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Economia comportamentale: le decisioni irrazionali sono determinate da fattori biologici?

Non sempre si può dire che l’uomo sia un animale assolutamente razionale, e l’evidenza della sua fallacia ci viene data soprattutto dall’ambito di studi riguardante la Psicologia e il Marketing. In particolare è grazie alla nascita dell’Economia comportamentale che sono stati messi in luce tutti gli errori e le scelte irrazionali che gli uomini compiono nel prendere decisioni a carattere economico.

Inizialmente queste scelte irrazionali sono state spiegate in base a fattori sociali e culturali, passando poi alle spiegazioni di carattere anatomico degli studi di Neuromarketing.

In un recente studio invece, un’equipe di ricercatori, analizzando il comportamento di alcuni primati di fronte a una scelta di natura economica, ha cercato di comprendere se alla base di questi comportamenti irrazionali vi fosse l’influenza di fattori biologici. Per scoprire i risultati dello studio vi proponiamo la lettura dell’articolo originale.

 

In una società, all’interno della quale gli agenti economici sono abituati, sino dalla giovane età, ad interagire sul mercato, è intuitivo identificare in tale esposizione la fonte primaria dei meccanismi irrazionali riscontrati nelle attività decisionali. Ed in parte ciò può costituire una valida spiegazione. Tuttavia, secondo quanto emerso dalle più recenti ricerche, l’origine di tali distorsioni sembrerebbe affondare le proprie radici nella composizione biologica stessa dell’essere umano.

 

ABSTRACT:

Humans exhibit framing effects when making choices, appraising decisions involving losses differently from those involving gains. To directly test for the evolutionary origin of this bias, we examined decision-making in humans’ closest living relatives: bonobos (Pan paniscus) and chimpanzees (Pan troglodytes). We presented the largest sample of non-humans to date (n = 40) with a simple task requiring minimal experience. Apes made choices between a ‘framed’ option that provided preferred food, and an alternative option that provided a constant amount of intermediately preferred food. In the gain condition, apes experienced a positive ‘gain’ event in which the framed option was initially presented as one piece of food but sometimes was augmented to two. In the loss condition, apes experienced a negative ‘loss’ event in which they initially saw two pieces but sometimes received only one. Both conditions provided equal pay-offs, but apes chose the framed option more often in the positive ‘gain’ frame. Moreover, male apes were more susceptible to framing than were females. These results suggest that some human economic biases are shared through common descent with other apes and highlight the importance of comparative work in understanding the origins of individual differences in human choice.

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Economia comportamentale: le decisioni irrazionali sono determinate da fattori biologici?Consigliato dalla Redazione

Economia comportamentale: le decisioni irrazionali sono determinate da fattori biologici?
Esistono svariati esempi circa le distorsioni irrazionali degli individui impegnati nel prendere decisioni di carattere economico: qual è l’influenza del fattore biologico in tale fenomeno? (…)

Tratto da: Smartweek

 

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Somatoparafrenia – Definizione Psicopedia

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Gerstmann indentifica la somatoparafrenia come una forma di asomatognosia in cui si ritrova la presenza di credenze deliranti verso la parte del corpo controlaterale alla lesione cerebrale.

Nel 1942, dopo che Babinski coniò il termine anosognosia, Gerstmann individuò tre disturbi indiretti dello schema corporeo, caratterizzati da un’esperienza anomala esplicitata attraverso il comportamento o il linguaggio verso una funzione o una parte del proprio corpo. Solitamente ognuna di queste tre condizioni si presenta insieme a un deficit di consapevolezza per l’emiplegia, per l’emianestesia o in uno stato di neglect, soprattutto verso la parte sinistra del corpo, quindi in corso di danno o lesione all’emisfero destro.

Uno di questi tre fenomeni è la somatoparafrenia (σώμα = corpo, παρα = dietro and φρήν = mente) che lo stesso Gerstmann indentifica come una forma di asomatognosia in cui si ritrova la presenza di credenze deliranti verso la parte del corpo controlaterale alla lesione cerebrale. Quindi in una condizione negativa in cui la persona esperisce l’assenza di un arto, si ha anche la produzione di sintomi positivi come le credenze deliranti. Nonostante tale connotazione, la somatoparafrenia non è un disturbo psichiatrico e non si presenta in comorbilità con altri disturbi di questo tipo.

Il vissuto del paziente è di non-appartenenza per cui non riconosce l’arto come proprio ma lo attribuisce a un parente, al medico o a qualcun altro. Di fronte ai tentativi di razionalizzare l’esperienza da parte di chi gli sta intorno, il paziente risponde spesso con un atteggiamento confabulatorio e di giustificazione delle sue credenze deliranti.

La somatoparafrenia non è semplicemente la conseguenza di un deficit senso-motorio ma un fallimento nella capacità di creare un collegamento tra l’esperienza senso-motoria primaria e il sé; per tale motivo è annoverabile tra i deficit specifici del senso di appartenenza del corpo.

Nei pazienti somatoparafrenici sono spesso riscontrabili diminuite capacità attenzionali, un’alterata rappresentazione del corpo e deficit propriocettivi. Secondo alcuni autori (Vallar & Ronchi, 2009) essa emergerebbe da un deficit di integrazione multisensoriale e della rappresentazione spaziale del corpo.

Un’altra ipotesi molto affascinante riguarda la dissociazione tra la percezione corporea in prima persona e in terza persona testata sperimentalmente tramite uno specchio (Fotopoulou et al., 2011). In un interessante studio i pazienti somatoparafrenici attribuivano l’arto plegico sinistro a qualcun altro nella condizione di osservazione diretta, ma il senso di ownership dello stesso arto incrementava in maniera statisticamente significativa nella condizione di osservazione allo specchio.

Quindi in base al tipo di visione (in prima persona o in terza) l’attribuzione dell’arto a se stessi o ad altri può variare. La condizione di visione in terza persona non abolisce però la somatoparafrenia, a dimostrazione del fatto che il senso di ownership rimane dominato da un’alterata rappresentazione corporea in prima persona che non può essere integrata con altri segnali. Tuttavia tali risultati suggeriscono la presenza di network neuronali (probabilmente comprendenti le aree perisilviane) deputati all’integrazione di diverse rappresentazioni coporee.

Diversi sono gli studi che hanno tentato di identificare le basi neuroanatomiche della somatoparafrenia. Molti di questi presentano campioni non molto ampi e paragonano pazienti con somatoparafrenia, con anosognosia e con neglect senza anosognosia; bisogna tener conto che le differenze tra le diversi situazioni sono molto sfumate. In due studi effettuati a 20 anni di distanza l’uno dall’altro, Feinberg (1990; 2010) identifica danni alle strutture temporo-parientali in modo trasversale alle condizioni di neglect, anosognosia e somatoparafrenia, mentre nei pazienti somatoparafrenici una lesione più estesa al lobo frontale mediale destro e alle strutture orbito-frontali.

Quindi, mentre lesioni nelle aree temporo-parietali, presumibilmente legate al neglect, sembrano essere critiche per l’insorgere della manifestazione anosognosica e somatoparafrenica, sarebbero le aree più di tipo frontale a essere determinanti per la sola somatoparafrenia. Più recentemente (Gandola et al., 2012; Romano et al., 2014) nei pazienti somatoparafrenici sono stati riscontrati non solo danni in aree corticali ma anche alla sostanza bianca nell’area della corona radiata, alla sostanza grigia sottocorticale (talamo, gangli della base, amigdala, ippocampo) e alla parte posteriore della capsula interna, tutto localizzato nell’emisfero destro.

La somatoparafrenia è un sintomo acuto e non cronico; può durare ore, settimane ma talvolta anche anni. Grazie a tecniche come la stimolazione calorica vestibolare si può ottenere una remissione, seppur temporanea, della sintomatologia (Ronchi et al., 2013).

Questi dati fanno pensare al fatto che la somatoparafrenia possa non essere solo l’esito di un danno anatomico ma un deficit funzionale transitorio che può scomparire con un’adeguata stimolazione delle componenti associate alla rappresentazione corporea. Pertanto emerge la necessità di approcciarsi alla sindrome in maniera olistica (Feinberg et al., 2014) considerando componenti cognitive, neuroanatomiche, psicologiche e non di meno motivazionali (diversi sono infatti gli studi che vedono nella confabulazione una modalità per gestire le situazioni spiacevoli creando false credenze che rendano maggiormente accettabile la realtà).

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

TUTTE LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Confidare in Dio rende più imprudenti?

FLASH NEWS

Uno studio pubblicato su Psychological Science prova a spiegare come la presenza di continui riferimenti a Dio possa influenzare le scelte individuali e come coloro che credono nella provvidenza divina siano più disposti a prendere rischi perché fiduciosi in un Dio che li proteggerà da eventuali conseguenze negative.

La fede è un buon alleato per superare situazioni difficili: avere fiducia che Qualcuno abbia dei piani per tutti dà significato agli eventi e aiuta ad avere maggiori speranze e un pensiero più positivo per il futuro. Ma se tutta questa fiducia rendesse anche meno cauti?

È quanto sostiene uno studio pubblicato su Psychological Science che prova a spiegare come la presenza di continui riferimenti a Dio possa influenzare le scelte individuali e che coloro che credono nella provvidenza divina siano più disposti a prendere rischi perché sono fiduciosi del fatto che Dio li proteggerà da eventuali conseguenze negative.

Sembrerebbe un’idea contraria a quanto dimostrato da molti studi che documentano come la religione e la partecipazione attiva alle sue attività siano invece associate a una diminuzione dei comportamenti a rischio come l’abuso di sostanze o il gioco d’azzardo, tuttavia Kupor e colleghi fanno notare che i rischi esaminati negli studi precedenti avevano tutti una componente morale negativa. I ricercatori hanno ipotizzato che l’effetto potesse essere diverso senza questa connotazione morale.

Per testare questa ipotesi hanno coinvolto circa 900 soggetti in una serie di sondaggi online il cui compito principale era fare delle scelte o prendere delle decisioni, ad una parte di questi partecipanti veniva inoltre fatto riferimento a Dio tramite giochi di parole o letture di brevi paragrafi sul tema prima di iniziare il sondaggio.

