulnerabili e si diventa bersagli facili per spietati capi o colleghi, cosa questa che non fa che peggiorare la sintomatologia ansiosa.

Interrompere tale circolo vizioso però è possibile… Come? A voi la lettura dell’articolo consigliato!

 

And that oh God, I’m doing it all wrong feeling may leave people vulnerable to workplace bullying, suggests a new study in the journal Anxiety, Stress & Coping, which claims there’s a reciprocal relationship between overactive nerves and victimization in the workplace. Anxiety may make people more vulnerable to workplace bullying, and workplace bullying, in turn, seems to lead to anxiety, argue the researchers, led by Alfredo Rodriguez-Munoz of the University of East Anglia.

Anxious People Are More Likely to Feel Bullied at WorkConsigliato dalla Redazione

And their anxiety could then lead to more bullying. Great! (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Tutti gli articoli di State of Mind su Ansia
I pensieri che mantengono il panico
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È possibile che il doomscrolling provochi ansia esistenziale e sfiducia negli altri e nel mondo? Uno studio ha cercato di capire cosa accade
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Secondo una recente meta-analisi elevati livelli di stress durante la gravidanza potrebbero avere un effetto sui bambini in infanzia e adolescenza
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Il disturbo Borderline di Personalità: disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (08)

 

 

In psicologia il Disturbo Borderline rientra nei disturbi di personalità che sono caratterizzati da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Coinvolgono diverse sfere di vita e sono caratterizzati da una scarsa consapevolezza, cioè le persone faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Il Disturbo Borderline di Personalità è molto vario ma ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Per quanto riguarda il rapporto con le proprie emozioni il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da una forte instabilità psicologica. Le emozioni sono molto intense, in varie direzioni. All’estremo, l’esperienza psicologica degli stati emotivi può condurre a (1) stati mentali di vuoto o (2) stati mentali di caos emotivo incontrollato.

Le persone con Disturbo Borderline di Personalità temono questi stati e cercano di evitarli e di controllarli, talvolta con strategie controproducenti. La reazione al vuoto o al caos emotivo è disregolata, impulsiva e intensa e può comprendere: azioni impulsive (es. rabbiose), abuso di sostanze, gesti autolesivi. Lo scopo è cercare di sentirsi vivi (in contrapposizione allo stato di vuoto) oppure sentirsi quieti e sicuri (in contrapposizione allo stato di caos) oppure non sentirsi affatto.

Le relazioni interpersonali sono instabili esattamente come il comportamento. In questo senso la sensibilità del Disturbo Borderline di Personalità è concentrato sul riconoscere ed evitare la sensazione di essere rifiutati o abbandonati.

Per questa ragione possono assumere comportamenti dipendenti (mettersi a disposizione dell’altro, dedicarsi a lui o idealizzarlo), sono apprensivi e preoccupati davanti a segnali ambivalenti dell’altro (ogni segno di leggero distacco è una minaccia di abbandono dirompente) e per questo possono risultare anche molto controllanti e talvolta paranoici nella relazione.

Infine possono vivere esperienze di forte rabbia quando l’altro si allontana o possono respingerlo in anticipo con rabbia per evitare di essere poi abbandonati.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Borderline di Personalità è un percorso lungo, spesso associato a una terapia farmacologica. Molte persone hanno paura di questa diagnosi perché viene associata a gravi disturbi della mente, tuttavia esistono diversi livelli di gravità come in altri disturbi psicologici. Attraverso una buona psicoterapia la persona può ottenere una buona capacità di regolazione dei propri stati mentali e delle relazioni interpersonali, scoprendo le doti della propria sensibilità emotiva.

 

GUARDA: Il Disturbo Borderline di Personalità raccontato in un video

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Il disturbo Borderline di Personalità: una cascata emotiva

Sei creativo? Probabilmente hai poca capacità di ignorare le informazioni inutili

FLASH NEWS

I geni creativi, avendo un filtro sensoriale precoce più debole rispetto ad altri, avrebbero la tendenza a convogliare nei propri processi attentivi un range più ampio e più ricco di aspetti sensoriali relativi a una data esperienza.

Una nuova ricerca della Northwestern University sembra fornire per la prima volta le evidenze psicofisiologiche per cui la creatività umana sarebbe associata a una ridotta capacità di filtrare e ignorare informazioni sensoriali irrilevanti provenienti dall’ambiente. Lo stesso problema sensoriale si ritrova ad esempio nelle biografie di Kafka e Chechov inteso proprio come difficoltà di escludere dalla propria attenzione e dalla propria mente alcuni stimoli di fatto irrilevanti nei momenti di maggiore creatività.

Secondo la ricerca alcuni individui sarebbero maggiormente influenzati e colpiti dal bombardamento quotidiano di informazioni sensoriali, plausibilmente avendo dei filtri sensoriali e percettivi più deboli rispetto ad altre persone.

I ricercatori hanno studiato uno specifico marker neurale di una forma precoce di attenzione, chiamata “Sensory gating”, identificata da una risposta neurofisilogica di un’area del cervello che avviene  a 50 millisecondi dall’inizio della presentazione di uno stimolo (ERP P50).

Hanno inoltre analizzato la correlazione tra questa specifica risposta neurofisiologica riguardante l’attenzione precoce con due costrutti delle creatività: il pensiero divergente (variabile squisitamente cognitiva misurata attraverso un task di laboratorio in cui si chiede ai soggetti di produrre il maggior numero possibile di risposte a situazioni non comuni, entro un range di tempo) e la produttività creativa in diversi domini (variabile comportamentale misurata attraverso il attraverso Creative Achievement Questionnaire).

Dai dati emerge che maggiori punteggi al test di pensiero divergente correlano con una maggiore risposta neurofisiologica di sensory gating, cioè appunto relativa all’esclusione di informazioni irrilevanti. D’altro canto invece l’effettiva produttività creativo-artistica in diversi domini sarebbe associata in modo statisticamente significativo a un minore segnale di sensory gating, corrispondente dunque a una difficoltà nell’ignorare stimoli non pertinenti.

Una speculazione degli studiosi è che i geni creativi, avendo un filtro sensoriale precoce più debole rispetto ad altri, avrebbero la tendenza a convogliare nei propri processi attentivi un range più ampio e più ricco di aspetti sensoriali relativi a una data esperienza.

Lo studio ancora non ci sa dire se questa caratteristica sia un tratto stabile oppure una modalità stato-dipendente. Ad ogni modo se siete tra coloro a cui più informazioni sensoriali contemporaneamente creano un certo fastidio, facendovi sentire individui anti-multitasking, consolatevi pensando alle parole di Franz Kafka:

[blockquote style=”1″]Ho bisogno di solitudine per la mia scrittura; non come un eremita – che non sarebbe essere sufficiente – ma come un uomo morto[/blockquote]

 

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La meditazione rende più creativi! – Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

Tra denaro, negoziazione e analisi comportamentale

Nicola Schirru

Diventa molto intrigante lo sviluppo delle Soft Skills all’interno della negoziazione: è possibile avere maggiori probabilità di successo – quindi di guadagno economico – migliorando le proprie competenze in analisi comportamentale?

Le soft skills possono essere tradotte quali competenze traversali, relazionali, ma anche comportamentali. Conosciute anche come attitudini interpersonali, includono capacità quali quelle comunicative, la risoluzione dei conflitti e la negoziazione, il problem solving creativo, il pensiero strategico, il team building, le abilità che influenzano le vendite.

Nel comprendere gli stati d’animo altrui diventa fondamentale analizzare i segnali non verbali, molto spesso tramite osservazione diretta (e con poco tempo a disposizione). Sviluppare certe capacità permette conseguentemente di notare atteggiamenti congruenti e incongruenti tra il verbale e il non verbale, quindi analizzare la credibilità delle affermazioni.

Diventa perciò molto intrigante lo sviluppo di questi processi all’interno della negoziazione: è possibile avere maggiori probabilità di successo – quindi di guadagno economico – migliorando le proprie competenze in analisi comportamentale?

 Aquino & Becker (2005) suggeriscono che nelle fasi di negoziazione i mentitori possono provare emozioni negative, e che per ridurre quest’ultime vengono sviluppate strategie neutrali, quali la minimizzazione della menzogna (es., dichiarando di aver avuto un comportamento poco congruo per una causa superiore), la denigrazione del bersaglio e la negazione (es., delle proprie responsabilità). La funzione primaria di queste strategie di neutralizzazione è quella di legittimare i propri comportamenti devianti riducendo il disagio intra-psichico.

Una delle emozioni maggiormente associate alla negazione delle bugie è l’angoscia (distress). Il concetto di un sé positivo è tra gli obiettivi umani più forti e persistenti. Le persone raggiungono quest’obiettivo cercando di seguire i propri standard di giusto e sbagliato (in assenza da influenze esterne).

Se questo non avviene la propria autostima é seriamente minacciata. Emozioni come il senso di colpa e la vergogna possono motivare l’utilizzo di almeno un tipo di strategia di neutralizzazione. Il negoziatore potrà ad esempio notare la vergogna, considerata da alcuni studiosi un’emozione universale (es., Izard, 1977; Tracy & Matsumoto, 2008), in segnali non verbali come il coprirsi il volto e/o le dita portate verso le labbra (Argyle, 1999).

