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Scopi e funzioni cognitive-metacognitive: il ruolo della ricerca scientifica

Nuovo contributo di Francesco Mancini nel dibattito sulle recenti evoluzioni del paradigma cognitivo comportamentale e il passaggio ai modelli successivi...

Di Francesco Mancini

Pubblicato il 24 Mar. 2015

Aggiornato il 30 Mar. 2015 12:48

Gli interventi di Dimaggio e Ruggiero, successivi al mio post, hanno toccato argomenti sicuramente importanti ma ho l’impressione che, trascinati dalla passione per le idee, hanno rischiato di dare una rappresentazione non del tutto chiara di alcune questioni. Cercherò di riportare il dibattito su un piano, spero, più utile per chi legge.

Dimaggio afferma:

“la dicotomia … tra una psicopatologia scopi/credenze e una psicopatologia deficit funzioni mentali superiori è falsa.”

Ruggiero, al contrario, afferma:

“Il nocciolo del processualismo è la critica della psicopatologia delle credenze e la sua sostituzione con una psicopatologia delle funzioni.”

I due, dunque, la pensano in modo opposto. Il primo appare favorevole alla integrazione, il secondo alla dicotomia.

Per parte mia, come ho già scritto (vedi il mio ultimo post su State of Mind), la questione è complessa e la soluzione non può che essere empirica. Le ragioni per le quali un paziente ha difficoltà a compiere determinate operazioni cognitive/metacognitive possono essere tante. Alcune rimandano a deficit di competenze cognitive/metacognitive, e, in questo caso, i deficit coinvolti possono essere molto diversi tra loro.

Ad esempio, deficit generali, come basso QI; deficit specifici, ad es. deficit di ToM e deficit di funzioni esecutive; o anche scarsa esperienza. Altre ragioni possono essere gli stati mentali del paziente, cioè il contenuto della sua mente, vale a dire scopi/credenze attivi in un dato momento, e, in questo caso, è opportuna una successiva distinzione.

Infatti, è possibile che gli stati mentali “orientino” le funzioni cognitive/metacognitive, di solito in modo da minimizzare il rischio di errori cruciali per gli scopi del paziente stesso (vedi la vastissima letteratura scientifica di psicologia cognitiva generale), ma è anche possibile che gli stati mentali ed emotivi del paziente siano tali da ostacolare le funzioni cognitive/metacognitive, come può accadere, ad esempio, in caso di rabbia molto intensa. Dunque le possibilità sono tante, ed è ragionevole richiedere le prove a chi sostiene che una o più di queste entrano in gioco in un determinato disturbo.

Personalmente non ho mai avuto grande fiducia nelle soluzioni nominalistiche, quindi mi sembra che possa non essere di molto aiuto il suggerimento di Dimaggio che ha “cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema.”

Al contrario ho più fiducia nella ricerca sperimentale. Per illustrare con un esempio questo punto, approfitto di una ricerca che è in press sul JBTEP (Gangemi, Mancini e Dar, 2015). Da alcuni anni è stata proposta una teoria (Aardema et al., 2003, 2007; O’Connor & Robillard, 1995, 1999) per spiegare perché i pazienti ossessivi dubitano, ad esempio, che la porta di casa sia chiusa nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar con mano che è chiusa. Secondo questa teoria ciò dipenderebbe da una disfunzione cognitiva: l’inferential confusion.

L’inferential confusion sarebbe una forma di elaborazione delle informazioni caratterizzata da sfiducia nei confronti delle informazioni che provengono dai propri sensi, come la vista e il tatto, e un eccesso di fiducia nelle possibilità che il paziente considera o immagina. In un certo senso si potrebbe dire che l’inferential confusion è strettamente connessa con la difficoltà a discriminare tra fatti e proprie rappresentazioni dei fatti, quindi con un deficit metacognitivo.

Secondo questa teoria il paziente ossessivo continua a sospettare che la porta di casa non sia chiusa, nonostante veda e tocchi con mano che è chiusa, perché si affiderebbe di più a delle possibilità astratte che immagina, “potrei non avere girato del tutto la chiave”, che alle informazioni provenienti direttamente dai sensi: vedere e toccare la porta chiusa.

Credo che Ruggiero la definirebbe una teoria funzionalista poiché non fa alcun riferimento a scopi e credenze del paziente ma solo a disfunzioni strettamente cognitive o, forse, metacognitive.

Questa teoria ha due meriti, entrambi rari in questo campo. Il primo è il supporto sperimentale, il secondo è che la teoria è formulata in modo sufficientemente preciso da essere falsificabile.

L’esperimento più robusto a sostegno è il seguente. Lo riferisco per sommi capi. A pazienti ossessivi e a un gruppo di controllo è stato chiesto di immedesimarsi nel protagonista di una vignetta.

