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La solitudine riduce la longevità!

FLASH NEWS

La mancanza di connessioni sociali rappresenta un rischio aggiunto, mentre la presenza di rapporti un fattore di protezione per la salute di tutti.

La maggior parte delle persone è consapevole che per godere di buona salute e vivere a lungo bisogna svolgere attività fisica, prestarsi quando necessario a cure mediche e seguire un regime alimentare equilibrato.

Una ricerca dell’Università Brigham Young mostra che la solitudine e l’isolamento sociale sono fattori chiave che influenzano la longevità così come avviene per l’obesità. I ricercatori infatti sostengono che l’effetto della solitudine sul benessere dell’individuo sia comparabile agli effetti dell’obesità, per cui si invita a prendere sul serio le relazioni sociali.

La solitudine e l’isolamento sociale possono sembrare concetti molto differenti. Per esempio qualcuno potrebbe essere circondato da molte persone ma sentirsi comunque solo, altre persone potrebbero isolarsi perché preferiscono stare soli, ma in entrambi i casi l’effetto sulla longevità è comunque lo stesso.

A differenza di quanto si creda, l’associazione tra la solitudine e il rischio di morte è più alta nella popolazione giovanile anziché tra persone più vecchie. Benché le persone più anziane abbiano maggiori probabilità di essere soli e di essere esposti a un rischio di mortalità più elevato, l’associazione tra la solitudine e l’isolamento sociale e la mortalità coinvolge maggiormente popolazioni di età inferiore a 65 anni.

Gli autori della ricerca sostengono che visto l’aumento considerevole di persone che oggi vivono situazioni di solitudine si potrebbe assistere negli anni ad una “Epidemia della solitudine”.

Nauert e i suoi collaboratori hanno analizzato informazioni tratte da più studi che includevano dati sulla solitudine, l’isolamento sociale, e che coinvolgono persone che vivono sole. Complessivamente, il campione comprendeva più di tre milioni di partecipanti. Quando gli autori controllarono variabili come lo status socioeconomico, l’età, il genere e le condizioni di salute preesistenti essi trovarono che la presenza o l’assenza di supporto sociale aveva un effetto determinante per la salute.

La mancanza di connessioni sociali rappresenta un rischio aggiunto, mentre la presenza di rapporti un fattore di protezione per la salute di tutti.

Una precedente ricerca degli autori pone la solitudine come maggiore fattore di rischio per la mortalità pari al fumo di 15 sigarette al giorno o all’essere alcolizzato. Questo studio non solo conferma l’elevato rischio di mortalità dato dai comuni fattori di rischio ma ne specifica la dannosità per la salute al pari dell’obesità.

Ci sono molte cose che aiutano ad attenuare gli effetti della solitudine. Con l’evoluzione di internet, le persone possono rimanere in contatto nonostante le distanze. Tuttavia, la superficialità di alcune esperienze online compromette gli aspetti emotivi della relazione.
La ricerca infatti suggerisce che l’uso di troppi sms con l’altro può effettivamente danneggiare una relazione significativa, anche se di messaggi piacevoli potrebbero beneficiarne tutti.

 

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Meglio il dolore o la solitudine?

BIBLIOGRAFIA:

Resilienza: rialzarsi, più forti di prima

La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. 

[blockquote style=”1″]ciò che non lo uccide, lo rende più forte.[/blockquote]

(Friedrich Nietzsche)

Resilienza nella storia

Fin dalle epoche più remote, gli esseri umani si sono distinti per la capacità di sopravvivere a disastri naturali, guerre, e a ogni sorta di carestia o malattia. Ciò è stato possibile perchè l’uomo è “programmato” per resistere alle sventure, superarle, e convivere quotidianamente con lo stress, al punto che si potrebbe dire che l’abilità di combattere e rialzarsi  più forti di prima (piuttosto che la fragilità) è la regola nel mondo umano.

La necessità di combattere ha la sua ragion d’essere nell’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi: Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?

Domande da cui non è possibile sfuggire: solo cercando una risposta chiarificatrice, un senso, seppur a volte mai definitivamente compiuto, è possibile infatti ridefinire la propria sofferenza, che, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonchè per le sofferenze altrui.

Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di realizzazione superiore, al pari della condizione del cigno che si è sviluppato a partire dal brutto anatroccolo della nota favola di Andersen (Cyrulnik, 2002).

Le difficoltà quindi come opportunità, come sfida, che mobilita le proprie risorse, sia interne che esterne, una sfida dalla quale non ci si può esimere, in nome del raggiungimento di un equilibrio più funzionale.

Affrontare le inevitabili calamità della vita mette in moto un’abilità nota come resilienza, termine ripreso dall’ambito ingegneristico per indicare la capacità di un materiale di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi (De Filippo, 2007). La sua azione può essere paragonata a quella del nostro sistema immunitario chiamato a proteggerci dalle aggressioni esterne.

 

Definizione di Resilienza

La resilienza è in altri termini la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo. 

Essere resilienti non significa infatti solo saper opporsi alle pressioni dell’ambiente, ma implica una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, nonostante le crisi, e permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un percorso di vita. Si tratta di un dono inestimabile, che permette di superare le difficoltà, ma che non rende invincibili, e non è neppure presente sempre e comunque: possono infatti verificarsi momenti in cui le situazioni sono troppo pesanti da sopportare, generando un’instabilità più o meno duratura e pervasiva. Non esistono i Superman, e non si è dei supereroi per il solo fatto di essere stati resilienti in passato, anche se è indubbio che la forza delle battaglie superate predispone l’individuo a lottare con maggior consapevolezza (dei rischi assunti e della probabilità di riuscita).

Gli individui resilienti hanno, insomma, trovato in se stessi, nelle relazioni umane, e nei contesti di vita, quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti fattori di protezione contrapposti ai fattori di rischio, che invece diminuiscono la capacità di sopportare il dolore.

 

Fattori di rischio per la Resilienza

Tra i fattori di rischio che espongono a una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti, diminuendo la resilienza, secondo Werner e Smith (1982) troviamo i fattori emozionali (abuso, bassa autostima, scarso controllo emozionale), interpersonali (rifiuto dei pari, isolamento, chiusura), familiari (bassa classe sociale, conflitti, scarso legame con i genitori, disturbi nella comunicazione), di sviluppo (ritardo mentale, disabilità nella lettura, deficit attentivi, incompetenza sociale).

 

Fattori protettivi per la Resilienza

Tra i fattori protettivi, invece, gli autori ne individuano di individuali e familiari. Tra i primi, l’essere primogenito, un buon temperamento, la sensibilità, l’autonomia, unita alla competenza sociale e comunicativa, l’autocontrollo, e la consapevolezza e fiducia che le proprie conquiste dipendono dai propri sforzi (locus of control interno). A questi si aggiunge una risorsa di estrema importanza: il comportamenti seduttivo, che consente di essere benvoluti e di riconoscere e accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.

I fattori protettivi familiari comprendono l’elevata attenzione riservata al bambino nel primo anno di vita, la qualità delle relazioni tra genitori, il sostegno alla madre nell’accudimento del piccolo, la coerenza nelle regole, il supporto di parenti e vicini di casa, o comunque di figure di riferimento affettivo.

Esplorando i fattori protettivi, è possibile individuare cinque componenti che contribuiscono a sviluppare la resilienza (Cantoni, 2014).

 

I 5 componenti che sviluppano la Resilienza

1. L’Ottimismo. La disposizione a cogliere il lato buono delle cose, è un’importantissima caratteristica umana che promuove il benessere individuale e preserva dal disagio e dalla sofferenza fisica e psicologica. Chi è ottimista tende a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi (Seligman, 1996).

2. L’autostima si accoppia all’ottimismo. Avere una bassa considerazione di sé ed essere molto autocritici, infatti, conduce a una minore tolleranza delle critiche altrui, cui si associa una quota maggiore di dolore e amarezza, aumentando la possibilità di sviluppare sintomi depressivi.

3. La Robustezza psicologica (Hardiness). Essa è a sua volta scomponibile in tre sotto-componenti, il controllo (la convinzione di essere in grado di controllare l’ambiente circostante, mobilitando quelle risorse utili per affrontare le situazioni), l’impegno (con la chiara definizione di obiettivi significativi che facilita una visione positiva di ciò che si affronta) e la sfida, che include la visione dei cambiamenti come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze.

4. Le emozioni positive, ovvero il focalizzarsi su quello che si possiede invece che su ciò che ci manca.

5. Il supporto sociale, definito come l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati. E’ importante sottolineare come la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poichè mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare è liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un racconto tutto interiore, penoso e solitario (che può sfociare in forme di comunicazione delirante) alla condivisione partecipata dell’accaduto.

In definitiva, ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico. Parlare in termini di resilienza vuol dire modificare lo sguardo con cui si leggono i fenomeni e superare un processo di analisi lineare, di causa ed effetto, per cui non è più corretto ragionare dicendo per esempio: “E’ stato gravemente ferito, quindi è spacciato per tutta la vita!”

 

Il profilo della Resilienza

Se volessimo tracciare un profilo della persona resiliente, questa dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

Sopporta i dolori senza lamentarsi e regge le difficoltà senza disperarsi;

Ha il coraggio di intraprendere con consapevolezza una via che sa essere tortuosa o, comunque, non la più semplice;

Ama la vita per quello che è nel presente, e coltiva una propria spiritualità e virtù che moderano i timori di morte;

Ricorda di essere esposta al pericolo in quanto mortale, e nel contempo affronta ciò che lo ostacola per cercare di superarlo con saggia audacia.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La resilienza e i disturbi depressivi – SOPSI 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

Scopi e funzioni cognitive-metacognitive: il ruolo della ricerca scientifica

Gli interventi di Dimaggio e Ruggiero, successivi al mio post, hanno toccato argomenti sicuramente importanti ma ho l’impressione che, trascinati dalla passione per le idee, hanno rischiato di dare una rappresentazione non del tutto chiara di alcune questioni. Cercherò di riportare il dibattito su un piano, spero, più utile per chi legge.

Dimaggio afferma:

“la dicotomia … tra una psicopatologia scopi/credenze e una psicopatologia deficit funzioni mentali superiori è falsa.”

Ruggiero, al contrario, afferma:

“Il nocciolo del processualismo è la critica della psicopatologia delle credenze e la sua sostituzione con una psicopatologia delle funzioni.”

I due, dunque, la pensano in modo opposto. Il primo appare favorevole alla integrazione, il secondo alla dicotomia.

Per parte mia, come ho già scritto (vedi il mio ultimo post su State of Mind), la questione è complessa e la soluzione non può che essere empirica. Le ragioni per le quali un paziente ha difficoltà a compiere determinate operazioni cognitive/metacognitive possono essere tante. Alcune rimandano a deficit di competenze cognitive/metacognitive, e, in questo caso, i deficit coinvolti possono essere molto diversi tra loro.

Ad esempio, deficit generali, come basso QI; deficit specifici, ad es. deficit di ToM e deficit di funzioni esecutive; o anche scarsa esperienza. Altre ragioni possono essere gli stati mentali del paziente, cioè il contenuto della sua mente, vale a dire scopi/credenze attivi in un dato momento, e, in questo caso, è opportuna una successiva distinzione.

Infatti, è possibile che gli stati mentali “orientino” le funzioni cognitive/metacognitive, di solito in modo da minimizzare il rischio di errori cruciali per gli scopi del paziente stesso (vedi la vastissima letteratura scientifica di psicologia cognitiva generale), ma è anche possibile che gli stati mentali ed emotivi del paziente siano tali da ostacolare le funzioni cognitive/metacognitive, come può accadere, ad esempio, in caso di rabbia molto intensa. Dunque le possibilità sono tante, ed è ragionevole richiedere le prove a chi sostiene che una o più di queste entrano in gioco in un determinato disturbo.

