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Venire a patti con la paura – Report della sessione plenaria del Convegno SOPSI 2015

Quando parliamo di emozioni possiamo intendere diverse cose: risposte fisiologiche che nel corso del tempo si sono evolute per la lotta alla sopravvivenza, elaborazioni della mente sulla base di quanto il cervello percepisce dalla realtà interna o esterna, sentimenti che influenzano il pensiero e producono determinati comportamenti.

Per il direttore del “Center for Neural Science” della NYU, pioniere nello studio dei processi neurali che portano alle emozioni, le emozioni sono funzioni biologiche del cervello e vanno distinte dalla loro cognizione che è mediata da sistemi distinti, ma interagenti.

Lo studio delle vie neurali responsabili del condizionamento alla paura ha grosse implicazioni sul trattamento di disturbi mentali come le fobie, il disturbo d’Attacchi di Panico, il PTDS. Ledoux spiega come il punto di partenza nei suoi studi siano state le ricerche sulla memoria emotiva derivate dalla sperimentazione sugli animali.

I mammiferi, infatti, di fronte agli stressor, hanno risposte fisiologiche molto simili come il freezing, l’aumento della pressione arteriosa e del battito cardiaco, l’analgesia e il rilascio di cortisolo. Queste risposte provengono dall’ attivazione dell’amigdala che, di fronte a uno stimolo condizionato, invia segnali ad aree come il talamo, l’ippocampo e diverse zone della corteccia. Grazie all’ attivazione congiunta di queste aree è possibile la risposta e l’esperienza di paura.

I percorsi che portano alla risposta o all’ emozione conscia sono diversi: uno top down e uno bottom up. La paura in quest’ottica corrisponde sia ad una risposta di evitamento e di difesa da un pericolo imminente, che un sentimento.

Mentre la risposta di paura è sempre conseguente a uno stimolo condizionato, il sentimento della paura, invece, può essere suscitato anche da stimoli non specifici legati a funzioni come la memoria semantica o episodica, l’attenzione, il monitoraggio che scaturiscono da un percorso cerebrale meno immediato, dove l’amigdala è la tappa finale del percorso neurale e il segnale minaccioso viene analizzato in dettaglio, usando informazioni
provenienti anche da altre parti del cervello.

Si tende a confondere emozioni e sentimenti, spiega LeDoux: le emozioni sono funzioni biologiche che si sono evolute per permettere agli animali di sopravvivere in un ambiente ostile e di riprodursi; i sentimenti invece sono il prodotto della coscienza e derivano dallo sviluppo negli esseri umani della neocorteccia.

Il sentimento della paura è un’ etichetta soggettiva che l’uomo attribuisce all’ emozione. Occorre perciò evitare di parlare di sentimenti, che sono impossibili da studiare oggettivamente, conclude il neuroscienziato, e concentrarsi sulle emozioni e sulla loro base biologica, i cui circuiti neurali sono tangibili quanto quelli dei meccanismi sensoriali.

L’apporto delle neuroscienze ha implicazioni anche sul trattamento farmacologico; questo spiegherebbe perché gli ansiolitici blocchino le risposte fisiologiche associate alla paura in maniera efficace, ma non sono altrettanto efficaci quando si parla di modificare le cognizioni relative a questa emozione. Poiché sono controllate da altri circuiti difensivi, l’intervento dovrebbe essere di altro tipo, ad esempio psicoterapeutico.

 

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Isolamento sociale, solitudine e longevità: gli effetti sulla salute

I dati rilevati mostrano come gli individui con relazioni sociali adeguate abbiano una possibilità di sopravvivenza di quasi il 50% maggiore rispetto a chi mantiene relazioni sociali povere o insufficienti. La grandezza di questo effetto, sugli effetti per la salute, può essere comparata allo smettere di fumare e supera molti fattori di rischio ben conosciuti come obesità o inattività fisica.

Solitudine e isolamento sociale possono essere considerati condizioni rischiose per la longevità delle persone così come il fumo di sigarette e l’assunzione di alcol. È quanto affermato da Holt-Lunstad e colleghi, ricercatori della Brigham Young University, in una ricerca condotta su centinaia di studi presenti in letteratura. Gli individui non esistono nell’isolamento, i fattori sociali influenzano tutti gli aspetti della salute degli individui, cognitivi, affettivi e comportamentali, migliorandone la qualità della vita.

Da una revisione della letteratura, su 148 studi riguardanti oltre 300.000 partecipanti, isolamento sociale e solitudine sono risultati un buon predittore di rischio di mortalità al pari di altri comportamenti. Smith afferma infatti: “Fisiologi, professionisti della salute, educatori, e  i media pubblici considerano fattori di rischio il fumo di sigaretta, la dieta, e la seria attività fisica; i dati presentati qui considerano i fattori di rischio delle relazioni sociali un caso avvincente che andrebbe inserito in quella lista”.

Gli autori dello studio inseriscono infatti il rischio di mortalità causato da condizioni di solitudine nella stessa categoria di comportamenti come il fumo di sigarette o l’assunzione di alcol. Stimano inoltre che queste condizioni superino i rischi per la salute causati dall’obesità.

I dati rilevati mostrano come gli individui con relazioni sociali adeguate abbiano una possibilità di sopravvivenza di quasi il 50% maggiore rispetto a chi mantiene relazioni sociali povere o insufficienti. La grandezza di questo effetto, sugli effetti per la salute, può essere comparata allo smettere di fumare e supera molti fattori di rischio ben conosciuti come obesità o inattività fisica.

Dunque in questo studio sono state prese in considerazione tutte le condizioni dei partecipanti, partendo da età e genere fino allo status socioeconomico e alle condizioni di salute preesistenti, rilevando che, isolamento e solitudine sono un buon predittore di rischio di mortalità tra le popolazioni più giovani, indicativamente sotto i 65 anni di età.

L’effetto positivo delle relazioni sociali rimane quindi consistente attraverso un buon numero di fattori, sottolineando che l’associazione con il rischio di mortalità possa essere generale e riguardare tutto lo spettro della popolazione, e quindi gli sforzi per ridurre il rischio non dovrebbero essere limitati all’anzianità.

Forse la sfida più importante posta da queste evidenze è come effettivamente utilizzare le relazioni sociali per ridurre il rischio di mortalità.

Studi preliminari hanno dimostrato come interventi sociali formalizzati siano importanti nella riduzione del rischio di mortalità. Inoltre uno dei comportamenti degli anni moderni da tenere in considerazione è certamente l’utilizzo di internet, che, accorciando le distanze fra le persone e aumentando le possibilità di “ incontro” può ridurre l’isolamento e la solitudine; con il rischio però di causare l’instaurarsi di relazioni superficiali o poco autentiche.

Gli autori concludono suggerendo che, facilitando le persone nell’instaurare le relazioni sociali naturali di tutti i giorni e costruendo interventi basati sulle comunità, si ha molto più successo rispetto al fornire supporto sociale attraverso personale specializzato. Fanno eccezione i casi in cui le relazioni sociali degli individui appaiono essere deteriorate o assenti. Altri studi sono comunque necessari per individuare quali interventi possano essere designati e valutati per favorire le relazioni sociali.

Gli interventi basati sulle relazioni sociali rappresentano infatti un’ottima opportunità di migliorare non solo la qualità della vita ma anche la longevità.

 

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Empatia e riconoscimento del dolore negli autori di reato

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Empatia e Riconoscimento del dolore negli autori di reato

 Autrice: Paterlini Chiara – Università degli Studi di Milano Bicocca

 

Abstract

L’empatia e il riconoscimento del dolore fisico sono aspetti importanti delle relazioni interpersonali. Questa tesi indaga l’ipotesi che i deficit di queste funzioni possano contribuire a causare le azioni aggressive compiute dagli autori di reato contro la persona. Sono stati confrontati 65 soggetti autori di reato contro la persona (n=33) o reato di altro tipo (n=32) e 26 soggetti di controllo. L’empatia, il riconoscimento del dolore fisico e il riconoscimento di emozioni sono stati valutati mediante il Quoziente Empatico e due test sperimentali impliciti che hanno utilizzato stimoli evocativi del dolore e di emozioni facciali. L’analisi dei dati ha evidenziato che gli autori di reato contro la persona hanno meno empatia rispetto agli autori di reato di altro tipo e ai controlli. Il riconoscimento del dolore è deficitario negli autori di reato rispetto ai controlli, maggiormente nei soggetti con diagnosi psichiatrica. Il livello di empatia contribuisce a predire la gravità del reato. È a sua volta predetto dal tipo di reato. I comportamenti criminali potrebbero portare a una perdita di empatia e di capacità di riconoscere il dolore fisico. A loro volta, i deficit di empatia e di riconoscimento del dolore fisico potrebbero favorire l’evenienza di comportamenti antisociali. La conoscenza di questi aspetti e delle loro complesse interazioni ha potenziali implicazioni nell’interpretazione e nel trattamento dei comportamenti antisociali.

 

English Abstract

Empathy and the recognition of physical pain are important to interpersonal relations. This work investigated the hypothesis that impairment of these functions could contribute in causing aggressive behaviour in authors of crime against person. Sixty-five subjects who committed crimes against person (n=33) or other crimes (n=32) and 26 control subjects were evaluated. The Empathy Questionnaire and two experimental implicit tests assessed empathy and the recognition of physical pain and facial emotions. The authors of crimes against person were impaired in empathy compared with authors of other crimes and controls. Both experimental subgroups were impaired in the recognition of physical pain compared with controls, with the worst deficits in subjects with psychiatric diagnosis. The level of empathy contributed in predicting the severity of the crime. Empathy, in turn, was predicted by the type of crime. Criminal behaviour could contribute in impairing empathy and the recognition of physical pain. Deficits of empathy and recognition of physical pain might favour the occurrence of antisocial behaviours. Knowing these aspects and their complex interactions has potential implications for the understanding and treatment of antisocial behaviour.

 

KEY WORDS

Empathy, Pain, Offense, Emotions, Psychopathology.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

 

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Infertilità: la Psicoterapia cognitiva serve più del farmaco

Un intervento psicoterapico mirato e strutturato può incidere sul costo emotivo e sociale dell’infertilità e la presa in carico del paziente infertile non può prescindere da un’indagine e un intervento psicologico.

 

La difficoltà a procreare e a diventare genitori è un problema sempre più diffuso con importanti costi sociali, emotivi ed economici al punto da essere considerato uno degli eventi più stressanti nella vita di una persona (Thorn et al, 2009). Secondo gli ultimi dati pubblicati nel 2009 dall’Istituto Superiore della Sanità (www.iss.it) l’infertilità riguarda ad oggi circa il 15% delle coppie. Nel 2004 all’interno delle linee guida dell’ESHRE (european society of human reproduction and embryology) è stato stabilito che i pazienti infertili vengano seguiti anche da un punto di vista psicologico.

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi che si occupano dello stress relativo all’infertilità e degli aspetti psicologici correlati. Le ricerche hanno messo in evidenza come gli individui e le coppie infertili abbiano (o sviluppino durante l’iter, aspetto dirimente su cui la ricerca continua a lavorare) livelli più alti di ansia e depressione, bassi livelli di autostima e mostrino stati di colpa, vergogna e rabbia. All’interno della coppia ciò comporta difficoltà di comunicazione e problemi sessuali, al di fuori si trasforma spesso in ritiro o, a volte, isolamento (Strauss, 2001; Kainz, 2002).

Ma, come si legano disagio psichico e infertilità? Anni di studi e di ricerche sull’argomento hanno permesso di distinguere due diverse correnti di pensiero. Una prima visione, “ipotesi dello stress”, sostiene che le problematiche psicologiche possano influenzare l’infertilità. Ovvero, l’infertilità viene vista come un problema psicosomatico e le ricerche si orientano sugli effetti degli aspetti affettivi (stress, stati emotivi mal regolati…) sull’attività neuroendocrina.