I risultati mostrano che i partecipanti a cui era stato sollecitato il pensiero di Dio prima di effettuare la propria scelta erano più disposti a scegliere l’opzione più rischiosa (95.5%) rispetto ai partecipanti a cui non era stato menzionato Dio (84,3%).

Inoltre quando veniva fatto esplicito riferimento alla divinità i partecipanti percepivano meno pericolo in diversi comportamenti rischiosi e nel momento di una eventuale perdita rivolgevano i sentimenti negativi verso Dio, a conferma delle aspettative di protezione e il disappunto rispetto all’esito considerato a quel punto colpa Sua.

Ovviamente questo effetto non è universale, nelle culture in cui Dio non è una forza protettiva le persone non risentiranno della stessa influenza, ma è anche vero che sono milioni le persone nel mondo che tendono a vedere Dio come una fonte di protezione e sicurezza, motivo per cui la serie di studi condotti usando diverse misurazioni del rischio e diversi tipi di sollecitazioni, mostrano che questo genere di riferimenti modulano la percezione e il coinvolgimento degli individui nell’assumersi rischi non-morali.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La dipendenza da sostanze spiegata in un video

La dipendenza da sostanze, o tossicodipendenza viene descritta in questo efficace cortometraggio di animazione Nudget (2014) dello Studio Filmbilder

Il protagonista del breve video è un Kiwi (non il frutto, ma un tipo di uccello inadatto al volo tipico della Nuova Zelanda) che cammina lungo la linea dell’orizzonte. Trova un “nudget” (termine inglese per dire pepita,  o le famigerate crocchette di pollo fritto) per la strada e, incuriosito, lo assaggia.

L’effetto è esaltante, il kiwi letteralmente spicca il volo (e qui si spiega probabilmente la scelta di usare come protagonista un animale che normalmente non vola) e si pasce nel piacere dell’esperienza della sostanza.

Quel che accade dopo è spietatamente realistico: l’atterraggio da indolore che era la prima volta, diventa sempre più traumatico, il momento di intenso piacere tende  poco a poco a diminuire fino a scomparire del tutto. Il mondo circostante diventa via via più buio, tetro e triste. Le condizioni e l’aspetto del kiwi peggiorano a vista d’occhio, le sue energie vanno scomparendo, concentrandosi unicamente sulla ricerca del nugget (vedi: CRAVING). Il piacere e la sorpresa del primo originale incontro con la sostanza sono ormai scomparsi.

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Disturbo Evitante di Personalità: sintomi, cura e terapia da seguire

Timore delle critiche, paura della disapprovazione e dell’esclusione e, soprattutto, la radicata convinzione di valere poco. Se tutto questo suona familiare è probabile che ci si trovi di fronte ad un disturbo evitante di personalità (DEP), che spinge chi ne soffre a rinunciare ad una vita sociale per paura di risultare inadeguato.

 

Cos’è il disturbo evitante di personalità

Il disturbo evitante di personalità è un disturbo della personalità che si manifesta solitamente all’inizio dell’età adulta. Coloro che ne soffrono vorrebbero instaurare buoni rapporti con altre persone, avere un gruppo di amici con cui uscire la sera e un partner con il quale condividere i propri interessi, ma la paura di non risultare adeguati è tanto forte e la prospettiva di un rifiuto talmente dolorosa che preferiscono isolarsi ed evitare il confronto con gli altri, soprattutto se il rapporto implicherebbe un certo coinvolgimento emotivo. Se da un lato così facendo il soggetto si sente al sicuro, dall’altro questa condizione di solitudine è vissuta con tristezza, mitigata magari da attività e hobby che non prevedano un contatto con altre persone, come ad esempio la musica, la lettura e le collezioni di vario tipo.

Sintomi del disturbo evitante di personalità

Una spiccata timidezza, un atteggiamento particolarmente riservato o la tendenza ad essere apprensivi non sono ovviamente indice di uno stato patologico. I sintomi del disturbo evitante di personalità tracciano un quadro più complesso, che prende in considerazione molti elementi. Alcuni dei sintomi principali sono un forte senso di inadeguatezza, un’estrema timidezza, la tendenza all’isolamento sociale, l’ipersensibilità alle critiche e una bassa autostima.

Chi soffre di questo disturbo tende quindi a non instaurare nuove relazioni sociali all’infuori di quelle consuete con i familiari e gli amici più stretti, pensando di non essere attraente e di non avere argomenti interessanti da condividere con altre persone; spesso rinuncia anche alla possibilità di fare carriera per evitare il confronto con gli altri. Lo stile di vita di chi soffre di disturbo evitante di personalità tende ad essere monotono e solitario, condizione che è vissuta con tristezza o fastidio: quando però il soggetto cerca di cambiare questa situazione si scontra con la sua paura di un giudizio negativo e del rifiuto.

Le cause del disturbo evitante di personalità

Le cause di questo disturbo non sono definite in maniera chiara e univoca, spesso si tratta della combinazione di più fattori sociali e biologici. Spesso chi è affetto da disturbo evitante di personalità ha avuto genitori rigidi ed esigenti oppure esageratamente protettivi, storie di abuso fisico oppure esperienze negative con i coetanei durante l’infanzia.

Disturbo evitante di personalità, come guarire

Superare il disturbo evitante di personalità è possibile. Ci sono infatti diversi tipi di trattamento, sia farmacologico che psicoterapeutico, spesso associati a strategie comportamentali.

La terapia per il disturbo evitante di personalità

Nella cura del disturbo evitante di personalità ha un posto molto importante la psicoterapia, effettuata sia a livello individuale che di gruppo con lo scopo di aiutare il paziente a controllare l’imbarazzo all’interno delle situazioni sociali e ad affrontare quindi con meno timore le relazioni con altre persone. In particolar modo, la terapia di gruppo per il disturbo evitante di personalità può aiutare chi soffre di questo disturbo a riconoscere in modo corretto l’atteggiamento degli altri nei propri confronti e a capire che la critica non è  l’unica reazione possibile da parte del prossimo; aiuta inoltre a superare l’ansia di rapportarsi con gruppi di persone. Queste sedute possono essere associate a strategie comportamentali e a training assertivi per migliorare le abilità sociali e l’autostima dei pazienti.

La cura farmacologica per il disturbo evitante di personalità

Tra i rimedi per il disturbo evitante di personalità ci sono anche i farmaci, che possono venire utilizzati in alcune fasi per tenere sotto controllo sintomi come, ad esempio, ansia e depressione. Tra i farmaci per il disturbo evitante di personalità i più comunemente usati sono quindi gli ansiolitici, che permettono al paziente di affrontare le situazioni che è solito evitare, gli antidepressivi e i betabloccanti, che riescono ad agire su alcune manifestazioni dell’ansia come rossore, sudorazione e tremore.

 

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Gli sviluppi della psicoterapia cognitiva: tra scopi, credenze, disposizioni e processi cognitivi

Francesco Mancini

 

A mio avviso, il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale, e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero, è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo. Questo limite è paradossale perché chiunque faccia psicoterapia attribuisce ai pazienti scopi, valori, intenzioni, aspettative, desideri, timori, speranze.

L’articolo di G.M. Ruggiero, apparso su State of Mind, offre l’occasione per chiarire alcuni punti di interesse generale. 

Il primo l’affronterò partendo dalla tesi che Ruggiero mi attribuisce:

In parole semplici, il paziente soffre di un disturbo d’ansia perché ritiene –sbagliando- che ci sia un’elevata probabilità che qualcosa di pericoloso possa accadere, che questi pericoli implichino gravi danni e che infine la capacità personale di fronteggiare questi pericoli sia bassa” e che “i pazienti … sono degli idioti che prendono fischi per fiaschi e vedono pericoli inesistenti.

Non ho mai scritto cose del genere perché i dati della ricerca suggeriscono qualcosa di diverso (Mancini e Gangemi, 2002). Realismo e credenze sbagliate non coincidono rispettivamente con sanità mentale e con psicopatologia. Infatti, alcune illusioni, ad es. quelle ottimistiche di Taylor (1999), caratterizzano la sanità mentale e il realismo è del tutto compatibile con la psicopatologia, come nel caso del realismo depressivo, o, sempre ad esempio, i pazienti ossessivi possono essere più realistici dei non pazienti nel rilevare la sporcizia (Mancini, 2005; Romano e Mancini, 2012).

Correttezza logica e errori logici non corrispondono a sanità mentale e psicopatologia. I due unici premi Nobel dati a psicologi (Simon e Kahneman), sono stati per studi che hanno mostrato come la mente umana sana e normale ricorra continuamente a euristiche, cioè a processi di pensiero che si discostano sistematicamente dalla logica. Non solo, diverse ricerche hanno dimostrato come persone con disturbi d’ansia, disturbo ossessivo e disturbo dell’umore, commettono meno errori logici dei non pazienti, a condizione che il ragionamento riguardi temi connessi con i loro sintomi. (vedi ad es. Johnson Laird, Mancini and Gangemi, 2006; Mancini e Gangemi, 2006; Mancini, Gangemi e Johnson Laird, 2007)

Ma il punto che più mi preme di illuminare con chiarezza è un altro. La posizione di Ruggiero mette completamente da parte il ruolo degli scopi nei processi psicologici e psicopatologici, infatti, il suo titolo fa riferimento a processi cognitivi e credenze. Il concetto di scopo, come del resto qualunque altro concetto motivazionale, non è nemmeno considerato. A mio avviso, il vero vulnus dell’approccio cognitivista in generale, e dei filoni di ricerca citati da Ruggiero, è proprio la mancanza di attenzione al concetto motivazionale di scopo (vedi Paglieri et al., 2012).

Questo limite è paradossale perché chiunque faccia psicoterapia attribuisce ai pazienti scopi, valori, intenzioni, aspettative, desideri, timori, speranze. 

Il concetto di scopo è cruciale per la spiegazione della sofferenza psicopatologica mentre processi e credenze non sono sufficienti.