Personalmente non ho mai avuto grande fiducia nelle soluzioni nominalistiche, quindi mi sembra che possa non essere di molto aiuto il suggerimento di Dimaggio che ha “cercato di evitare l’uso del termine deficit, sostituendolo con termini quali: disfunzione, fallimento, carenza che più facilmente si prestano a descrivere il contesto di dipendenza del problema.”

Al contrario ho più fiducia nella ricerca sperimentale. Per illustrare con un esempio questo punto, approfitto di una ricerca che è in press sul JBTEP (Gangemi, Mancini e Dar, 2015). Da alcuni anni è stata proposta una teoria (Aardema et al., 2003, 2007; O’Connor & Robillard, 1995, 1999) per spiegare perché i pazienti ossessivi dubitano, ad esempio, che la porta di casa sia chiusa nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar con mano che è chiusa. Secondo questa teoria ciò dipenderebbe da una disfunzione cognitiva: l’inferential confusion.

L’inferential confusion sarebbe una forma di elaborazione delle informazioni caratterizzata da sfiducia nei confronti delle informazioni che provengono dai propri sensi, come la vista e il tatto, e un eccesso di fiducia nelle possibilità che il paziente considera o immagina. In un certo senso si potrebbe dire che l’inferential confusion è strettamente connessa con la difficoltà a discriminare tra fatti e proprie rappresentazioni dei fatti, quindi con un deficit metacognitivo.

Secondo questa teoria il paziente ossessivo continua a sospettare che la porta di casa non sia chiusa, nonostante veda e tocchi con mano che è chiusa, perché si affiderebbe di più a delle possibilità astratte che immagina, “potrei non avere girato del tutto la chiave”, che alle informazioni provenienti direttamente dai sensi: vedere e toccare la porta chiusa.

Credo che Ruggiero la definirebbe una teoria funzionalista poiché non fa alcun riferimento a scopi e credenze del paziente ma solo a disfunzioni strettamente cognitive o, forse, metacognitive.

Questa teoria ha due meriti, entrambi rari in questo campo. Il primo è il supporto sperimentale, il secondo è che la teoria è formulata in modo sufficientemente preciso da essere falsificabile.

L’esperimento più robusto a sostegno è il seguente. Lo riferisco per sommi capi. A pazienti ossessivi e a un gruppo di controllo è stato chiesto di immedesimarsi nel protagonista di una vignetta.

“Immagina che stai guidando l’auto per andare in ufficio. Questa mattina hai letto sul giornale di un incidente in cui l’autista di camion ha investito una persona e si è allontanato senza essersene accorto. Ti chiedi come sia possibile che non ci si accorga di una cosa del genere. Mentre guidi, arrivi ad un incrocio e ti fermi al semaforo. C’è molta gente che aspetta di attraversare. Noti un gruppo di ragazzi che si inseguono correndo avanti e indietro attraverso la strada. Appena il semaforo diventa verde parti accelerando. Attraversando l’incrocio odi un grido e senti un colpo.”

A questo punto gli sperimentatori chiedevano ai soggetti di indicare le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente. Poi ai soggetti erano presentate delle informazioni del tipo:

“Guardi nello specchietto retrovisore e vedi una buca”, cioè una informazione proveniente dalla realtà percepita visivamente. A questa informazione seguiva un’altra informazione “La buca potrebbe non essere stata profonda abbastanza da causare il colpo”. Questa informazione riguardava una possibilità astratta, non sostenuta dai fatti percepiti.

Seguivano altre due coppie d’informazioni in cui si alternavano informazioni provenienti dalla realtà percepita attraverso i sensi e informazioni riguardanti possibilità astratte.

Dopo ogni informazione si chiedeva ai partecipanti di rivalutare le probabilità attribuite alla possibilità di aver causato un incidente.

I risultati sono stati che i pazienti ossessivi aumentavano le probabilità attribuite all’incidente molto più dei controlli soprattutto dopo che avevano ricevuto informazioni su possibilità astratte e, a differenza dei controlli, non tenevano in gran conto le informazioni provenienti dalla realtà percepita.

Secondo gli autori ciò dimostrerebbe la teoria della inferential confusion.

Sembrerebbe, quindi, che una teoria funzionalista del DOC abbia ricevuto una conferma sperimentale, a discapito delle Appraisal Theories, cioè di quelle teorie che intendono spiegare il DOC ricorrendo agli scopi/credenze del paziente.

Tuttavia, nell’esperimento che ho riassunto c’è un possibile baco. Infatti, a ben vedere, le informazioni di realtà erano sempre rassicuranti mentre quelle astratte erano sempre di pericolo. Quindi è possibile che i pazienti ossessivi abbiano dato peso alle informazioni astratte perché erano informazioni più rilevanti per i loro scopi, cioè rispetto alla preoccupazione di aver commesso un errore colpevole.

Due teorie a confronto, quindi, una funzionalista e una contenutista, cioè un’Appraisal Theory.

 

Ottima occasione per un esperimento cruciale.

Per realizzarlo abbiamo utilizzato lo stesso scenario e la stessa procedura dell’esperimento originario ma abbiamo invertito la valenza delle informazioni, cioè abbiamo fatto in modo che le informazioni di realtà fossero di pericolo (“guardi nello specchietto retrovisore e non vedi alcuna buca nella strada”) e quelle astratte fossero rassicuranti (“La buca potrebbe non essere visibile attraverso lo specchietto”).

L’esperimento così congegnato ha dato risultati contrari alle previsioni della teoria funzionalista ma compatibili con le Appraisal Theories. I pazienti ossessivi hanno cambiato la probabilità attribuita all’evento temuto sulla base della valenza delle informazioni ricevute (informazioni di pericolo o rassicuranti) senza tener conto se l’informazione era proveniente dalla realtà percepita o se riguardava una possibilità astratta.

I pazienti ossessivi, quindi, sospettano, ad esempio, che la porta di casa sia aperta nonostante la vedano chiusa e nonostante possano toccar con mano che è chiusa, non per una disfunzione cognitiva ma perché elaborano le informazioni in modo congruo con le proprie preoccupazioni. Vale a dire, come numerose altre ricerche suggeriscono (vedi mio post precedente su State of Mind), congrue con il timore di doversi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa e dunque di aver facilitato l’ingresso dei ladri.

Se temo di dovermi rimproverare di aver lasciato aperta la porta di casa, allora è meglio non sottovalutare la possibilità che sia rimasta aperta.

Tutto questo è congruo con tanti altri risultati della ricerca sul DOC, ma non dice NULLA su cosa accade in altri disturbi. Tuttavia suggerisce dove cercare una risposta alla domanda:

“ha ragione Ruggiero quando critica la psicopatologia di scopi/credenze e propone di sostituirla con una psicopatologia delle funzioni?”

e anche alla domanda:

“ha ragione il Dimaggio degli ultimi tempi, quando suggerisce che entrano in gioco sia scopi/credenze sia deficit, disfunzioni, carenze o fallimenti delle funzioni cognitive superiori?”

La risposta, come spesso accade, è da cercare attraverso il metodo scientifico. E, dunque, modelli chiari e falsificabili ed esperimenti.

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia cognitiva: quali scopi, quali processi e quali credenze?

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive.

Un dibattito acceso qui su State of Mind che delinea quanto il cognitivismo italiano e internazionale stia attraversando una fase di riflessione critica circa i propri limiti, figlia anche dei recenti sviluppi scientifici legati a metacognizione e a nuove forme di psicoterapia.

Il tema di questo dibattito è il rapporto tra processi, scopi e credenze cognitive.

Giovanni Ruggiero (https://www.stateofmind.it/2015/03/psicoterapia-cognitiva-processi-credenze/) sottolinea tra i limiti del cognitivismo standard la concezione di cognizione come una struttura monolitica rappresentata in modo fisso nella mente dell’individuo, una visione a tratti ideologica che non ha ricevuto un sostegno scientifico stabile nel tempo (Teasdale & Barnard, 1993). Si oppone ad essa una crescente attenzione ai processi cognitivi: il pensare come flusso dinamico e strategico che ha un impatto sia sugli stati emotivi che sulle credenze relative a sé e al mondo. In un recente articolo sottolineo come le credenze negative su di sé possano essere il frutto e non la causa di una tendenza ruminante e di uno stato depressivo (https://www.stateofmind.it/2015/02/depressione-ruminazione/).

Il ruolo dei processi cognitivi concede di uscire da  uno strutturalismo monolitico che strizza l’occhio a una prospettiva per cui i pazienti sarebbero, almeno temporaneamente, deficitari o  malfunzionanti, quindi nella condizione di dover essere riparati o riabilitati. L’alternativa è una prospettiva funzionalista in cui l’attivazione di determinati processi cognitivi e comportamentali, anche quando costosi e controproducenti, ha una funzione appresa o sorretta da regole, credenze e scopi.

Un esempio è il rimuginio, vale a dire la tendenza a preoccuparsi di ciò che può accadere di brutto in situazioni di incertezza. Questo processo cognitivo è percepito spesso come automatico e incontrollabile nonostante sia sorretto da regole implicite per cui preoccuparsi aiuta ad essere pronti, a prevenire il peggio, a trovare soluzioni.

I processi cognitivi sono quindi sorretti da scopi (proteggersi, ridurre il disagio) e credenze (preoccuparsi mi è utile o anche se inutile non riesco a smettere di farlo). Poi questi processi divengono controproducenti e rinchiudono nella gabbia di un disturbo psicologico.

Per esempio, nel Disturbo di Panico il paziente si concentra costantemente e monitora propri segnali fisici. Questo automonitoraggio corporeo ha la funzione (scopo) di cogliere prima possibile segnali di minaccia per proteggersi ma ottiene l’effetto indesiderato di aumentare la percezione dei segnali corporei minacciosi.

Francesco Mancini (https://www.stateofmind.it/2015/03/psicoterapia-cognitiva-scopi-disposizioni/) suggerisce come il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo, e ancora che il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti.

Se il ruolo degli scopi è stato trascurato dal cognitivismo standard di Beck (1967), molti ricercatori e clinici cognitivo-comportamentali tra cui lo stesso Francesco Mancini hanno avuto il merito di sottolineare il ruolo di questa componente nella genesi e mantenimento dei disturbi psicologici.

Su questo punto Giancarlo Dimaggio (https://www.stateofmind.it/2015/03/scopi-motivazioni-metacognizione/) ribadisce come diversi cognitivisti hanno considerato il concetto di scopo. Quello che differenzia gli autori citati da Dimaggio è la priorità a diverse categorie di scopi. Francesco Mancini cita come prioritari, gli scopi (motivazioni) connessi all’evitamento di situazioni temute (la perdita di coscienza nel Panico, la brutta figura nel Disturbo d’Ansia Sociale, la colpa nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo e così via).

Tra altri ricercatori il concetto di scopo ritorna rispetto al ruolo dei sistemi motivazionali e scopi basilari come attaccamento, accudimento, rango sociale, inclusione nel gruppo (Liotti, Gilbert, Farina) fino all’importanza di quelli che potremmo definire scopi e desideri interpersonali nella Terapia Metacognitivo Interpersonale di Dimaggio e colleghi (2013).