La seconda corrente di pensiero sostiene invece che lo stress dovuto alla condizione di infertilità produca delle problematiche psicologiche; in questo caso, gli studi sono orientati a osservare la reazione emotiva della coppia durante la fase della diagnosi, il trattamento medico e infine durante il post-trattamento, quale che sia l’esito.

Per questo motivo durante la presa in carico della coppia occorre esplorare anche i  fattori cognitivi (stili di attribuzione, eventuale presenza di costrutti ansiosi, locus of control interno/esterno….), i problemi sessuali e maritali, le risorse esterne e le capacità relazionali. Si cerca cioè a partire da un’analisi delle risorse (e della sofferenza) e di intervenire su come viene gestito lo stress provocato dalla condizione di infertilità, stress che puó avere un effetto sull’esito del trattamento.

Su questa linea nel 2013 è stato pubblicato uno studio (Mahbobeh Faramarzi et al, 2013) che mostra come la Terapia cognitivo comportamentale (CBT) di gruppo possa essere più efficace di un trattamento di farmacoterapia nel curare gli effetti dell’infertilità a livello relazionale, sessuale, sociale e della rappresentazione di sé.

Sono state reclutate 89 donne infertili cui era stata rilevata una moderata depressione attraverso il Beck depression inventory e suddivise tre gruppi:

1. 29 in terapia cognitivo comportamentale di gruppo

2. 30 in farmacoterapia

3. 30 come gruppo di controllo non sottoposte ad alcun trattamento.

Tutte le partecipanti sono state sottoposte al Fertility Problem Inventory (FPI) e al Beck Depression Inventory (BDI) prima e dopo il trattamento. Il Fertility Problem Inventory è un questionario che misura l’impatto dello stress relativo all’infertilità a livello sociale, relazionale, sessuale e nella rappresentazione di sé.

Le 29 partecipanti alla CBT di gruppo sono state suddivise in gruppi di 8/10 persone e sottoposte a 10 sessioni di due ore ciascuno. Nelle prime tre sessioni le pazienti hanno ricevuto da parte di un ginecologo  una chiara spiegazione sulle cause della propria infertilità e sono state messe in evidenza le preoccupazioni relative alla sfera sociale, maritale, sessuale oltre che la difficoltà a immaginarsi senza figli.

Tra la 4 e la 6 sessione hanno lavorato sulla modificazione delle credenze irrazionali (gestione del rimuginio, ristrutturazione cognitiva, tecniche di rilassamento). Infine tra la 7 e la 10 hanno lavorato sul mantenimento dell’eliminazione dei pensieri e dei comportamenti disfunzionali legati all’infertilità. Alle 30 partecipanti del secondo gruppo (farmacoterapia) sono stati somministrati   20mg  fluoxetina  per 90 giorni.

I risultati hanno evidenziato che le donne partecipanti alla terapia di gruppo hanno ridotto l’impatto dello stress nella sfera sociale e coniugale.

Inoltre mostravano una maggiore elaborazione della propria infertilità e del progetto di genitorialità. Al contrario le donne cui era stata somministrata la fluoxetina non mostravano cambiamenti significativi in nessuna delle scale del FPI.

La CBT dunque si è mostrata più efficace nel ridurre lo stress provocato dall’infertilità rispetto al farmaco. Questi risultati sono in linea con quelli di altri studi (Benyamini et al, 2009; Domar et al, 1990), in cui si mostra come la psicoterapia cognitiva sia in grado di ridurre i sintomi fisici e psicologici di ansia, depressione, insonnia, ecc… Inoltre è stato evidenziato come il sostegno sociale e l’armonia di coppia siano risorse necessarie per avere una minore percezione dello stress e una maggiore percezione di efficacia.

Un intervento psicoterapico mirato e strutturato può incidere sul costo emotivo e sociale dell’infertilità e la presa in carico del paziente infertile non può prescindere da un’indagine e un intervento psicologico. La direzione della clinica e della ricerca è quella di strutturare degli interventi al fine non solo di trattare e ridurre, ma anche di prevenire l’incidenza dello stress legato all’infertilità.

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FLASH NEWS

Madri e padri che soffrono di depressione possono non sorridere altrettanto spesso degli altri genitori o non mantenere con il bambino lo stesso contatto visivo e più distanti sono i genitori dai propri figli, più difficile sarà per i piccoli sviluppare un attaccamento sicuro e esperire emozioni sane.

I primi tre anni di vita sono un periodo molto importante e delicato per lo sviluppo del bambino, ma anche per i neogenitori sono mesi critici e non è inusuale che possano incontrare difficoltà anche personali.

Uno studio del Northwestern Medicine si propone proprio di indagare se e come le sofferenze dei genitori possano influenzare il comportamento dei bambini. Le ricerche in questo campo sono spesso rivolte alla depressione postpartum delle madri, ma anche i padri ne soffrono e come mostra questo studio, avere un padre depresso può avere le stesse conseguenze sul figlio.

Le emozioni paterne, come quelle materne, infatti, influiscono sui bambini. La depressione cambia il modo in cui le persone esprimono le emozioni e questo può portare a cambiamenti nel loro comportamento.

Madri e padri che soffrono di depressione possono, ad esempio, non sorridere altrettanto spesso degli altri genitori o non mantenere con il bambino lo stesso contatto visivo e più distanti sono i genitori dai propri figli, più difficile sarà per i piccoli sviluppare un attaccamento sicuro e esperire emozioni sane.

Fisher, autore dello studio, ha raccolto dati su circa 200 coppie di genitori con figli di 3 anni di età che avevano partecipato, al momento della nascita dei rispettivi bambini, ad uno studio sulla depressione. Per questa ricerca sono state prese informazioni circa i livelli di depressione genitoriali, la qualità della relazione tra i partner, i comportamenti interiorizzati dei bambini (tristezza, ansia, agitazione/nervosismo) e comportamenti esternati (comportamenti negativi, aggressività, violenza, tendenza a mentire).

I risultati mostrano che i livelli di depressione di entrambi i genitori erano singolarmente associati ai comportamenti interiorizzati e esternati dei figli.

I questionari mostrano anche che i segni di una depressione postpartum si manifestano subito dopo la nascita del bambino e sono ancora presenti tre anni dopo, segni che si ripercuotono sui figli molto più di quanto potrebbero fare, ad esempio, due genitori in costante conflitto.

L’importanza di studi come questo sta non solo nell’evidenziare il ruolo paterno e dargli la stessa attenzione e importanza di quello materno, ma anche e soprattutto nel sottolineare quanto sia essenziale seguire la coppia genitoriale in questa fase così difficile fin da subito per sviluppare interventi efficaci e tempestivi.

 

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Si può parlare di guarigione dalla Schizofrenia? Dalla sessione plenaria del Convegno SOPSI

Dalla Sessione plenaria del Convegno SOPSI:

Meccanismi patogenetici della Psicosi: implicazioni per la Diagnosi e il Trattamento di J.A. Lieberman (Columbia University NYC, presidente APA)

L’intervento farmacologico da solo, quando è già in corso il deterioramento, è insufficiente e va affiancato a una riabilitazione cognitiva. E’ fondamentale anche coinvolgere il paziente e la sua famiglia in tutto il processo decisionale, sui farmaci, per l’occupazione/istruzione assistita, per aiutarlo nell’implementazione delle abilità sociali e cognitive e nelle pratiche di prevenzione del suicidio.

Storicamente, grazie a Kraepelin, la schizofrenia, in origine dementia praecox, è stata considerata una malattia che determinava un deterioramento intellettivo irreversibile nei giovani.

Prima dell’utilizzo degli antipsicotici il trattamento consisteva nella gestione dei sintomi, non della cura della malattia. Oggi la speranza è che i risultati nella ricerca portino a identificare le chiavi per una modificazione nella patologia. L’ipotesi su cui si muovono gli studi è che vi sia un pull genetico coinvolto nel malfunzionamento dei neurocircuiti in alcuni contesti ambientali. Sempre più si parla di vulnerabilità probabilistica, la schizofrenia come un fenotipo indotto dall’ambiente.

Il modello teorico più influente in questo campo è quello appunto del neurosviluppo. I fattori scatenanti intervengono prima della manifestazione sintomatica, ma il fenotipo non si esprime fino alla pubertà: la diagnosi non coincide con l’esordio della schizofrenia. Ad un intervento veloce, corrisponde una migliore prognosi. Gli studi condotti a partire dagli anni ’80-’90, hanno dimostrato che i pazienti trattati adeguatamente al primo episodio avevano buone possibilità di ripresa e nessuna recidiva al follow up. Al contrario se l’esordio non era trattato in maniera ottimale il decorso portava a una degenerazione e cronicizzazione della malattia. Parlare di cronicità della schizofrenia significa parlare di caratteristiche sintomatiche persistenti e limitazioni cognitive, il target del trattamento deve essere sul deterioramento.

Grazie al Brian Imaging nei soggetti schizofrenici si evidenzia una sottile e graduale perdita di materia grigia e bianca, l’ipotesi è che vi sia una riduzione dei dendriti associati con le cellule corticali, un’atrofia dovuta agli effetti tossici della disregolazione sinaptica. Se riuscissimo a identificare il decorso prima dei sintomi, si potrebbe prevenire l’esordio. Le ricerche hanno confermato che ad un trattamento farmacologico più lungo, si associa una minore riduzione dendritica. Sono stati testati i farmaci aloperidolo e clozapina (che ha dimostrato un’efficacia maggiore). I farmaci di seconda generazione potrebbero essere neuroprotettivi o essendo stati migliorati, indurrebbero un aumento della tolleranza al trattamento. I follow up hanno evidenziato anche un tasso di recidive più basso.

L’andamento della schizofrenia ha diverse fasi: in quella iniziale la malattia è silenziosa e rimane latente fino all’età prepubere, tra i 20 e i 30, che corrisponde alla fase di rischio dell’esordio, a partire dalla quale inizia il deterioramento nel paziente.

L’intervento farmacologico da solo, quando è già in corso il deterioramento, è insufficiente e va affiancato a una riabilitazione cognitiva. Attualmente a causa della questione metodologica, questa pratica non è ancora inserita come standard di cura. 

E’ fondamentale anche coinvolgere il paziente e la sua famiglia in tutto il processo decisionale, sui farmaci, per l’occupazione/istruzione assistita, per aiutarlo nell’implementazione delle abilità sociali e cognitive e nelle pratiche di prevenzione del suicidio. A ciascun paziente dovrebbe essere assegnato un team, con un coach e degli educatori, in un’ ottica di approccio individualizzata.

Da uno studio di follow up a due anni, su 67 pazienti al primo episodio, il 73% non andava incontro a recidive. I miglioramenti riguardavano tutte le aree di funzionamento e vi era una diminuzione del livello di deterioramento, mantenuta al follow up. La speranza attuale è che questo protocollo entri nelle linee guida, in modo da essere rimborsabile. La speranza per il futuro sarà quella di individuare i pazienti in fase premorbosa, come accaduto per le malattie cardiovascolari, dove si interviene prima della sintomatologia.

La ricerca si sta muovendo verso l’identificazione dei biomarkers ippocampali della schizofrenia, le variazioni dell’attività in quest’area e nelle regioni limitrofe correlano con l’intensità dei sintomi, in mancanza di trattamento. Si stanno identificando le basi sinaptiche del glutammato, che porta ad un ipofunzionamento del recettore MDA, che produce eccessi enzimatici e porta alla diminuzione delle cellule piramidali nell’interneurone. Trattare l’ipermetabolismo del glutammato cellulare, conclude il dr. Lieberman potrebbe anche impedire la patologia.

 

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Metacognizione, scopi e credenze: la necessità di ipotizzare diversi meccanismi psicopatologici sottostanti ai disturbi mentali

Comprendere la psicopatologia è la chiave per pianificare il trattamento. Il dibattito in corso con Francesco Mancini, Giovanni Ruggiero (leggi) e Gabriele Caselli (leggi) permette di approfondire questioni cruciali. La risposta di Francesco Mancini alle obiezione mie (leggi) e di Ruggiero (leggi) offre molti spunti per dragare il fiume e analizzare il ruolo di scopi personali, abilità metacognitive e credenze nella psicopatologia di vari disturbi mentali.