Secondo uno studio molto recente (Momm e colleghi, 2015) le persone brave a riconoscere le emozioni altrui guadagnano più soldi, o meglio, come dice il titolo del loro paper, avere un occhio per le emozioni paga.

L’abilità di riconoscere le emozioni altrui attraverso l’analisi scientifica delle espressioni facciali predice indirettamente il reddito annuo di un lavoratore. Le persone con una buona capacità di riconoscere le emozioni sono considerate più socialmente e politicamente abili, rispetto ad altri loro colleghi. Gli si attribuiscono quindi migliori capacità sociali e politiche: in particolare, il loro reddito è significativamente più alto!

Il Laboratorio di Analisi Comportamentale NeuroComScience (NCS) centro di ricerca in cui vengono effettuati studi all’avanguardia sulla comunicazione non verbale, distingue tre fasi pratiche per rilevare le emozioni umane: analisi scientifica delle espressioni facciali, analisi professionale del linguaggio del corpo, analisi vocale (Legiša, 2015). La diffusione e l’utilizzo di tali tecniche all’interno del business inizia a sviluppare dinamiche finanziarie in cui i profitti possono subire un’influenza positiva dovuta alle capacità di applicare il riconoscimento delle emozioni e la valutazione della credibilità (es., avvocati, psicoterapeuti, forze dell’ordine, venditori, selezionatori del personale, ingegneri informatici, giocatori di poker).

Saranno necessari ulteriori studi per dimostrare un’eventuale correlazione positiva tra le competenze comportamentali (alias, soft skills) e guadagni netti superiori di coloro che le possiedono, tuttavia la ricerca dimostra che navigare in questo mondo sociale (e delle organizzazioni) con le sviluppate suddette competenze aiuta certamente ad accrescere l’immagine del proprio successo all’interno del mondo del lavoro (Elfenbein e colleghi, 2007).

 

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Finanza Comportamentale

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Dibattito cognitivo-comportamentale: ancora su processi, scopi e credenze

In questi giorni il dibattito scientifico sulla nostra State of Mind è vivace, rendendo la nostra rivista online un luogo di confronto stimolante. Il dibattito rispecchia le recenti evoluzioni del paradigma cognitivo comportamentale e il difficile passaggio dal modello standard a quelli successivi.

 Semplificando, e come ho già scritto in un articolo precedente il modello standard di Aaron T. Beck (1964) riduce la sofferenza emotiva a errori di valutazione della realtà che riducono il paziente a una sorta di idiota che vede pericoli e disgrazie inesistenti. Mi rendo conto che questa è una versione caricaturale che non rende pieno merito a Beck. Quali che siano i limiti del modello di Beck, non si può negare che abbia aperto una strada.

Nell’articolo sull’apologo scientifico di Tycho Brahe, ho anche accennato a come anche nel modello geocentrico galileiano ci fossero dei buchi, destinati a essere sanati solo in seguito da Newton e da Foucalt (quello del pendolo). Questo non toglie a Galileo i suoi meriti storici.

Un modello può essere imperfetto eppure additare la giusta direzione, vale per Beck come valeva per Galileo.

Se però Beck ha i suoi meriti storici, è anche vero che il suo modello offre il fianco alla critica. Il suo razionalismo ingenuo applica all’uomo troppo pedissequamente la metafora mente –computer, riducendo l’attività mentale alla corretta applicazione di algoritmi di valutazione del grado di negatività delle situazioni. Gli sviluppi successivi del modello cognitivo-comportamentale vedono uno sviluppo sia in termini evolutivi (gli errori cognitivi sono radicati nella storia di vita), costruttivisti (la valutazione della realtà non corrisponde a un modello di razionalità astratta e universale), metacognitivi (l’attività mentale avviene per livelli successivi di valutazione auto-riflessiva della mente sui suoi stessi stati) e scopistico/esistenziali (l’attività mentale non è solo analisi delle situazioni ma costruzione di scopi e motivazioni).

È proprio su questo aspetto che Francesco Mancini (link) rivendica la sua originalità rispetto a Beck, sottolineando il suo antico interesse, condiviso con Cristiano Castelfranchi, per gli scopi individuali, trascurati da Beck a favore delle sole credenze. Questo ha portato Mancini a elaborare una forma di cognitivismo esistenziale che integra aspetti razionalistici e costruttivistici (Paciolla e Mancini, 2010).

Insomma, è semplicistico appiattire Mancini sul modello razionalistico. È però altrettanto giusto che poi a sua volta Giancarlo Dimaggio (link) rivendichi a sua volta la presenza di aspetti motivazionali e scopistici sia nel suo modello interpersonale-metacognitivo che in altri modelli metacognitivi, come quelli di Fonagy e di Wells e rimproveri a Mancini di avere appiattito i modelli più recenti cosiddetti di terza ondata a semplici innovazioni tecniche senza sostanza teorica. La risposta di Dimaggio è quindi del tipo: anche noi metacognitivisti sappiamo concepire un modello motivazionale e scopistico della mente umana e anche Mancini tende a semplificare le posizioni altrui.

Forse però è possibile anche un’altra risposta. Ricordiamo che la base di partenza del dibattito era il timore, espresso da Mancini (link), che i più recenti modelli cognitivo-comportamentali di tipo funzionalistico e processuale finiscano per minare la fiducia nella possibilità del cambiamento in psicoterapia a favore della sola terapia farmacologica. Questo non ci pare vero, le teorie processuali non riducono l’uomo a un robot sul quale si può intervenire solo a livello materiale, ovvero chimicamente con i farmaci.

Il nocciolo del processualismo è la critica della psicopatologia delle credenze e la sua sostituzione con una psicopatologia delle funzioni. Su questo si può riflettere in maniera, speriamo, non semplificatrice.

È in preparazione un contributo a questo dibattito di Sandra Sassaroli e i suoi collaboratori su questo tema. Rimanete in linea.

 

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Gli sviluppi della psicoterapia cognitiva: tra scopi, credenze, disposizioni e processi

 

BIBLIOGRAFIA:

Introversione ed Estroversione – Introduzione alla Psicologia Nr. 07

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (07)

 

 

Secondo Jung i due termini non riguardano una valutazione sulla persona, ma servono per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno.

Introverso ed estroverso sono parole che tutti usiamo comunemente nel momento in cui siamo chiamati a descrivere le caratteristiche di una persona. Come spesso accade con i termini entrati nell’uso comune, se ne ignora l’origine esatta. In realtà, “estroverso” e “introverso” indicano qualcosa di più del semplice giudizio dato su una persona. Si tratta, sostanzialmente, di due dei tipi psicologici, ossia strutture di personalità, teorizzati per la prima volta dallo psichiatra svizzero Carl Jung (1875-1961), insieme a Sigmund Freud.

Jung li cita per la prima volta nel volume “I Tipi psicologici”, dove illustra l’esito di vent’anni di ricerche sulle specificità che compongono il carattere individuale. Quindi, qualcosa che va ben oltre il significato comune attribuito alle suddette parole, perché riguardano un insieme di caratteristiche e modi di essere peculiari per alcune persone.
Secondo Jung i due termini non riguardano una valutazione sulla persona, ma servono per distinguere due diversi modi di rapportarsi al mondo esterno.

Dunque, l’estroverso ha un rapporto positivo con l’ambiente esterno: lo osserva, studia tutte le circostanze e cerca di adattarsi ad esse il più possibile. La persona estroversa cerca l’approvazione altrui e tende a esprimere giudizi non troppo diversi da quelli del gruppo. L’introverso, invece, tende a rimanere distante dal mondo esterno, perché è più attratto dal suo mondo interiore. A differenza dell’estroverso, le sue energie non sono rivolte all’esterno, ma si concentrano sulla dimensione individuale. Più che con fatti e parole, la dimensione preferita dall’estroverso, si sente a suo agio con emozioni e pensieri. Ama la solitudine, ha un atteggiamento schivo e tende a essere diffidente e pessimista.

La dicotomia Estroversione-Introversione individua due attitudini generali e contrapposte. Oltre a queste, Jung indica quattro funzioni psichiche principali: Sentimento, Pensiero, Sensazione e Intuizione. Ognuna di queste determina un diverso modo di rapportarsi al mondo:

1. Sentimentale Estroverso: diplomatico, espansivo e molto socievole, si inserisce con estrema facilità in ogni tipo di gruppo.

2. Sentimentale Introverso: taciturno, riservato, spesso malinconico, vive i sentimenti in modo esclusivo senza esprimerli all’esterno.

3. Pensatore Estroverso: riformatore, moralizzatore, per lui contano solo i fatti concreti e poco o nulla le teorie.

4. Pensatore Introverso: riflessivo, chiuso al mondo esterno, insegue pensieri astratti ed è del tutto indifferente all’oggetto.

5. Sensoriale Estroverso: esteta, alla ricerca dei piaceri della vita, realista e gaudente, crede solo nei fatti concreti e tangibili.

6. Sensoriale Introverso: animo da artista, per lui conta solo la sua soggettività, attraverso la quale interpreta e si relaziona al mondo circostante.

7. Intuitivo Estroverso: opportunista, dinamico, guidato da uno spiccato senso degli affari e da una notevole carica di entusiasmo.