E infine la prospettiva metacognitiva, che conosco meglio, per cui lo scopo sostiene la patologia se è (1) autoregolatorio e (2) irrealistico. Uno scopo autoregolatorio irrealistico implica il tentativo di mantenere uno stato di quiete interna attraverso monitoraggio e prevenzione, risoluzione o soppressione di certi stati mentali, emozioni, sensazioni corporee o pensieri (autovalutazioni, ossessioni) che vengono considerati alla stregua di dati di realtà (es. la sensazione di perdere il controllo diventa un dato  affidabile di una imminente perdita di controllo) per cui importanti, pericolosi, da eliminare.

Tuttavia, l’importanza data a pensieri automatici e sensazioni corporee porta a incrementare frequenza, intensità e durata nella percezione soggettiva con il risultato che lo scopo autoregolatorio viene costantemente frustrato. Inoltre questa attenzione focalizzata sulla propria esperienza interna (a scopo autoregolatorio) ostacola l’acquisizione di una distanza critica dai propri stati mentali, vale a dire la percezione di una differenza tra “mi odia” ed “ecco che mi vengono pensieri paranoici”.

 In sintesi, credenze, processi e scopi hanno ruolo rilevante in numerose prospettive. Il dibattito scientifico però non si chiude con questa consapevolezza.

Primo, occorre spiegare quali sono gli scopi rilevanti per la psicopatologia e in che modo sostengono il malessere. Scopi di evitamento del danno, scopi e desideri interpersonali, scopi anche di fama e successo sono tutti comprensibili componenti della natura umana.

Secondo, non è chiaro quale sia la differenza negli scopi tra persone con disturbo psicologico e persone senza un disturbo psicologico. Cosa degli scopi discrimina le due popolazioni?  È possibile ipotizzare che popolazioni cliniche e non cliniche condividano simili scopi ma siano diverse per caratteristiche con cui questi vengono selezionati, perseguiti, abbandonati?

Terzo, se simili scopi sono condivisi da individui che non soffrono, allora quali sono caratteristiche che rendono uno scopo problematico? La problematicità degli scopi risiede nei contenuti o nel modo in cui vengono regolati?

Per citare alcune possibili caratteristiche: (1) criteri irrealistici, troppo stretti per considerare uno scopo raggiunto o troppo lassi per considerarlo compromesso, (2) difficoltà a disingaggiarsi da uno scopo quando necessario o quando definitivamente compromesso, (3) rigidità nel perseguirlo ignorando altri scopi pur rilevanti per l’individuo, (4) uso di strategie attentive e cognitive (processi) per soddisfare lo scopo che in realtà lo danneggiano, (5) convinzioni circa la possibilità di poter governare la propria reazione a una minaccia o compromissione di uno scopo.

Queste domande rilevano che anche gli scopi potrebbero essere sussunti a credenze circa il sistema di regolazione dei propri scopi, la selezione degli scopi prioritari, i criteri di compromissione e raggiungimento, le strategie utilizzate per soddisfarli.

Uno spunto riconosciuto da Dimaggio quando afferma che gli esseri umani agiscono guidati da scopi e desideri e da credenze sulle condizioni che permetteranno o meno di realizzarli e dall’interesse di Francesco Mancini per il problema secondario che può essere letto come una prospettiva auto-regolatoria a ridosso del problema primario. Forse il cerchio si potrebbe chiudere in futuro, ma è solo un’ipotesi, con la palla nelle mani di un certo tipo di credenze (metacognitive) che definiscono regole e criteri con cui il sistema si autoregola rispetto ai propri scopi, indipendentemente da quali siano.

 

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Scopi esistenziali e psicopatologia

BIBLIOGRAFIA:

Scuola materna: una palestra di relazioni interpersonali

L’obiettivo primario della scuola materna dovrebbe essere quello di insegnare le competenze sociali necessarie a promuovere il benessere collettivo, in quanto si tratta del luogo privilegiato per apprendere le regole da seguire con gli altri, il rispetto dei turni, la collaborazione, la capacità di stare con adulti e coetanei, prima in relazioni diadiche e poi collettive.

Terzo anno di età: cosa succede? Sicuramente si tratta di una tappa di notevole importanza nello sviluppo del bambino. Quella che va generalmente dai 3 ai 6 anni è denominata la “prima fanciullezza”, o più comunemente “età prescolare”. È il famoso periodo che Piaget ha identificato come “stadio preoperatorio”. Secondo l’autore, in questa fase il bambino ha acquisito la capacità di interiorizzare azioni e di manipolare rappresentazioni mentali, tuttavia non è ancora in grado di organizzarle in modo coordinato (Berti, Bombi, 2005).

Ad ogni modo verso i tre anni di vita i bambini acquistano innumerevoli capacità, ad esempio aumenta la capacità di memorizzazione e la formazione dei primi ricordi episodici permanenti. A livello di coordinamento il bambino diviene capace di correre, giocare a palla, raggiungere e impadronirsi degli oggetti di cui ha bisogno e badare così da solo a se stesso.

Senza dimenticare che è proprio all’esordio dell’età prescolare che si assiste ad un grande sviluppo delle capacità linguistiche. Il bambino diviene capace di creare e formulare frasi complesse e composte da più proposizioni tra loro collegate. Senza dimenticare che il linguaggio si trasforma da egocentrico, e quindi rivolto solo nei confronti di se stesso, a socializzato, ossia volto a scambiare con gli altri il proprio pensiero, a chiedere informazioni e a influire sul comportamento altrui.

Durante la prima fanciullezza viene solitamente compiuto un passo molto importante: l’ingresso nella scuola dell’infanzia. Tale evento non è da sottovalutare, in quanto rappresenta per il bambino una grossa novità. Comporta l’entrata in un microsistema diverso da quello familiare, mettendolo in relazione con figure nuove e permettendogli di sperimentare relazioni interpersonali con le insegnanti e con il gruppo di pari. In questo contesto il bambino sperimenta per la prima volta l’appartenenza a un gruppo strutturato.

Diventa quindi importante apprendere le regole dettate dal nuovo ambiente in cui ci si trova al fine di raggiungere obiettivi sociali considerando il benessere altrui e di relazionarsi con adulti e coetanei in base alle richieste del contesto. Per il bambino diviene dunque necessario essere socialmente competente. Ma cosa si intende per competenza sociale?

Molinari (2002, cit in Berti, Bombi 2005) la definisce come la “capacità di interagire efficacemente con l’ambiente e di impegnarsi in complesse relazioni interpersonali, mirate a ottenere obiettivi sociali rilevanti e raggiungere traguardi ambiziosi come la popolarità e l’accettazione dei compagni”. L’obiettivo primario della scuola materna dovrebbe proprio essere quello di insegnare le competenze sociali necessarie a promuovere il benessere collettivo, in quanto si tratta del luogo privilegiato per apprendere le regole da seguire con gli altri, il rispetto dei turni, la collaborazione, la capacità di stare con adulti e coetanei, prima in relazioni diadiche e poi collettive.

È ben risaputo che, a partire dai tre anni di età, le relazioni instaurate dal bambino aumentano in quantità e qualità. I bambini di tre anni hanno acquisito una capacità linguistica e comunicativa che permette loro di interagire con gli altri e di condividere non più solo oggetti materiali, ma anche idee e pensieri. Il bambino socialmente competente parla di sé, comunica i suoi stati d’animo ascoltando attentamente anche l’interlocutore. Inoltre il superamento dell’egocentrismo permette di prendere il considerazione anche i pensieri, le credenze e le motivazioni delle persone che li circondano.

È inoltre da considerare il fatto che la competenza sociale è altamente correlata alla competenza emotiva, ossia la capacità di esprimere, comprendere e regolare in maniera adeguata le emozioni (Denham, 1998, cit. in Baumgartner, 2010). Non dovrebbe infatti sorprendere il fatto che bambini che sperimentano abitualmente emozioni positive, come la felicità, sono più amichevoli e popolari, si integrano più facilmente nel gruppo di pari e risultano più simpatici ai compagni e alle insegnanti.

B. E. Vaughn (2001, cit. in Coppola e Camodeca, 2010) identifica la competenza sociale come un costrutto multidimensionale a tre componenti: profilo individuale di caratteristiche comportamentali e psicologiche indicative di competenza sociale, coinvolgimento e motivazione sociale, grado di accettazione da parte dei coetanei. La preferenza sociale viene generalmente concepita come l’indicatore più affidabile dell’adattamento sociale in questa fase della vita. Infatti l’asilo rappresenta il primo contesto al di fuori della famiglia in cui i bambini mettono alla prova le proprie abilità sociali con persone diverse dai loro familiari.

Il “gruppo classe” è quindi una nicchia extrafamiliare dove il bambino dovrà poi adattarsi non solo al fine di raggiungere i propri obiettivi sociali, ma anche per apprendere nuove regole ed instaurare delle relazioni significative che gli permetteranno poi di rapportarsi agli altri in modo sempre più appropriato con l’andare avanti degli anni.

A tal fine diviene molto importante anche per le insegnanti cogliere qualsiasi comportamento che potrebbe mettere a rischio l’inserimento del bambino in questo suo nuovo contesto che sta sperimentando per poter successivamente agire in maniera adeguata e conveniente nei confronti del bambino. È infatti proprio in età prescolare che i bambini instaurano i primi rapporti con i coetanei e  riescono così anche  ad apprendere l’importante significato della parola “amicizia”.

 

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Col seno di poi. Il carcinoma mammario raccontato dalle pazienti: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

“Col seno di poi”. Il carcinoma mammario raccontato dalle pazienti. Uno studio empirico

Autrice: Alessandra Ferri (Università degli Studi di Bergamo)

Abstract

Obiettivo: Questa ricerca si propone di studiare gli aspetti psicologici connessi al carcinoma
mammario e di verificare se esistono delle similitudini nelle modalità di adattamento alla malattia
messe in atto dalle pazienti. Metodo: Per perseguire tale obiettivo è stata effettuata un’analisi qualitativa delle narrazioni scritte e condivise sul web 2.0 da un campione di donne affette da carcinoma mammario. Per sottolineare l’importanza del vissuto soggettivo delle pazienti è stata adottata una metodologia coerente con gli assunti fondamentale della Grounded Theory. L’analisi è stata supportata da ATLAS.ti, un software utilizzato in vari ambiti disciplinari per lo studio qualitativo di materiale testuale. Risultati: Dai testi esaminati sono emerse numerose regolarità; esse riguardano principalmente: la struttura narrativa dei racconti, le tematiche esposte, il lessico utilizzato, le strategie di coping messe adottate per fronteggiare il cancro, le cognizioni e le emozioni descritte dalle pazienti.

Abstract in inglese

Aim: The research aims to investigate the psychological aspects of breast cancer and to verify if
there are similarities in the ways to cope with the disease. Method: The stories written by a group of women who decided to share their own experience on the web 2.0. were analyzed. A methodology consistent with the fundamental assumptions of Grounded Theory was adopted to highlight the importance of women’s subjective experience. The analysis has been facilitated by ATLAS.ti, a software used in many disciplines to study qualitative data. Results: Many similiarities were found between the texts analyzed. The most important similarities concern: the narrative structure of the stories, topic discussed, vocabulary used, coping strategies, cognitions and emotions described by patients.

ALLEGATO 1 ALLEGATO 2

KEYWORDS: Carcinoma mammario, web 2.0, narrazioni, scrittura espressiva, ATLAS.ti

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Dermatillomania: tormentarsi la pelle per noia o frustrazione

FLASH NEWS

La Dermatillomania, nota in inglese anche con il termine di “compulsive skin-picking”, è un disordine del controllo degli impulsi, che spinge una persona a stuzzicarsi, toccarsi, strofinarsi, tormentarsi, graffiarsi o incidere la pelle del viso o del corpo, spesso nel tentativo di eliminare piccole irregolarità o imperfezioni cutanee, reali o immaginarie.