Prima di entrare nel merito delle idee, devo evidenziare un paio di artifici retorici di Mancini nel suo ultimo post. Da un lato Mancini ha “l’impressione che, trascinati dalla passione per le idee, hanno rischiato di dare una rappresentazione non del tutto chiara di alcune questioni. Cercherò di riportare il dibattito su un piano, spero, più utile per chi legge.”

Mancini va lodato per l’impegno etico, ma non era necessario, si è incaricato di una missione inutile. Credo di essere stato abbastanza lucido, e Ruggiero altrettanto. L’utilità delle nostre osservazioni lasciamola giudicare al lettore.

Il secondo punto è che gli artifici retorici non aiutano il dibattito e se qualcuno manca di chiarezza e di capacità di rappresentare il punto di vista dell’altro è Mancini quando afferma: “Personalmente non ho mai avuto grande fiducia nelle soluzioni nominalistiche, quindi mi sembra che possa non essere di molto aiuto il suggerimento di Dimaggio che ha “cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema.” Al contrario ho più fiducia nella ricerca sperimentale (per saperne di più leggi articolo).

Mancini ha dipinto uno scorcio di paesaggio in cui appare un furbacchione (Dimaggio) che risolve il problema con le definizioni, e uno scienziato praticante (Mancini) che si fida della ricerca. Divertente ma non potrebbe essere più falso. Se Mancini ha sinceramente inteso che io volessi risolvere il problema affinando la definizione ha preso uno svarione. Per investigare un problema bisogna definirlo. La mia ridefinizione serviva solo a quello, a fornire un quadro del problema metacognitivo che si prestasse ad investigare varie possibilità, ovvero: è un deficit di tratto o un problema di stato? Che io volessi chiudere la questione cambiando una parolina fa sorridere, e per capire quanto siamo lontani dal vero basterebbe vedere la quantità di ricerche sull’argomento in cui sono impegnato. Tant’è, andiamo nel concreto.

È ovvio che la questione vada affrontata empiricamente. Gli esperimenti che Mancini cita a sostegno di una teoria del DOC in cui la compromissione di scopi è centrale sono interessanti e l’interpretazione che ne fa Mancini è parsimoniosa e ragionevole. Niente da dire, anzi ritengo che per i problemi descritti da Mancini non valga la pena perdere tempo a chiamare in causa disfunzioni metacognitive: chiamare il processo descritto da Mancini fallimento della differenziazione (in questo caso distinzione fantasia/realtà) sarebbe solo una spiegazione del problema più rozza di quella fornita da Mancini stesso. O meglio, in termini metacognitivi lo chiameremmo problema di differenziazione, ma il processo ad esso sottostante “Se temo di dovermi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa, allora è meglio non sottovalutare la possibilità che sia rimasta aperta” è un livello di descrizione che fornisce molte più informazioni per il clinico.

La parsimonia interpretativa di Mancini è un altro punto forte della sua argomentazione: “Tutto questo è congruo con tanti altri risultati della ricerca sul DOC, ma non dice NULLA su cosa accade in altri disturbi”. Mancini comprensibilmente sembrerebbe restare dell’idea che l’ipotesi più plausibile sia che nelle altre patologie altri tipi di disfunzioni del ragionamento, legate alla compromissione potenziale di scopi dell’individuo, causino i sintomi. Per inciso, queste non sono le parole di Mancini, ma un’idea che gli attribuisco e posso sbagliarmi.

E la metacognizione? Solo una teoria difesa per passione? La risposta va trovata negli esperimenti? Direi di sì. Ma: ne sono stati fatti un bel po’. Hanno poco valore? Vediamo. Che i pazienti con schizofrenia abbiano difficoltà a ragionare sugli stati mentali, propri e degli altri, ormai c’è poco dubbio direi. In qualunque modo la si misuri, la capacità metacognitiva o la cosiddetta social cognition è compromessa. I problemi emergono sia analizzando interviste, sia somministrando task di laboratorio che descrivono situazioni emotivamente calde, sia task semplici che richiedono capacità basiche di attribuire stati mentali. Una parte del problema di  metacognizione/social cognition dipende da deficit di capacità cognitive di base: intelligenza, memoria verbale, memoria visiva, velocità di elaborazione dell’informazione. Una parte invece non dipende dalle funzioni appena citate, almeno per quanto emerso finora. Di maggiore interesse, è che il deficit cognitivo non ha un impatto particolare sulla disfunzione sociale nella schizofrenia, il problema metacognitivo/socio-cognitivo sì  (vedi Lysaker et al., 2010a).

Sempre nella schizofrenia, si è visto che la sospettosità è predetta da due variabili differenti in diversi sottogruppi di pazienti (Lysaker et al., 2010b): in alcuni il fattore che pesava di più era l’ansia sociale. Direi, guidati dallo scopo di preservare la buona immagine, i pazienti scannerizzano l’ambiente alla ricerca di segnali che lo scopo di salvaguardare la buona immagine di sé sia compromesso e diventano sospettosi. In un altro sottogruppo l’ansia sociale era bassa (quindi non un fattore in gioco) e la teoria della mente carente. Quindi la sospettosità sembra un effetto della difficoltà a capire la mente degli altri: non capisco quello che pensi e a quel punto è facile che mi attivo per rilevare minacce e preferisco focalizzarmi sulle possibilità peggiori per prevenire rischi e quindi adottare comportamenti/ragionamenti protettivi, del tipo better safe then sorry.

In altre patologie un problema di carenti abilità metacognitive appare presente: nei disturbi alimentari per esempio Laghi e colleghi (2014) hanno trovato problemi di teoria della mente misurandola con un’intervista semi-strutturata. Schulte-Rüther e colleghi (2012) hanno trovato una ipoattivazione nelle aree cerebrali legate alla capacità di capire gli stati mentali durante un task di teoria della mente in adolescenti con anoressia. Di grande interesse per il clinico è che l’ipoattivazione della corteccia prefrontale mediale durante l’esecuzione del compito di teoria della mente era un predittore di scarsa risposta al trattamento.  

Nei pazienti con Alcohol Use Disorder (AUD), Bosco e colleghi (2014) hanno riscontrato una più carente capacità di comprendere gli stati mentali degli altri rispetto ai controlli sani. Da notare che in questo studio la teoria della mente è stata analizzata sia con un’intervista semi-strutturata che con un test di laboratorio (Strange Stories di Happè e colleghi). Sottolineo che il test delle Strange Stories è facile, richiede delle competenze mentalistiche minime ed analizza storie difficilmente capaci di evocare forti emozioni. Eppure i pazienti con AUD avevano difficoltà a capirle.

Nei disturbi di personalità le prove che ci siano problemi mentalistici è crescente. Semerari e colleghi (2014) hanno notato che difficoltà metacognitive misurata con la Metacognition Assessment Interview erano correlate alla gravità complessiva del disturbo di personalità. Può essere che le capacità metacognitive così misurate dipendano dal fatto che nel mentre i pazienti riflettono sugli stati mentali alcuni scopi  personali sono compromessi ed è questo a peggiorare la loro performance? Possibile, visto che l’intervista chiede di focalizzare su episodi emotivamente rilevanti.

Però i problemi mentalistici nei disturbi di personalità emergono anche usando task di laboratorio. Per esempio Ghiassi et al (2010) hanno trovato che usando un task di riordinamento di figure che richiedeva per essere eseguito di comprendere gli stati mentali dei protagonisti della storia, i pazienti borderline avevano una performance simile a quella dei controlli ma un sottogruppo con storia di parenting problematico aveva peggiore performance.

Con Martin Brüne abbiamo ipotizzato che il task utilizzato fosse troppo facile e così abbiamo sviluppato una versione più complessa del task. Il risultato è stato che pazienti con disturbo borderline di personalità avevano performance peggiore dei controlli in tutte le componenti del task: sbagliavano di più a rimettere le figure nella sequenza corretta e attribuivano con meno successo sia pensieri che emozioni. Storie di trauma e parenting inappropriato (stile punitivo) erano predittori della performance negativa nei pazienti (Brüne et al, in press).

Questo non è il luogo per una rassegna esaustiva e ho solo fornito pochi esempi di esperimenti che indagassero il ruolo di metacognizione e di una sua componente, la teoria della mente, in varie forme di psicopatologia. Sembra essere un fattore rilevante. Gli esperimenti non sono conclusivi e si prestano ad essere approfonditi. In molti casi si può sempre obiettare che se misurassimo lo stile di ragionamento del paziente sotto la pressione della compromissione di scopi emotivamente rilevanti troveremmo un fattore che causa la scarsa performance nella teoria della mente. Possibile. Possibile però anche il contrario: che pazienti con scarse capacità primarie di capire gli stati mentali siano più proni a stili di ragionamento disfunzionali quando scopi rilevanti sono percepiti come compromessi.

Lo studio di Lysaker e colleghi (2010 b) suggerisce che è possibile che problemi nel ragionamento sotto pressione (ansia sociale) e carenze nella teoria della mente, giochino contributi differenti nella psicopatologia. A me sembra a tutt’oggi l’ipotesi che merita più credito. La mente è un organismo complesso. La medicina da decenni ci dice come ci sia ben più di un fattore patologico sottostante ad un disturbo, anche quando l’eziologia è nota. Basti pensare al caso dell’HIV. La causa è nota: un virus. La patogenesi invece comprende innumerevoli sentieri che portano il virus a replicarsi e causare danni. La risposta dei farmacologici è stata spettacolare: esistono oggi farmaci che attaccano moltissimi aspetti della cascata di replicazione e modulano la risposta immunitaria del paziente. Il risultato è che la patologia è diventata curabile. Che sarebbe successo se gli infettivologi avessero ragionato in termini di o/o? 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Insonnia: fattori predisponenti e pratiche di cura

Antonella Sanzò – OPEN SCHOOL.

 

L’insonnia è un fenomeno molto diffuso: si ritiene rappresenti un problema comune a circa il 10%-15% della popolazione (Drake, Roehrs e Roth, 2003) e nonostante ciò poche persone decidono di rivolgersi ad uno specialista per porre rimedio al proprio malessere.

L’insonnia è una condizione in cui il sonno è alterato per durata, quantità e qualità: è caratterizzata da una difficoltà di addormentamento, sonno superficiale con diverse interruzioni, risveglio precoce, qualità del sonno insoddisfacente. Tali criteri possono essere compresenti in alcuni quadri clinici, come nel caso dei disturbi dell’umore, in cui si riscontra difficoltà di addormentamento, risvegli frequenti durante la notte, difficoltà a prendere nuovamente sonno dopo risvegli precoci al mattino. (Nowell e Buysse, 2001). In altre condizioni psichiche morbose, come nel disturbo di ansia generalizzata, è prevalente una difficoltà a dormire in maniera continuativa, mentre in genere non è presente una difficoltà a prendere sonno (Monti, J. e Monti, D. 2000).

Alcune malattie somatiche come l’asma bronchiale e l’ipertensione arteriosa inducono a frequenti risvegli durante la notte; altre condizioni fisiche morbose come  l’ulcera duodenale e l’artrite reumatoide possono causare difficoltà a prendere sonno. Inoltre, si riscontrano differenze anche rispetto all’età: mentre le persone giovani o di mezza età hanno prevalentemente difficoltà a prendere sonno, le persone più anziane riportano con maggiore frequenza risvegli notturni, risvegli precoci al mattino ed un sonno non ristoratore  (Drake, Rohers e Roth, 2003).

Le ricerche mostrano come coloro che soffrono di insonnia presentano un’eccessiva sonnolenza diurna, decremento della produttività in campo lavorativo con deficit di attenzione, concentrazione e memoria (Zisapel, 2007); ciò ha un’influenza negativa sulla qualità della vita. L’insonnia può essere transitoria quando si estende da giorni a settimane: in questo caso è un fenomeno temporaneo che si verifica in soggetti definiti “dormitori normali” oppure cronica quando il disturbo di sonno si protrae per mesi o anni.