Questo limite, a mio avviso, è presente in larga parte degli studi sui deficit cognitivi o metacognitivi, nei quali si sottovaluta che i processi cognitivi e metacognitivi sono orientati dagli scopi dell’individuo, e dunque quello che appare come un deficit può dipendere da un uso dei processi cognitivi al servizio degli scopi dell’individuo.

Un filone ben noto in psicologia cognitiva, (vedi i numerosi lavori di Cosmides, Tooby, Trope e Liberman), dimostra che i processi cognitivi sono, come il comportamento, al servizio degli scopi dell’individuo e sono orientati in modo da minimizzare il rischio di errori costosi, con evidenti vantaggi evoluzionistici. Ad esempio, chi ha paura di commettere un errore colpevole tende a orientare i processi cognitivi, sia il decision making (Mancini and Gangemi, 2003; Gangemi and Mancini, 2007) sia il ragionamento in modo prudenziale che implica la conferma dell’ipotesi più temuta, anche quando, inizialmente, non era quella più credibile per il paziente (Mancini and Gangemi, 2002a, 2002b, 2004, 2006). Questo ultimo aspetto è importante perché suggerisce che nel mantenimento e aggravamento dei disturbi psicopatologici intervenga non tanto il confirmation bias, come sostenuto dal cognitivismo standard, cioè la tendenza a confermare le assunzioni più credibili, e dunque un fattore strettamente cognitivo, ma, piuttosto, l’intenzione di prevenire la compromissione dei propri scopi, cioè un fattore motivazionale. Per una rassegna in ambito clinico si veda Harvey et al., (2004).

Non penso, dunque, che i pazienti … sono degli idioti che prendono fischi per fiaschi e vedono pericoli inesistenti, penso piuttosto che le persone con disturbi d’ansia percepiscano come catastrofica, cioè inaccettabile e insopportabile, la compromissione di alcuni scopi, ad es. la perdita della coscienza nel disturbo d’attacchi di panico, una brutta figura nei pazienti con fobia sociale, una colpa o una contaminazione nel disturbo ossessivo, e che i processi cognitivi con i quali elaborano le informazioni rilevanti per i loro timori, siano orientati in un modo che minimizza il rischio temuto ma che, allo stesso tempo, mantiene ed aggrava le credenze di pericolo. Se soffro di fobia sociale cioè attribuisco un valore molto negativo, alla possibilità di essere giudicato male, farò particolare attenzione a segnali di disapprovazione, e interpreterò segnali ambigui come espressione di giudizio negativo, in questo modo eviterò illusioni positive che potrebbero di rendermi ancora più ridicolo, ma, al contempo, dal mio punto di vista, avrò molte conferme della fondatezza dei miei timori.

Riconoscere il ruolo degli scopi e dunque degli investimenti protettivi dei pazienti, implica l’opportunità di indirizzare l’intervento psicoterapeutico verso una maggiore accettazione dei rischi di compromissione dei propri scopi (Mancini e Gragnani, 2005; Cosentino et al., 2012; Mancini e Perdighe, 2012; l’intero vol 9, N 2, Dicembre 2012 di Cognitivismo Clinico)

Infatti, l’accettazione di un rischio implica un minore investimento protettivo e ciò modifica i processi cognitivi in un modo che può facilitare il cambiamento delle rappresentazioni di pericolo. Ad esempio se si accetta il rischio di essere rifiutati dagli altri, si percepiscono meno segnali di rifiuto.

Un secondo punto di Ruggiero merita delle considerazioni.

In formulazioni più sofisticate, l’ansia dipende dalla convinzione di non riuscire a sopportare l’incertezza, la semplice possibilità del pericolo, anche se bassa.

A me pare che il concetto di intolleranza alla incertezza non sia per nulla più sofisticato ma sia criticabile per diverse ragioni, alcune specifiche, altre generali. E comunque il ricorso a tale concetto disposizionale, come in generale a tutti i concetti disposizionali, implica il rischio di un regresso piuttosto che un progresso nella spiegazione dei disturbi psicopatologici.

Vediamo le critiche specifiche. Innanzitutto il concetto di intolleranza alla incertezza (IU) è vago e vi sono major conceptual problems with the construct of IU (Starcevic e Berle, 2006). Carlton (2012) riferisce almeno sette definizioni del costrutto IU. Ma tutte hanno a che vedere con la percezione di minacce, dunque implicitamente con il concetto di scopo, e non con l’intolleranza alla incertezza strettamente cognitiva, cioè intesa come bisogno di chiusura cognitiva (Kruglansky, passim).

Infatti autorità in questo campo (Birrell J. et al., 2011; Carlton, 2012) ritengono che l’intolleranza all’incertezza sia a dispositional fear of the unknown e con questo si intende la tendenza a immaginare minacce dove non si sa cosa potrebbe succedere, cioè a riempire le aree di ignoranza con possibilità di pericolo. Se si accetta questa definizione, allora è piuttosto chiaro che l’intolleranza alla incertezza sia, in ultima analisi, una strategia cognitiva difensiva tesa a prevenire la compromissione dei propri scopi.

Un altro problema affligge il concetto di IU. Si tratta davvero di una disposizione generale che entra in gioco indipendentemente da ciò che è importante per l’individuo? Intendo dire: chi ha un’alta IU tende a vedere qualunque genere di minaccia di fronte a qualunque tipo di ignoto, o, al contrario, tende a vedere minacce a specifici scopi solo se si trova di fronte all’ignoto in domini rilevanti per lui?

La prima possibilità non è molto credibile. Non è plausibile che, ad esempio, un paziente ossessivo immagini qualche minaccia se è incerto circa le probabilità della vittoria della Roma nel derby con la Lazio, se per lui il calcio è un argomento del tutto indifferente con nessuna implicazione per i suoi scopi e valori. In una ricerca abbiamo riscontrato che soggetti subclinicamente ossessivi non avevano alcuna intolleranza alla incertezza, intesa in senso puramente cognitivo, cioè come intolleranza per domande senza risposta il cui era neutro (Mancini et al., 2002).

Più in generale la ricerca sulla IU, come quella su altri costrutti disposizionali, è affetta da una serie di limiti.

Innanzitutto i concetti disposizionali sono descrittivi e consentono, al più, previsioni ma non spiegazioni. Ad esempio, il concetto disposizionale di avaro può descrivere il comportamento abituale di una persona quando si tratta di spendere soldi e può consentire la previsione di un rifiuto se gli si chiede un prestito, ma non spiega il comportamento, cioè non dice le ragioni per cui è avaro. Dire che Tizio spende malvolentieri perché è avaro è come dire che l’oppio fa dormire perché ha la vis dormitiva, non è una spiegazione ma una tautologia.

Le stesse considerazioni valgono se si afferma che un paziente è affetto da un disturbo d’ansia perché ha una dispositional fear of the unknown. Con questo non voglio negare che studiare le disposizioni possa essere utile a una miglior descrizione dei disturbi psicopatologici o anche a prevedere la probabilità di certi comportamenti piuttosto che di altri, ma spiegare è cosa diversa. Quindi mi permetto di contestare l’affermazione di Ruggero che l’intolleranza all’incertezza sia una sofistica spiegazione dell’ansia nei disturbi psicopatologici. L’IU, come del resto i tanti altri costrutti disposizionali che affollano il nostro campo, non è una spiegazione.

Ma ci sono altre perplessità sulle ricerche analoghe a quelle sulla intolleranza all’incertezza, cioè sui costrutti disposizionali. Si tratta il più delle volte di ricerche con questionari che, non solo hanno tutti i limiti dei self report, e questo è un limite di tutta la nostra ricerca anche di quella nelle neuroscienze (McNally, 2000), ma articolano in domande dei concetti che sono quasi sempre molto mal definiti, oppure che, come l’IU, si prestano a numerose definizioni diverse fra loro.

Per giunta la pretesa di risolvere le ambiguità concettuali con l’analisi fattoriale, spesso, è illusoria e complica ancor più le cose; ci si trova una miriade di fattori con etichette verbali che non si capisce neanche bene a cosa si riferiscano e quale sia il quadro concettuale in cui assumono un senso. Secondo alcuni autorevoli ricercatori (Davey et al., 2013) uno dei difetti principali nella ricerca psicologica, soprattutto clinica, è il ricorso a concetti vaghi, approssimativi, semmai utili per la pratica terapeutica, prodotti dalle intuizioni di un clinico e che mal si applicano alla popolazione generale o con disturbi diversi.

Vorrei dedicare qualche rigo ad alcuni problemi connessi con il concetto di deficit.

Per affrontare la questione suggerisco di immaginare una persona con difficoltà a spiegare e prevedere accuratamente comportamenti e reazioni emotive degli altri. Possiamo spiegare le sue difficoltà con un deficit di rappresentazione della mente altrui? A mio avviso si rischia la tautologia, analoga ad es. a: perché quel bambino ha difficoltà a leggere e a scrivere? Perché ha una difficoltà di lettura e scrittura, e, soprattutto, si rischia di trascurare tante altre possibilità.

Innanzitutto la difficoltà metacognitiva potrebbe essere conseguente ai suoi investimenti protettivi, ad esempio un paranoico può apparire povero della capacità di comprendere gli altri, perché attribuisce solo e sistematicamente intenzioni ostili, anche laddove non vi è alcun ragionevole segnale di ciò. Non è peregrino supporre che la sua difficoltà sia dovuta a un investimento protettivo.

In secondo luogo la difficoltà a spiegare e prevedere accuratamente comportamenti e reazioni emotive degli altri, può essere dovuta a un sostanziale disinteresse per gli altri o addirittura alla rappresentazione degli altri come prede, come sembra accadere negli psicopatici. La difficoltà quindi può essere conseguenza non di un deficit, ma a specifici contenuti mentali, in particolare a come si connotano gli altri e a quali scopi si ritengono minacciati nel rapporto con gli altri. Se si pensa a un deficit rimangono tante possibilità, ci può essere un deficit di attenzione, ad es. ADHD, per cui la persona è talmente distraibile che fa fatica a investire tempo e risorse mentali per spiegare e prevedere comportamenti e reazioni emotive degli altri in modo sufficientemente adeguato. Oppure la difficoltà nasce da un livello intellettivo troppo basso.