All’origine di questo, come di molti altri comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo, quali per esempio arrotolarsi i capelli con le dita o mangiarsi le unghie, secondo il modello della regolazione affettiva, sembrerebbe esserci un’esperienza caratterizzata da un vissuto emotivo negativo.

Nonostante si tratti di comportamenti che possono indurre un certo grado di sofferenza fisica, la loro messa in atto permetterebbe di soddisfare un impulso urgente, generando in questo modo una sorta di gratificazione, è questo il motivo che porta gli individui a mettere in atto in maniera ripetitiva tali comportamenti, spiega O’Connor, principale autore di un recente studio condotto presso l’Università di Montreal.

Sulla base di queste premesse, i ricercatori che hanno preso parte allo studio ritengono sia possibile ipotizzare che sono soprattutto le persone che mostrano una generale tendenza al perfezionismo a mettere in atto questo tipo di comportamenti. Si tratta, infatti, di individui che sono per loro natura impazienti, portati ad annoiarsi facilmente e che incontrano molte difficoltà nello svolgere un compito ad una velocità “normale”. Spesso faticano a rilassarsi e tendono a sentirsi frustrati o insoddisfatti quando non riescono a raggiungere i propri obiettivi.

La ricerca ha coinvolto un campione di 48 soggetti, la metà dei quali riferiva di mettere in atto una qualche forma di comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo. A ciascuno di essi, dopo una breve intervista telefonica, è stato chiesto di rispondere ad un questionario che includeva una scala volta a valutare il proprio stato affettivo generale. Successivamente, ogni partecipante è stato esposto individualmente a quattro situazioni sperimentali, costruite in modo da indurre un differente stato emotivo: stress, rilassatezza, frustrazione e noia.

Mentre nelle prime due condizioni venivano mostrati dei filmati in cui erano rappresentati rispettivamente un aereo che precipitava e delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, nella terza condizione per generare uno stato di frustrazione veniva assegnato ai soggetti un compito che si presupponeva essere facile ma che in realtà non lo era affatto. Nell’ultima condizione, invece, i partecipanti venivano lasciati da soli per circa 6 minuti al fine di indurli alla noia.

I risultati ottenuti hanno permesso di confermare le ipotesi dei ricercatori dell’Università di Montreal. Coloro che generalmente tendevano a mettere in atto comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo riferivano di aver sentito una forte urgenza nel mettere in atto questo tipo di comportamenti, rispetto invece a soggetti che normalmente non erano portati a farlo.

In modo particolare tale esigenza insorgeva in condizioni di noia e frustrazione invece che in situazioni di rilassatezza. Ciò potrebbe indicare che il mettere in atto questo tipo di comportamenti non sia il risultato di una generale tendenza all’essere nervosi o irritabili, valutata attraverso i questionari self report, bensì dell’influenza di particolari circostanze esterne. Queste persone potrebbero quindi beneficiare di un trattamento volto a modificare le proprie credenze perfezionistiche ed il loro modo di reagire ad esperienze di frustrazione e noia.

 

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l’inconsistenza scientifica del concetto di “Ideologia del gender” – Comunicato AIP

COMUNICATO STAMPA AIP (Associazione Italiana Psicologi) DEL 12 MARZO 2015

 

Sulla rilevanza scientifica degli studi di genere e orientamento sessuale e sulla loro diffusione nei contesti scolastici italiani

Oggi si assiste all’organizzazione di iniziative e mobilitazioni che, su scala locale e nazionale, tendono a etichettare gli interventi di educazione alle differenze di genere e di orientamento sessuale nelle scuole italiane come pretesti per la divulgazione di una cosiddetta “ideologia del gender”.

L’AIP ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di “ideologia del gender”. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale.

Le evidenze empiriche raggiunte da questi studi mostrano che il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere sono appresi sin dai primi anni di vita e sono trasmessi attraverso la socializzazione, le pratiche educative, il linguaggio, la comunicazione mediatica, le norme sociali. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, daormai più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali, scientifiche e professionali, che promuovono la salute mentale(tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.), le quali, derubricando l’omosessualità dal novero delle malattie, hanno ribadito una concezione dell’omosessualità come variante normale non patologica della sessualità umana.

L’Unicef, nel Position Statement del novembre 2014, ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Favorire l’educazione sessuale nelle scuole e inserire nei progetti didattico-formativi contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettendo in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare fenomeni come il bullismo omofobico, la discriminazione di genere, il cyberbullismo. La seria e appropriata diffusione di tali studi attraverso corrette metodologie didattico-educative può dunque offrire occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico e a contrastare le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici, valorizzando una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza.

L’AIP riconosce la portata scientifica di Gender Studies, Women Studies, Lesbian and Gay Studies e ribadisce l’importanza della diffusione della cultura scientifica psicologica per la crescita culturale e sociale del nostro paese.

 

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GENDER STUDIESLGBT

Cosa succede nella mente di un uomo al primo appuntamento?

Questo simpatico video di animazione mostra cosa accade nella mente di un uomo durante il primo appuntamento.

Le due fazioni, emozione e ragione, rappresentate da due buffi neuroni, si contendono la priorità sulle decisioni da prendere e le azioni da mettere in atto per conquistare la giovane donzella, ma il risultato è disastroso!

Il video è di Josiah Haworts ed è stato prodotto al Ringlin College of Art and Design insieme a Joon Soo Song e Joon Shink Song.

In apertura, è interessante notare come la “ragione” metta in atto comportamenti di controllo (sistemare le forchette sul tavolo) per gestire l’ansia dell’attesa, mentre l’emotività è occupata a rappresentarsi mentalmente scenari gratificanti, ovvero impegnata in attività che rimandano al concetto di pensiero desiderante (Caselli e Spada, 2001).

Conclude il video un finale inatteso e sorprendente.

https://youtu.be/3Fd7j6vyoL4

 

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Le conseguenze dell’amore: gli effetti positivi dell’essere innamorati

 

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Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose (2015) – Recensione

In legami d’amore Jessica Benjamin ricostruisce a partire dal rapporto madre-bambino la struttura del dominio erotico e ci aiuta a capire in che modo un atto d’amore può trasformarsi in pratica di sottomissione.

Questo libro utilizza la critica femminista e la reinterpretazione della teoria psicoanalitica per analizzare l’azione reciproca tra amore e dominio, dove la dominanza è intesa come un percorso a due sensi, un sistema che implica la partecipazione sia di chi si sottomette al potere sia di chi lo esercita.

Nel primo capitolo del libro l’autrice cerca di dimostrare in che modo le dinamiche di dominanza e sottomissione abbiano origine proprio a partire dalle caratteristiche del primo legame d’amore, quello tra madre e figlio/a.

Il dominio e la sottomissione sono il risultato del venir meno della tensione necessaria tra l’affermazione del sé e il riconoscimento reciproco che permette al sé e all’altro di incontrarsi su un piano di assoluta parità. Hegel dimostrò che questa lotta per farsi riconoscere dall’altro, volta alla ricerca di conferma personale, costituisce il nucleo delle relazioni di dominio.

Il dominio è una distorsione dei legami d’amore. Chi prende questa strada per stabilire il proprio potere trova un’assenza là dove dovrebbe esserci l’altro, un vuoto dovuto ad un mancato riconoscimento, l’altro appare così minaccioso per il proprio sé – o per eccessiva pericolosità o per estrema debolezza o entrambe le cose- che deve essere controllato. Si crea quindi un circolo vizioso: più l’altro viene soggiogato, meno è vissuto come soggetto umano e maggiore diventa la distanza e la violenza che il sé deve usare contro di lui.

Il ruolo dell’”altro” non è meno complicato, coloro che vengono soggiogati e non riconosciuti, possono nell’atto stesso di emanciparsi, restare innamorati dell’ideale di potere che hanno subito e che è stato loro negato. Talvolta riescono a respingere il diritto del padrone a dominarli, non respingono però la sua personificazione del potere, si limitano a rovesciare i termini della questione, agendo gesti di “rivalsa narcisistica” che mantengono il ciclo di potere.

Per fermare il ciclo di dominio l’altro deve introdurre una differenza,

“vogliamo che l’altro soggetto sia fuori dal nostro controllo e tuttavia abbiamo bisogno di lui”.

Accettare questo paradosso, sostiene l’autrice, è il primo passo per dipanare i legami d’amore. Procedendo nella lettura si giunge ad un interessante approfondimento dei rapporti erotici sadomasochistici, nei quali possiamo scorgere la “pura cultura” del dominio, una dinamica che mette in campo sia il dominio sia la sottomissione.

L’autrice sottolinea come la fantasia di dominio erotico incarni sia il desiderio di indipendenza sia quello di riconoscimento; il sadico ricerca tramite il potere sul corpo dell’altro l’affermazione del sé mentre l’individuo che si sottomette al dominio erotico cerca di arrivare alla libertà passando per la sua schiavitù, alla liberazione sottomettendosi al controllo, sogna di dominare subendo prevaricazione.

Si tratta di un enorme paradosso a cui l’autrice cerca di dare una risposta, ponendosi la domanda “In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono”? Viene affrontato in modo dettagliato il desiderio femminile, cercando di capire in che modo il desiderio mancante della donna si manifesti così spesso in una forma di adorazione dell’uomo che invece lo vive in prima persona e si cerca di delineare le dinamiche che portano alcune donne ad avere una propensione per quello che comunemente possiamo chiamare “amore ideale”, dove la donna si sottomette e adora un altro, ovvero quello che lei pensa di non poter essere.

Per spiegare ciò l’autrice ripercorre il mondo freudiano del padre, in cui le donne vengono definite dalla mancanza di quello che gli uomini possiedono, il fallo. Nella teoria freudiana il fallo simboleggia allo stesso tempo potere, desiderio e differenza e come portatore del fallo il padre simboleggia la separazione dalla madre; il potere del padre viene giustificato in quanto sarebbe l’unica strada verso l’individualità. L’autrice cerca di decostruire la teoria psicoanalitica classica suggerendo una rappresentazione alternativa e dimostrando che non è l’anatomia ma la totalità della relazione di una bambina con il padre, in un contesto di polarità di genere, che spiega quella che viene percepita come “mancanza” della donna.

La parte successiva del saggio si concentra sull’ “enigma edipico”, dove la Benjamin analizza il modello edipico freudiano, proponendo una versione edipica meno scissa che lascia spazio a livelli successivi e antecedenti di integrazione tra il ruolo di “padre liberatore” e quello di “madre divorante” tipico del modello classico.

La difficoltà risiede nel fatto che nel modello edipico freudiano il potere del “padre liberatore” viene usato come difesa nei confronti della “madre divorante”. Per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza, così viene a formarsi un ideale paterno di separazione che finisce per incarnare il rifiuto assoluto della femminilità.

Ciò accresce la scissione tra soggetto maschile e oggetto femminile e con essa l’unità duale di dominio e sottomissione. Questa struttura polarizzata della differenza di genere lascia due sole alternative: unità irrazionale (quella con la madre) o autonomia razionale (quella del padre). Partendo da questa riflessione l’autrice dedica la parte finale dal saggio ad alcune riflessioni sul modo in cui tale scissione di genere si ripete nella vita intellettuale e sociale, ed elimina la possibilità di riconoscimento non solo degli essere umani come coppia ma dell’intera società nel suo insieme.

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Otto Kernberg: amore e aggressività tra psicoanalisi e ricerca empirica

BIBLIOGRAFIA:

  • Benjamin, J. (2015). Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose. Raffaello Cortina Editore: Milano.