8. Intuitivo Introverso: sognatore, è colui che più di ogni altro crede nel potere dell’immaginazione.

Più tardi, Eysenck identificò due super-fattori di personalità: estroversione – introversione e nevroticismo, ai quali successivamente aggiunge lo psicoticismo. Secondo la sua teoria, gli introversi, a causa di un elevato livello interno di eccitazione (arousal) tendono ad evitare la stimolazione esterna per evitare un eccesso di stimolazione. Gli estroversi, portatori di un basso livello di eccitazione, ricercano nuove o più intense stimolazioni esterne per preservare o realizzare un livello di stimolazione ottimale.

Questi fattori sono posti all’apice di un’organizzazione gerarchica nella quale ogni superfattore (es. estroversione) è la somma di un insieme di tratti più specifici (es. socievolezza, impulsività, vivacità e eccitabilità) che a loro volta sommano comportamentali e abitudini diversi di più basso livello.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Jung, C. G. (1983). Psicologia dell’inconscio. Bollati Boringhieri
  • Eysenck, S.B.G., Eysenck, H.J., Barrett, P. (1985). A revised version of the psychoticism scale. Personal and Individual Differences.6:21-9
  • Ferguson, E. (2001). Personality and coping traits: a joint factor analysis. British Journal Health Psychology. 6:311-25

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Scopi, motivazioni e metacognizione. Ovvero, il ritorno di Pippo e la strega Nocciola

Scopi, motivazioni e metacognizione.

Ovvero, il ritorno di Pippo e la strega Nocciola

Francesco Mancini sostiene che nel cognitivismo manchi l’attenzione al concetto di scopo. In particolare critica i modelli in cui si dà particolare centralità a processi di regolazione degli stati mentali. A suo dire tali modelli trascurano quali sono gli scopi che l’individuo tenta di perseguire nel regolare questi processi; in parallelo critica i modelli che si focalizzano sulle difficoltà dei pazienti a riconoscere gli stati mentali e utilizzarli in modo adattivo (LINK ALL’ARTICOLO).

Pippo e la fattucchiera NocciolaHo avuto molte conversazioni, private e pubbliche, con Mancini sull’argomento e da tempo ogni volta che risolleva la questione mi viene in mente lo scontro epistemologico senza fine tra Pippo e la strega Nocciola.

Di che si tratta? Il lettore sappia che nel mondo di Topolino le streghe esistono! Hanno poteri e si comportano da streghe. Pippo però è uno scettico radicale, non crede alle streghe. Nocciola le prova tutte per convincerlo dell’esistenza delle streghe e nei miei ricordi d’infanzia nel farlo faceva anche un minimo di paura: vola sulla scopa, materializza draghi, lo fa inseguire da mostri. Niente. Pippo è irremovibile, le streghe non esistono, sono tutti trucchi. Nocciola (colpo di genio), porta Pippo dallo psichiatra. Quest’ultimo esce dalla seduta con Pippo convinto che non esistano né psichiatri né streghe.

Perché mi viene in mente questa storia?

A mio parere il problema non è la tesi che Mancini sostiene, ma il modo in cui la sostiene, ovvero non del tutto rispettando la prima operazione che fonda il dibattito scientifico: citare correttamente le tesi degli oppositori. In mancanza di questo, dicono gli anglosassoni, si sta dando una versione “strawman” della tesi, ovvero un’argomentazione fittizia, che rende il dibattito almeno in parte falsato.

Il che mi porta a pensare che la convinzione di Mancini rischia di essere inconfutabile, perché ignora gli argomenti dell’avversario e dibatte con una loro versione caricaturale. Il motivo che mi ha spinto a rispondere è questo, dare un resoconto fedele delle tesi che Mancini tenta di confutare. Non entro nel merito dei contenuti, Mancini potrebbe avere torto o ragione, lo accetto senza problemi, purché dibatta sui fatti.

Andiamo nello specifico. La prima affermazione sorprendente di Mancini è la seguente:

[blockquote style=”1″]il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale, e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero, è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo. [/blockquote]

‘Possibile?’ mi chiedo. Mi vengono in mente un paio di tipi al volo. Il primo è Giovanni Liotti. Quando sostiene, per dirne una, che la coscienza si disgreghi sotto la pressione della motivazione dell’attaccamento e il timore della risposta dell’altro, costruito come abusante, intrusivo, tirannico, minaccioso, di che sta parlando?

Direi che l’attaccamento è uno scopo, una motivazione primaria. Il bambino, pressato da segnali di fame, freddo, paura, vulnerabilità desidera (scopo) la presenza rassicurante della figura d’attaccamento. Va bene, si può sempre obiettare che Liotti non sia cognitivista, del resto ha persino pubblicato sull’International Journal of Psychoanalysis. Però la memoria mi bracca: ma Liotti non è il fondatore della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva? Le cose non quadrano. Può darsi allora che Liotti, che per convenzione consideriamo d’ora in poi cognitivista, sia merce rara in un mondo che ignora il concetto di scopo.

E allora che dire di Paul Gilbert? Il tipo, inglese purosangue, razza che ha generato molti cognitivisti ortodossi, ha da più di 20 anni sviluppato una teoria dei sistemi motivazionali, pure ben conosciuta in Italia (complice Liotti, sempre lui), in cui si insiste sulle radici evoluzionistiche dei sistemi motivazionali (leggi: volti al raggiungimento di uno scopo) e sull’idea che la sofferenza umana nasca dal presunto fallimento di alcuni scopi basilari, quali attaccamento, accudimento, rango sociale, inclusione nel gruppo.

Per dire: un paziente con fobia sociale desidera (scopo) essere apprezzato, prevede quasi con certezza che verrà criticato e deriso, di conseguenza si vergogna, evita il contatto sociale, soffre.

 

Vengo al mio specifico (e male che vada di cognitivisti che si interessano agli scopi ne abbiamo già contati tre, magari ci metto pure Benni Farina che sta contribuendo non poco agli sviluppi delle teorie sulla disgregazione della coscienza così arriviamo a quattro): da anni sostengo che in Terapia Metacognitiva Interpersonale è centrale lo schema interpersonale. Ovvero che a partire da un desiderio (scopo, motivazione), il paziente preveda che l’altro risponderà in un certo modo, tendenzialmente frustrando lo scopo, e a causa di questo soffrirà. Quindi la sofferenza soggettiva è generata dalla previsione del fallimento di uno scopo. La faccio facile, mi cito alla lettera da Terapia Metacognitiva Interpersonale dei disturbi di personalità (Dimaggio et al., 2013):

[blockquote style=”1″]Gli esseri umani agiscono sulla scena sociale guidati da scopi e desideri e da credenze sulle condizioni che permetteranno o meno di realizzare quei desideri. [/blockquote]

Si tratta forse della psicologia scopi/credenze invocata costantemente da Mancini? A me sembra di sì. Devo ammettere che nel libro “I disturbi di personalità: Modelli e trattamento” la centralità del concetto di scopo non era così chiara, motivo per cui nello sviluppo più recente della TMI abbiamo ben pensato di non lasciare spazio ad equivoci. Però forse non sono cognitivista. Mi vengono dei dubbi.

Immagino però facilmente che anche i cognitivisti di stampo, diciamo “Wellsiano” vorranno rispondere alle critiche di Mancini (e quindi supereremmo i quattro cognitivisti che credono all’importanza del concetto di scopo). Per sicurezza nel frattempo mi sono riletto il post di Gabriele Caselli sul pensiero desiderante.

A parte che già parlare di pensiero desiderante mi dà l’idea che si parli di scopo, ma poi quando Caselli scrive che chi abusa di sostanze o soffre di dipendenze comportamentali fa “uso dell’attività o della sostanza per staccare la mente da preoccupazioni o stati di disagio” i dubbi mi paiono fugati. Non si sta usando il concetto di scopo? Mi sa che siamo già a cinque cognitivisti (e che Caselli lo sia sfido chiunque a negarlo) ad usare il concetto di scopo.

 

E questa era facile. Un altro dibattito infinito con Mancini, purtroppo mai abbastanza certificato per iscritto, ma avvenuto durante congressi, riunioni di lavoro e ristoranti (Francesco, per inciso, è un brillante conversatore e un ospite piacevolissimo) è il concetto di problema metacognitivo. Mancini è abbastanza diretto nel dire che:

[blockquote style=”1″]Il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti. Questo limite, a mio avviso, è presente in larga parte degli studi sui deficit cognitivi o metacognitivi, nei quali si sottovaluta che i processi cognitivi e metacognitivi sono orientati dagli scopi dell’individuo, e dunque quello che appare come un deficit può dipendere da un uso dei processi cognitivi al servizio degli scopi dell’individuo.[/blockquote]

Mi sento chiamato in causa. E anche qui le prove sono a mio vantaggio (non le prove che la tesi dell’esistenza della disfunzione metacognitiva siano decisive, le prove che Mancini sta attribuendo ai suoi interlocutori delle posizioni che li descrivono in modo inaccurato). Mi cito di nuovo (sempre dallo stesso libro):

[blockquote style=”1″]La metacognizione come concepita nella TMI descrive, invece, la capacità umana di utilizzare gli stati mentali per attribuire significato a eventi personalmente rilevanti e di utilizzare tale conoscenza nel corso di interazioni reali emotivamente calde. Le persone possono infatti avere in laboratorio capacità di ragionamento mentalistico, ma poi non usarle nella vita quotidiana, dove sono realmente necessarie, o non usarle con la velocità necessaria. [/blockquote]

Quindi la metacognizione ci interessa quando si attiva nel ragionare su eventi che per noi sono importanti, ovvero, aggiungo, riguardano il destino dei nostri scopi. Nel libro aggiungo: “le persone compiono atti metacognitivi nel contesto di tutti i sistemi motivazionali (per esempio, rango, sessualità, appartenenza al gruppo)”, ovvero la riflessione sugli stati mentali è rilevante in psicopatologia quando è carente in situazioni che riguardano il potenziale fallimento di scopi cari alla persona.