Oppure può dipendere da esperienze troppo limitate di rapporto con altri, ad esempio un adolescente isolato socialmente può avere difficoltà nella rappresentazione adeguata della mente degli altri. Infine, certamente, come sembra accadere nelle persone affette da disturbi dello spettro autistico, ci può essere una difficoltà dovuta, basicamente, a un danno neurale che compromette la Teoria della Mente del paziente. Dunque le possibilità sono tante. Chi tenta di spiegare la psicopatologia ricorrendo al concetto di deficit, dovrebbe chiarire quale di queste possibilità, o altre che a me sfuggono, è in gioco e, possibilmente, fornirne le prove. Almeno dovrebbe discriminare se si tratta di un defict di performance o di competenze.

Una questione del tutto diversa è se un deficit sia rimediabile e, nel caso, come. Si tratta di una questione pratica che in parte potrebbe prescindere dalla natura del deficit.

Da decenni, i deficit intellettivi e i deficit specifici di apprendimento sono oggetto di interventi riabilitativi di tipo psicologico e qualunque riabilitatore sa come anche in questi casi la parte emotiva e motivazionale, cioè il contenuto della mente, sia fondamentale.

Premesso che non sempre sembrano del tutto chiare le differenze tra metacognizione, mentalizzazione, coscienza, consapevolezza e metavalutazione (vedi Seminario SPC, 2013), vorrei soffermarmi su un punto sollevato da Ruggiero.

Così l’ossessivo non deve la sua condizione a pensieri di responsabilità e colpa, ma a funzioni mentali gestite in maniera improduttiva. Nel caso di Wells, l’attenzione. È il controllo attentivo sulle situazioni che genera l’ossessività dubbiosa, mentre la valutazione di responsabilità nascerebbe a posteriori.

Dunque l’attenzione è gestita, ma da cosa è gestita? Da contenuti metacognitivi, dice Ruggiero, e quali sono? Nel caso dei pazienti ossessivi molti dati sperimentali suggeriscono che sia lo scopo di prevenire disattenzioni che potrebbero avere conseguenze negative delle quali il paziente si sentirebbe colpevole (Mancini, D’Olimpio e Cieri, 2004; Mancini and Barcaccia, 2014; D’Olimpio and Mancini, 2014; Mancini and Gangemi 2004; Mancini and Gangemi, 2011).

Non so se vi sono altrettanti dati sperimentali a favore del fatto che la responsabilità nascerebbe a posteriori. Ma, tra l’altro, come nascerebbe?

Più in generale, intendo dire che le funzioni cognitive sono orientate dagli scopi dell’individuo ma è anche ovvio che le funzioni cognitive possano essere deficitarie o comunque alterate (vedi ad es l’attenzione nel ADHD), e analogamente si può ritenere per le funzioni metacognitive. Resta che sia per le funzioni sia per le metafunzioni si dovrebbe dire con chiarezza, dati alla mano, se nei vari tipi di pazienti esse sono orientate dagli scopi dell’individuo o se sono realmente deficitarie, e in questo caso, di che tipo di deficit si tratti. Per quanto riguarda i pazienti ossessivi, il confronto tra dati, fa pendere la bilancia a favore di una spiegazione in termini di contenuti mentali (vedi Mancini e Barcaccia, 2014 per un confronto tra teorie del deficit e appraisal theories nel DOC).

 

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BIBLIOGRAFIA: 

  • Carleton, N. (2012). The intolerance of uncertainty construct in the context of anxiety disorders: theoretical and practical perspectives. Expert Rev. Neurother. 12(8), 937–947 (2012)
  • Davey G., Meeten, F., Barnes G. and Dash, S. (2013). Aversive intrusive thoughts as contributors to inflated responsibility, intolerance of uncertainity anf thought – action fusion. Clinical Neuropsychiatry – Supplement – June 
  • Harvey A.G., Watkins, E., Mansell, W., Shafran R.(2004). Cognitive behavioural processes across psychological disorders. Oxford University Press, Oxford.
  • Paglieri, Tummolini, Falcone e Miceli (editors). The goals of cognition: essays in honour of Cristiano Castelfranchi. (2012) edited by. College Pubblications, pp 253-273 – London
  • Starcevic V, Berle D. (2006). Cognitive specificity of anxiety disorders: a review of selected key constructs. Depress. Anxiety 23(2), 51–61
  • Taylor S., (1999). Le illusioni ottimistiche. Giunti. Firenze
  • Seminario organizzato da SPC. La mentalizzazione: dai modelli teorici alla psicopatologia. 13 dicembre 2013, Roma
  • Tutte le ricerche citate e firmate anche da Mancini sono rintracciabili a questo LINK

Alcol, gioco d’azzardo e dipendenza

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (07)

 

 

In psicologia, le dipendenze includono disturbi associati a difficoltà nel controllo dei desideri e del comportamento. Gli aspetti psicologici comuni di questi disturbi sono:

(1) disagio psicologico nella gestione delle esperienze di desiderio intenso (craving),

(2) difficoltà a evitare comportamenti dannosi.

L’oggetto del desiderio è qualcosa di gratificante (almeno nell’immediato). Gli oggetti e i comportamenti possono variare da persona a persona. Possiamo avere un problema con l’uso di sostanze (alcol, nicotina, cannabis, cocaina ecc…), problema di abbuffate e alimentazione incontrollata (cibo), problema con attività (es. gioco d’azzardo, videogiochi, comportamento sessuale, ecc…).

All’inizio prevale il piacere e la percezione di avere controllo, nel tempo si trasforma in una necessità cui la persona non riesce a rinunciare. In questo modo la dipendenza psicologica si instaura gradualmente. Per esempio, inizialmente le persone possono bere un bicchiere di vino o giocare d’azzardo per gusto e piacere. Queste attività se nel breve termine sono piacevoli, nel medio termine generano disagio psicologico. L’alcol rende euforici ma il giorno dopo l’umore è più irritabile.

DIPENDENZE

Il gioco offre adrenalina ma poi genera problemi economici. Lentamente i problemi di salute, di disagio psicologico, economici, conflitti nelle relazioni causati dall’attività o dalla sostanza aumentano.

A quel punto si può instaurare il circuito della dipendenza psicologica: la persona per fuggire dalle preoccupazioni si immerge nuovamente nell’attività che li ha generati (bevo per dimenticare i problemi che mi ha causato l’alcool, gioco per vincere i soldi che il gioco mi ha fatto perdere).

Questo è il circuito in cui la persona può trovarsi intrappolata. Da un punto di vista psicologico, la persona può:

  • non essere consapevole dei danni che si sta procurando oppure
  • esserne consapevole ma non riuscire a controllarsi.

In generale, i problemi del desiderio e del controllo degli impulsi condividono alcune caratteristiche che sono indipendenti dall’oggetto o dall’attività:

  1. forte desiderio verso l’uso di una sostanza o la pratica di un’attività (craving);
  2. dalla percezione che questo desiderio sia incontrollabile;
  3. dalla tendenza ad assumere la sostanza o praticare l’attività nonostante le conseguenze negative che produce,
  4. uso dell’attività o della sostanza per staccare la mente da preoccupazioni o stati di disagio.

Le componenti psicologiche che sostengono questo circolo sono:

Pensiero desiderante: discutere con sé stessi circa le ragioni valide che permettono di concedersi l’attività o l’uso della sostanza. Questa attività arriva a convincere le persone che in quel momento (1) non vi è alternativa, (2) i danni o le ripercussioni sono minime, (3) è possibile riprendere il controllo in un altro momento, (4) si è in pieno diritto a uno svago o a una gratificazione.

Percezione di scarso controllo: rappresenta l’idea di possedere uno scarso controllo del proprio comportamento o che gli impulsi producono l’azione come se esistesse qualcosa dentro di noi più forte di noi.

Giustificazioni: spesso la dipendenza cresce nell’ombra. Le persone la nascondono sotto il tappeto: minimizzano i danni, negano di farne uso, sottolineano di averne pieno controllo, trovano giustificazioni. Queste strategie servono alla coscienza della persona per non entrare in contatto con il dolore psicologico che la realtà impone: vedere quanto sto facendo male a me stesso e agli altri e soprattutto difendersi dall’esperienza del senso di colpa.

 

 

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Lo stigma nei confronti dell’obesità, gli effetti discriminanti sulla percezione degli odori

I risultati mostrano come le sostanze siano percepite con un odore peggiore se associate alle immagini raffiguranti le persone con sovrappeso rispetto a quelle normopeso.

Siamo abituati a misurare il peso attraverso l’ago della bilancia, ma spesso siamo inconsapevoli di quello invisibile dato da una società che stigmatizza i chili in eccesso. La ricerca scientifica ha ampiamente dimostrato come le persone, a causa del proprio peso,  possano essere penalizzate nei domini più importanti della vita come lavoro, istruzione, relazioni interpersonali, tempo libero e cure mediche.

L’obesità è considerata più una colpa che una malattia cronica a causa multifattoriale e questa visione negativa è ben sostenuta da numerosi e diffusi stereotipi che descrivono le persone con sovrappeso come pigre, sciatte, senza forza di volontà, incuranti della propria salute ecc…

STIGMA

Questi atteggiamenti negativi possono manifestarsi in maniera aperta (es. prese in giro, esclusioni sociali, bullismo) o più sottile come dimostrato da un recente lavoro di Incollingo Rodriguez, Tomiyama e Ward apparso sul numero di Febbraio dell’International Journal of Obesity dal titolo “What does weight stigma smell like? Cross-modal influence of visual weight cues on olfaction”.

Nello studio i ricercatori hanno chiesto a dei soggetti di visionare delle immagini che potevano rappresentare persone normopeso, o con sovrappeso, mentre annusavano sostanze che, a loro insaputa, non avevano odore.

I risultati mostrano come le sostanze siano percepite con un odore peggiore se associate alle immagini raffiguranti le persone con sovrappeso rispetto a quelle normopeso.