Gambling: credenze metacognitive e comorbilità psichiatrica

Giovanni Mansueto, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti.

Il gambling appare un fenomeno in costante crescita e di significativa complessità. La classificazione diagnostica del gioco patologico ha subìto alcune modifiche con il passaggio dal DSM-IV TR (American Psychiatric Association, APA, 1994), classificato nella categoria dei “Disturbi del Controllo degli impulsi non classificati altrove” e denominato Gioco d’azzardo Patologico (GAP), al DSM-V (APA, 2013) nel quale viene collocato nella categoria delle “dipendenze comportamentali” e rinominato Disturbo da gioco d’azzardo (Gambling Disorder). Studi epidemiologici stimano tassi di prevalenza compresi tra 1.1% e 5.3% nella popolazione adulta (Castrén et al. 2013; Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010; Raylu & Oei, 2002) e in particolare nel contesto italiano si stimano tassi di prevalenza pari al 2.3% per i giovani e il 2.2% per gli adulti (Bastiani et al. 2013).

Un importante aspetto da considerare nel trattamento del gambling è rappresentato dal problema della comorbilità. Si stima che circa il 6.7 – 12 % di pazienti psichiatrici manifesti comportamenti di gioco patologico e in particolare il gioco d’azzardo patologico appare associato ad elevati tassi di comorbilità rispetto a disturbi dell’umore, ansia, abuso di sostanze e disturbi di personalità (Johansson, Grant, Kim, Odlaug & Go¨testam, 2009).

La comorbilità psichiatrica rappresenta da una parte un significativo fattore di rischio per l’insorgenza del gambling e allo stesso tempo si associa ad un maggiore gravità e decorso clinico negativo (Raylu & Oei, 2002; Johansson et al., 2009).

Sebbene una recente revisione sistematica della letteratura e meta-analisi (Gooding & Tarrier, 2009) evidenzia un significativo effetto della CBT nella riduzione del gambling nei primi 3 mesi dalla cessazione della terapia, allo stesso tempo le evidenze sull’efficacia in un lungo periodo di tempo (es. 12 mesi) sono ancora limitate (Spada, et al.,2014).

Alla luce di ciò, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) si è cercato di indagare se la terapia metacognitiva (MCT) possa rappresentare una strategia terapeutica funzionale a tale complessità. La base teorica della MCT è rappresentata dal modello della Funzione Esecutiva Regolatoria (S-EF) (Wells, 2012) secondo il quale i disturbi emotivi sono mantenuti da peculiari modalità di elaborazione delle informazioni, ovvero, il modo di usare il pensiero, l’attenzione, la memoria.

Secondo il modello metacognitivo proposto da Wells (2012), i disturbi psicologici sono determinati dall’attivazione della Cognitive Attentional Symdrome (CAS), ovvero, una modalità disfunzionale di elaborazione dell’informazione caratterizzata da stili di pensiero perseveranti (es.: rimuginio, ruminazione, iper-monitoraggio attentivo), comportamenti di evitamento e strategie di coping non adattive (Spada et al., 2014).

L’attivazione della CAS è determinata a sua volta da specifiche credenze metacognitive (Wells, 2012). Studi empirici supportano il ruolo delle credenze metacognitive nei disturbi d’ansia, depressivo, ossessivo-compulsivo e nelle dipendenze da nicotina, alcool e gambling (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Normann, van Emmerik & Morina, 2014; Spada, Giustina, Rolandi, Fernie, & Caselli, 2014; Wells, 2012).

Uno dei primi studi sul rapporto tra metacognizoine e gambling è stato condotto da Lindeber et al. (2011) in un campione di 91 giocatori patologici, evidenziando il ruolo predittivo delle metacredenze cognitive (metacredenze negative e metacredenze relative alla necessità di controllo) nel gambling, indipendentemente dalla presenza di stati ansiosi e /o depressivi. Come evidenziato dagli autori, le “metacredenze negative” e la “necessità di controllo” fanno riferimento a un range di credenze secondo cui certi pensieri non dovrebbero essere sperimentati in quanto negativi, e, l’esperienza di tali pensieri, se non controllati, potrebbe condurre a conseguenze negative.

Pensieri negativi e stati emotivi nei giocatori possono essere rappresentati dal pensiero relativo ai gioco, dal desiderio di giocare o da bassi livelli di umore, rappresentando per il giocatore potenziali trigger o possibile prova di perdita di autocontrollo.

Lindeberg et al. (2011), ipotizzano che il soggetto può ruminare e/o rimuginare su tali pensieri e stati emotivi, cercando di monitorarli o sopprimerli, esacerbando stati affettivi negativi. Secondo gli autori (Lindeberg et al., 2011) ciò a sua volta potrebbe incrementare la probabilità di ricorrere al gioco come strumento, seppur temporaneamente, di contenimento. Sulla scia di questo studio, successivi disegni sperimentali hanno fornito ulteriore evidenza del potenziale coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling.

Spada et al. (2014), identificano in un campione di 10 giocatori patologici, la presenza di metacredenze positive e negative relative al gioco, il quale rappresenterebbe per gran parte dei soggetti una strategia di coping finalizzata alla risoluzione di problemi economici e/o alla regolazione degli propri stati interni emotivi-cognitivi. Un ulteriore rafforzamento del potenziale coinvolgimento della prospettiva metacognitiva nel gambling è fornita da Caselli et al. (2014), evidenziano il ruolo predittivo, indipendentemente dalla presenza di emozioni negative e craving, del pensiero desiderante a sua volta associato a credenze metacognitive positive e negative (Caselli e Spada, 2010).

Infine, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) è stato indagato il ruolo delle credenze metacognitive in relazione alla comorbilià psichiatrica. In un campione clinico di giocatori patologici (n=69) e un campione di soggetti estratti dalla popolazione generale di (n= 58) è stata indagata la relazione tra credenze metacognitivie, sintomatologia psichiatrica e comportamenti legati al gioco, attraverso la somministrazione di questionari self-report quali South Oaks Gambling Screen (SOGS, Lesieur & Blume, 1987), Metacognition Questionnaire 30 (MCQ-II, Wells & Cartwright-Hatton, 2004), Symptom Checklist-90-R (SCL-90, Derogatis, 1994). Tale studio ha condotto ai seguenti risultati:

rispetto alla popolazione generale, i giocatori patologici sono caratterizzati dalla presenza di credenze metacognitive negative, credenze metacognitive relative alla necessità di controllo dei pensieri, e maggiore sintomatologia ansiosa, depressiva, ossessiva-compulsiva, ipersenbilità interpersonale e ostilità;

– nel campione dei giocatori patologici la relazione tra metacognizione (credenze metacognitive negative e positive) e gambling appare essere mediata dalla concorrente sintomatologia psicologica; in particolare sembra rilevate nel rapporto di mediazione, la sintomatologia dell’area ansiosa, ossessiva-compulsiva e relativa all’ipersensibilità interpersonale e all’ostilità.

Questa ricerca fornisce un ulteriore supporto a precedenti evidenze empiriche (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Spada et al., 2014) sul coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling. Sebbene i limiti impliciti dello studio dovuti all’ampiezza del campione e l’impiego di test self-report, tali risultati portano ad ipotizzare che le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti. Sulla base di quanto riportato, gli studi sopradescritti forniscono alcuni punti di riflessione in relazione a possibili implicazioni terapeutiche:

(a) forniscono preliminari evidenze sulla possibilità di considerare la Terapia Metacognitiva (Wells, 2012) un’utile integrazione nel trattamento del comportamento legato al gioco patologico e della relativa sintomatologia psicologica concorrente;

(b) in linea con il modello teorico (Wells, 2012), diversamente dalla CBT, l’intervento terapeutico non dovrà mirare a monitorare e testare la veridicità dei pensieri e delle credenze, ma dovrà focalizzarsi sul modo in cui il soggetto reagisce a queste idee, fornire strategie di gestione e cambiamento di stili di pensiero disfunzionali, nonché esser centrato sulla modifica di credenze metacognitive;

(c) si sottolinea l’importanza durante la fase di assessment di una approfondita valutazione psicodiagnostica e di un accurato assessment metacognitivo;

(d) focalizzarsi sulle credenze metacognitive disfunzionali potrebbe favorire la riduzione dei sintomi psicologici concorrenti contribuendo alla riduzione e/o contenimento delle condotte funzionali al comportamento di gioco patologico.

In conclusione i dati sembrano incoraggianti nel considerare il potenziale contributo della Terapia Metacognitiva nel Gambling, inoltre, la cornice teorica delineata appare ricca di stimoli per ulteriori studi al fine di chiarire ulteriormente il ruolo delle credenze metacognitive nell’esacerbazione e mantenimento del gambling.
Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Neuroscienze: i circuiti neuronali che regolano l’appetito

FLASH NEWS

Nel nostro cervello vi sarebbero specifici circuiti di neuroni che regolano la sensazione di appetito e sazietà nel senso che sono deputati all’atto stesso del nutrimento. Ma non solo.

Secondo un nuovo studio della Yale School of Medicine, questi stessi circuiti conosciuti da tempo per regolare la sensazione di fame avrebbero una ulteriore funzione in quanto coinvolti nell’attuazione di comportamenti ripetitivi e stereotipati finalizzati a uno scopo specifico, e cioè il reperimento del cibo quando si ha fame.

Si tratta di una popolazione di neuroni presenti nell’ipotalamo, conosciuti come neuroni AGRP. In uno studio sui roditori è stato dimostrato che in assenza di cibo i topi attuano comportamenti ripetitivi in relazione all’ attivazione di tale popolazione neuronale.

In tal senso, secondo gli autori, questa primitiva regione ipotalamica sarebbe alla base anche di comportamenti più complessi rispetto alla sola gestione della sensazione di fame. Dunque l’attivazione dei neuroni AGRP in assenza di cibo stimola la ricerca di nutrimento e comportamenti ripetitivi e stereotipati che corrispondono a una diminuzione dei livelli di ansia e che regrediscono a seguito del consumo di cibo.

Secondo gli autori dunque il coinvolgimento di questa popolazione neuronale in comportamenti stereotipati, ripetitivi e compulsivi legati alla sensazione di fame potrebbe essere utile per comprendere dal punto di vista neurocognitivo gli aspetti comportamentali dei disturbi dell’alimentazione.

 

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Tracce del tradimento: perché si lasciano e perché si cercano – Introduzione

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Introduzione (01)

Una serie di articoli sul tradimento. E sul lasciare e cercare tracce del tradimento. Quasi a tradire la segretezza del tradimento. Per State Of Mind, a partire da oggi, ci chiediamo con una serie di articoli come e perché si lasciano tracce nel tradimento.

All’inizio c’è una coppia. Un uomo e una donna. Due uomini. Due donne. Insomma, una coppia. Adolescenti, adulti, anziani, coetanei, amanti, al primo incontro, fidanzati, conviventi, sposati, in via di separazione. Che s’interessano, desiderano, stimano, dedicano, amano, inseguono, cercano, fuggono, ritrovano.

Poi appare un altro, nuovo, diverso, precedente, reale, immaginato, disponibile, seduttivo, sfacciato, sfuggente, irraggiungibile. Uno dei due guarda fuori, vede l’altro, mette un piede oltre il confine, furtivamente, senza che il compagno se ne accorga, esclude il compagno da questa vicenda che è sua e non della coppia; si è ritagliato uno spazio privato, forse se ne sta andando.