Più avanti ancora sono più esplicito sulla relazione-dipendenza della disfunzione metacognitiva:

[blockquote style=”1″]D’altro canto, l’attivazione della percezione di pericolo relazionale” è necessario aggiungere, la percezione della possibile compromissione di scopi di sicurezza personale ? – “in cui ci aspettiamo che l’altro ci attaccherà, abuserà di noi, ci vorrà dominare, che sarà uno straniero pericoloso appartenente a un gruppo sociale ostile, restringe la nostra mente e ci porta a pensare che la mente dell’altro sia abitata da intenzioni ostili o malevoli e abbia un set limitato di stati mentali (Liotti, Monticelli, 2008; Liotti, Gilbert, 2011; Lysaker, Gumley, Brüne et al., 2011).[/blockquote]

A proposito, Mancini nel post aveva scritto: “ad esempio un paranoico può apparire povero della capacità di comprendere gli altri, perché attribuisce solo e sistematicamente intenzioni ostili, anche laddove non vi è alcun ragionevole segnale di ciò”. Suona straordinariamente simile alle mie parole, vero? Allora perché Mancini sostiene che in ambito metacognitivo non si tenga conto di queste idee? Saperlo.

Ancora più espliciti, certe cose le ho proprio scritte: “L’idea che la metacognizione, o mentalizzazione, sia contesto-dipendente e legata allo stato affettivo e motivazionale è centrale nella TMI”. Adesso, Mancini avrà tutto il diritto di dissentire e contestare l’esistenza di qualcosa chiamata disfunzione metacognitiva, ma almeno lo faccia citando correttamente le fonti. Insomma, Pippo nega che la strega Nocciola faccia malefici, ma il drago è un drago!

Però può sempre essere che io non faccia testo. Prendiamo allora l’esempio di Liotti e Gilbert (sempre due che hanno scritto pagine marginali nella storia del cognitivismo internazionale e italiano). In un articolo del 2011 contenuto in un numero speciale su metacognizione e mentalizzazione che ho curato con Paul Lysaker e Andrew Gumley (Gumley, per inciso è cognitivista), i due sostengono che le capacità di mentalizzazione dipendono in gran parte dal contesto motivazionale in cui si dispiegano. Un esempio degli autori è una donna che può ben comprendere gli stati mentali dell’altro quando è guidata dallo scopo di accudire (caregiving mentality) e fallire nell’attribuire stati mentali se coinvolta in interazioni competitive (ovvero guidata da scopi di rango sociale, dominanza/sottomissione).

Sempre pochi cognitivisti a sostenere la stato-dipendenza della disfunzione metacognitiva? Elena Prunetti – per dire, oggi responsabile della sede della scuola SPC di Verona (quindi direi che Mancini una smucinata al suo curriculum l’avrà data), nel 2008 pubblicava su Psychotherapy Research

un lavoro empirico in cui emergeva come sotto la pressione della motivazione dell’attaccamento, innescata dalla percepita vicinanza del terapeuta validante, le capacità metacognitive di pazienti borderline andassero incontro ad un declino momentaneo.

            Per onestà va detto che nel libro del 2003 “I disturbi di personalità” si usava il termine deficit, che dà molto l’idea di pezzo rotto e questo darebbe valore all’obiezione di Mancini. Infatti da quel momento in poi ho cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema. Va detto che in letteratura in lingua inglese credo che il termine deficit sia usato con una connotazione più funzionale.

Bateman e Fonagy hanno sempre parlato di deficit di mentalizzazione e tutti sanno che hanno sempre insistito sull’attaccamento-dipendenza del problema. A proposito, Mancini invoca che si faccia chiarezza nel distinguere tra metacognizione e mentalizzazione. Perché mai ho affrontato il problema definitorio – con molti colleghi – in almeno una decina di articoli e Mancini non ne cita neanche uno?           

La cosa che Mancini manca di riconoscere, e che ahimè negli anni è stata oggetto di molte conversazioni di cui non è rimasta traccia (di solito non uso registrare le cene e i meeting di lavoro) è che il vero uso che si fa del concetto di metacognizione nella clinica dei pazienti non psicotici (dove il pezzo rotto un po’ di più c’è) è di tipo performance. In termini semplici: molti pazienti nel momento in cui avrebbero bisogno di dispiegare conoscenza sugli stati mentali in modo accurato, veloce e flessibile, non lo fanno e questo è un problema.

Se il paziente evitante sotto stress non sa definire la propria emozione altro che in termini di disagio, ben difficilmente potrà adottare strategie alternative all’evitamento comportamentale. La disfunzione sarà probabilmente potenziata dalla pressione ad evitare il giudizio critico, ma poi chi ci dice che una volta che questa pressione sia calata, diventi spontaneamente in grado di definire le proprie emozioni se nessuno gli ha insegnato a farlo?

Vice versa, se per anni a causa dell’isolamento sociale per timore del giudizio (scopo di preservare l’autostima dalla critica) poi, quando mi riaffaccio nel mondo e voglio corteggiare una ragazza… che ne so di come funziona la mente delle ragazze? Mettiamo che ho superato la paura. Ma resta il mancato allenamento. Dottore, dice il paziente, ora temo meno di essere rifiutato, ma non so come si fa!

La disfunzione metacognitiva è anche questa e va affrontata, riattivata, potenziata, in parallelo al lavoro sul cambiare punto di vista sulle credenze riguardo al mancato raggiungimento dei propri scopi. Almeno dalla prospettiva di chi scrive, la dicotomia che propone Mancini tra una psicopatologia scopi/credenze e una psicopatologia deficit funzioni mentali superiori è falsa.

Infine: è stato dimostrato che le abilità metacognitive dipendono dal contesto motivazionale, dal sistema di credenze, dall’arousal attivo? Ad oggi no. Ed è un obiettivo delle ricerche dei prossimi anni.

 

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Psicologia dell’inganno e dell’impostore: da Odisseo a Pietro

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 15 Marzo 2015

 

Esistono due imposture: una per ottenere vantaggi, l’altra per ottenere attenzione e perfino forse amore.

Odisseo era un impostore efficace e consapevole. Mentiva sapendo di mentire e sempre al fine di ottenere un vantaggio concreto e determinato. Un simulatore, che per la psicologia clinica non è un disturbo.

Dapprima si finse pazzo per non partire per la guerra di Troia. Sgamato da Palamede, a sua volta decise di sgamare un altro aspirante improbabile pacifista e obiettore di coscienza: Achille. Si finse mercante di chincaglierie femminili per avvicinare Achille imboscato alla corte di Licomede re di Sciro per non partire per la guerra di Troia. Travestito da donna si fingeva dama di compagnia per le figlie del re, sotto il nome di Pirra: la rossa. Sorprende questo Achille imboscato e simulatore a sua volta? Vent’anni dopo Odisseo simulò ancora, si finse mendico per avvicinare i Proci, i pretendenti che bivaccavano nel suo palazzo, sorprenderli senza armi e ammazzarli col suo arco.

Pietro invece mentiva inconsapevolmente. Promette a Cristo fedeltà fino alla fine, e invece lo rinnegherà tre volte. Mente e, pare, non sa di mentire. Perciò non simula, è sincero nel suo trasporto superficiale e leggero. Si commuove di se stesso, si commuove delle sue parole al vento e prive di sostanza, della sua virtù non temprata e della sua promessa di fedeltà non messa alla prova e che non gli costa nulla. Ancora non sospetta nemmeno cosa significhi davvero mantenere la fedeltà di fronte al vero rischio di essere arrestato, torturato e infine crocefisso. Il suo facile entusiasmo è privo di spessore. Come mentitore è una frana, e infatti Gesù subito glielo dice: [blockquote style=”1″]“Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte“. Eppure con quale insistenza gli aveva promesso fedeltà davanti al rischio supremo: “egli [Pietro], con grande insistenza diceva: «Se anche dovessi morire con te non ti rinnegherò»” (Vangelo di San Marco, 14, 28 – 31).[/blockquote]

Questa capacità di credere alle proprie stesse bugie in psicologia ha vari nomi. Per alcuni si tratta di un auto-inganno. Per altri è semplicemente un’errata valutazione, un errore sincero, una debolezza umana. Però tutti sono d’accordo nel ritenere che questo tipo di simulazione esprima un disturbo psicologico.

Tra le diagnosi psichiatriche troviamo il “disturbo fittizio”, in cui il mentitore simula o esagera i propri sintomi al fine di assumere il ruolo di malato. Questo disturbo è differente dalla simulazione, in cui la persona cerca di passare da malato per ottenere dei vantaggi concreti e pratici, un po’ come faceva Odisseo. Nel disturbo fittizio, invece, i vantaggi sono solo emotivi e relazionali: ci si finge malati per farsi accudire e amare, per ricevere cura e attenzione. Questo consente all’ impostore di sentirsi sincero. Egli è sinceramente sofferente, e questo in qualche modo fornisce un sapore soggettivamente vero alle malattie che simula.