Questo articolo conferma le conclusioni di uno studio del 2003 di Hebl e Mannix (Hebl, M.R., & Mannix, L.M., 2003) in cui un candidato per un lavoro (di genere maschile) era valutato in modo peggiore se visto vicino a una donna con obesità rispetto a un uomo vicino a una donna normopeso.

OBESITA’

I risultati suggeriscono che lo stigma verso le persone obese può essere indagato indirettamente attraverso le risposte olfattive e confermano ulteriormente la natura pervasiva di quella che è definita come una delle ultime forme di discriminazione socialmente accettata.

Lo studio dello stigma verso l’obesità e chi ne soffre è importante in quanto può influire negativamente sulla qualità di vita della persona che lo subisce o avverte.

Inoltre gli atteggiamenti negativi verso le persone a causa del peso possono presentarsi anche nell’ambiente sanitario ponendo una barriera al trattamento di quella che è a tutti gli effetti una malattia cronica e non una colpa o scelta dell’individuo. L’unica colpa sarebbe non dare peso a questa problematica.

Lo scrittore William McFee ha scritto “Non c’è come un odore per risvegliare le memorie”, speriamo che questo studio contribuisca ulteriormente a risvegliare le coscienze sugli effetti e natura dello stigma basato sul peso.

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BIBLIOGRAFIA:

Facebook in lutto: mediatizzazione della morte e pagine RIP come santuari virtuali

FLASH NEWS

I siti RIP sono legittimi santuari virtuali che consentono a più persone (tra loro estranee), di identificarsi nel provare il dolore del lutto, proprio come deporre fiori sulla scena di una morte tragica.

Subito dopo la morte di qualcuno è sempre più frequente vedere il susseguirsi di messaggi pubblici di dolore di massa su Facebook. L’articolo pubblicato sulla rivista New Review of Hypermedia and Multimedia indaga la portata mediatica della morte e la sua relazione con la pubblica espressione del dolore attraverso il crescente utilizzo dei media.

La società contemporanea è lontana dall’idea di morte: poche persone muoiono in casa e gli ospedali e le cappelle funerarie ne affrontano le conseguenze, i rituali funebri sono privati, molti dei quali non sono socialmente supportati fuori dai confini di casa. Recentemente, la pubblica espressione del dolore quotidiano per la morte di qualcuno diventa dominio pubblico da un punto di vista mediatico, grazie alla massiccia presenza di fiction, film, notizie di cronaca  che costantemente ci raccontano notizie diverse su questo tema.

Molte persone considerano i memoriali online come canali destinati ai “turisti del dolore”,  ma è giusto considerare la mediatizzazione della morte come un canale per soddisfare la  curiosità di occasionali utenti?

Klastrup afferma che le pagine RIP forniscono uno spazio comune per condividere il dolore e sentirsi più uniti di fronte alla morte. I siti RIP sono legittimi santuari virtuali che consentono a più persone (tra loro estranee), di identificarsi nel provare il dolore del lutto, proprio come deporre fiori sulla scena di una morte tragica. L’autrice ha osservato diverse pagine RIP in cui si omaggiano i malcapitati al punto di diventare delle “celebrità” post mortem.

Si è visto che maggiore era la copertura mediatica maggiori erano i messaggi inviati soprattutto da parte di persone estranee al defunto.

E’ emerso che molte persone tendevano a indirizzare i propri messaggi direttamente alle persone scomparse, probabilmente questo rappresenta un tentativo di mantenere in vita la persona e la memoria. Una mancanza di spirito collettivo si osservava in individui che lasciavano messaggi di dubbia simpatia come lasciare una candela o un fiore senza poi tornare a visitare la pagina.

Le pagine RIP hanno cambiato la velocità, la portata e la forma di vivere il lutto. I mezzi di informazione aumentano la consapevolezza del singolo individuo stimolando l’espressione del dolore pubblico e l’empatia.

Abbiamo bisogno di più studi che approfondiscano la relazione tra i media e le piattaforme sociali digitali, e bisognerebbe infine indagare il ruolo che entrambi i tipi di media svolgono come mediatori o come creatori di un nuovo modo di intendere il lutto.

 

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Prevenzione dei suicidi su Facebook, un nuovo servizio

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Klastrup, L. (2014). “I didn’t know her, but…”: parasocial mourning of mediated deaths on Facebook RIP pages. New Review of Hypermedia and Multimedia. DOWNLOAD

Un apologo scientifico sull’integrazione in psicoterapia

La psicoterapia è una scienza promettente e in crescita. Però ha dei punti deboli, dei nodi da sciogliere. Uno di questi è la moltiplicazione dei paradigmi. La situazione attuale della psicoterapia scientifica vede un gran numero di paradigmi in lizza e una certa difficoltà nello stabilire un linguaggio comune.

L’aspirazione di molti è che la mano ordinatrice di un Newton un giorno sorga, intervenga e ponga fine al disordine. Forse è un’aspirazione ingenua. L’unificazione newtoniana della fisica è a sua volta finita ed è stata sostituita, per quel che posso capire, da un paradigma –quello quantistico- meno cristallino e più sfilacciato.

Però è anche vero che la psicoterapia scientifica parla davvero troppi linguaggi. In attesa che appaia il nostro Newton, spesso s’invoca l’integrazione, che è cosa misteriosa e difficile da definire. L’integrazione è sempre qualcosa che rischia di essere meno di quel che promette. Essa proclama di non limitarsi a mettere insieme il meglio, ma di integrarlo, appunto, in una nuova sintesi che non è mera somma delle parti. Insomma, l’integrazione sarebbe qualcosa di più dell’ecclettismo. Sta bene. Però questo di più non si sa mai bene cosa sia. L’integrazione sembra l’araba fenice: che ci sia, ognuno lo dice, dove sia, nessuno lo sa.

Attenzione. I problemi con l’integrazione non finiscono qui. C’è di peggio. Non è fatto detto che un modello integrato che si riveli davvero clinicamente vantaggioso sia poi davvero scientificamente “vero” (e scusate le virgolette, ormai il relativismo mi fa vergognare di usare questo aggettivo: vero). A tal proposito racconterò un evento della storia della scienza che può essere anche una sorta di apologo scientifico sui limiti dell’integrazione. Un apologo sulla sorte di un esempio storico di modello integrato che sulla carta era pieno di vantaggi, ma che poi al fondo era irrimediabilmente non “vero”.

Tycho Brahe (1546-1601) fu un grande astronomo, uno scienziato della grandezza di Copernico, Keplero e Galilei. Era un danese meticoloso e preciso, e partecipò -insieme a Copernico, Keplero e Galilei- alla costruzione del nuovo modello cosmologico eliocentrico che sostituì quello di Tolomeo. In realtà è un po’ ingenuo pensare che le svolte scientifiche avvengano grazie a un unico genio. Poi si semplifica parlando di Newton perché, insomma, non si può fare una lista infinita di nomi ogni volta. E poi perché il racconto del genio solitario funziona.

Però Tycho non è ricordato con gli altri tre geni. Perché? Forse perché tre erano già tanti, e se poi diventano quattro dove va a finire il genio solitario? C’è però anche un’altra ragione che sembra spiegare l’esclusione di Tycho dal supergruppo dei tre. E la ragione è che, nel dibattito tra tolemaici e copernicani Tycho, invece di schierarsi con chiarezza, se ne uscì fuori con un “modello integrato”. E così si giocò la gloria scientifica. Copernico, Keplero e Galilei li conoscono tutti. Tycho Brahe chi diamine sarebbe?

E com’era questo modello integrato di Tycho? Ora ve lo racconto, però siate cauti nel giudicare crudelmente Tycho che -vi avverto- sta per fare la figura dell’imbecille, scusate il termine. Vedrete che poi le cose non sono semplici come sembrano.

Come sappiamo i modelli dell’universo in gara erano il tolemaico, la terra al centro, e il copernicano, il sole al centro. In questa lotta Tycho Brahe propone il suo modello “integrato”, in cui la terra rimane al centro, il sole gira intorno alla terra e i pianeti, infine, girano intorno al sole. Che ve ne pare? Suona come una cazzata? Scusate il termine, ma ci sta bene.

L’idea di Tycho si presta bene, troppo bene, a diventare un apologo contro l’ossessione per l’integrazione. Diciamolo: c’è qualcosa di comico, forse addirittura di grottesco in questo cosmo immaginato da Tycho in cui il sole gira intorno alla terra e i pianeti intorno al sole. Sembra l’idea di un folle o, peggio, di uno stupido che voleva a forza metter pace tra copernicani e tolemaici e fare tutti contenti. Forse Tycho ha davvero rischiato di passare alla storia non come un astronomo ma come un proverbio, accanto a “salvare capra e cavoli” e “volere la botte piena e la moglie ubriaca” e così via. Poteva diventare famoso nei secoli con un detto tipo “voler fare il Tycho Brahe”. Per questo il modello di Tycho mi era sembrato ottimo per sbeffeggiare i modelli integrati e penso che l’idea funzioni ancora: e quindi ribadisco che la scienza non si propone di integrare un bel niente, ma di far vincere il modello vero. Con tanti saluti al relativismo e allo scetticismo.

Detto questo, non è finita qui. La storia ha anche un altro significato, in cui Tycho Brahe ci fa una figura migliore. Tycho non era uno scienziato fallito dalle idee bislacche e affetto da una strana ossessione irenica (che significa “irenica”? oggi si preferirebbe dire “buonista”; ma “irenica” –ammettetelo- è tutta un’altra cosa) di riconciliare copernicani e tolemaici. In realtà era un grande scienziato che dava risposte scientifiche a problemi reali. Il suo modello, va detto, era una risposta a un buco scientifico a quell’epoca ancora aperto nel modello copernicano.

E già, le cose non sono state così lineari come crediamo. Crediamo di conoscere la storia: la scienza che s’impone contro l’oscurantismo. Bastava mettere l’occhio nel telescopio e si vedeva che il sole era fermo e tutto girava intorno. Copernico, Keplero e Galilei diedero un’occhiatina e videro la verità, mentre le forze oscure impedivano tutto questo.