L’altro dei due a volte, non sempre, avverte un cambiamento, l’esclusione; sospetta, teme l’inganno, l’abbandono, l’umiliazione e allora vuole vederci chiaro e chiede spiegazioni, controlla, diffida, minaccia. Questa è la consumata figura del tradimento che tutti conosciamo per averla interpretata almeno una volta nella parte del traditore, del geloso o del rivale.

E’ la modalità più frequente con cui si transita da una coppia all’altra: il rimpasto delle relazioni avviene così nel 99% dei casi ma il restante 1% non è mai arrivato alla nostra osservazione e forse non esiste. La nuova coppia che nasce resterà tale fino a quando si metterà di nuovo in scena la figura del tradimento; e così via di coppia in coppia fino alla vedovanza.

E’ comprensibile che le cose vadano così perché gli interessi in gioco del traditore e del tradito sono in contrasto. Il traditore prima di lasciare la vecchia coppia vuole accertarsi che la nuova sia praticabile e funzioni meglio della precedente per cui è normale che cerchi un periodo di sovrapposizione in cui sperimentare il nuovo senza perdere il vecchio. E’ dunque suo evidente interesse tenere celata la nuova relazione.

Il tradito, al contrario, è interessato a non continuare a investire in una impresa che forse è già in liquidazione aumentando le perdite ed è dunque suo interesse scoprire al più presto come stanno le cose per interrompere l’investimento a fondo perduto o per impedire, per quanto è in suo potere, il proseguire della nascente relazione e ristabilire la coppia.

Questa storia è talmente antica e ripetitiva e su di essa sono state scritte un’infinità di pagine di saggistica, letteratura, poesia che non meriterebbe certo altro inchiostro. Infatti il tema di questo libretto non è il tradimento e la gelosia a cui pure si accennerà, ma una strana malformazione di entrambe, una perversione della figura classica e ben consolidata del tradimento.

Normalmente il traditore tradisce perché crede di poter star meglio (e spesso si sbaglia), il geloso cerca di scoprire il tradimento perché non vuole star peggio (e spesso si sbaglia): fino a qui ognuno gioca la sua parte sensata, coerente, efficace e di consumata tradizione. Talvolta però avvengono cose strane.

Il traditore invece di tenere con cura nascosto il tradimento ne lascia ovunque delle tracce visibili, dice di non voler essere scoperto e sembra far di tutto per esserlo, apparentemente si comporta in maniera contraddittoria ai suoi scopi, sembra volersi cacciare volontariamente nei guai perdendo il vantaggio della segretezza che gli consente di avere per un periodo di prova più o meno prolungato la situazione di “doppia coppia”.

Il geloso invece di cercare le prove del tradimento e agire di conseguenza e cioè smettere di cercarle se non ci sono o, se ci sono, interrompere il rapporto o blindarlo dalle interferenze con manovre deterrenti, cerca, cerca, si arrovella, continua a cercare, cercare e arrovellarsi.

Torniamo all’inizio: tradire ed essere traditi, lasciare e cercare tracce di questo tradimento.

Qual è il perché di questo apparentemente insensato seminare tracce e cercarle? Se varrà a evitare a qualcuno questo calvario tradendo ed essendo traditi con serietà, avremmo raggiunto il nostro scopo.

 

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Il disturbo da Accumulo: recensione del libro di Perdighe e Mancini

Le persone affette da disturbo da accumulo soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Il disturbo da accumulo (hoarding disorder) è una diagnosi relativamente recente, elaborata in USA da Randy Frost e il suo gruppo di ricerca clinica alla Smith University. Si tratta di un disturbo in qualche modo apparentato al disturbo ossessivo compulsivo ma non riducibile a esso. Le persone affette soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Negli Stati Uniti sembra esserci un’epidemia di questo disturbo, ma anche in Europa e in Italia si stanno moltiplicando i casi. La consapevolezza di questo disturbo iniziò col caso storico dei fratelli Collyer, che giunsero ad accumulare 103 tonnellate di oggetti vari (compresi 14 pianoforti) nella loro casa a Manhattan nel corso degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, fino a rimanere sepolti vivi nel loro stesso appartamento e a morirci nel 1947.

Si tratta certamente di un tipico disturbo della società affluente e consumistica con la sua larga disponibilità di oggetti da usare e gettare. O da non gettare, ma da conservare e collezionare, come accade in maniera perversa nel disturbo da accumulo.

Insomma per alcune persone l’attaccamento agli oggetti diventa un vero disturbo mentale: buttare è così difficile che continuano ad accumulare cose di nessun valore anche quando questo compromette la qualità della vita, la vivibilità della casa, i rapporti con gli altri.

Dal 2013 l’accumulo patologico è stato riconosciuto come disturbo autonomo e inserito con il nome di disturbo da accumulo nel DSM-5. Si tratta di un disturbo molto diffuso: ne soffre tra il 2 e il 5 per cento della popolazione.

In Italia se ne stanno occupando Claudia Perdighe e Francesco Mancini e il loro gruppo clinico, da sempre impegnati nello studio e nella cura delle varie forme di sofferenza ossessiva. Ora Perdighe e Mancini escono con un volume edito da Cortina che tratta a fondo questo disturbo ancora nuovo per noi. Il libro tratta il modello cognitivo-comportamentale del disturbo, e la sua cura. Fornisce una descrizione accurata di come alcune persone possano sviluppare un comportamento così strano. In genere costoro accumulano oggetti per due ragioni principali: potrebbe servirmi e mi sono affezionato. Una ragione emotiva e l’altra in qualche modo razionale.

Il trattamento proposto è naturalmente di tipo cognitivo-comportamentale e parte dall’analisi delle idee che sono alla base del comportamento da accumulo e dalla loro messa in discussione, insieme alla dismissione dal comportamento di accumulo. Il volume è rivolto a tutti coloro che si occupano di salute mentale, ma si presta anche a essere letto da chi semplicemente vuole comprendere meglio il disturbo (i soggetti che ne soffrono o i loro parenti).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Ascoltare il Trauma dell’Abuso: Report dal seminario – Centro Studi Erickson di Trento

Le competenze emotive e relazionali degli operatori sono state presentate come  requisiti fondamentali per comprendere, sostenere, e trattare minori vittime di violenza e abuso.

I giorni 27 e 28 febbraio presso la sede del Centro Studi Erickson di Trento si è tenuto il seminario dal titolo: Ascoltare il trauma dell’abuso, Strumenti per operatori della tutela minorile e della scuola. Due giorni molto intensi dal punto di vista del contenuti trasmessi e dei temi affrontati. Ma sopratutto per quanto riguarda l’elevato livello emotivo che si è generato all’interno del gruppo in formazione.

Il docente, dott. Claudio Foti, ha guidato i presenti utilizzando uno stile di conduzione unico, che integra formazione tradizionale con tecniche di psicodramma psicoterapeutico rivolte a soggetti vittime di traumi o esperienze avversive. Nel corso delle due giornate sono state proposte attività di role playing orientate allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, tecniche di psicodramma moreniano e altre forme di attività ispirate alla psicoterapia del trauma ad indirizzo analitico. Piuttosto insolito, per chi si aspettava un contesto formativo tradizionale, il clima che si è da subito creato.

Il gruppo in più occasioni è stato reso vero protagonista del corso, favorendo l’emersione di testimonianze dirette che hanno fatto crescere la circolazione emotiva all’interno del cerchio. In questo caso la disposizione circolare è stata un reale tentativo di contenere esperienze personali e riflessione dei partecipati e sopratutto di dare spazio ai diversi vissuti emotivi rispetto ad un tema così complesso.

Le competenze emotive e relazionali degli operatori sono state presentate come  requisiti fondamentali per comprendere, sostenere, e trattare minori vittime di violenza e abuso.La comunicazione del malessere dei bambini infatti inizia spesso dall’orecchio di chi ascolta e dall’occhio di chi guarda (dalla posizione emotiva dell’operatore, dal suo atteggiamento empatico) piuttosto che dalla bocca di chi parla”. Per questo affinché il fenomeno della violenza possa essere adeguatamente riconosciuto e trattato in ogni contesto sociale o sanitario che sia, è importante sviluppare la capacità di ascolto attivo e empatico degli operatori, dall’insegnante della scuola d’infanzia all’educatore professionale, dallo psicoterapeuta al medico. Non è sufficiente però la formazione degli operatori, mancano spesso politiche efficaci di contrasto, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione.

Il fenomeno della violenza sui minori fa ancora troppa fatica ad emergere. Incontra purtroppo ancora oggi troppe resistenze in una cultura per molti versi intrisa di “negazionismo”. Dopo una prima emersione – negli anni ’80 del secolo scorso – rischia non a caso di tornare per molti aspetti nel silenzio e nel dimenticatoio, nel quale è rimasto per secoli. “La sua emersione fa troppa paura, chiama in causa profonde, diffuse e radicate responsabilità della comunità adulta, certamente di molti uomini, di tutti i partiti e di tutte le fedi, di tutte le classi e le professioni, ma anche – in misura certamente più ridotta – di molte donne”.

I dati presentati dal formatore hanno fatto emergere un fenomeno di dimensioni sconcertanti che è bene tenere a mente. Riportiamo di seguito i dati di una ricerca retrospettiva compiuta dall’Istituto degli Innocenti su un campione di 2200 donne dal titolo Percorsi di vita: dall’infanzia all’età adulta. Lo scopo dell’indagine era quello di valutare l’incidenza dell’abuso sessuale e del maltrattamento in età minorile nella popolazione femminile adulta in età compresa dai 19 ai 60 anni.

I dati raccolti hanno permesso di stimare che il 24% della popolazione italiana femminile ha fatto esperienza di almeno una forma di abuso sessuale associata o meno a maltrattamenti prima del compimento dei diciotto anni, mentre il 49,6% ha vissuto almeno una qualche forma lieve, media o grave di maltrattamento in età minore all’interno della famiglia. Il 26,4% delle donne invece non riferisce alcuna esperienza di abuso e maltrattamento.

Le forme di abuso sessuale considerate nell’indagine sono state (con o senza contatto fisico):

• esibizionismo

• molestie verbali

• esposizione all’esibizione di materiali pedopornografici

• toccamenti e atti di masturbazione

• tentativi di penetrazione

• penetrazione

Il maltrattamento fisico è stato identificato mediante l’indicazione di comportamenti quali:

• punizioni fisiche ricorrenti

• percosse con oggetti, tirate per i capelli o strattoni violenti

• percosse con traumi

Il maltrattamento psicologico è stato identificato con un unico comportamento specifico: critiche o ironie svalutanti.

La trascuratezza materiale:

• non chiamare il dottore o far fare visite mediche di controllo in caso di malattia

• vestiti inadeguati alla stagione, non vigilanza sull’alimentazione

La trascuratezza affettiva:

• non supporto e attenzione alle attività scolastiche del figlio da parte dei genitori

• nessun accompagnamento nella fase dell’addormentamento

• non condivisione di momenti di gioco tra genitore e figlio

• affidamento a persone estranee o molto anziane

La violenza assistita:

• assistere a liti verbali continue tra i genitori

• assistere a liti verbali con aggressioni fisiche tra i genitori

• assistere a comportamenti di aggressione verbale, offese e svalutazioni nei confronti di un familiare

• assistere a molestie sessuali o violenze su altri familiari adulti o minori

Gli episodi di maltrattamento sono stati tutti ricondotti all’ambiente familiare poiché è in questo ambito che i bambini vivono le forme più gravi e croniche di vittimizzazione.

Il dott. Claudio Foti è psicologo, psicoterapeuta, psicodrammatista, fondatore e direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel. Da oltre vent’anni conduce gruppi di psicoterapia ad orientamento analitico con lo psicodramma rivolti a persone con alle spalle esperienze sfavorevoli o traumatiche.