“Immagina che stai guidando l’auto per andare in ufficio. Questa mattina hai letto sul giornale di un incidente in cui l’autista di camion ha investito una persona e si è allontanato senza essersene accorto. Ti chiedi come sia possibile che non ci si accorga di una cosa del genere. Mentre guidi, arrivi ad un incrocio e ti fermi al semaforo. C’è molta gente che aspetta di attraversare. Noti un gruppo di ragazzi che si inseguono correndo avanti e indietro attraverso la strada. Appena il semaforo diventa verde parti accelerando. Attraversando l’incrocio odi un grido e senti un colpo.”

A questo punto gli sperimentatori chiedevano ai soggetti di indicare le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente. Poi ai soggetti erano presentate delle informazioni del tipo:

“Guardi nello specchietto retrovisore e vedi una buca”, cioè una informazione proveniente dalla realtà percepita visivamente. A questa informazione seguiva un’altra informazione “La buca potrebbe non essere stata profonda abbastanza da causare il colpo”. Questa informazione riguardava una possibilità astratta, non sostenuta dai fatti percepiti.

Seguivano altre due coppie d’informazioni in cui si alternavano informazioni provenienti dalla realtà percepita attraverso i sensi e informazioni riguardanti possibilità astratte.

Dopo ogni informazione si chiedeva ai partecipanti di rivalutare le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente.

I risultati sono stati che i pazienti ossessivi aumentavano le probabilità attribuite all’incidente molto più dei controlli soprattutto dopo che avevano ricevuto informazioni su possibilità astratte e, a differenza dei controlli, non tenevano in gran conto le informazioni provenienti dalla realtà percepita.

Secondo gli autori ciò dimostrerebbe la teoria della inferential confusion.

Sembrerebbe, quindi, che una teoria funzionalista del DOC abbia ricevuto una conferma sperimentale, a discapito delle Appraisal Theories, cioè di quelle teorie che intendono spiegare il DOC ricorrendo agli scopi/credenze del paziente.

Tuttavia, nell’esperimento che ho riassunto c’è un possibile baco. Infatti, a ben vedere, le informazioni di realtà erano sempre rassicuranti mentre quelle astratte erano sempre di pericolo. Quindi è possibile che i pazienti ossessivi abbiano dato peso alle informazioni astratte perché erano informazioni più rilevanti per i loro scopi, cioè rispetto alla preoccupazione di aver commesso un errore colpevole.

Due teorie a confronto, quindi, una funzionalista e una contenutista, cioè un’Appraisal Theory.

 

Ottima occasione per un esperimento cruciale.

Per realizzarlo abbiamo utilizzato lo stesso scenario e la stessa procedura dell’esperimento originario ma abbiamo invertito la valenza delle informazioni, cioè abbiamo fatto in modo che le informazioni di realtà fossero di pericolo (“guardi nello specchietto retrovisore e non vedi alcuna buca nella strada”) e quelle astratte fossero rassicuranti (“La buca potrebbe non essere visibile attraverso lo specchietto”).

L’esperimento così congegnato ha dato risultati contrari alle previsioni della teoria funzionalista ma compatibili con le Appraisal Theories. I pazienti ossessivi hanno cambiato la probabilità attribuita all’evento temuto sulla base della valenza delle informazioni ricevute (informazioni di pericolo o rassicuranti) senza tener conto se l’informazione era proveniente dalla realtà percepita o se riguardava una possibilità astratta.

I pazienti ossessivi, quindi, sospettano, ad esempio, che la porta di casa sia aperta nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar con mano che è chiusa, non per una disfunzione cognitiva ma perché elaborano le informazioni in modo congruo con le proprie preoccupazioni. Vale a dire, come numerose altre ricerche suggeriscono (vedi mio post precedente su State of Mind), congrue con il timore di doversi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa e dunque di aver facilitato l’ingresso dei ladri.

Se temo di dovermi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa, allora è meglio non sottovalutare la possibilità che sia rimasta aperta.

Tutto questo è congruo con tanti altri risultati della ricerca sul DOC, ma non dice NULLA su cosa accade in altri disturbi. Tuttavia suggerisce dove cercare una risposta alla domanda:

“ha ragione Ruggiero quando critica la psicopatologia di scopi/credenze e propone di sostituirla con una psicopatologia delle funzioni?”

e anche alla domanda:

“ha ragione il Dimaggio degli ultimi tempi, quando suggerisce che entrano in gioco sia scopi/credenze sia deficit, disfunzioni, carenze o fallimenti delle funzioni cognitive superiori?”

La risposta, come spesso accade, è da cercare attraverso il metodo scientifico. E, dunque, modelli chiari e falsificabili ed esperimenti.

 

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Francesco Mancini
Francesco Mancini

Medico chirurgo, Specialista in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapeuta Cognitivista

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