Non è così semplice. Fosse così, Copernico, Keplero e Galilei sarebbero poco più di un trio di oculisti che inventano un rivoluzionario paio di occhiali in un garage della California, mentre le multinazionali dell’ottica cercano di bloccarli. In realtà se uno guarda dentro un telescopio non vede mica il Sole fermo e i pianeti che vorticosamente girano intorno, come nel disegnino del nostro libro di scuola. Vede l’immenso spazio vuoto e dei corpi sospesi che si muovono un po’ tutti abbastanza impercettibilmente e in maniera abbastanza caotica e misteriosa. E il sole a sua volta non sta mica fermo al centro dell’universo, ricordiamolo: il sole al centro del cosmo nella visione eliocentrica di Copernico e anche un po’ di Galileo è a sua volta una semplificazione. L’universo non ha un centro.

Non basta dare un’occhiatina. È vero che Galilei ci andò vicino a fare singole osservazioni importanti che fossero a favore del moto dei pianeti intorno al sole: alcune quasi decisive. Come le fasi di Venere e Mercurio. Quasi decisive, ma non conclusive. Inoltre osservazioni del Galilei erano abbastanza inconcludenti (le macchie solari) e alcune proprio irrilevanti (le maree!).

Il nocciolo scientifico non era l’osservazione unica che spiega tutto e che i cattivi tolemaici favevano finta di non vedere. Si tratta di fare delle osservazioni, centinaia e migliaia di osservazioni, in base alle quali si costruiscono modelli matematici che permettono di descrivere e prevedere i movimenti dei corpi celesti. E gli astronomi tolemaici non erano degli sciagurati ignoranti, ma avevano il loro modello che prevedeva i movimenti celesti avendo come punto di riferimento la terra.

A farla breve, Copernico e gli altri produssero un modello matematico in cui era chiaro che, utilizzando il sole e non la terra come punto di riferimento fisso, tutto diventava più semplice e pratico. Se piazzi la terra al centro, perno immobile del modello cosmologico, le traiettorie dei pianeti sono contorte, dei ghirigori spiraliformi e oscillanti (cosiddetti “epicicli”), ed è difficile trovare delle equazioni che permettano di calcolare le posizioni su orbite così barocche; se invece ci metti il sole, le traiettorie dei pianeti sono semplici, delle ellissi, e sono descrivibili con equazioni molto più immediate (merito di Keplero, il più scienziato di tutti). Con un semplice calcolo sai dove sta un pianeta alla talora del tal giorno.

E allora perché Tycho Brahe se ne esce col suo modello? Cosa gli salta in mente? Perché a loro volta le equazioni di Keplero che descrivono le orbite ellittiche non erano una prova conclusiva del sistema eliocentrico. Sono un ottimo argomento a favore, ma non sono conclusive. Potrebbe darsi che fossero “vere” le orbite tolemaiche e geocentriche, per quanto contorte. Questo lo diceva anche lo stesso Keplero, scienziato rigorosissimo. Da notare che Copernico aveva sbagliato anche lui immaginando che le orbite dei pianeti fossero circolari e non ellittiche. E già questo fa capire come tutto fosse più complicato di quel che sembra: Copernico ha l’idea giusta dell’eliocentrismo ma sbaglia le orbite; roba sufficiente a negargli la pubblicazione nel sistema moderno dei referee. All’epoca questo fu uno degli aspetti che impedirono un’affermazione immediata del sistema Copernicano, e ci volle Keplero per uscirne fuori.

Torniamo a Tycho. Tycho produsse il suo modello perché il nuovo modello eliocentrico poneva problemi scientifici a sua volta, problemi cui non si riusciva a dare risposta. C’era una questione in particolare, la questione della mancanza dell’effetto di parallasse (espressione incomprensibile, me ne rendo conto e mi scuso di questi paroloni; sappiate che anch’io li uso alla cieca e infatti non ho idea di cosa diamine sia il parallasse), questione che dava dei gran grattacapi ai copernicani. Qui andiamo sul tecnico spinto, e la mia culturaccia alla wikipedia ormai non basta più. In breve, i tolemaici obiettavano che se la terra fosse stata in movimento anche le stelle avrebbero dovuto cambiare posizione, cosa che non si osserva. Questa osservazione in termini tecnici si chiama mancanza dell’effetto di parallasse, e sarebbe stata risolta secoli dopo in base a nuovi modelli fisici (in particolare grazie a Newton) e a più potenti attrezzature di osservazione astronomica.

Ora il modello di Tycho, malgrado la sua stranezza, aveva gli stessi vantaggi di semplicità del modello copernicano/kepleriano. E già, perché i pianeti girando intorno al sole seguono le semplici orbite alla Keplero; quanto al sole che gira intorno alla terra, in questo caso cambia il punto di osservazione ma l’orbita rimane semplice. Con un vantaggio però rispetto a Copernico: il modello di Tycho, grazie a questo trucco della terra ancora immobile dava una spiegazione elegante della mancanza dell’effetto di parallasse.

Che ne dite? Ora Tycho ci fa meno la figura del demente? Insomma a favore di Copernico c’erano tante buone osservazioni ma mai conclusive. E poi c’erano delle prove contro, o comunque dei buchi, delle incongruenze. Che Tycho spiegava, mantenendo i vantaggi del sistema copernicano. Quale migliore esemplificazione di una buona integrazione? Il meglio di tutto.

Buona integrazione, insomma; però irrimediabilmente non vera. Le prove conclusive a favore del sistema eliocentrico (o meglio dello spazio infinito senza centri) sarebbero state fornite solo dal modello di Newton. Non occorre andare chissà dove, basta consultare wikipedia, per scoprire, pensa un po’, che la prova decisiva del movimento terrestre è del 1851 (quasi trecento anni dopo) grazie al fisico francese Jean Bernard Léon Foucault con il suo famoso pendolo: il pendolo di Foucalt.

In conclusione, la storia di Tycho Brahe ci dice due cose. Prima di tutto che l’integrazione può essere una formula facile e vuota, perfino quando offre vantaggi come faceva il modello di Brahe. Però ci dice anche che il bisogno di integrare ha un suo significato: esso è presente quando nessun modello, perfino quello che è in vantaggio e che si sente che è quello giusto non ha ancora prodotto la prova decisiva, quella che davvero chiude il dibattito. Per ora.

Il Disturbo Borderline di Personalità raccontato in un video

Il seguente video di animazione presenta in chiave umoristica e irriverente le caratteristiche del disturbo borderline di personalità.

Con l’accompagnamento musicale del brano Maple Leaf Rag di Scott Joplin’s, la personalità borderline è rappresentata da un piccolo animale nero di specie indefinita che mima le vicissitudini esperienziali ed emotive tipiche di chi soffre del disturbo, raccontate sullo sfondo da frasi che descrivono ciò che sta accadendo: difficoltà ad avere relazioni stabili, sentimenti cronici di vuoto, timore dell’abbandono, comportamenti impulsivi e disregolazione emotiva.

L’originalità del video risiede nel fatto che, pur mostrando i sintomi in una cornice ironica, riesce a non cadere nella superficialità.

Trasmette infatti indicazioni utili per i meno esperti del settore, come il riferimento al DSM per la classificazione nosografica e i criteri diagnostici, le possibili comorbilità con altri quadri psichiatrici e l’importanza del trattamento psicoterapeutico per la cura del disturbo borderline di personalità.

 

Di seguito la traduzione in Italiano del video: 

0:04 – Cos’è il Disturbo Borderline di Personalità?
0:06 – Un disordine prolungato del funzionamento della personalità caratterizzato da intensità e variabilità dell’umore
0:14 – Venendo a mancare l’accettazione di aree grigie, le personalità borderline tendono a etichettare ciò che li circonda in nero o bianco 
0:20 – Imbecille, Molestatore di bambini, Noiosa, Carina, Grasso
0:25 – Imbecille, Molestatore di bambini, Noiosa, Ragazza Facile, Grasso
0:27 – Potrebbero preferire star lontani da stimolazioni provenienti dall’esterno
0:38 – Cercheranno di evitare stimolazioni positive per prevenire qualche possibile abbandono o delusione
0:49 – Generalmente vedono il mondo come pericoloso
0:58 – Proveranno frequentemente rabbia e ansia incontrollabili
1:05 – Mentre la maggior parte della gente è capace di sentire simultaneamente emozioni tra loro contrastanti, la personalità borderline riesce a posizionarsi solo su un versante emotivo alla volta.
1:26 – Sebbene sia meno conosciuto della Schizofrenia o del Disturbo Bipolare, il disturbo borderline di personalità è più comune e colpisce il 2 percento della popolazione adulta.
1:31 – Maggiormente le giovani donne
1:35 – Potrebbero mostrare impulsività in aree che sono potenzialmente dannose per la persona
1:40 – Il loro mondo è diviso in angeli o mostri

1:49 – Piangono spesso
1:54 – Raramente al momento opportuno
2:00 – La personalità borderline troverà difficile provare soddisfazione o gioia per più di brevi periodi di tempo
2:15 – La personalità borderline potrebbe mostrare scarse capacità di gestire una relazione a lungo termine
3:01 – Classificato in passato come una sottocategoria della schizofrenia, oggi il BPD è considerato un disturbo di personalità relativamente stabile
3:11 – Una diagnosi del disturbo borderline di personalità da DSM richiede alcuni punti
3:13 – Almeno 5 dei 9 criteri nella lista devono essere presenti per una significativa quantità di tempo
3:18 – Ci sono perciò 256 differenti combinazioni di sintomi che possono emergere in una diagnosi
3:23 – 1.Disperati tentativi per evitare un abbandono (*non sono inclusi tentativi di suicidio o comportamenti autolesivi previsti dal criterio 5)
3:26 – 2.Un quadro di relazioni interpersonali instabili
3:26 – 3.Instabile immagine di sé o percezione di sé
3:28 – 4.Impulsività in aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto (*di nuovo, non sono inclusi tentativi di suicidio o comportamenti autolesivi previsti dal criterio 5)
3:32 – 5.Ricorrente comportamento suicidario
3:35 – 6.Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore (es. episodica intensa disforia o ansia, che di solito durano poche ore e solo raramente per più di pochi giorni)
3:36 – 7.Sentimenti cronici di vuoto
4:14 – Possono essere bravi con i bambini
4:18 – O bravi artisti
4:20 – E possono essere molto gentili
4:26 – Il trattamento prevede psicoterapia e farmaci che possono migliorare i sintomi.