Il Centro Studi Hansel e Gretel si occupa di prevenzione sensibilizzazione e di contrasto alle diverse forme di violenza nei confronti dei bambini, psicoterapia infantile, collaborazioni in contesto psicologico forense e di contrasto alla cultura adultocentrica.

 

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La disciplina interiore del terapeuta

Gli allievi rientrano in classe. Una ventina. Ultimo anno di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Una fase esistenziale di passaggio, non semplice. Professionisti scolari. Genitori figli. I maschietti soffrono una schiacciante minoranza. Riprendono posto senza mostrare la minima fretta. La pausa caffè è uno dei motivi essenziali per cui ci si iscrive a una scuola di specializzazione. Lancio uno sguardo privo di messa a fuoco sulle sagome sedute sulle sedie stile college americano, quelle con la mini-scrivania fissata come una protesi sul bracciolo. – Chi  vuole portare un caso?

Guardano con estremo interesse un punto a caso dello spazio, basta che sia fuori del perimetro della mia figura.
Ricordo benissimo quello che passa per la mente degli allievi in quel momento, perché ci sono passato tantissime volte stando dalla loro parte: dopo che per tre minuti d’orologio nessuno si sarà fatto avanti per portare un caso in supervisione, la probabilità che il docente si scocci, o si senta troppo imbarazzato dal silenzio generale, e scelga proprio te, praticamente costringendoti a parlare di un caso clinico, anche inventandotelo, è legata all’eventualità che incontri il tuo sguardo. Come alle scuole medie e al liceo. Io per esempio, se percepivo che lo sguardo del docente stazionava su di me per più di mezzo secondo, facevo in modo da sembrare impegnatissimo ad annotare una riflessione decisiva per la comunità scientifica. A quel punto il docente giungeva alla conclusione che ero troppo scemo per poter affrontare in modo sensato qualsiasi argomento, figuriamoci un caso clinico. Comunque, l’avevo scampata.

Un’allieva seduta in prima fila ha uno scatto improvviso del collo. Si guarda attorno per far vedere agli altri che si sta immolando, e per farsi investire dalla ola invisibile di sollievo e gratitudine che percorre la classe. Inizia a descrivermi il caso con abilità collaudata. Le hanno insegnato un protocollo espositivo per riordinare le sciagure umane nell’opportuna gerarchia. L’emulazione un po’ taroccata dell’anamnesi medica. In un contesto, la psicopatologia, che con la medicina non ha mai avuto alcunché da spartire.

Ascolto con la stessa attenzione che di solito presto alla pubblicità per gli assorbenti interni. Quasi subito, a scuoteremi dal mio imbambolamento è il pensiero che farebbe parte del mio lavoro qui capire perchè mi sono imbambolato. E infatti lo capisco. Non sto vedendo il paziente, nè chi me lo racconta. E quando mi succede questo, la mia coscienza va sempre in stand by. La interrompo più gentilmente che posso. La ringrazio per l’accuratezza della descrizione. Le chiedo se ora possiamo provare a focalizzarci sul motivo che l’ha spinta a portare il caso in supervisione. Il macrorganismo sinciziale della classe si anima con un mormorio che sembra sottolineare che la mia domanda ha una ragione ovvia; anche se manco il macrorganismo sinciziale sa quale sia.

L’allieva tortura i fogli dei suoi appunti senza mettere a fuoco nemmeno una riga. Vorrebbe non essere lì in quel momento; arrivare col pilota automatico alla prossima pausa caffè, magari per commentare coi colleghi quanto io oggi stia rompendo le scatole con le mie domande. Le chiedo se le venga in mente un momento specifico in cui si è sentita in difficoltà col paziente. Ci riflette, mentre cenni leggerissimi di ‘sì, sì, ho capito’ con la testa, come Massimo Troisi nella scena della chiesa in “Non ci resta che piangere”, scandiscono le associazioni mentali. Descrive la scena che fino a quel momento le si era nascosta dietro agli occhi.

– In realtà c’è stato un momento, non nell’ultima seduta, in quella precedente, ma non so se è veramente importante.
Con la faccia le dico ‘è importante’. Con la faccia mi dice ‘ok, se lo dici tu’.

– Mi ha chiesto di prendere un caffè insieme.

Mormorio prolungato di soddisfazione del microrganismo sinciziale. Di quelli che fanno da sottofondo alle sit com americane. Lei ha il viso di chi uno a cui hanno appena cavato un dente. Una miscela strana di rabbia e riconoscenza che mi intenerisce.

– Capisco. Che hai provato?

La risposta è un riflesso patellare verbale.

– Beh, mi sono arrabbiata molto…

Penso che ora mi dirà: ‘…ma ho disciplinato la mia rabbia’.

– …ma ho disciplinato la mia rabbia.

Fermiamoci un attimo. Autori guru come Safran (Safran & Segal, 1990; Safran & Muran, 2000) hanno descritto la disciplina interiore del terapeuta come funzione imprescindibile in casi come questo. Il  terapeuta si arrabbia perchè il paziente l’ha invitata a prendere il caffè? O si irrita perchè il paziente improvvisamente mette il broncio? O si annoia perchè il paziente risponde a monosillabi?

Il terapeuta allora attiva delle procedure interne di regolazione delle proprie emozioni negative evocate dal paziente per evitare che esse lo spingano a compiere interventi nocivi per la relazione e per le sorti della terapia. Se queste procedure hanno successo, esse collocano il terapeuta in una posizione vantaggiosa per operare un intervento efficace. Esplorare la dinamica interna del paziente senza esserne parte. Aiutare il paziente a osservarla da una nuova prospettiva.

Roba fortissima. Potentemente transteoretica. Di più: ateoretica. Maledettamente pratica. Perchè allora quasi sempre gli allievi, anche avanzati (e qualche volta, i terapeuti avanzati) quelle procedure non le eseguono efficacemente (anche se studiano Safran)? Una risposta, un po’ ingenua, abbastanza radicale, io me la sono data. Ma per spiegarla al meglio dobbiamo tornare in classe.

– Sono sicuro che tu l’abbia disciplinata. Ma aiutami a capire meglio. Rabbia legata a cosa? Ci arriviamo insieme dopo venti minuti faticosi. Le servono soprattutto per rassicurarsi sul fatto che io e la classe faremo buon uso di ciò che fa fatica a dire a se stessa:

– Lo ammetto, una parte di me aveva voglia di prendere un caffè con lui. In fondo mi affascina. Ma nello stesso tempo mi sono sentita poco rispettata.

Ci prendiamo il tempo necessario per scendere più in profondità. Nella classe, il silenzio assoluto della totale identificazione con la collega. L’esatto opposto dell’attitudine giudicante. Questo significa esser diventati una bella classe. Fino a quando arriva il momento di dirle, lentamente:

– Sentire che è solo un altro a decidere se abbiamo valore o no?!

La scossa che serve le arriva alla pancia:

– Non lo so decidere da sola, eh!?

Ormai in questa classe un po’ mi conoscono. Alcuni immaginano quale sarà la prossima domanda:

– Dove ti porta questo? Ti viene in mente una scena?

Le viene in mente. E quello che le viene in mente è essenziale per vedere con nitidezza disarmante (vedere, non capire) quanto il paziente non ne sappia niente della storia del terapeuta che ha di fronte (e non sia tenuto a saperne); non sappia niente di quanto, per esempio, possa essere stato periglioso il percorso che ha condotto il suo terapeuta a strutturare un’immagine stabile di sè e del proprio valore. Il paziente lo ha solo invitato a prendere un caffè.

La capacità del terapeuta di comprendere il significato profondo che si cela (e si palesa) in questo invito – in eventi come questo, così densi  di implicazioni per le sorti di una terapia – decade istantaneamente nel momento in cui la mente del terapeuta stesso inizia a impegnare tutte le risorse di cui dispone per attutire un contraccolpo.

Respingere l’onda d’urto della propria vulnerabilità, personale, storicamente fondata, che entra prepotentemente nel campo terapeutico e confonde le acque. Induce nel terapeuta un delirio in miniatura a difesa di un senso un po’ finto di stabilità interiore: ‘Il paziente mi manca di rispetto’. ‘Il paziente non rispetta il confine’. O, per i più sofisticati: ‘Il paziente cerca di controllarmi per reificarmi, così da disincarnarmi, in modo da de-soggettivizzarmi, con l’intento sottile, vitale per la sua economia psichica, di rendermi non esistente e quindi mai potenzialmente abbandonante’.

Intendiamoci, capita spesso che la sofferenza emotiva del terapeuta appaia semplicemente come il precipitato della patologia dell’altro. Che il terapeuta sia chiamato a disciplinare processi interni problematici per lo più innescati dal funzionamento del paziente. La conosciamo, la sensazione ansiosa di “camminare sulle uova”, nel confronto con la diffidenza di un paranoide grave; il pensiero insistente, semi-dissociativo, di spiagge caraibiche, come antidoto alla noia imbarazzata scatenata dai monosillabi di un grave evitante; la voragine in cui precipita l’autostima – e la rabbia che ne consegue – nel confronto col disprezzo del narcisista; la sensazione che Kernberg quanto a bravura terapeutica ci fa un baffo, quando un paziente dipendente ci fa sentire indispensabili.

Il controtransfert patologia-specifico esiste; è un fondamentale marcatore diagnostico; una guida euristica imprescindibile.

Però, mettete tre terapeuti con lo stesso paziente, che so, paranoide. Ciascuno di essi avrà il proprio modo di “camminare sull uova”; per ciascuno di essi percepire quel particolare tipo di ansia avrà come substrato un peculiare, autobiografico, scenario interno, che prende forma dietro la porta della coscienza ogni volta che quell’individuo si imbatte in una seria difficoltà. Magari per il primo sotto quell’ansia ci sarà il timore di percepirsi fallimentare, per il secondo la conferma dell’immagine paventata di sè come irresponsabile, che arreca danno, per il terzo lo spettro di una frammentazione interna. Per ciascuno dei tre, la vera disciplina inizia con l’accesso a quelle percezioni.

Provo allora a dare una risposta, la mia, alla domanda di prima. Perchè quasi sempre gli allievi, anche avanzati – non proprio raramente, i terapeuti avanzati – non eseguono  efficacemente le procedure di disciplina interiore?

Perchè non sono procedure. Non possono essere considerate tecniche. La disciplina interiore va secondo me intesa come un assetto interiore sufficientemete stabile. Uno stadio avanzato dello sviluppo di sè che, già che c’è, può essere utile anche nel mestiere di terapeuta, soprattutto col paziente “difficile”. Una posizione del sè che si basa sostanzialmente sul graduale affinamento della capacità di mettere tra parentesi se stesso. Aver osservato così da vicino le proprie zone di vulnerabilità, essersi allenati ad osservarle ogni giorno, sempre con uno sguardo benevolo, nel momento in cui si attualizzano nelle situazioni, da saper lasciare che si trasformino in un rumore di fondo.

Per cui, quando quelle vulnerabilità invadono il campo terapeutico, non generano più il bisogno urgente della mente di scotomizzarle spostando le ragioni del problema all’esterno. Sapersi dire, per esempio, al cospetto del paziente: ‘In questo momento sono arrabbiato non perchè chi mi sta di fronte sta violando il principio etico del rispetto del mio ruolo e questo non è giusto, ma perchè sento la mia autostima minacciata, e mi sento così perchè quando lui ha messo su quell’espressione sprezzante (o anche se semplicemente mi fa l’affronto di non migliorare) è come se avesse spinto la mia faccia davanti allo specchio e lì ci ho visto, come mi capita spesso da quando avevo tredici anni, che non valgo quanto vorrei’. Impossibile attivare oggi, al cospetto del paziente, il muscolo che produce consapevolezze del genere, se non l’ho allenato lungamente. Quotidianamente. La vera disciplina interiore secondo me è quella che viene messa in atto accidentalmente in psicoterapia.