L’impostore del disturbo fittizio è sincero nel suo inganno e questo potrebbe aiutarlo a ingannare meglio. O no? O, al contrario, è proprio la sincera adesione alla propria impostura che svela l’inganno, come accadde a Pietro? Mentre Odisseo, sempre padrone di se stesso e consapevole delle sue imposture, era molto meno propenso a tradirsi?

Esistono quindi due imposture: una per ottenere vantaggi, l’altra per ottenere attenzione e perfino forse amore.

E su questa strada la psicologia offre una ricca casistica. Abbiamo visto il disturbo fittizio. C’è un grado ulteriore, quella condizione che un tempo si chiamava isteria e che oggi si è ramificata in varie denominazioni, di cui le principali sono due: la prima è il disturbo di conversione e l’altra è il disturbo di personalità istrionico.

Nel disturbo di conversione il paziente presenta dei sintomi neurologici, come alterazioni della coordinazione e dell’equilibrio, paralisi localizzate, afonia, perdita della sensibilità tattile o del dolore, cecità, sordità, allucinazioni, convulsioni. Il tutto però senza alcuna reale alterazione neurologica. Tecnicamente, son tutte balle. Però non si tratta né della simulazione e nemmeno del disturbo fittizio, perché in questo caso non c’è volontarietà, non c’è alcuno stato intenzionale. La persona soffre davvero di stati mentali dolorosamente intensi, verso i quali è così cieca e emotivamente analfabeta che non riesce a decifrarli come stati mentali ma come alterazioni involontarie della sensibilità e delle capacità motorie. Se d’inganno si tratta, esso è così perfettamente eseguito che l’autore stesso è giunto a dimenticarsene e a farsene ingannare. Nel disturbo da conversione, la vecchia isteria, l’impostura funziona anzitutto con se stessi.

L’impostura è presente in forma meno estrema nel disturbo di personalità istrionico.

Qui siamo nel regno della seduzione e della lusinga. L’impostura è rivolta ancora una volta a ricercare attenzione e perfino amore, sia pure a buon mercato. L’istrionico cerca continuamente di catturare l’interesse degli altri con comportamenti teatrali, esagerando episodi di vita, inventando storie e fornendo generosamente descrizioni drammatiche del proprio stato fisico ed emotivo. Gli istrionici possono anche essere provocatori o seduttivi, distribuendo adulazioni, lusinghe, provocazioni sessuali, regali.

Le loro amicizie nascono sempre già mature e al tempo stesso senza sviluppo. Persone intraviste da pochi minuti sono sempre l’amico o l’amore cercato per una vita intera e ora finalmente trovato, in un’abbagliante epifania raccontata al mondo intero seduta stante. Qui l’inganno sembra essere più consapevole, eppure è recitato con tale trasporto, sia pure effimero, da generare il dubbio che sia sincero. Anche perché vale il criterio che queste seduzioni sono di breve durata e facilmente scopribili.

 

La testimonianza inconsapevole le origini del falso ricordo - Immagine: Fotolia_69338564
Mentire non sapendo di mentire.

Insomma, l’impostore inganna anche se stesso?

Chiederlo alla psicologia è naturale. È un peccato che la risposta non sia chiara, se non ingannevole. È il paradosso dell’autoinganno, sul quale ci si combatte da qualche decennio. Per alcuni l’autoinganno decisamente non esiste. E quindi sono tutti simulatori, e le varie distinzioni, tra simulatori veri e propri, persone affette da disturbo fittizio o da conversione, e infine isterici e istrionici non ha molto senso. È la tesi eliminativista: l’autoinganno è impossibile (Kipp, 1980). Per altri, invece, l’auto-inganno è possibile, e questo implica che la mente è almeno parzialmente frammentata in partizioni. E infatti si parla di tesi partizionista (Gur e Sackeim, 1979).

Questo è quanto dice la scienza psicologica sull’ inganno e sull’ impostura. Sospetto che Linkiesta speri in qualche illuminazione psicologica su come funzioni l’impostura in politica e nella vita sociale. Che ci sia, è certo. Che sia un male necessario, lo sappiamo tutti, e tutti ci chiediamo se proprio non ci sia nulla di meglio. Come funzioni, è un mistero.

Soprattutto, i politici sono degli impostori consapevoli, come Odisseo? O degli inguaribili seduttori sempre a rischio di essere scoperti, come Pietro?

E l’impostura della politica è un sincero auto-inganno o una disonesta simulazione che ci auto-somministriamo dall’ inizio dell’avventura umana? Difficile rispondere. Forse non ha caso si è pensato che colui che immediatamente intravide la misera impostura di Pietro, la sua pretesa di essere buono semplicemente dichiarandolo, la sua effimera promessa elettorale, costui, dicevo, si è pensato che non fosse del tutto umano. Mentre l’inganno e l’impostura sono umani, troppo umani.

[blockquote style=”1″]“Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una serva del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo fissò e gli disse:«Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù» ma egli negò: «Non so e non capisco quello che vuoi dire».Uscì quindi fuori del cortile ed il gallo cantò. E la serva vedendolo, ricominciò a dire ai presenti:«Costui è di quelli» ma egli negò di nuovo. Dopo un poco i presenti chiesero di nuovo a Pietro: «Tu sei certo di quelli, perché sei Galileo» ma egli incominciò ad imprecare ed a giurare: «Non conosco quell’uomo che voi dite». Per la seconda volta un gallo cantò. Allora Pietro si ricordò di quella parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai per tre volte» e scoppiò in pianto.” (Vangelo di San Marco, 14, 66 – 72).[/blockquote]

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BIBLIOGRAFIA:

 

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Intervista a Mark Frank – Riconoscere le menzogne
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La regolazione emotiva nella depressione: quali aree cerebrali sono attivate?

FLASH NEWS

Dallo studio emerge che a livello neurale le strategie di accettazione, rispetto al reappraisal, presentano attivazioni significativamente maggiori proprio nelle regioni deputate alla consapevolezza corporea delle emozioni: quasi a sottolineare -dal punto di vista neurocognitivo – l’importanza dell’accettazione per rimanere in contatto, riconoscere e di conseguenza regolare le proprie emozioni.

Nei disturbi dell’umore la sintomatologia depressiva, oltre ad essere afferente anche ad aspetti fisici e somatici, è strettamente legata a delle difficolta nei processi di regolazione emotiva. A livello neurocognitivo, questo si riflette principalmente nelle alterazioni di attivazione nelle porzioni frontali del sistema limbico nei momenti in cui avviene la regolazione delle emozioni nella popolazione clinica di pazienti con diagnosi di depressione maggiore.

Ma cosa succede a livello cerebrale se si utilizzano diverse strategie di regolazione emotiva? Tra le strategie efficaci vi sono da una parte il reappraisal, che consiste nel modificare nel modo più razionale e alternativo possibile la valutazione della situazione in corso, e dall’altra quella che viene definita accettazione emotiva e cioè sostanzialmente di esperire le emozioni secondo il loro naturale decorso, senza tentare di controllarle strenuamente, senza evitarle ma senza prolungare la naturale evoluzione dei processi emotivi. Entrambe le strategie sarebbero efficaci nel regolare le emozioni negative riducendone la quota di distress soggettivo, l’arousal  e gli evitamenti comportamentali (Wolgast, Lhund, Viborg, 2011).

Gli interventi psicoterapici cognitivo-comportamentali lavorano anche su questi aspetti favorendo l’utilizzo di strategie regolatorie adattive e interrompendo circoli viziosi di mantenimento dei sintomi. Un nuovo studio pubblicato su Social and Affective Neuroscience ha indagato proprio le caratteristiche neurocognitive delle due modalità di regoalzione emotiva nei pazienti con diagnosi di depressione maggiore ma  in via di remissione sintomatologica.

Trentasette soggetti (metà dei quali erano pazienti con precedente diagnosi di depressione maggiore e in fase di remissione; l’altra metà soggetti di controllo) sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale mentre erano impegnati nella regolazione di emozioni negative (in particolare della tristezza) elicitate mediante la visione di immagini.

Secondo i risultati nei soggetti di controllo l’utilizzo della strategia regolatoria dell’accettazione corrispondeva a una maggiore attivazione della corteccia insulare sinistra e nel giro prefrontale destro, mentre una minore attivazione nelle aree frontali. Nel gruppo di pazienti inoltre, rispetto ai soggetti di controllo, si è evidenziata una maggiore attivazione nella corteccia paracingolata e nel giro mediale frontale destro.

In generale, dallo studio emerge che a livello neurale le strategie di accettazione, rispetto al repparaisal, presentano attivazioni significativamente maggiori proprio nelle regioni deputate alla consapevolezza corporea delle emozioni: quasi a sottolineare -dal punto di vista neurocognitivo – l’importanza dell’accettazione per rimanere in contatto, riconoscere e di conseguenza regolare le proprie emozioni.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Autismo e Scienze Cognitive: Intervista a Tiziana Zalla, Ricercatrice

Un articolo di Michela Mori, pubblicato su Brain Factor il giorno 16 Marzo 2015

La redazione di State of Mind consiglia la lettura di questa interessante intervista a Tiziana Zalla sul tema dell’autismo. La Dott.ssa Zalla è direttrice di Ricerca CNRS all’Istituto Jean Nicod, all’Ecole Normale Supérieure di Parigi. E’ specializzata in scienze cognitive e psicopatologia.