 

LEGGI ANCHE:

I Disturbi di Personalità

 

Affrontare le avversità: come allenarsi per diventare più resilienti?

Quante volte, di fronte ai problemi, ci è capitato di dire Non ce la farò mai! e quante volte, invece, ci siamo rialzati e abbiamo superato tali ostacoli? Possiamo davvero trovare la forza necessaria per far fronte alle avversità?

A tal proposito in psicologia si parla di resilienza. Una delle definizioni di resilienza più utilizzate in letteratura è quella di Rutter che la descrive come the ability to bounce back or cope successfully despite substantial adversity (la capacità di riprendersi “rimbalzare” o far fronte con successo alle avversità).

COPING

La resilienza indica dunque proprio quel processo dinamico attraverso cui un individuo riesce ad adattarsi nonostante rischi e avversità. Questo processo va incontro a cambiamenti nel tempo e può essere rafforzato da fattori protettivi individuali e/o ambientali.

Troviamo dunque i nostri fattori di protezione e non lasciamoci sopraffare dallo stress… alleniamoci a diventare più resilienti!

 

La buona notizia è che non si tratta di una dote eccezionale ma – dicono gli autori – è una caratteristica della personalità piuttosto diffusa: c’entrano senso di identità, fiducia in se stessi, forti convinzioni, capacità di avere relazioni, di creare nuovi legami con altre persone e di solidarizzare, di condividere, di restare aperti, di coltivare l’ottimismo e di immaginare… 

Gente tosta – Annamaria Testa Consigliato dalla Redazione

Affrontare le avversità come allenarsi per diventare più resilienti - Immagine: 66062543
La capacità di reagire ai traumi e agli errori non è una dote eccezionale, e si può allenare. Con un po’ di umorismo, autenticità e voglia di €™imparare e di reinventarsi. (…)

Tratto da: Internazionale

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Le emozioni complesse: la Vergogna – Introduzione alla Psicologia Nr. 06

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (06)

 

 

Definita l’ emozione dell’autoconsapevolezza, la vergogna si presenta come un senso sgradevole di nudità, di trasparenza. Quando si prova vergogna si ha la percezione di essere stati scoperti e di conseguenza si vorrebbe diventare invisibili, sparendo per sempre dagli sguardi altrui.

 

La vergogna è la prima emozione secondaria di cui ci occuperemo. Si tratta di una emozione complessa, più strutturata rispetto alle altre, ed è correlata alla percezione che si ha di se stessi. Per tali ragioni è stata definita l’ emozione dell’autoconsapevolezza. La vergogna si presenta come un senso sgradevole di nudità, di trasparenza. Quando si prova vergogna si ha la percezione di essere stati scoperti e di conseguenza si vorrebbe diventare invisibili, sparendo per sempre dagli sguardi altrui.

Perché ci vergogniamo? Ci vergogniamo per qualcosa che si è commesso o per quello che si è, per quello che si ha o non si ha, per i propri pensieri, le proprie emozioni, il proprio corpo, ecc.

La vergogna è un’emozione che riguarda il passato, il presente e il futuro. In ogni caso, è un’emozione di forte intensità che determina dolore anche molto profondo.

Quando si prova questa emozione, il pensiero è quello di sentirsi inferiori, profondamente giudicati e diversi da come si vorrebbe essere.

Inoltre, se presente una bassa stima di se stessi, la vergogna provoca un definitivo crollo della propria persona e per questo diventa una vera e propria minaccia all’identità personale.

La persona che si vergogna si percepisce confusa, disorientata e dedita alla fuga da una situazione ormai diventata scomoda, perché piena di persone giudicanti . Quindi, il disagio che ne consegue è molto intenso e crea anche un blocco nella comunicazione.

In situazioni di vergogna il primo comportamento attuabile è distogliere lo sguardo dall’altro, poi si ripiega la postura, si volta il viso, che in genere potrebbe arrossire, ci si nasconde poiché la tendenza è di voler diventare invisibile. Tutti questi atteggiamenti confermano di non essere riusciti a raggiungere determinati standard di prestazione, o anche norme e valori, ritenuti indispensabili per avere una buona considerazione di se stessi.

Alla vergogna si reagisce in un duplice modo: arrabbiandosi o isolandosi. L’emozione, dunque, che ne deriva dipenderà dal tipo di carattere della persona e dalla cultura di provenienza da cui derivano determinate regole o norme.

Alcuni al cospetto della vergogna tendono a far finta di nulla o provano imbarazzo,altri, invece, affrontano la situazione fornendo supporto alla persona in difficoltà, rassicurandola, mentre altri ancora reagiscono con lo scherno o il riso.

Si possono distinguere molti tipi di vergogna:

  • del fare, in cui l’oggetto è l’agito e per questo è molto meno invasiva;
  • dell’essere, molto più profonda e dolorosa, riguarda l’essenza della persona, la sua identità;
  • da svelamento o smascheramento, in cui la persona si trova ad affrontare una situazione contro la sua volontà.
  • per le lodi, che si assume non siano meritate o a causa di qualche senso di colpa.
  • ricorsiva, legata al circolo vizioso della vergogna stessa, quando ci si vergogna di vergognarsi;
  • transitiva, quando per colpa del proprio comportamento si genera vergogna in un’altra persona
  • transpersonale, quando ci si vergogna della propria famiglia, istituzione, nazione, o nel gruppo nel quale ci si identifica;
  • contagiosa, quando ci si vergogna di fronte all’improvviso vergognarsi di qualcuno.

La vergogna, però, non va confusa con il pudore che nasce dalla volontà di non volersi mostrare allo sguardo altrui. È una forma di protezione psicologica atta a difendere lo spazio peripersonale, verso il quale non necessariamente si provano sensi di inadeguatezza.

Chi ha pudore non sempre ha vergogna nel mostrarsi, ma semplicemente è una persona che non ama mostrarsi, esibirsi davanti ad altri.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

L’Errore fondamentale di attribuzione

Comunemente capita di formulare delle valutazioni generali su comportamenti e gesti osservati in assenza di dati oggettivi. In questo modo possono essere elaborati dei modelli generali di funzionamento, stereotipi o pregiudizi, che aiutano a spiegare la realtà. Il più delle volte nell’effettuare questo processo si compiono degli errori di ragionamento, ovvero generalizzazione di un comportamento non oggettivamente riscontrabile, che inducono a conclusioni non veritiere. Questo processo è chiamato errore fondamentale di attribuzione.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

L’errore fondamentale di attribuzione, noto in psicologia sociale anche come “errore di corrispondenza“,  rappresenta la tendenza sistematica ad attribuire la causa di un comportamento, di un altro individuo, tendenzialmente alla sua personalità o al modo di essere (attribuzione disposizionale), sottostimando l’influenza che l’ambiente o il contesto potrebbe avere nel determinare tale comportamento (attribuzione situazionale).

Quindi, l’errore fondamentale di attribuzione consiste nel far corrispondere in maniera sistematica le cause di un comportamento umano alle caratteristiche personologiche del singolo individuo piuttosto che alle condizioni esterne. Per questo, se osserviamo una persona agire in un determinato modo siamo portati a pensare che quel gesto attuato sia frutto del suo temperamento o carattere, dei suoi pregi o dei suoi difetti.

Chiaramente, le circostanze esterne giocano sempre un ruolo attivo nell’influenzare le azioni e i comportamenti comunemente utilizzati. L’attribuzione della causa di un fenomeno dipende sempre dal punto di vista che si assume nell’osservare quel determinato fenomeno.  Quindi, se il giudizio è espresso da chi agisce l’azione, allora si pone l’attenzione sul pubblico e sulle condizioni esterne, se invece è una persona esterna che formula un giudizio allora si traggono conclusioni basandosi sulla persona senza considerare il contesto.

Tendenzialmente, le attribuzioni interne o disposizionali, sono volte a mantenere alta l’autostima in caso di successo personale, al contrario se si ottenesse un insuccesso si attribuirebbe la causa alla situazione.

Ad esempio, se Maria osserva Michele cadere dalla bici, lo considera non capace di guidarla (attribuzione disposizionale). Se invece fosse lei stessa, Maria, ad andare in bici e cadere tenderà ad attribuire la causa dell’accaduto alla bici che non funziona adeguatamente o alla strada che è troppo dissestata (attribuzione situazionale).

 

L’Attribuzione causale secondo Fritz Heider

Fritz Heider per primo studiò i processi di attribuzione.  Egli partì dalla psicologia del senso comune o psicologia ingenua, per individuare i principi, utilizzati per rappresentare l’ambiente sociale, che guidano le azioni. Secondo la psicologia del senso comune l’uomo è in grado di padroneggiare la realtà compiendo delle previsioni sulle situazioni. Per questo ogni individuo può riprodurre comportamenti specifici, in determinate condizioni, dotandoli di una certa stabilità. I comportamenti stabili regolano la messa in atto delle azioni e dei rapporti con gli altri. Il riuscire a raggiungere la stabilità, dunque, induce alla ricerca delle cause di quanto si verifica intorno a noi compiendo delle attribuzioni di causalità.

L’attribuzione causale consiste nell’individuare le spiegazioni del proprio o dell’altrui comportamento, da cui inferire e generalizzare le cause che sono alla base di specifiche azioni.

Per comprendere le ragioni di un determinato comportamento bisogna, in primis, individuare qual è la natura della causalità distinguendo fra cause personali o interne – come la motivazione o l’abilità- e cause ambientali o esterne – come la difficoltà del compito o la fortuna. Entrambi i tipi di cause possono essere determinati da fattori transitori o permanenti.