Quel muscolo, ciascuno lo allena col metodo che preferisce.  Le strade ci sono. Una è quella intellettuale. Filosofi come Cioran (1956; 1973), forse superando Nietzsche, hanno mostrato la potenza creativa di un certo tipo di nichilismo.  Cioran dice che la nostra sostanza si sgretola momento per momento, ma noi dovremmo imparare a fare di questo consumarsi un principio di efficacia, come lo chiama lui. Trarre vantaggio dalla prospettiva di non essere che quel consumarsi lascia intravedere.

Non essere significa mettere l’io tra parentesi, e fare in modo di “vibrare al contatto del vuoto che è in noi”.

Regressione germinativa, la chiama lui, discesa verso le nostre radici. Morire, in un certo senso, per stabilire la nostra vera identità, svelando la nullità del tempo, che finisce per non avere più alcun potere su di noi. In psicoterapia, alcuni autori, che non so se hanno letto Cioran, si avvicinano a qualcosa del genere quando parlano di “autotrascendenza” (Travis & Shear, 2010).

Un’altra via maestra, le arti marziali, praticate con l’insegnante giusto. Un’altra ancora, la Mindfulness. Meglio ancora se ne recuperiamo le autentiche radici spirituali. Una di queste radici è la scuola del Vedanta, per la quale la meditazione non è necessariamente solo il momento in ci sediamo e incrociamo le gambe. Si può meditare ripetutamente, continuamente, in risposta alle situazioni, mentre le viviamo. Come insegna Nisargadatta Maharaj (2001). Secondo lui la mente produce continuamente idee diverse su noi stessi. Cambiamo continuamente la rappresentazione che abbiamo di noi e degli altri. Da un giorno all’altro, da un momento all’altro. L’immagine che abbiamo di noi stessi è la più mutevole di tutti, è la più vulnerabile, alla mercè della prima cosa che capita. Quella particolare frase del partner, perdere il lavoro, un lutto, un insulto, e l’immagine che abbiamo di noi, quel “vizio della mente che chiamiamo persona”, cambia, anche profondamente.

Dice Maharaj che per poter indagare chi siamo veramente dobbiamo prima di tutto osservare continuamente cosa non siamo. E certo non siamo quell’immagine così mutevole. Bisogna diventare semplici testimoni di qualsiasi sensazione, desiderio, emozione (iniziando da quelle problematiche) che transiti davanti al palcoscenico della mente. Osservarlo per un attimo e poi archiviarlo come cosa non corrispondente a sè. Dire di tutto: ‘Io non sono questo’. Prima col pensiero, poi con le emozioni, e poi con le azioni. Sembra una strada che conduce alla spersonalizzazione. È esattamente il contrario.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dallas Buyers Club e l’empowerment individuale – Cinema & Psicologia

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa.

L’Empowerment (inteso come “potere di”) è un punto cardine per la Psicologia di Comunità. Questo è analizzabile ovviamente in diversi contesti, primo fra tutti quello individuale.

Il self-empowerment nasce da una condizione di disempowerment in cui la persona in questione sperimenta l’inefficacia delle proprie azioni e condizioni rispetto ad un particolare evento. Da questa impotenza appresa si passa alla speranza appresa e quindi all’empowerment vero e proprio, cioè quella capacità di scegliere la strategia migliore per affrontare i problemi i cui tre costrutti fondamentali sono essenzialmente 3:

– Controllo (credere nelle proprie capacità)

– Consapevolezza critica (comprendere e analizzare i contesti di vita)

– Partecipazione

Alla visione del film “Dallas Buyers Club” si ritrovano, scena dopo scena gli elementi chiave di questo processo. Portato sul grande schermo nel 2013, con la regia di Jean-Marc Vallèe,, che gli porta la candidatura agli Oscar come miglior montaggio, una sceneggiatura di Craig Borten e Melisa Wallack liberamente ispirata alla storia vera di Ron Woodroof e interpretato da Matthew McConauughey come miglior attore protagonista, il film seppur parlando di un tema molto importante come quello dell’HIV, centra perfettamente il tema del self-Empowerment.

La storia è quella Ron Woodroof a cui viene diagnosticata l’AIDS nel 1985. Nel film il personaggio di Ron è descritto come un omofobo, rozzo che incarna il perfetto stereotipo texano. Sebbene la veridicità dei fatti nella sceneggiatura sia stata un pò “caricata”, come per il carattere rude di Ron, ed inventata inserendo personaggi che non sono realmente esistiti come la Dr.ssa Saks e l’amico Rayon, passo dopo passo, tono su tono ci descrive perfettamente l’evoluzione della persona e del personaggio.

Ron Woodroof scopre accidentalmente di avere l’AIDS, malattia legata nell’immaginario collettivo degli anni ’80 ad una piccola cerchia di gruppi sociali. Non si capacita dell’accaduto, gli danno 30 giorni di vita e di questi, uno dopo l’altro vede allontanarsi da lui, persone amiche che con atteggiamenti bigotti lo lasciano solo nel suo calvario (chiara condizione di disempowerment).

Incredulo, comincia a documentarsi. Scopre che per poter allungare l’aspettativa di vita dovrebbe assumere un farmaco di nuova sperimentazione, l’AZT, negatogli però, non essendo inserito nella lista dei candidati alla sperimentazione. Non si dà per vinto, riesce a corrompere un portantino che gli fornisce il farmaco di nascosto per un po’. La storia non va avanti a lungo e dopo l’interruzione dell’AZT, Ron si ritrova a combattere con una serie di sintomi che lo stanno portando all’inevitabile fine. Non si arrende, la sua speranza è la sua forza, arriva in Messico e si imbatte in un medico radiato dall’albo che invece di proporgli l’AZT, tossico a parer suo, e che lo sta distruggendo (l’AZT non è infatti il farmaco di prima scelta avendo molte controindicazioni, ma un ottima entrata economica nata da un accordo tra case farmaceutiche e governo contro cui Woodroof combatterà a lungo)  lo cura quindi con un altro farmaco, peptide T.

I trenta giorni sono ormai passati, Ron è ancora vivo (fase di controllo, crede nelle proprie capacità, riacquista fiducia)  e pensa bene di importare la cura alternativa negli Stati Uniti.

Che lo faccia per guadagno, per condivisone o qualsivoglia altro motivo, porta i farmaci e cerca di venderli, ma, la maggioranza dei malati è rinchiusa in quella ristretta cerchia sociale quella degli omosessuali e nulla può con il suo atteggiamento se non dopo l’incontro con Rayon, transgender tossicodipendente, che filtrerà gli incontri e che gli suggerisce poi di fondare un Buyers Club, associazioni parecchio utilizzate all’epoca, i cui membri, grazie alla quota contributiva, possono ricevere, in questo caso, i farmaci alternativi proposti da Woodroof, farmaci che, evidenziando il miglioramento in Ron, sono un ottima alternativa, se non quella di elezione, alla sperimentazione.

Cambia stile di vita, osserva e si prende cura anche delle persone che lo circondano (l’analisi dei contesti di vita, propri della fase di consapevolezza è chiara), che piano piano comincia a conoscere, apprezzare ed aiutare volontariamente, tanto che da questo momento in poi c’è una salita evolutiva del personaggio (arriva quindi alla fase di partecipazione, nel suo caso volontaria, alla sua comunità).

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa, basti pensare alla commovente scena in cui, dopo l’irruzione della polizia e l’esproprio dalla sede inziale del club, due associati propongono e cedono  la loro casa come sede del Club e  non per ultima, alla scena finale, in cui nonostante la tesi di Woodroof sui benefici del Peptide T, sia in effetti giudicata positiva personalmente dal giudice, questi,  nell’udienza con l’FDA, non può convalidarlo in termini di legge, così tornando al Club, amareggiato ma non piegato, Ron è accolto da un lungo applauso che corona ed evidenzia come la crescita  sia ormai diventata evidente e la forza e l’apprezzamento di questo personaggio sono maturati con lui e rispecchiati nella sua comunità. Nonostante il countdown inziale, muore dopo sette anni, forse gli anni, nonostante la triste disgrazia, più importanti della sua vita.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il saluto con la stretta di mano: che significato ha?

FLASH NEWS

Perché gli esseri umani si stringono la mano quando si incontrano la prima volta, o in taluni casi per salutarsi?

Al dil là del fatto che a livello cross-culturale esistono differenze radicali riguardo questa pratica sociale (si veda la cultura giapponese in cui è presente l’inchino) una ricerca del Weizmann Institute si avventura nelle ragioni filogenetiche di questo comportamento umano.

Tra queste la spiegazione più plausibile sembra essere la necessità di riconoscere e verificare l’odore dell’altro. Dunque, anche se non ne siamo consapevoli, la stretta di mano sarebbe un comportamento culturalmente appreso e socialmente accettabile avente la funzione – tra le altre – di ridurre lo spazio interpersonale con uno sconosciuto e avendo quindi l’opportunità di utilizzare il nostro olfatto e riconoscerne l’odore e dunque inferire informazioni rilevanti a livello relazionale.

Lo studio dimostra anzitutto che anche una sola stretta di mano è in grado di trasmettere all’interlocutore diversi odori che possono avere la funzione di segnali chimici nelle interazioni tra mammiferi.

Per esplorare il fenomeno interattivo tale per cui l’olfatto diviene un primordiale sistema di segnalazione anche negli umani, gli scienziati hanno filmato 280 individui nei momenti precedenti e successivi alla stretta di mano con uno sperimentatore. Dai risultati è emerso che a seguito della stretta di mano con un interlocutore dello stesso genere i soggetti si ritrovavano – plausibilmente in modo automatico e inconscio- ad annusare per il doppio del tempo la loro mano destra, cioè quella a contatto con l’altro. Similmente, si è riscontrato un aumento del tempo in cui gli individui annusavano la loro mano anche con individui del genere opposto, ma in misura lievemente minore.

Dunque sembrerebbe che gli umani non siano passivamente esposti a segnali chimici che occorrono nelle interazioni ma che in qualche modo assumano un significato comunicativo rilevante. Per indagare la funzione comunicativa della trasmissione di segnali chimici olfattivi i ricercatori hanno svolto una serie di test per escludere la possibilità che l’aumento di tempo trascorso ad annusarsi le mani non fosse semplicemente una risposta allo stress di esperire una situazione non familiare.

L’intero impianto sperimentale e le relative procedure di misurazione sono complesse, dalla misurazione del flusso di aria nasale durante le strette di mano alla manipolazione dell’odore dell’interlocutore: se prevale un profumo commercialmente noto aumenta l’aria inalata a livello nasale durante la stretta di mano; rispetto alla condizione in cui lo sperimentatore emanava odori derivanti da ormoni legati alla sessualità si riscontrava una diminuzione dell’aspirazione nasale.

Se è vero che la stretta di mano è una pratica socialmente appresa che appartiene a specifici format culturali e che è pregna di segnali comunicativi a diversi livelli non verbali, lo studio ne sottolinea comunque l’origine filogenetica ed evolutiva per cui una funzione importante sarebbe proprio il riconoscimento di segnali chimici e olfattivi significativi nella gestione relazionale con i propri consimili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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