Quali sono i fattori che influiscono maggiormente sull’insorgere dell’insonnia? Essa si può presentare come un disturbo reattivo a specifiche situazioni psicosociali: avere un lavoro poco remunerativo o condizioni di lavoro poco soddisfacenti, preoccupazioni per lo stato di salute di un familiare, nervosismo e tensione sono tutti fattori che influiscono positivamente con l’insorgere di problemi di insonnia (Martikainen, Partinen, Hasan, Laippala, Urponen, e Vuori, 2003). Altre ricerche hanno rilevato che un fattore determinante per l’insorgere del disturbo è rappresentato dalla risposta dei soggetti ad eventi di vita stressanti, piuttosto che la frequenza con cui questi si presentano (Drake, Roehrs e Roth, 2003): può accadere che gli individui con insonnia continuino a presentare disturbi del sonno dopo la dissipazione dello stress acuto che inizialmente avrebbe potuto innescare il disturbo stesso.

Invece, i fattori che influiscono maggiormente a determinare una durata negli anni del disturbo sono prevalentemente i disturbi medici e psichiatrici oppure condizioni di vita generalmente alterate. Le ricerche scientifiche dimostrano che l’insonnia ricorre nel 60% dei casi nei pazienti con depressione (Ohayon, 2007). In uno studio fatto sulla popolazione europea (Ohayon, 2007) è stato riscontrato che l’insonnia precede l’inizio del primo episodio di depressione il 41% delle volte ed è ad esso successivo il 28,9% delle volte. Inoltre, l’insonnia è associata anche ai disturbi d’ansia. Secondo gli studi condotti da Anderson et al., non meno del 60-70% dei pazienti affetti da disturbo d’ansia generalizzato presenta problemi di insonnia (Monti, J.M. e Monti, D., 2000). La maggior parte delle volte tale disturbo del sonno segue l’inizio del primo episodio d’ansia e la sua ricaduta, a differenza degli stati depressivi. Comunque, è difficile stabilire un preciso rapporto di causa-effetto tra insonnia e problemi psichiatrici.

Tra le malattie fisiche, invece, l’ipertensione e problemi cardiaci sono frequentemente associati all’insonnia (Martikainen, Partinen, Hasan, Laippala, Urponen e Vuori, 2003). Ma quali sono i comportamenti messi in atto più frequentemente per far fronte al disturbo? Nonostante l’insonnia sia un disturbo del sonno molto comune, spesso le persone che ne soffrono sottovalutano il loro problema e non si rivolgono ad uno specialista per un trattamento.

Un progetto di ricerca condotto nel 2007 e nato da una collaborazione tra l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e l’Università “La Sapienza” di Roma ha indagato la relazione tra disturbi del sonno e pratiche di cura: nello specifico, lo studio aveva come scopo quello di analizzare quali fossero i comportamenti di cura messi in atto dai soggetti che percepivano di avere un disturbo del sonno, verificando se tali comportamenti variavano in relazione alla gravità del disturbo. Si è considerato se i soggetti richiedevano un aiuto ad uno specialista per il loro disturbo e se essi assumevano farmaci o altri prodotti per far fronte al problema. Tra gli obiettivi dello studio vi è stato quello di effettuare uno screening dei disturbi del sonno attraverso il “Questionario sui disturbi del sonno” (Violani, Devoto,  Lucidi, Lombardo e Russo, 2004), il quale discrimina soggetti insonni e buoni dormitori; parallelamente, si è indagato il rapporto tra percezione del disturbo del sonno e pratiche di cura attraverso una scheda in cui i soggetti dovevano indicare il modo in cui affrontavano l’eventuale problema di sonno manifestatosi.

Lo studio è stato effettuato su un campione di 349 soggetti aventi un’età media di 47 anni, i quali sono stati contattati nelle sale di attesa di alcuni medici di base delle città di Pescara e provincia, Chieti e provincia e Salerno e provincia. I soggetti non sono stati selezionati sulla base della presenza di sintomi di insonnia. Ad essi è stato chiesto di compilare dei questionari auto somministrati, citati precedentemente, che indagavano la presenza di un problema di sonno e le pratiche di cura per porvi rimedio. Dai risultati è emerso che su un campione di 349 soggetti, il 57,6% presentavano un’insonnia transitoria, mentre il 24,5% presentavano un’insonnia cronica e solo il 17,9% non accusavano alcun disturbo.

Tra i soggetti nei quali è stato riscontrato un disturbo del sonno, i dati dimostrano che la percentuale di pazienti in cura presso uno specialista risulta essere bassa: essa è solo del 10% nei soggetti con insonnia cronica: precisamente, il 75% di essi era in cura dal medico di famiglia; inoltre, all’interno di questa categoria, circa il 44% assumeva prodotti per curare la malattia, prevalentemente farmaci descritti dal medico di base. Invece, tra coloro che rientrano nel gruppo di soggetti che riferiscono i sintomi dell’insonnia con frequenza inferiore ai criteri diagnostici del DSM – IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quarta edizione) e dell’ICSD-R (Classificazione Internazionale dei Disturbi del Sonno – versione Revisionata), l’1% dei soggetti ha riferito di essere in cura presso il medico di base per il problema di sonno e  il 16% assumeva prodotti per il sonno sia prescritti da un medico (27% dei soggetti), sia auto prescritti (27% dei soggetti).

Inoltre, analizzando i tipi di farmaci usati per curare l’insonnia tra coloro che riferivano di assumere prodotti per facilitare il sonno, il 47% dei soggetti ha dichiarato di usare ansiolitici, il 35% faceva uso di benzodiazepine ed il restante 18% faceva uso di antistaminici e antidepressivi. Non sono state riscontrate differenze sostanziali tra sesso maschile e femminile nei risultati riportati, né differenze rilevanti rispetto all’età, né sono state riscontrate differenze tra piccoli centri e grandi aree urbane.

Dallo studio sembrerebbe che la percentuale di insonni che chiede aiuto ad uno specialista è molto bassa e sono i soggetti che riportano sintomi di insonnia cronica a far ricorso prevalentemente al medico di base per il trattamento del disturbo di sonno rispetto ai soggetti che presentano i sintomi dell’insonnia al di sotto dei criteri diagnostici.
Il ricorso a farmaci per il sonno è frequente e questo comportamento è comune soprattutto tra coloro che presentano un quadro d’insonnia cronica.

Nello studio descritto sono presenti alcuni limiti, poiché non è stata fatta una distinzione nella percezione del disturbo del sonno e comportamenti di cura prendendo in considerazione anche la presenza o l’assenza di disturbi psichici o fisici nei soggetti: si potrebbe ipotizzare, sulla base degli studi precedentemente riportati, che siano le persone con problematiche psichiche o fisiche ad avere per lo più un problema di insonnia cronica e a ricercare maggiormente un aiuto per tale disturbo o ad assumere più farmaci che facilitano il sonno.

I risultati della ricerca descritta, sono simili a quelli rilevati in un altro studio che allo stesso modo ha analizzato i comportamenti di cura adottati dalle persone per far fronte ai sintomi di insonnia. Tale ricerca è stata svolta in Canada su campione di 2000 soggetti contattati per un sondaggio telefonico sul sonno, stato di salute ed uso di prodotti per il sonno (Morin, LeBlanc, Bélanger, Ivers, Mérette e Savard, 2011). I criteri dell’insonnia sono stati valutati mediante il DSM – IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quarta edizione)  e l’ICD – III (Classificazione Internazionale dei Disturbi, terza edizione).

Dai risultati della ricerca è emerso che il 40,2% dei soggetti presentava uno o più sintomi dell’insonnia con una frequenza di almeno tre notti a settimana nel mese precedente il sondaggio, il 19,8% si dichiarava insoddisfatto del proprio sonno ed il 13,4% soddisfaceva tutti i criteri per l’insonnia. Il 13% dei soggetti ha dichiarato di aver consultato un medico nella sua vita per i problemi di insonnia. Inoltre, il 10% ha fatto uso di medicine prescritte dal medico per favorire il sonno, il 9% ha usato prodotti naturali, il 5,7% prodotti da banco e il 4,6% ha fatto uso di alcol per stimolare il sonno. L’insonnia era associata positivamente in prevalenza al sesso femminile, all’età e alla presenza di malattie fisiche e psichiche.

Da questi dati emerge che i sintomi di insonnia sono frequenti nel campione; tuttavia, in linea con quanto è stato riscontrato nello studio sull’insonnia e sulle pratiche di cura descritte in precedenza, pochi soggetti hanno chiesto un consulto dello specialista per i loro problemi di sonno e l’uso di farmaci prescritti dal medico è la pratica terapeutica adottata con maggiore frequenza.

Spesso, i sintomi dell’insonnia sono sottovalutati sia dai pazienti, che nascondono il problema o rifiutano il trattamento, sia dai medici di base (Terzano, Cirignotta, Mondini, Ferini-Strambi e Parrino, 2006). Infatti, la grande maggioranza di persone con insonnia non sembra ricevere un trattamento adeguato e ciò ha delle conseguenze rilevanti, spesso sottovalutate, sulla salute: nel corso del tempo possono insorgere disturbi psichici e si può riscontrare un aumento dell’ uso di sostanze (Drake, Rohers, e Roth, 2003). In uno studio è stato rilevato che circa il 30% delle persone con insonnia persistente fa uso di sostanze alcoliche per favorire il sonno. Come si può facilmente supporre, questo comportamento di auto medicamento induce ad effetti di tolleranza all’etanolo e all’esigenza di assumere dosi più elevate di alcol nel tempo (Drake, Rohers, e Roth, 2003). In conclusione, l’insonnia è un problema che non è sempre riconosciuto e valutato accuratamente.

Per questa ragione, sarebbe opportuno incrementare la consapevolezza del disturbo nelle persone che soffrono di insonnia affinché esse possano adottare misure di trattamento efficaci al fine di migliorare la qualità della loro vita. Numerosi studi hanno rilevato come un trattamento di tipo cognitivo – comportamentale risulta essere efficace per migliorare la sintomatologia del disturbo, in quanto esso mira a modificare i comportamenti disfunzionali legati al sonno e a correggere le credenze distorte su di esso (Morin e Espie, 2004).

Tuttavia, non bisogna sottovalutare l’importanza dell’assunzione di farmaci per la cura dell’insonnia. Le ricerche che hanno esaminato l’associazione tra la terapia cognitivo comportamentale e l’uso di farmaci per il miglioramento dell’insonnia hanno rilevato che nei pazienti che presentano un disturbo di insonnia persistente nel tempo, si rileva un notevole miglioramento della sintomatologia se in una prima fase si ha un’unione del trattamento farmacologico con un trattamento cognitivo – comportamentale, seguito da una seconda fase di solo trattamento cognitivo – comportamentale che consente di mantenere i risultati raggiunti nel tempo. (Morin, Vallières, Guay, Ivers, Savard, Mérette, et al., 2009).

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BIBLIOGRAFIA:

Attaccamento, attenzione e regolazione emotiva: cosa guardo di ciò che vedo?

Quale ruolo ha l’attenzione nella regolazione emotiva e più propriamente nelle strategie iper-attivanti e de-attivanti? In poche parole, cosa le persone con attaccamento insicuro imparano a guardare di ciò che vedono?

Ciò che noi guardiamo della realtà che ci circonda (come usiamo la nostra attenzione) ha un peso sui processi che hanno a che fare con la regolazione emotiva.

Le Teorie dell’Attaccamento (Bowlby, 1973; 1980; 1982) descrivono come le strategie di regolazione emotiva siano influenzate dalla relazione con la figura d’attaccamento (FdA). La strategia primaria di regolazione emotiva è la ricerca di prossimità con la figura d’attaccamento.