 

Dottoressa Zalla, lei studia l’autismo da oltre 15 anni. Come mai questa scelta?

Sono sempre stata affascinata dalle facoltà cognitive che entrano in gioco nella qualificazione del comportamento, permettendo la predizione dell’azione negli altri e la comprensione delle intenzioni sottostanti. Constatando un vuoto nella comprensione della disfunzione cognitiva nel caso di popolazioni psichiatriche, mi è sembrato interessante usare dei modelli provenienti dalla neuropsicologia, la scienza che studia i disturbi cognitivi a partire dalle lesioni cerebrali, applicandoli alle popolazioni psichiatriche. Lo studio delle alterazioni cognitive permette infatti di creare un legame tra la parte clinica sintomatologica, che include, nel caso della schizofrenia per esempio, la disorganizzazione del comportamento e le allucinazioni, e le alterazioni biochimiche e cerebrali. Oggigiorno, questo è possibile grazie alla neuroimaging, che permette di individuare le aree attivate durante lo svolgimento di un compito e così stabilire un legame tra il disturbo anatomico e la sintomatologia comportamentale riscontrata.

Possiamo dire che esiste oggigiorno unanimità nella comunità scientifica rispetto alle cause dell’autismo? 

C’è unanimità sul fatto che l’autismo è multifattoriale. La componente genetica è senza dubbio molto forte, secondo alcuni è all’origine dell’80% dei casi, secondo altri solo del 50% con il concorso di fattori ambientali di vario tipo (infezioni contratte dalla madre in gravidanza, status immunologico materno-fetale, etc.). Recentemente è stata proposta la pista dell’inquinamento ambientale.  

Esiste un differente approccio tra i paesi in cui l’autismo è studiato?

Diciamo che in alcuni paesi, come la Gran Bretagna e i paesi del Nord Europa, la valutazione diagnostica e l’intervento terapeutico nell’autismo sono più avanzati. La Francia ha un approccio particolare, in quanto legata ad una visione psicoanalitica dell’autismo, inteso come una psicosi – e non come disturbo neurologico- che nasce da una cattiva relazione con la madre. Questa teoria e l’efficacia delle varie terapie psicoanalitiche o psicodinamiche non sono state mai scientificamente provate. Purtroppo la differenza di approccio ha un forte impatto sull’inserzione nella società dei bambini autistici. Nel caso dei paesi anglossassoni e nordeuropei oltre l’80-90% di questi bambini frequentano le scuole, in Francia appena il 20% riesce a seguire un percorso scolastico regolare. 

Autismo: intervista a Tiziana Zalla, direttore ricerca al Jean Nicod Consigliato dalla Redazione

Tiziana Zalla - Intervista su Autismo
Intervista a Tiziana Zalla, direttrice di ricerca CNRS all’Istituto Jean Nicod, all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, specializzata in scienze cognitive e psicopatologia, sul tema dell’autismo. (…)

Tratto da: Brain Factor

 

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Corso base di Terapia Metacognitiva Interpersonale: Firenze, 7 e 8 Marzo – Report II parte

Report:

CORSO BASE DI TERAPIA METACOGNITIVA INTERPERSONALE (TMI) – II PARTE

Firenze, 7-8 Febbraio 2015

 

LEGGI LA PRIMA PARTE

Il terapeuta TMI pensa il meno possibile, inferisce poco, fa molte domande, ascolta tanto e presta molta attenzione al comportamento non verbale, con l’obiettivo di arrivare ad una formulazione del caso in cui il paziente si ritrovi.

Durante il weekend del 07-08 marzo si è tenuta a Firenze la seconda parte del corso base di Terapia Metacognitiva Interpersonale organizzato da Scuola Cognitiva Firenze. Questa volta spettava a Giancarlo Dimaggio presentare il modello TMI, il quale ha scelto un’impostazione molto esperienziale: poca teoria frontale, tanta pratica.

Quali sono le maggiori difficoltà che un terapeuta TMI può incontrare in terapia? Le principali riguardano la formulazione degli schemi interpersonali e favorire lo switch dalla formulazione del caso alla promozione del cambiamento, nonché gestire eventuali problemi nella relazione terapeutica.

Ecco che quindi la prima esercitazione pratica del weekend si è concentrata su come costruire la formulazione del caso, che oltre ad essere punto di partenza imprescindibile per impostare la fase successiva di terapia, è anche ancoraggio fondamentale per gestire in maniera efficace la relazione terapeutica in cui il paziente ripresenterà inevitabilmente i propri schemi interpersonali.

Durante l’esercitazione di gruppo la classe si è cimentata nella ricostruzione degli schemi interpersonali di un paziente; partendo dalla narrazione di un episodio di vita del paziente stesso, i partecipanti hanno dovuto identificare le singole componenti dello schema ed individuare gli elementi mancanti che sarebbero dovuti essere target di indagine approfondita durante il colloquio per poter giungere ad una ricostruzione esaustiva.

Il weekend è stato inoltre occasione per osservare dal vivo come lavora in seduta un terapeuta TMI. Il terapeuta TMI pensa il meno possibile, inferisce poco, fa molte domande (“domande semplici, dirette, poco più articolate di quella che farebbe il vostro fruttivendolo preferito”), ascolta tanto e presta molta attenzione al comportamento non verbale, con l’obiettivo di arrivare ad una formulazione del caso in cui il paziente si ritrovi (LEGGI I COMMENTI ALL’ARTICOLO).

Ecco che quindi Dimaggio ha condotto davanti alla classe una prima seduta di 45 minuti con una studentessa che si è offerta volontaria per raccontare un proprio problema personale. Per quanto l’esperienza potesse presentare dei limiti dovuti alla presenza di circa 40 persone come pubblico e allo sforzo del terapeuta di condurre una seduta didatticamente efficace, ci siamo trovati di fronte a quanto di più lontano ci sia da una simulazione; è stata una seduta di psicoterapia vera e propria, che solo all’apparenza poteva sembrare una “semplice chiacchierata”.

Infatti, nonostante lo stile colloquiale della seduta, erano rintracciabili tutte le fasi che caratterizzano la procedura della TMI. Un incontro di TMI inizia da quello che il paziente porta in seduta. Inizialmente il terapeuta resta in silenzio, ascolta attentamente il racconto e presta particolare attenzione al comportamento non verbale, accoglie e valida l’esperienza emotiva del paziente.

Per facilitare la narrazione ed evocare memorie autobiografiche associate in modo da reperire sempre più materiale per costruire lo schema, il terapeuta pone la domanda cardine della TMI: “Mi fa un esempio [di quando si è sentito…]?”. Una volta ricostruito lo schema interpersonale, il terapeuta lo condivide con il paziente per accertarsi che il paziente vi si riconosca.

La seduta e la successiva analisi degli interventi effettuati e della ratio ad essi sottostante sono state particolarmente apprezzate dalla classe, che a gran voce ha richiesto il bis (ed è stata accontentata). Il weekend ha pertanto visto nettamente prevalere la parte esperienziale didattica, che ha permesso ai partecipanti al corso di toccare con mano cosa significhi fare TMI.

Ricordiamo che la TMI prevede due macro-sezioni: la formulazione del caso condivisa con il paziente e la promozione del cambiamento. Quest’ultima avviene attraverso due step che vanno in parallelo: la differenziazione e l’accesso alle parti sane del Sé.

Durante il weekend Dimaggio ha dedicato una parte di lezione frontale alla promozione della differenziazione, illustrando con la verve e lo stile divertente che tanto lo caratterizzano le strategie volte a promuovere nel paziente la presa di distanza critica dai propri schemi patogeni. La parte relativa all’accesso alle parti sane di Sé verrà invece affrontata nel Corso Avanzato di Terapia Metacognitiva Interpersonale (23-24 maggio e 6-7 giugno 2015).

Il Corso Base di Terapia Metacognitiva Interpersonale si è rivelato essere un utile corso formativo: leggere e studiare il manuale di TMI lo si può fare tranquillamente a casa da soli, la forza del corso è che grazie alla forte componente esperienziale ed interattiva delle esercitazioni fornisce concretamente strumenti da utilizzare nella pratica clinica, permettendo ai partecipanti di provare “sul campo” il modello per poi discuterlo in diretta con i docenti, che non è poco.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Anosognosia – Definizione Psicopedia

Anosognosia: in ambito neurologico il termine viene utilizzato per indicare una situazione patologica in cui è presente scarsa consapevolezza di un deficit motorio e/o cognitivo a seguito di una lesione cerebrale o insulto cerebrale, in assenza di un deficit intellettivo rilevabile e generalizzato.