Quando la prima strategia fallisce, strategie secondarie entrano in campo (Mikulincer et al., 2003). Gli individui con atteggiamento insicuro hanno imparato da esperienze infantili che la ricerca della prossimità con l’altro non allevia il disagio, quindi provano altre strategie. Queste strategie secondarie si dividono in due categorie: (1) strategie iper-attivanti e (2) strategie de-attivanti (Mikulincer et al., 2003; Malik, Wells & Wittkowski, 2015).

Individui con attaccamento ansioso utilizzano strategie iper-attivanti in risposta a una figura di attaccamento ambivalente. Le strategie iper-attivanti tipiche dell’attaccamento ansioso riguardano la pretesa di prossimità e cura da parte delle figure di attaccamento con espressioni emotive drammatiche, ipervigilanza rispetto alle minacce e alla separazione dalla FdA, processi cognitivi di rimuginio e ruminazione che mantengono vivi stati emotivi di allarme e disagio.

Per individui con attaccamento evitante, la ricerca della prossimità con una figura di attaccamento è costantemente frustrata poiché assente e incapace di una prossimità emotiva. Ridurre la ricerca e bastare a se stessi permette di allontanare l’esperienza dolorosa della frustrazione. Le strategie de-attivanti tipiche dell’attaccamento evitante coinvolgono: creare una distanza emotiva dagli altri, scarsa attenzione alle proprie vulnerabilità e ai segnali di minaccia a breve, medio e lungo termine, soppressione di pensieri e dei ricordi stressanti, lotta e fuga dal rischio di dipendere dagli altri.

Strategie iper-attivanti e de-attivanti hanno un impatto diretto sulla regolazione emotiva. Nel primo caso l’emotività è drammatizzata, nel secondo è ridotta al minimo se non totalmente annullata.

Ma quale ruolo ha l’attenzione nella regolazione emotiva e più propriamente nelle strategie iper-attivanti e de-attivanti? In poche parole, cosa le persone con attaccamento insicuro imparano a guardare di ciò che vedono? Su questo tema non esiste a oggi molta ricerca sperimentale. Tuttavia gli studi su attaccamento e attenzione possono comunque offrire suggerimenti per nuove prospettive di ricerca e suggeriscono una propensione a una rigida fissazione attentiva.

Nelle strategie iper-attivanti l’attenzione è cronicamente focalizzata sulla minaccia. Gli individui sono costantemente vigili e tesi a monitorare potenziali segnali di minaccia sia rispetto ai propri stati interni (emozioni e pensieri negativi) sia rispetto a relazioni interpersonali (segni di rifiuto, disapprovazione, abbandono). Questo piano di gestione dei propri stati interni li rende dei natural threat monitorers (NTM; Malik, Wells & Wittkowski, 2015). Il risultato di questo costante utilizzo dell’attenzione, indipendentemente da una reale condizione di minaccia, genera uno stato di tensione e sofferenza emotiva. Gli individui con attaccamento ansioso guardano ciò che può essere minaccioso e cercano di reagire per prevenire uno stato mentale doloroso conseguente alla realizzazione della minaccia.

Nelle strategie de-attivanti l’attenzione è cronicamente focalizzata sul mantenimento delle condizioni di sicurezza e su stimoli che possono garantirla. Solitamente si tratta di contesti relazionali e intrapersonali che sono conosciuti e che garantiscono la sensazione di essere a posto con se stessi. L’attenzione è volta a monitorare questi segnali per accertarsi della loro presenza e lo sforzo teso a mantenerli. Talvolta il contesto di sicurezza è garantito dall’adesione a rigide regole oppure a una immagine pubblica (es. vincente).

In altre situazioni il contesto di sicurezza è conferito da uno stato alterato di coscienza, figlio dell’uso di sostanze o di attività assorbenti. Il raggiungimento di queste condizioni è garantito dalla presenza di stimoli interni o esterni e sono questi su cui l’individuo con attaccamento evitante si focalizza. Non c’è spazio per l’esplorazione, stimoli inerenti la minaccia, esterna o interna, vengono ignorati mantenendo l’attenzione focalizzata nella direzione opposta (natural threat suppressors, NTS; Moss et al., 2015).

Entrambi i piani di uso dell’attenzione hanno similitudini poichè rappresentano due modi diversi di evitare il dolore emotivo del percepirsi inconsolabili o destabilizzati da una minaccia che soverchia le proprie risorse e senza la prossimità di una figura di supporto. Questo tipo di sofferenza che può avere coloriture differenti a seconda della storia di vita può essere definito come tema doloroso (Ruggiero & Sassaroli, 2013).

Vediamo di descriverli con una metafora, quella del semaforo. Il tema doloroso è rappresentato dalla luce rossa. I Natural Threat Monitorer sono fissati sulle luci gialle, segnale che il tema doloroso potrebbe scattare da un momento all’altro se non si interviene per passare oltre (oppure per smontare il semaforo). I Natural Threat Soppressor sono fissati sulle luci verdi per cercare di mantenersi costantemente in prossimità di questa zona di comfort. Il disagio emerge improvviso e destabilizzante nel momento in cui la luce verde si spegne o si perdono questi segnali attivando una spasmodica attività di ricerca mentale e fisica.

NTM e NTS condividono alcune caratteristiche: (1) l’uso dell’attenzione è rigido, persistente e pervasivo, (2) sono entrambi piani di regolazione del tema doloroso, (3) ostacolano l’apprendimento di una adeguata regolazione emotiva che potrebbe avvenire solo attraverso l’esplorazione di altri piani d’uso dell’attenzione. Nuovi piani di utilizzo dell’attenzione possono favorire il cambiamento delle credenze circa la terribilità della luce rossa, la necessità di prevenire, monitorare, evitare, sopprimere questa esperienza interna, l’utilità delle strategie di monitoraggio e soppressione della minaccia rispettivamente.

Questo uso rigido dell’attenzione ostacola la possibilità di elaborare nuove informazioni, alternative rispetto a quelle costruite nella relazione con la figura di attaccamento. Quindi ostacola nuove esperienze di apprendimento. Per esempio che da adulti l’esperienza non è così dolorosa, che non tutte le persone sono uguali, che le risorse a disposizione sono cambiate rispetto a quando si era piccini, che le emozioni e i pensieri non sono sempre affidabili per valutare la realtà e che tendenzialmente si autoregolano da soli.

I monitorer si contraddistinguono per un maggiore stress percepito e consapevolezza degli stati emotivi e delle caratteristiche della luce rossa, poiché sono costantemente rivolti in quella direzione.  I suppressor si contraddistinguono per una ridotta consapevolezza della propria vulnerabilità e delle proprie emozioni e un disagio vago, talvolta ridotto che può esplodere improvvisamente quando non si riesce a mantenere la luce verde o non si percepisce l’impossibilità di ricercarla.

Molte di queste considerazioni sono ancora a un livello speculativo e ipotetico ma possono fornire interessanti spunti per future ricerche nell’ambito dell’attenzione e della regolazione emotiva. Quindi, che cosa guardiamo di ciò che vediamo?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Terremoto dell’Aquila: depressione e alessitimia le conseguenze emotive del trauma

In breve tempo dopo essere stati esposti a un evento traumatico estremo, questi pazienti possono cominciare a sperimentare uno sconvolgimento delle esperienze emotive: se da un lato possono sperimentare stati emotivi intensi correlati al trauma, dall’altro è frequente che i soggetti sviluppino nel tempo una marcata riduzione della capacità di provare emozioni, di entità variabile.

Con il termine “alessitimia”, che letteralmente significa “non avere le parole per le emozioni”, si indica un insieme di deficit della sensibilità emotiva e emozionale, palesato dall’incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente i propri o gli altrui stati emotivi. Per diversi autori, una delle funzioni dell’alessitimia è costituita dell’evitamento degli affetti dovuto ad una difficoltà di elaborazione cognitiva degli stessi (Caretti e La Barbera, 2005).

Krystal (2007) ha suggerito che l’alessitimia può svilupparsi in risposta a traumi estremi per proteggere gli individui dall’esperire affetti estremamente dolorosi: disturbi dell’espressione e delle esperienze emotive sono spesso presenti nei pazienti che hanno sviluppato un disturbo post-traumatico da stress. In breve tempo, infatti, dopo essere stati esposti a un evento traumatico estremo, questi pazienti possono cominciare a sperimentare uno sconvolgimento delle esperienze emotive: se da un lato possono sperimentare stati emotivi intensi correlati al trauma, dall’altro è frequente che i soggetti sviluppino nel tempo una marcata riduzione della capacità di provare emozioni, di entità variabile, fino ad arrivare a una vera e propria “anestesia emozionale” (Stone AM, 1993). Inoltre, altre ricerche hanno dimostrato una forte correlazione tra il distrubo depressivo e quello alessitimico (Havilandet al., 1998; Honkalampiet al., 2000; Honkalampiet al., 2005; Lipsanen, Saarijarvi, Lauerma, 2004; Saarijorvi, Salminen, Toikka, 2001) evidenziando una difficoltà-incapacità della persona depressa di identificare ed esprimere i propri sentimenti.

Partendo da queste premesse teoriche, in una ricerca svolta da alcuni studiosi dell’Università De L’Aquila (citata in Costantini, 2012), si sono valutate le reazioni emotive della popolazione aquilana in seguito al terremoto del 6 aprile 2009. Allo studio hanno partecipato 1710 persone e a ciascun partecipante sono state somministrate le scale TAS-20 (Toronto Alexithymia Scale) per la valutazione dell’alessitimia, e BDI (Beck Depression Inventory) per la valutazione del livello di depressione.

Per quanto riguarda la correlazione tra disturbi depressivi e disturbi alessitimici, dall’analisi dei dati emerge un quadro coerente con la letteratura: indipendentemente dai gruppi di appartenenza le strategie di regolazione affettiva sono correlate positivamente al disturbo depressivo. Infatti, in tutte le analisi condotte, il punteggio BDI risulta statisticamente significativo, a dimostrare come gli effetti osservati sono mediati anche dal livello di depressione auto-valutata. Per quanto concerne i risultati emersi dalla scala di alessitimia, anche in questo caso si può affermare che l’effetto significativo per il fattore Genere mostra un quadro coerente con la letteratura, con una generale tendenza femminile a identificare con maggiore difficoltà le proprie sensazioni e una preponderanza maschile al pensiero orientato all’esterno (Taylor et al., 2007). Inoltre, le caratteristiche alessitimiche sembrano essere correlate positivamente con l’età: in entrambi i gruppi, sperimentale e di controllo, è evidente come, con l’avanzare dell’età, si ottengono punteggi più alti, ad indicare come diminuisca la capacità di regolazione affettiva.

Per quanto riguarda la variabile Gruppo, sono stati riscontrati dei punteggi significativamente più alti nel gruppo sperimentale rispetto a quello di controllo, ad indicare la presenza di una possibile correlazione con l’evento traumatico che possa aver influito sulle capacità di identificare, descrivere e regolare le proprie emozioni. D’altra parte è interessante notare come punteggi più alti siano stati riscontrati nei residenti a L’Aquila prima del terremoto (AQ-PRE), piuttosto che tra i residenti a L’Aquila dopo il terremoto (AQ-POST).

Questi risultati potrebbero essere correlati con modalità funzionali di coping utilizzate dai cittadini aquilani. Le caratteristiche di coping, infatti, sono di fondamentale importanza di fronte a eventi molto stressanti come le calamità naturali: gli esseri umani reagiscono con variabili individuali che attengono al loro sistema di conoscenze e di credenze e sviluppano comportamenti più o meno funzionali. Infatti, alcuni meccanismi (come l’avere una rete di relazioni sociali che sostiene l’individuo nei momenti difficili, la capacità di prevedere, di affrontare o di evitare un evento stressante) possono essere senza dubbio dei fattori positivi nell’elaborazione di una risposta.

Proprio sulle aspettative che il singolo soggetto nutre nei confronti della situazione stressante, Levine e Ursin (cit. in Garland, 2001) hanno considerato le strategie di coping come una delle caratteristiche fondamentali che determinano la reazione specifica del soggetto. A tal proposito, si potrebbe ipotizzare che, a fronte di una maggiore predisposizione a tratti alessitimici nel gruppo AQ-PRE, la popolazione aquilana presenta buone capacità di coping per fronteggiare situazioni di stress. D’altra parte, la questione del tipo e dell’efficacia delle strategie di coping utilizzate dai soggetti in situazioni simili, sono state e sono tutt’ora oggetto di grande attenzione da parte dei ricercatori. Tali conclusioni sono certamente interessanti ma sono pur sempre influenzabili da possibili errori o limiti nel protocollo sperimentale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Esperimento di Milgram sull’autorità: forse siamo meno crudeli di quanto si creda

FLASH NEWS

In generale, tra tutti i soggetti obbedienti e ribelli, per le fasi iniziali dell’esperimento era prevalente la strategia “wait and see” e cioè una serie di modalità interattive volte a ritardare la continuazione dell’esperimento.

Nel famoso esperimento di psicologia generale di Milgram ai soggetti sperimentali veniva richiesto di somministrare shock elettrici gradualmente maggiori e sempre più pericolosi ad un’altra persona (che di fatto era un attore che collaborava con gli sperimentatori fingendo pianti di dolore; infatti all’insaputa dei soggetti gli shock elettrici non venivano realmente somministrati!).

PSICOLOGIA DELLA DISOBBEDIENZA: Siamo uomini e caporali.

Dunque i partecipanti – a seconda della loro tendenza ad accettare e a eseguire le indicazioni fornite loro – erano categorizzati come obbedienti o ribelli: secondo i risultati del famoso esperimento la maggior parte dei partecipanti erano degli obbedienti disposti a somministrare potenti e pericolose scosse elettriche ai propri consimili.

Un nuovo studio ha cercato però, al di là degli esiti più plateali di somministrazioni degli shock elettrici, di indagare diversi aspetti di resistenza e ribellione dei partecipanti alle ciniche indicazioni sperimentali.

I ricercatori hanno recuperato e analizzato le audioregistrazioni originali di 117 partecipanti all’esperimento che interagivano con lo sperimentatore e con l’attore cui credevano di infliggere gli shock elettrici. In particolare sono state identificate diverse forme di resistenza, esplicite ed  implicite.

Le forme implicite di resistenza comprendono la categoria del silenzio ed esitazione prima di obbedire ai comandi dello sperimentatore oppure imprecazioni che seguivano e che avvenivano in risposta delle crisi di pianto dell’attore. Le forme esplicite di resistenza invece consistono nel coinvolgere l’attore vittima (ad esempio chiedendogli se se la sentiva di continuare), porre le proprie perplessità allo sperimentatore (ad esempio, facendo notare che la vittima provava dolore), e infine  l’effettiva decisione di non continuare a somministrare gli shock elettrici rifiutandosi di continuare nell’esperimento.

 

EVENTO: Prof. Philip Zimbardo – My Journey from Evil to Heroism 11 Luglio Milano.
Philip Zimbardo - Luglio 2015 Milano

In generale, tra tutti i soggetti obbedienti e ribelli, per le fasi iniziali dell’esperimento era prevalente la strategia “wait and see” e cioè una serie di modalità interattive volte a ritardare la continuazione dell’esperimento.

Ma chiaramente solo i soggetti ribelli – che ad un certo punto si rifiutavano di continuare la somministrazione delle scosse- utilizzavano strategie esplicite di considerazione della vittima e di opposizione all’autorità.

 

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Obbedienza all’autorità ed empatia: Stanley Milgram

 

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Penso dunque dipendo: il ruolo della componente cognitiva nelle dipendenze

Sempre di più e sempre più spesso si sottolinea l’importanza della componente cognitiva nelle dipendenze, tanto da arrivare a parlare di dipendenze comportamentali (o new addiction), quelle cioè che non implicano nessun utilizzo di sostanze chimiche.

Parallelamente, si è approfondito anche il ruolo del pensiero nelle dipendenze da sostanze (cocaina, eroina, ma anche nicotina). Su questa linea, un recente studio con capofila l’Inghilterra ha mostrato quanto le nostre convinzioni possano influenzare non solo la componente desiderante delle dipendenze (il craving), ma anche i circuiti neurali implicati.

Il gruppo di ricercatori ha reclutato 24 fumatori e li ha divisi in due gruppi: mentre metà era convinta di fumare sigarette senza nicotina, l’altra metà era convinta di fumare sigarette canoniche. Dopo aver fumato (tutti sigarette contenenti nicotina), i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale mentre svolgevano un compito di apprendimento basato su una ricompensa sotto forma di denaro. Confrontando le immagini raccolte è stato possibile valutare le eventuali differenze tra i due gruppi sia nelle scansioni cerebrali che nelle scelte di investimento.

NEUROSCIENZE

Intanto va detto che la nicotina è la sostanza, tra quelle che compongono le sigarette, che chimicamente crea e mantiene la dipendenza. Le sostanze nocive sono tante, ma la componente di dipendenza la porta la nicotina. Poi va detto che la nicotina stimola i circuiti neurali che nel cervello sono associati al piacere e alla ricompensa, che è quello che sostanzialmente porta alla dipendenza.

Il fatto di dire a metà dei partecipanti che le loro sigarette erano senza nicotina voleva valutare in che misura la sostanza e in che misura le credenze contribuissero a veicolare l’attività neurale delle zone adibite alla ricompensa.

Le immagini hanno mostrato che i partecipanti che credevano di aver assunto nicotina avevano un’attività cerebrale decisamente maggiore nei circuiti neurali di ricompensa e apprendimento, confrontati con quelli che credevano di fumare sigarette senza nicotina. Inoltre, i due gruppi facevano scelte diverse rispetto a se e quanto denaro investire nel compito proposto durante la scansione.

In conclusione, questi risultati ci dicono che i pensieri che una persona ha rispetto a una sostanza possono veicolare, anche da un punto di vista prettamente neuronale, la dipendenza da quella sostanza.

IL PENSIERO DESIDERANTE

Rispetto alle ricadute cliniche, questo ci dice qualcosa di più sul motivo per cui una persona percepisce una sostanza più piacevole quando si aspetta che questa lo sia, rispetto a quando non ha aspettative e pensieri a riguardo. Va da sé che si conferma l’importanza, nel trattamento delle dipendenze, della valutazione e della discussione delle convinzioni che il paziente ha circa la sostanza, perché a quanto pare queste stesse convinzioni non hanno solo l’effetto di indurlo con maggiore probabilità a ricercare quella sostanza, ma lo portano anche a percepirla come più buona di quanto non sia per le sue pure proprietà chimiche.

Infine, i risultati mostrano la componente neurologica dell’effetto placebo: la convinzione che una sostanza, in realtà neutra, possa esserci di aiuto, può portare a evidenti miglioramenti e a un aumento del benessere.

Possiamo infatti ipotizzare che questo miglioramento sia dovuto all’attivazione di aree cerebrali che solitamente sono associate all’assunzione di un farmaco, anche in assenza del farmaco stesso.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La cenerentola di Branagh: un’eroina contemporanea dentro un abito d’epoca

Marika Ferri

Nel film di Cenerentola Kenneth Branagh riprende la favola di Walt Disney e la rielabora in un racconto moderno in cui i valori si tramutano in forza da supereroina. 

Nonostante tutti quanti conoscano già la favola di Cenerentola, nonostante il regista non faccia nessuno stravolgimento del racconto lasciando intatta tutta la sostanza originaria, il film risulta essere piacevole e cattura l’interesse di adulti e bambini.

In questa sede farò un’osservazione di alcuni aspetti di area psicologica che mi hanno colpito nel film.

La storia, racconta di una ragazza di nome Ella, giovane, bella e di buona famiglia. Nel film viene introdotto un elemento di novità rispetto alla favola originaria: la protagonista ha il suo nome (Ella da Cinder-ella-) nome che va a sottolineare una demarcazione netta tra quello che la ragazza era prima (una bambina molto amata che cresce felice tra mamma e papà), a quello che diverrà dopo. Altro elemento di novità del film è il racconto della vita di Ella quando i due genitori sono ancora in vita, con i quali ha probabilmente avuto la possibilità di sperimentare una base sicura che le permette di avere fiducia nelle relazioni interpersonali.

Ma la serenità della ragazza è turbata dalla morte prematura della madre, che le ha fatto promettere di essere sempre coraggiosa e gentile con gli altri:

Sii gentile e coraggiosa. Perché c’è più gentilezza nella punta del tuo dito che nell’intero corpo di tanti altri

dice la madre di Ella prima di lasciarla. Raccomandazione che risuona costantemente nel cuore e nella testa della figlia, per la quale invidia, odio e cattiveria di ogni tipo sono sentimenti quasi sconosciuti.

Ella assiste impotente, per amore del padre, alle nuove nozze di quest’ultimo con Lady Tremaine, una donna dispotica e ambiziosa, che ha un ex principe da dimenticare e due figlie frivole e insopportabili da accasare. Dopo poco tempo morirà anche il padre di Ella, partito per un viaggio di lavoro dal quale non tornerà più. Da questo momento in poi, la vita della ragazza cambia totalmente: matrigna e sorellastre si impossessano della sua proprietà, la spediscono in soffitta dove fa amicizia con i topi e la declassano a domestica, date le ristrettezze economiche. Per giunta le sorellastre gliene fanno di tutti i colori e la scherniscono continuamente.

Un giorno, dopo essersi sporcata e impolverata perché coricata nella cenere accanto al focolare, Ella viene chiamata dalle sorellastre Cenerentola: tale episodio rappresenta una chiave di svolta per l’evoluzione del personaggio, l’espressione che accenna al margine di sacrificio e frustrazione che occorre accettare nella quotidiana decisione di esistere. La fuga a cavallo, dopo questo ennesimo sopruso, è il preludio di un nuovo inizio, di un processo di crescita manifestato attraverso un atto di vero e proprio disvelamento (da notare che nel lessico simbolico l’immagine della cenere è ricca di configurazioni associate al ritorno ciclico della vita e al rinnovamento).

Nel bosco, incontra Kit, un ragazzo cortese che lavora a palazzo e al servizio del re. Il resto è storia nota: un ballo a corte aperto a tutti i sudditi, il colpo di fulmine per il principe azzurro e la tanto agognata scarpetta da calzare per mettere a posto la vita…

Molto interessante, è il risvolto psicologico dei due personaggi. Sia Ella che Lady Tremaine hanno lo stesso tema doloroso da affrontare. Ma reagiscono alla sofferenza in modo opposto, a tal punto che la matrigna diviene la nemesi del personaggio di Cenerentola.

Ella, la protagonista, è una ragazza giovane, bella e buona che si trova ad affrontare il trauma della perdita di tutto ciò che di bello c’era nella sua vita precedente: i genitori, l’affettività, una vita agiata. Come riesce a salvarsi? Cercando di affrontare questo dolore, è realista ed umile, accontentandosi di una vita sfortunata e piena di soprusi facendo tesoro degli insegnamenti trasmessi dalle figure genitoriali. Prima di tutto la gentilezza.

Cerchiamo di capire meglio cosa intendiamo, quando parliamo di gentilezza, tanto per non cadere in concetti scontati. Gentilezza come costrutto che ha un valore nel contesto dei rapporti umani e un effetto positivo, in quanto riduce la distanza emotiva tra gli individui migliorando la capacità di mettersi nei panni degli altri. Pensiamo al grande potere dell’uso della gentilezza, facendo magari riferimento ai nostri antenati che, per sopravvivenza, hanno dovuto imparare a collaborare. 

Anche Cenerentola ha utilizzato la gentilezza per la sua sopravvivenza. E non si tratta di una gentilezza che autodistrugge, dettata da un bisogno di approvazione e di bassa autostima che contraddistingue le persone insicure e fragili. E’ una gentilezza caratterizzata dal rispetto e da un sentimento di dignità per gli altri e per se stessi, che dà senso e valore al proprio progetto di vita.