[blockquote style=”1″]It is not only difficult, it is impossible for patients with certain right-hemisphere syndromes to know their own problems – a peculiar and specific ‘anosognosia,’ as Babinski called it. And it is singularly difficult, for even the most sensitive observer, to picture the inner state, the ‘situation’ of such patients, for this is almost unimaginably remote from anything he himself has ever known[/blockquote]

(Oliver Sacks)

La parola “anosognosia” deriva dal greco ed è composta da tre morfemi: “a” come “assenza, “nosos” come “malattia” e “gnosis” come conoscenza. In ambito neurologico il termine viene utilizzato per indicare una situazione patologica in cui è presente scarsa consapevolezza di un deficit motorio e/o cognitivo a seguito di una lesione cerebrale o insulto cerebrale, in assenza di un deficit intellettivo rilevabile e generalizzato.

Il termine viene introdotto per la prima volta da Babinski nel 1914 anche se casi di anosognosia erano già stati riscontrati per esempio da vonMonakov nel 1885 e da Anton (1889). In entrambi i casi i pazienti descritti presentavano un’anosognosia per la cecità: a seguito di un evento cerebrale che aveva colpito le aree deputate alla visione, questi soggetti avevano perso la capacità di vedere ma affermavano di non essere ciechi. Tale fenomeno si associa spesso a confabulazione e può essere visto anche come l’opposto del fenomeno blindsight in cui una persona è in grado di rilevare la presenza di uno stimolo visivo nell’emicampo controlaterale alla lesione, ovvero quello colpito da scotoma. Il fenomeno dell’anosognosia, oltre a riguardare la vista, può essere riscontrato anche per le funzioni motorie quindi in pazienti colpiti da paresi o plegia, per le funzioni linguistiche, per quelle mnesiche, per la demenza, per il neglect e in altre sindromi e condizioni.

Diverse sono le ipotesi che sono state chiamate in causa per spiegare l’anosognosia. Per quanto riguarda l’anosognosia per l’emiplegia la prima ipotesi risale a Weinstein e Kahn (1955) che vedono nel comportamento anosognosico un meccanismo di difesa simile alla negazione, ipotizzando anche una personalità premorbosa con una tendenza, per l’appunto, alla negazione e alla repressione. Sebbene alcuni studi scientifici abbiano supportato tale ipotesi, sono molti anche quelli che l’hanno sfatata (Ramachandran, 1995) portando diverse argomentazioni: se l’anosognosia è un meccanismo di difesa, come è possibile ottenere un miglioramento con la stimolazione calorica vestibolare? Hecaen and Albert (1978) riconducono invece il fenomeno ad uno stato di “confusione”; tuttavia molti pazienti anosognosici hanno prestazioni normali ai test cognitivi che vengono somministrati.

Un’ulteriore ipotesi fa riferimento a una de-afferentazione per cui vi sarebbe un fallimento nella ricezione di un feedback sensoriale: i pazienti anosognosici non sarebbero in grado di ricevere informazioni circa la collocazione del loro arto. Tuttavia anche questa ipotesi pare non spieghi interamente l’apparire di una condizione anosognosica (Heilman, 2014).

Secondo l’ipotesi feed-forward i pazienti con anosognosia avrebbero perso l’intenzione a muoversi; in questo modo non potrebbero rendersi conto di essere in grado o meno di muovere il proprio arto. Tuttavia pare essere vero anche il contrario: nel confronto con pazienti che presentano un neglect motorio, i pazienti con anosognosia hanno aree cerebrali risparmiate dalla lesione che gli consentono di avere un’intenzionalità motoria. Quello che non sono in grado di fare è di paragonare un atto intenzionale con uno effettivamente compiuto  e quindi di cogliere il mismatch tra previsioni di movimento e feedback (Berti et al., 2005).

Sembra quindi non esserci univocità circa le ipotesi eziologiche riguardanti l’anosognosia. Bisogna considerare che l’anosognosia non è un fenomeno “tutto-o-niente” ma il grado di consapevolezza può variare e, parallelamente, anche l’atteggiamento. Infatti il paziente può negare il deficit oppure può riconoscere la sua presenza ma dargli poca importanza, disinteressarsi, non prendere in considerazione le conseguenze che da esso potrebbero derivare (anosodiaforia). Di solito utilizza strategie cognitive per spiegare le ovvie difficoltà che presenta.

Dall’osservazione clinica sembra che soggetti che presentano una lesione a destra abbiano un atteggiamento più euforico e disinteressato mentre quelli con lesione a sinistra abbiano reazioni maggiormente catastrofiche. Spesso l’anosognosia per lesioni a sinistra viene sottostimata a causa dell’afasia che caratterizza tali situazioni e rende quindi difficile la valutazione di questi pazienti. L’anosognosia per l’afasia è un fenomeno complesso che chiama in causa le competenze di automonitoraggio della persona e quelle di autocorrezione (Marshall et al., 1985): il riscontro di queste ultime suggerisce la presenza di un certo grado di consapevolezza implicita. Inoltre sembrano esserci diversi gradi di consapevolezza in relazione a diversi aspetti del linguaggio (Prigatano & Schacter, 1991).

Il fenomeno dell’anosognosia è molto frequente nei soggetti colpiti da ictus, sia a destra che a sinistra, e purtroppo rappresenta un fattore prognostico negativo in quanto può essere di ostacolo alla riabilitazione funzionale del paziente; proprio perché può avere un forte impatto sulla vita del paziente e sulle sue capacità di gestire le attività della vita quotidiana è necessario conoscerla e valutarla per meglio calibrare il trattamento riabilitativo (Vossel et al., 2013). Non si presenta in fase acuta bensì in fase cronica.

Per quanto riguarda le basi neuroanatomiche sembra che la gravità sintomatologica sia maggiore quando sono colpite sia le aree frontali che quelle parietali (Pia et al., 2004). La conoscenza del fenomeno anosognosia è fondamentale per la sua valutazione che passa attraverso le domande del clinico e l’utilizzo e il supporto di alcuni questionari e scale che possono essere rilevati in letteratura (Open Question Arti Inferiori, Berti et al., 1996; AHA – Assessment of Anosognosia For Hemianaesthesia, Spinazzola et al., 2008). Fare domande riguardo alla consapevolezza del paziente è il punto cruciale; infatti, come detto in precedenza, il paziente può avere la percezione del deficit ma sottostimare le sue conseguenze (anosodiaforia), sovrastimarle oppure può non riconoscere il proprio arto plegico come suo (somatoparafrenia). Quindi è necessario condurre una buona indagine per meglio comprendere il grado di consapevolezza al fine di regolare il trattamento.

Per quanto riguarda il trattamento si va dall’utilizzo di stimolazioni sensoriali ad un potenziamento delle capacità di automonitoraggio e metacognizione. L’utilizzo della stimolazione calorica vestibolare nei casi di neglect con anosognosia ed emianestesia ha avuto buoni risultati anche nel miglioramento dell’anosognosia (Cappa et al., 1987; Ronchi et al., 2013).

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BIBLIOGRAFIA:

Training di assertività per pazienti affetti da Bulimia Nervosa

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Training di assertività per pazienti affetti da Bulimia Nervosa

Autrici: Chiara Mazzoni; Marta Ghisi (Università di Padova); Romana Schumann (Centro Gruber Bologna)

 

Abstract

Obiettivo: Difficoltà nelle relazione interpersonali, insicurezza sociale e bassa autostima sono aspetti essenziali nel trattamento dei pazienti affetti da Bulimia Nervosa (BN). Questo studio ha valutato l’efficacia di un percorso terapeutico strutturato, come il Training di Assertività (ATP) nell’aumentare e velocizzare il trattamento interdisciplinare per pazienti affetti da BN. Metodo: un gruppo clinico sperimentale (GSbn) e un gruppo clinico di controllo (GCbn) composti ciascuno da 24 pazienti femmine affette da Bulimia Nervosa (DSM IV R) che presentavano bassi livelli di autostima e alti livelli di insicurezza sociale, hanno seguito una comune fase di assessment di 8 sedute: 4 colloqui con uno psicoterapeuta e 4 colloqui con un medico nutrizionista. Successivamente entrambi i gruppi hanno seguito un ciclo interdisciplinare di 12 sedute di Riabilitazione Psico-Nutrizionale (RPN) che avvenivano parallelamente a 12 sedute di psicoterapia Cognitivo e Cognitivo-Comportamentale. In seguito il gruppo sperimentale ha continuato la Riabilitazione Psico-Nutrizionale a cui è stata affiancato un training di assertività di 20 incontri, mentre il gruppo di controllo, per lo stesso periodo di tempo, ha continuato le sedute di RPN e terapia Cognitivo-Comportamentale poiché si trovava in lista d’attesa per l’ATP. Entrambi i gruppi clinici sono stati confrontati con un secondo gruppo di controllo (GCs) composto da 64 soggetti sani che è servito come valore di riferimento. Risultati: Sono emersi significativi miglioramenti nel gruppo sperimentale nei livelli di autostima, insicurezza sociale, benessere psicologico come per i sintomi che caratterizzano il disturbo alimentare. Discussione: Risultati preliminari supportano l’inserimento di un training di assertività nel trattamento di pazienti BN con alti livelli di insicurezza sociale e bassi livelli di autostima.