Ecco che viene a delinearsi nel film una Cenerentola che forse non ci aspettavamo, una donna indipendente e determinata, che ha coraggio e non subisce il proprio presente, è pronta a tutto pur di rimanere fedele a se stessa e ai suoi valori.

Nell’incontro a cavallo tra Ella e Kit non abbiamo a che fare con una ragazza addolorata e vittima che sogna di essere salvata dal principe azzurro. Lo incontra e se ne innamora. Ella è una donna forte in grado di salvarsi da sola, e non dipende da un uomo o da una fata che si prende cura di lei.
Quando si reca al ballo di nascosto, dopo che le sorellastre le hanno strappato il vestito, dimostra di sapersi prendere quello che vuole senza chiedere permesso e senza farsi scoraggiare dall’invidia altrui.

Lady Tremaine, è una donna matura e viscerale che si trova a dover affrontare lo stesso tema doloroso di Ella. La matrigna ha sempre visto infrangere i propri sogni, sia nel primo che nel secondo matrimonio. Non le rimane più nulla e non è in grado di tollerare un destino che può evolvere diversamente da quanto lei abbia desiderato per sé e per le figlie. Non vuole entrare dentro questa sofferenza e sente il bisogno di sognare una vita ricca e fastosa. In questo modo la matrigna continua a non affrontare il dolore del fallimento del suo progetto esistenziale. Tale sogno può essere perseguito solo se riesce a sistemare le due figlie con mariti ricchi e nobili. E lei lo fa in maniera rigida, utilizzando la malvagità e il disprezzo nei confronti della semplicità della vita. Quando è in difficoltà, usa la manipolazione delle relazioni e momenti di rabbia disregolata. 

Lady Tremaine, acuta ed intelligente, è la sola ad accorgersi (non certo le figlie) che la misteriosa sconosciuta che ha conquistato il principe al ballo è proprio Ella. A quel punto cerca di scoraggiarla dicendole strategicamente che il principe è stato promesso in sposo ad una nobile principessa. La cattiva matrigna rimane fedele al suo personaggio fino alla fine, anche quando viene smascherata dal Principe di fronte al complotto escogitato contro Ella , chiudendola in soffitta per non farle calzare la scarpetta di cristallo trovata sulle scale del palazzo reale.

In questo momento finale, la vera protagonista del film è la matrigna, la quale rivela a Ella di essere così cattiva con lei perché invidiosa della sua bellezza e della sua bontà. E come reagisce Cenerentola?! Fiera, determinata e con gentilezza : …io ti perdono ...

Il successo del film è da attribuire alle incantevoli scenografie, alla bellezza dei costumi e ad una attenta descrizione del profilo dei personaggi principali. E perché no… anche del desiderio di sognare presente in ciascuno di noi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Chevalier, J., Gheerbrant, A. (1986) Dizionario dei simboli. Rizzoli, Milano
  • Zambrano, M.(2000). Delirio e destino. Milano, Raffaello Cortina
  • Bettelheim, B. (2000). Il mondo Incantato. Feltrinelli 

Tracce del Tradimento – Il patto prima del tradimento (02)

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Il patto prima del tradimento (02)

 

Il tradimento presuppone la lealtà e la condivisione. Prima del tradimento c’è un patto, un contratto, un accordo esplicito tra persone. Dal latino “tradere” (consegnare, portare) tradendo si porta qualcosa da uno all’altro. Si consegna al nemico un segreto, l’arma vincente.

Occorre aver condiviso qualcosa con qualcuno per poterlo tradire, e occorre presupporre la fiducia a un patto per poterla tradire. La fiducia è descrivibile come un atteggiamento psicologico che presuppone che l’altro stia a delle regole condivise. Si fa affidamento sul fatto che un altro non mi danneggerà e condividerà scopi con me.  

Può esistere una fiducia forte con regole e scopi condivisi (un matrimonio, un team di ricercatori)  e una fiducia più debole con regole condivise ma con scopi diversi (un gruppo di amici).

Il tradimento, come sottolinea la Turnaturi (2000), appartiene a uno statuto moderno di patti tra individui che viene visto come tradimento del patto di fedeltà verso un’ altra persona o verso molte persone. Anticamente il tradimento era il tradimento di un’etica condivisa di un patto sociale fondante. Oggi siamo più soli e tradiamo alcune persone perché liberamente preferiamo portare avanti scopi individuali invece che stare al patto che avevamo sancito con quella determinata persona.

Possiamo parlare di tradimento in una coppia soltanto quando si sia stipulato tra i due amanti un patto di fedeltà reciproca che può riguardare gli aspetti sessuali, affettivi o addirittura lavorativi.

Il tradimento in una coppia è l’abbandono unilaterale del  patto fondante da parte di uno dei due membri. Spesso questo accade  senza arrivare a dichiarare l’abbandono in modo esplicito.  Per parlare di tradimento uno dei contraenti deve non essere  d’accordo sulla rottura del patto anzi non pensa che potrebbe avvenire oppure lo teme e ne immagina le conseguenze con dolore. Ne soffrirebbe se sapesse. Uno dei due, il tradito presume la fedeltà al patto che invece viene infranta, “tradita”; è la persona che ha subito il tradimento non voluto, a definire la rottura del patto “tradimento” .

Spesso chi mette in atto il tradimento racconta un’altra storia, interpreta il tradimento effettuato come atto di fedeltà a se stesso, lo giustifica come la risposta necessaria a vecchi torti subiti, oppure con la noia che il partner ormai comunica, oppure con lo scadere dell’interesse per l’altro, o anche con il desiderio di un futuro diverso e migliore. O se non vuole mettere in discussione il partner, sostiene  che  l’innamoramento per un altro di maggiore bellezza o qualità o doti sociali sia un giusto premio alle proprie qualità, alla propria carriera, ai propri complessi desideri sessuali .

Oppure chi tradisce lo fa e lo racconta non come una scelta ma come una “necessità”. Come ad esempio la necessità fisiologica ed erotica di un migliore equilibrio sessuale che con il vecchio partner si era logorato, o si era lentamente abbandonato dentro una routine ormai sbiadita.

In Occidente di questi tempi la tendenza al tradimento viene anche socialmente spinta da pressioni dei media, televisive, da immagini, da un costume apertamente libero e ideologico. Si tradisce anche perché è morente l’idea della fedeltà per ragioni morali superiori, religiose, del costume. Il tradire è anche a volte ciò che vediamo del “ e perché no” perché non avere una macchina enorme che ci rappresenta grandi e invidiabili, perché non andare a cento all’ora, perché non essere più potenti con la cocaina o aggressivi o “ vincenti”.

Vi è oggi anche una vicinanza grande, ad esempio a scuola e nel lavoro tra ragazzi e ragazze tra donne e uomini. Le divisioni sessuali che giustamente esecriamo in quanto sono il segno di una cultura  o di una religione “discriminativi”, rendono nelle società meno secolarizzate più difficili gli incontri, le amicizie e gli amori. Il tradimento è poi forse diverso nelle diverse età della vita, tradire la compagna di banco per un adolescente può forse essere soprattutto una spinta esplorativa alla conoscenza dell’altro, mentre tradire la propria moglie mentre allatta e non è sessualmente disponibile può essere  un segnale di scarsa capacità da parte del traditore di prendere le proprie responsabilità in modo pieno e maturo.

Un cinquantenne che tradisce la propria moglie appena entrata in menopausa e quindi  nel momento in cui la sessualità necessita di un impegno, di una manutenzione e di uno sforzo di reciproca accettazione risponde forse sia ad una spinta genetica a mantenere viva la propria potenzialità a fecondare femmine diverse, che alla rinuncia al dolore e alle capacità di accettazione che comporterebbe la fedeltà a un vecchio patto condiviso.  La sessantenne che si stanca del marito operato di prostata, non vuole invecchiare e si illude di perpetuare la giovinezza con la compagnia di uomini più giovani ne è un altro esempio.

Insomma i tradimenti cambiano anche e funzionano diversamente nelle diverse età della vita.  Il tempo del rapporto inoltre non costituisce una variabile ininfluente, perché più lungo è stato il tempo del patto condiviso più si sono ridotte le possibilità del tradito di ricostruirsi una vita e rafforzare le illusioni di potersi fidare. Il dolore può essere più grande e l’uscita dal rapporto maggiormente problematica.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Trauma prolungato e Dissociazione: I più deserti luoghi (2015) di Silvana Gandolfi

Non è paranoia, mi dico da clinico. È dissociazione in pieno. Personaggi immaginari che iniziano a muoversi nell’immaginazione senza controllo, come i nemici che ti sono in casa quando sei tornato dalla guerra in Iraq.

I traumi in ambito relazionale frammentano la mente, la disgregano, disintegrano. Lo hanno insegnato, sulle orme di Janet, i lavori di Van der Hart, Liotti, ce lo confermano i lavori sperimentali degli ultimi anni (una menzione a quelli fatti in casa SITCC da Farina e colleghi). La letteratura non può mancare di pescare in questo processo.

IL TRAUMA

Recentemente il romanzo “I più deserti luoghi” (Ponte alle Grazie) di Silvana Gandolfi, ne offre un esempio. Una donna, quarantasette anni, si occupa del fratello disabile, un danno cerebrale nella prima infanzia. Lo accompagna da sola, lo accudisce, a loro modo sono una coppia isolata dal mondo. Del padre si sa che è fuggito in Australia con l’ultima squinzia, la madre è morta dopo lunga malattia del sangue. Come traumi non è roba da poco. Aggiungete che il ruolo di caregiver poi, quando ci si confronta con situazioni estreme, non fa benissimo alla salute psichica.

Ce n’è abbastanza per far dissociare la protagonista? Teorie alla mano direi di sì. E alla protagonista questo succede. Inventa un “gioco” col fratello, nient’altro che un esercizio compulsivo di uso della proiezione.

LA DISSOCIAZIONE

Il fratello è cieco e parla a fatica. E lei gli fa vedere persone intorno, descritte con mille sfumature, lo fa scrivere in modo forbito, teme che lui possa leggere il diario in cui parla della “Casa della Strega”, di un luna park che vide dall’infanzia e che forse avrà preso dal Popolo dell’autunno  di Ray Bradbury. Teme che lui legga il diario e si dice, giustamente, che sta diventando paranoica. Non è paranoia, mi dico da clinico. È dissociazione in pieno. Personaggi immaginari che iniziano a muoversi nell’immaginazione senza controllo, come i nemici che ti sono in casa quando sei tornato dalla guerra in Iraq.

E la cosa peggiore in questi casi è il senso di colpa. Se il malato dipende da te, come te ne stacchi? Puoi farti una vita se hai un fratello in carrozzina? No. La mente regge un’esperienza del genere? No. Che resta da fare? Dissociare direi.

Creare un mondo alternativo, con un interlocutore vitale: “Ma io so che dietro l’apparenza inerte, pensieri vividi vengono elaborati e vagliati dalla sua mente”. L’alternativa: abbandonare, istituzionalizzare, ascoltare il senso di colpa, lasciarlo andare via, vivere. In tanti casi operazioni semplicemente impossibili. Il “Gioco”. Lui sceglie un luogo, un itinerario. Lei lo abita. Un gioco padrone/schiava in realtà, in cui la schiava avrebbe pieno potere, ma è il malato che comanda, un tiranno eletto in piena volontà.

La realtà si intrufola camuffata nei processi onirici e dissociativi. Olga, la protagonista, nota che il fratello non mette mai esseri umani nei suoi scenari fantastici. Ci mette tsunami, vegetazione in abbondanza. Segno direi, che riconosce che nella mente del fratello c’è vita ma fino a un certo punto. La comparsi di un granchiolino sembra già un successo, un segno di evoluzione.

Il romanzo si sviluppa così, il “Gioco” nasconde personaggi letterari (benvenuta Anna Karenina), ricordi, fantasmi, morti, sadismo psicologico, vita e ancora prigione. Leggerlo da clinico è un gioco di un altro livello: analizzare la mente della protagonista e riflettere su come gli eventi della vita abbiano disgregato la sua mente e come il processo narrativo la aiuti a tenere insieme i pezzi. Ci riesca o no, non è mio compito svelarlo al lettore. Si chiamerebbe spoiler.

 

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Kramer contro Kramer (1979) e la mediazione familiare – Cinema & Psicologia

La visione del film scuote gli animi, sopratutto di quelli che si trovano a vivere situazioni sovrapponibli. Il film ha una grande espressione narrativa e si aggancia chiaramente alla mediazione familiare, ramo, tra l’altro in forte sviluppo proprio negli anni in cui è uscito il film.

Kramer contro Kramer (1979) film di Robert Benton. Protagonisti gli attori Dustin Hoffman e Meryl Streep. Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Avery Corman del 1977, il film è centrato sulla battaglia legale di un ex coppia di coniugi ed il loro figlio.

New York. Ted Kramer è un pubblicitario ossessionato dalla sua professione e al quale lo stesso giorno in cui finalmente gli viene assegnato un importante incarico di lavoro trova la moglie, Joanna, in procinto di andarsene di casa, bisognosa di un po’ di tempo per riflettere sulla sua vita, lasciandolo solo con il figlio Billy. Ted a causa di questo nuovo lavoro a cui non vuole rinunciare, non riesce a dedicare al figlio il tempo necessario e quest’ultimo sente molto la mancanza della madre, ma, mese dopo mese Ted comincia a rendersi conto dell’importanza che il figlio ha nella sua vita, scende a compromessi con la sua vita professionale e tra i due nasce una forte intesa, tanto che Billy non sente neanche più la lontananza dalla mamma (la prima e l’ultima scena della colazione saranno l’elemento chiave di come il rapporto tra i due cresce).

Quindici mesi più tardi Joanna torna a New York. Incontra il marito, e gli comunica la sua intenzione di riavere Billy, Ted non è d’accordo. Inizia da qui una battaglia legale per la custodia del bambino. Ted viene accusato inizialmente di non essere un buon padre per aver negato alla moglie di rivedere il bambino e a causa di un incidente capitato qualche mese prima al parco giochi. Joanna viene accusata, sebbene in maniera minore, per non essere stata presente in quei mesi ad aiutare il padre in caso di bisogno.

La causa viene vinta da Joanna che si aggiudica il diritto di custodire il figlio. Ted vorrebbe ricorrere in appello, ma l’avvocato gli confida che in tal caso lo stesso Billy dovrebbe presentarsi in tribunale, così Ted che non vuole far subire tale trauma al figlio, rinuncia. L’ultima scena vede Ted nell’impresa di spiegare al figlio cosa sta per accadere, Billy vuole rimanere con il padre. Il film si conclude con una presa di coscienza della madre, che si chiede cosa è meglio per il figlio e permettendogli quindi, nonostante la sentenza, di rimanere con il padre.

La visione del film scuote gli animi, sopratutti di quelli che si trovano a vivere situazioni sovrapponibli. Il film ha una grande espressione narrativa e si aggancia chiaramente alla mediazione familiare, ramo, tra l’altro in forte sviluppo proprio negli anni in cui è uscito il film.

Il critico cinematografico Paolo Mereghetti muove un rimprovero al film. A suo giudizio, esso «evita, in nome di una obiettività non sempre corretta, di prendere posizione per uno dei personaggi e di affrontare le situazioni realmente sgradevoli che pure la storia poteva prevedere. A parer mio, invece, offre una linea guida fondamentale su come alla fine bisognerebbe amministrare la gestione di un figlio quando si è in procinto o in via di separazione.

Tante volte, come nel film la strada viene intrapresa dagli interessati che riescono ad aprire nuovi canali comunicativi in modo indipendente e razionale, i Kramer infatti alla fine non legano il loro rapporto alla sentenza emessa.

Joanna vince la causa, ma solo perché Ted rinuncia per il bene del bambino a non farlo comparire in giudizio, Ted ottiene lo stesso l’affidamento, ma solo perché l’ex moglie si rende conto che il figlio sta benissimo con il padre, a volte invece i canali comunicativi sono interrotti (da sentimenti di rancore, rabbia) e si perde di vista l’obiettivo centrale, soprattutto nelle separazioni in cui sono presenti i figli, che è quello che vede l’interesse del minore sopra ogni cosa.

La separazione diventa una guerra malata in cui le parti non metabolizzano l’evento, non si capacitano del nuovo assetto di vita, non si rimboccano le maniche per raccogliere quello che è rimasto e con questo, ciò che si può ricostruire. Sebbene non tutti possono essere ammessi in un percorso di mediazione, la figura del mediatore a parer mio è utile e necessaria.

La mediazione familiare è una forma di “alternative dispute resolution” che permette la ricostruzione dei canali comunicativi tra parti che si trovano in una situazione di conflitto, integra i punti di vista opposti con un approccio dialogico e negoziale (Bogliolo C. & Bacherini A.M., 2010).

La figura del mediatore è quella di un terzo neutrale che si pone in posizione di equivicinanza tra le parti, questo si concentra sul presente e sul futuro della nuova coppia che dovrà rimodellarsi con il nuovo assetto individuando obiettivi ideali per una prospettiva futura, la più serena possibile. Nella mediazione ci sono diverse fasi da affrontare (ammissione, negoziazione, follow-up) tutto con un fine ultimo, nelle parole più semplici che si possano trovare, permettere alla coppia e in nome di quel che ne rimane, di decidere la migliore organizzazione dei futuri rapporti.

Ormai ci si dichiara “ex” nella maggior parte delle coppie, ma lasciandoci non diveniamo automaticamente degli sconosciuti né noi né il nostro ex-marito, ci conosciamo fin troppo bene, la più intima abitudine, gli ideali, i tempi di vita e per non devastarci e permetterci e permettergli di ricostruire una nuova versione di vita è necessario aprire gli occhi e capire che a nulla porterà una guerra, il rancore e l’odio, questi ci saranno alleati si, ma solo nella perdita di un tempo che non tornerà.

Kramer contro Kramer premiato agli Oscar per regia, sceneggiatura, attore protagonista, attrice non protagonista, ai Golden Globe come miglior film drammatico e candidato a diversi altri premi cinematografici è una pietra miliare della storia del cinema, per tantissimi aspetti ma soprattutto per la narrazione di una rivoluzione generazionale instauratasi senza troppa analisi e che necessita di riassettare paradigmi ormai scaduti.

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BIBLIOGRAFIA:

Il dolore: cosa succede a livello cerebrale?

FLASH NEWS

Quando il dolore percepito è di breve durata, lo stimolo viene elaborato a livello delle aree sensoriali mentre, quando tende a prolungarsi nel tempo, anche solo di qualche minuto, sembrerebbe che l’attività cerebrale sottostante a tale processo coinvolga le aree deputate all’ elaborazione delle informazioni emotive.

Il dolore rappresenta il mezzo attraverso cui l’organismo ci segnala che c’è qualcosa che non va, che siamo di fronte ad un potenziale problema. Sebbene si tratti di un importante campanello d’allarme, quando tale esperienza si protrae nel tempo, mantenendosi continua ed intensa, può trasformarsi in una vera e propria malattia.

Alcuni ricercatori della Technische Universität München (TUM) si sono dedicati allo studio di tale problematica, cercando di fare chiarezza sui meccanismi sottesi all’esperienza di dolore cronico e sulle differenze che la caratterizzano rispetto a quelle forme di dolore che mantengono un valore adattivo.

Da questo studio è emerso in modo particolare una differenza a livello delle aree cerebrali che risultano attivate nelle differenti esperienze dolorose. Quando il dolore percepito è di breve durata, lo stimolo viene elaborato a livello delle aree sensoriali mentre, quando tende a prolungarsi nel tempo, anche solo di qualche minuto, sembrerebbe che l’attività cerebrale sottostante a tale processo coinvolga le aree deputate all’elaborazione delle informazioni emotive.

Scopo dello studio è stato quello di indagare in che modo la durata del dolore influenzi l’attività cerebrale e come possa intervenire su tale meccanismo l’attività di un placebo. Pertanto, ai 41 soggetti che hanno preso parte allo studio è stato chiesto di indossare una cuffia con 64 elettrodi al fine di monitorare il livello di attivazione delle diverse aree nel corso dell’esperimento. Ciascuno di essi è stato poi sottoposto per un periodo di circa 10 minuti a stimoli dolorosi di diversa intensità sul dorso di una mano, mentre con l’altra mano doveva indicare con un cursore il grado di dolore percepito su di una scala da 1 a 100.

I risultati ottenuti hanno messo in evidenza come in effetti, nonostante lo stimolo doloroso avesse una durata di soli 10 minuti il fatto che esso fosse duraturo nel tempo determinava non soltanto l’attivazione delle aree sensoriali ma anche di quelle deputate all’ elaborazione dei processi emotivi.

In una seconda fase dell’esperimento è stato dimostrato come non sia solo la durata dell’esperienza dolorosa ad influenzare la percezione di un particolare stimolo, ma anche un’anticipazione dello stimolo stesso. Durante questa fase, 20 soggetti appartenenti al campione oggetto di studio sono stati sottoposti ad una doppia stimolazione dolorosa sempre sul dorso di una mano ed è stato poi chiesto loro di esprimere verbalmente il grado di intensità percepito.

In seguito all’applicazione di due tipi di creme di cui una veniva presentata come in grado di alleviare il dolore, veniva chiesto loro di valutare nuovamente il dolore percepito. Sebbene nessuna di queste due creme contenesse una sostanza attiva, i soggetti valutavano il dolore sull’ area della pelle su cui era stata applicata la crema che presumibilmente era in grado di alleviare il dolore come effettivamente inferiore rispetto a quello percepito sull’ altra area della pelle.

Afferma Markus Ploner, autore dello studio:

“I nostri risultati mostrano come i nostri processi cerebrali siano differenti anche di fronte ad uno stesso stimolo doloroso. Una mappatura sistematica e una migliore comprensione di questo complesso fenomeno neurologico del dolore nel cervello è un grande cambiamento, ma è assolutamente essenziale per migliorare il trattamento terapeutico di questo tipo di pazienti”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La stanza della vita amorosa – VIDEO –

La vita amorosa di una coppia dura 7 minuti ed è racchiusa in una stanza

Sette minuti di filmato (Me & You, di Jack Tew) sono sufficienti per far tornare alla mente storie d’amore passate, lette, vissute o raccontate. Quelle storie che partono in sordina e poi sfociano nella passione travolgente, dove apparentemente non manca nulla. C’è feeling, complicità, divertimento e affetto.

Fuori dalla stanza, metafora dell’esistenza del giovane nella quale è approdata lei, la vita continua a scorrere, ma loro sembrano non accorgersene. Fin dall’inizio lui decide, più o meno consapevolmente, di accogliere la ragazza nella sua vita preparandole una stanza ad hoc. Tutto è perfetto, i giornali (i propri interessi) vengono nascosti nella mensola più alta della stanza, forse verranno dimenticati. Non ci sarà più spazio per nessuno, incantati dall’illusione di bastare a loro stessi per soddisfare tutti i bisogni.

Mentre si guardano intensamente negli occhi i due ragazzi perdono la visione d’insieme. Entrano in una spirale onirica che gira costantemente su se stessa senza portare in alcuna direzione. La coppia entra nel caos, i confini si fondono, vengono a meno l’ordine, gli scopi, la progettualità. I cerchi della spirale si fanno sempre più stretti, fino all’esaurimento delle risorse.

Ed ecco che la magia svanisce. Arriva la rabbia, la pretesa arrogante di invadere lo spazio dell’altro (i vestiti lanciati dall’altra parte del letto), le recriminazioni, la rottura. Come reagirà il ragazzo? Cederà al ricordo (il vecchio pupazzo che arriva dalla finestra) o ricomincerà da se stesso? Ritroverà i vecchi giornali nascosti sulla mensola?

Un video romantico che non mancherà di riportare alla mente, forse con il sorriso, qualche esperienza personale di gioventù.

 

 

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