Abstract in inglese

Objective: Impairment in interpersonal relationships and social insecurity, as well as low self-esteem are issues to treat in Bulimia Nervosa (BN). This study evaluated the effectiveness of a therapeutic structured group treatment like the Assertiveness Training Program (ATP) in the increase and speed up in outpatient interdisciplinary treatment for BN. Method: The sample of this research consists of two clinical groups: an experimental group (GSbn) consisting of 24 outpatient females with Bulimia Nervosa (DSM IV R) with low self-esteem and social insecurity, that followed a 20 week structured Assertiveness Training Program (ATP) after an initial treatment of 4 CBT + 4 Psychonutritional Rehabilitation (PNR) assessment sessions and 12 CBT + 12 RPN individual interdisciplinary treatment sessions. The second clinical group was the control group (GCbn) consisting of 24 females with BN had the same initial treatment and continued with 20 CBT + 20 PNR individual treatment sessions, being on the waiting list for the ATP. Both clinical groups were compared with a second control group of 64 healthy subjects (GCs) which served as reference value. Results: Significant change emerged on the experimental group’s measures of the social insecurity dimensions, low self-esteem and psychological wellbeing as well as in the eating pathology symptoms. Discussion:  Preliminary results support the inclusion of a structured Assertiveness Training Program in the treatment plan especially in BN with high levels of social insecurity and marked low self-esteem.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

KEYWORDS: Training, assertività, Bulimia Nervosa, insicurezza sociale, autostima.

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Psicoterapia inefficace: l’esperienza soggettiva dei pazienti

FLASH NEWS

I ricercatori, sulla base delle risposte dei pazienti, sostengono che il possibile errore dei terapisti che hanno lavorato con il gruppo dei pazienti non migliorati potrebbe essere quella di aver aderito troppo rigidamente alla tecnica psicoanalitica tradizionale.

La psicoterapia funziona per la maggior parte delle persone, ma c’è un gruppo di pazienti per i quali potrebbe essere inefficace, o peggio ancora dannosa. Un nuovo studio sostiene di essere il primo a indagare sistematicamente ciò che rappresenta l’esperienza della terapia per i pazienti che non mostrano un miglioramento dopo la terapia, o che addirittura mostrano un peggioramento.

Andrzej Werbart ei suoi colleghi hanno condotto delle interviste rivolte a 20 pazienti che non hanno mostrato miglioramenti o che hanno subìto un peggioramento a seguito di un trattamento di psicoterapia psicoanalitica individuale o di gruppo presso l’ex Istituto di Psicoterapia di Stoccolma (appartenenti ad un gruppo più ampio di 134 pazienti). All’inizio del trattamento i pazienti avevano un’età media di 22 anni, e 17 di loro erano di sesso femminile. I pazienti presentavano disturbi dell’umore, problemi di relazione e disturbi della personalità. Le interviste si sono svolte alla fine del ciclo di terapia, e poi di nuovo un anno mezzo più tardi.

I ricercatori trascrissero le interviste e trovarono una chiave di lettura condivisa tra i pazienti: la sensazione che qualcosa di importante si avvicinava spesso, ma era una sensazione non condivisibile col terapeuta. Alcuni, invece, riferivano di avere una visione generale positiva dei terapeuti ma li consideravano poco impegnati.

Un problema ricorrente tra i pazienti era provare sentimenti di incertezza circa gli obiettivi della terapia e le modalità per raggiungere gli stessi.

I ricercatori, sulla base delle risposte dei pazienti, sostengono che il possibile errore dei terapisti che hanno lavorato con il gruppo dei pazienti non migliorati potrebbe essere quella di aver aderito troppo rigidamente alla tecnica psicoanalitica tradizionale (aver sostenuto momenti di silenzio prolungati orientando il focus della terapia su esperienze infantili nella vita familiare).

In seguito i terapeuti, invitati dai ricercatori a riflettere su una terapia più giusta per questo tipo di pazienti, hanno riconosciuto l’utilità di una terapia più direttiva, più orientata allo scopo e all’azione. Da ricerche precedenti emerse invece che pazienti insoddisfatti della  terapia cognitivo-comportamentale sostenevano di preferire una tecnica terapeutica più focalizzata sulla riflessione e comprensione.

Gli autori hanno riscontrato poi una difficoltà da parte dei terapeuti di riconoscere il momento in cui la terapia non risulta essere efficace. Per rimediare a questo inconveniente, propongono di utilizzare interviste che possano indagare il gradimento del paziente verso la terapia in corso ed eventualmente aprire discussioni utili per garantire l’efficacia della terapia.

Al contrario di quanto avvenuto nel gruppo di pazienti che hanno mostrato un miglioramento immediato grazie alla psicoterapia, un aspetto positivo che ha coinvolto i pazienti che non sono migliorati è che nella fase tra la fine della terapia e il follow-up si ha una diminuzione dei sintomi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La felicità: cos’è e come funziona – Infografica – Psicologia

La psicologia della felicità:

Fonte: Happily

La Scienza della Felicità - Infografica - FONTE: Happily.it 

FONTE:

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Happyness - featured
La chimica della felicità – INFOGRAFICA

 

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La psicoterapia per il disturbo evitante di personalità

Disturbo Evitante di Personalità -
Disturbo Evitante di Personalità

Il disturbo evitante di personalità richiede trattamento psicoterapeutico specifico dal momento che è un disturbo diffuso, con compromissione significativa del funzionamento sintomatico e associato a sintomi psicologici rilevanti. Una comprensione accurata del disturbo evitante di personalità deve includere i problemi di questi pazienti nella consapevolezza, accettazione e regolazione delle emozioni. Questi pazienti sono alessitimici e tendono ad evitare o sopprimere le proprie emozioni. In alternativa si disregolano, sorgente possibile dell’associazione con abuso di sostanze e alcool.

 

Psicoterapia per il disturbo evitante di personalità

Riguardo alla psicoterapia, la realtà è che gli studi empiricamente a supporto sono pochi. Non c’è evidenza di superiorità di alcun approccio sull’altro (e.g. CBT o psicodinamica), vista anche la carenza delle ricerche di efficacia.

Il paziente con disturbo evitante di personalità ha prima bisogno di capire cosa lo fa soffrire, quali schemi interpersonali lo portano a stare male e ad evitare le situazioni. Poi in un clima di costante e attenta regolazione della relazione terapeutica possono provare ad esporsi. Di solito l’esposizione non ha successo a breve termine e aumenta il dolore psicologico (il che è normale), però grazie all’esposizione aumenta la consapevolezza dei problemi e il clinico può usare la conoscenza in seduta per favorire operazioni di distanza critica. Quando i pazienti hanno acquisito maggiore consapevolezza di essere guidati da schemi interpersonali maladattivi che non sono necessariamente veri possono trovare più semplice esporsi a situazioni sociali temute.

Ritengo discutibile il beneficio del training assertivo, almeno in fase precoce. Per esempio in uno studio di Alden del 1989 la parte dello skills training non contribuiva all’efficacia della terapia. La terapia di gruppo in fase iniziale di trattamento può essere impegnativa e non di particolare efficacia, traduco dalla review di Matusievicz e colleghi.

[blockquote style=”1″]non ci sono dati che supportino l’efficacia della CBT breve di gruppo nel ridurre sintomi del disturbo evitante, ansia, depressione e comportamenti sintomatici come pure il funzionamento sociale complessivo. Benché la ristrutturazione cognitiva e gli skills training siano associati con miglioramenti in terapia, questi non sembrano migliorare l’outcome dell’esposizione graduale… molti pazienti continuano a mostrare problemi significativi dopo la CBT di gruppo… trattamenti di più lunga durata potrebbero essere necessari per cambiare pattern cognitivi e comportamentali di lunga durata…[/blockquote]

 

Aggiungo che la terapia di gruppo è particolarmente difficile per pazienti che hanno difficoltà a decodificare gli stati mentali propri e altrui, e al contrario di quanto suggerito in questo articolo non c’è ragione per considerarla un trattamento di prima scelta. Sull’uso dei farmaci nei disturbi di personalità a parte il borderline non c’è letteratura conclusiva, quindi non c’è motivo di raccomandare gli ansiolitici come trattamento di prima scelta e l’uso degli antidepressivi dovrebbe essere accuratamente valutato.

Studi interessanti vengono dallo Ullevaal project a Oslo e lì si è visto che pazienti con scarse capacità di mentalizzazione potevano rispondere meglio al trattamento ambulatoriale che a quello intensivo di gruppo, probabilmente perché per loro il gruppo poteva essere troppo difficile (Arnevik et al., 2009; Gullestad et al., 2012; 2013).

 

Per chi volesse una lettura accurata di cosa si sa dell’efficacia del disturbo evitante in terapia suggerisco:

  • Alden, L. (1989). Short-Term Structured Treatment of Avoidant Personality Disorder. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 57(6), 756-764.
  • Arnevik, E., Wilberg, T., Urnes, O., Johansen, M., Monsen, J. and Karterud, S. 2009. Psychotherapy for personality disorders: Short term day hospital psychotherapy versus outpatient individual therapy – A randomized controlled study. European Psychiatry, 24: 71–78.
  • Bartak, A., Spreeuwenberg, M. D., Andrea, H., Holleman, L., Rijnierse, P., Rossum, B. V… Emmelkamp, P. M. G. (2010). Effectiveness of Different Modalities of Psychotherapeutic Treatment for Patients with Cluster C Personality Disorders: Results of a Large Prospective Multicentre Study. Psychotherapy and Psychosomatics, 79, 20-30.
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