Colui che deve individuare la causa di un determinato avvenimento o comportamento effettua una  ricostruzione dello stesso tramite delle deduzioni logiche che partono da premesse per giungere alla constatazione su un fatto (inferenze). L’attribuzione causale è un insieme di schemi e processi cognitivi che gli individui utilizzano per spiegare la causa del comportamento proprio ed altrui.

 

La teoria dell’inferenza corrispondente di Jones e Davis

Secondo Jones e Davis una certa azione messa in atto da un individuo è causata da tratti di personalità (disposizioni) specifici di colui che agisce. Le caratteristiche di personalità sono considerate stabili e durature, quindi conoscerle adeguatamente potrebbe permettere di prevedere il comportamento agito da persone che presentano specifici tratti.

Dunque,  il comportamento messo in atto da una persona è sicuramente influenzato dal carattere e dalla personalità, ma bisogna prestare attenzione anche ad altre variabili intervenienti che potrebbero comprometterne gli esiti: la volontarietà, se è un gesto è spontaneo o imposto; gli effetti non comuni, se ci possono essere delle conseguenze positive o negative rispetto all’azione esercitata; la desiderabilità sociale, se si violano alcune norme sociali; le aspettative non solo di chi produce l’azione ma anche di chi la riceve.

Dopo aver messo in atto un comportamento o azione è possibile, di conseguenza, ricavarne dei modelli di funzionamento generale che regolano e spiegano il comportamento specifico. Questo processo prende il nome di inferenza.

 

Il modello della covariazione di Kelley: ANOVA (Analysis of Variance)

Le inferenze, generalizzazioni di comportamenti, dipendono da fattori come la vicinanza, la contiguità tra causa ed effetto, la percezione della forza delle connessioni causa ed effetto e la loro specificità; queste condizioni portano l’individuo a indicare, in maniera oggettiva, in una azione sia l’agente sia le conseguenze. Secondo Kelley un osservatore trarrebbe delle inferenze, su un determinato comportamento, osservandone la frequenza e la modalità di presentazione dello stesso.

Quindi, nel momento in cui si posseggono informazioni provenienti da più fonti, l’osservatore le analizzerà attraverso il principio della covariazione, verificare come variabili interne e esterne variano insieme. Il numero di volte in cui si verificano le osservazioni consente di stabilire se, e con quale probabilità, le informazioni covariano tra loro.

Kelley riferendosi alla procedura statistica analisi della varianza (ANOVA) formulò l’ipotesi secondo la quale i cambiamenti di una variabile dipendono (l’effetto) dalle modificazioni della variabile indipendenti (condizioni)

Quindi, le informazioni saranno valutate riferendosi a tre dimensioni:

1. distintività: quando si verifica l’effetto tra variabile dipendente e indipendente

2. coerenza nel tempo e nelle modalità: quali sono le caratteristiche dell’effetto tra le due variabili

3. consenso: riproducibilità dell’effetto a parità di condizioni.

 

Bias

Le persone comuni, però, al di là delle teorie citate non utilizzano per trarre conclusioni dei modelli dettagliati e formali, ma giungono rapidamente a conclusioni servendosi di poche informazioni e di scorciatoie mentali. Chiaramente questa modalità porta, inevitabilmente, a compiere degli errori di attribuzione.

Gli errori fondamentali di attribuzione, dunque, o bias sono delle modalità di giudizio distorte in maniera sistematica, che consentono di descrivere le azioni o comportamenti.

Questi bias sono molto utilizzati per spiegare delle dinamiche sociali o di gruppo derivanti da errori di ragionamenti che alla lunga portano alla formulazione di veri e propri pregiudizi o stereotipi.

Quindi, un comportamento negativo di un individuo appartenente al proprio gruppo sociale è, tendenzialmente, attribuito a fattori situazionali. Mentre, i fattori disposizionali sono ritenuti imputabili al comportamento negativo di un membro di un gruppo sociale a cui non si appartiene. Secondo Pettegrew, in questo caso, si parla di errore di attribuzione per eccellenza ed è compiuto dai membri di categorie appartenenti a specifici gruppi sociali.

Così facendo è possibile formulare un vero e proprio pregiudizio o stereotipo, generalizzazione di preconcetti sociali che possono condizionare la percezione della realtà e produrre comportamenti coerenti con le aspettative che si hanno su se stessi e che, a loro volta, influenzeranno i comportamenti sociali. A esempio, le differenze di genere nell’assunzione di ruoli di potere o di rilievo sociale, sono attribuiti principalmente agli uomini, perché si ritengono più abili e capaci rispetto alle donne.

Per capire meglio cosa porta alla formulazione di uno stereotipo è necessario parlare della profezia che si autoavvera: un’aspettativa o profezia, razionale o meno, che può suscitare nel soggetto un comportamento in grado di trasformare la realtà e confermare le attese. A esempio pensare che il proprio compagno/a possa tradire induce a compiere una serie di comportamenti controllanti che faranno sentire l’altro ingabbiato e sicuramente, alla lunga, cercherà fuori dalla relazione qualcosa di più leggero da fare. Per questo, le azioni compiute  per prevenire un comportamento, in alcune situazioni, portano alla manifestazione proprio del comportamento temuto, che induce alla formulazione di un giudizi generali di funzionamento sociale.

Quindi, prima di formulare un giudizio è necessario sempre considerare lo scarto tra osservatore ed attore e utilizzare la logica per evitare di attuare dei preconcetti o scorciatoie mentali che portano a offuscare la mente e confermare teorie fallaci.

 

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Pronto intervento emozioni. Strategie di mindfulness per affrontare con serenità le difficoltà della vita

Spesso crediamo di non avere gli strumenti per attenuare il dolore delle ferite psicologiche, ma non è così: ognuno di noi può imparare delle tecniche di pronto soccorso emotivo per accelerare la guarigione e prevenire le ricadute nel futuro.

Se ci affligge un piccolo dolore fisico quasi sempre sappiamo come cercare rimedio: un cerotto per un graffio, un disinfettante per una piccola ferita, una pomata per una botta, riposo e qualche medicina per una leggera influenza… Quando invece la sofferenza è emotiva non siamo così abituati a riconoscerla e a cercare di attivare le nostre conoscenze per porvi rimedio, rischiando così che la piccola sofferenza non curata diventi una grande ferita e influisca notevolmente sul nostro benessere.

Il motivo per cui spesso facciamo poco o niente per curare le ferite psicologiche della vita quotidiana è che non abbiamo gli strumenti, o meglio crediamo di non avere gli strumenti per attenuare il dolore di queste ferite, ma non è così: ognuno di noi può imparare delle tecniche di pronto soccorso emotivo per accelerare la guarigione e prevenire le ricadute nel futuro.

RUBRICA: TRIBOLAZIONI

Il libro di Guy Winch psicologo statunitense, è un sunto di rimedi caserecci che una persona che si ritrova in un momento di sofferenza psicologica può imparare ad utilizzare per cercare di curare le piccole ferite psicologiche della vita quotidiana.

La metafora con il dolore fisico continua in tutto il libro: il dolore inflitto dal rifiuto è paragonato ai tagli e ai graffi che si possono subire nella vita quotidiana, la solitudine non è altro che la debolezza dei muscoli relazionali che necessitano di un allenamento specifico, le perdite e traumi ci indeboliscono perchè sono come delle ossa rotte che ci impediscono di camminare bene; e ancora il senso di colpa è come un virus che avvelena il nostro sistema psicologico, la ruminazione è un modo fastidioso e continuo di stuzzicare le crosticine, l’insuccesso è un raffreddore che se non curato si può trasformare in una polmonite e infine la bassa autostima è un sistema immunitario debole che ci rende facilmente attaccabili da ogni malattia.

Il libro affronta dunque i più frequenti dolori emotivi che ci possono capitare nella vita quotidiana offrendoci un kit di strumenti utili per curarli. I rimedi che l’autore suggerisce per contrastare queste sofferenze sono tratti dalla sua esperienza clinica e, come dimostrano le numerose ricerche sperimentali citate, supportati da evidenze scientifiche.

L’autore propone per ogni tipologia di sofferenza un’analisi per riconoscerne le cause, le conseguenze e le caratteristiche; la cura proposta sono esercizi spiegati in modo chiaro e dettagliato, sotto forma di diari o di tecniche comportamentali e ispirati ai principi della mindfulness di autoconsapevolezza e riflessione sui propri stati mentali.

MINDFULNESS

Nel corso del libro vengono riportate le storie dei pazienti del terapeuta e di come essi hanno utilizzato queste strategie operative, con esempi di come hanno svolto e poi risolto la loro situazione di sofferenza.

Se questi rimedi non dovessero bastare, o se persistono determinate circostanze che il manuale riporta, il paziente viene sempre invitato a rivolgersi a un professionista per chiedere un aiuto.

Questo libro rappresenta un kit di pronto soccorso emotivo da tenere a portata di mano e consultare all’occorrenza, e può aiutare a conoscere meglio il mondo della sofferenza e delle emozioni attraverso un percorso e una lettura che ci guida nella conoscenza di noi stessi.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Bambini ed Emozioni: 5 consigli utili per i genitori

BIBLIOGRAFIA: 

Winch, G. (2014). Pronto intervento emozioni. Strategie di mindfulness per affrontare con serenità le difficoltà della vita. Centro Studi Erickson. ACQUISTA

Attaccamento e inibizione durante l’infanzia: gli effetti a lungo termine sull’ansia

Laura Stefanoni

FLASH NEWS

Sulla base dei risultati ottenuti, è stato possibile confermare l’esistenza di un effetto derivante da una persistente tendenza a mettere in atto comportamenti inibitori sulla genesi di disturbi d’ansia in adolescenza, ma allo stesso tempo è emerso che tale effetto sia in realtà mediato dallo stile di attaccamento sviluppato dal soggetto durante l’infanzia.

Nel corso degli ultimi anni, diversi studi hanno messo in evidenza come una tendenza all’inibizione comportamentale durante l’infanzia costituisca un importante fattore di rischio per l’internalizzazione dei propri problemi. Molti bambini che di fronte a situazioni, oggetti o persone nuove e sconosciute tendono a reagire con paura o ritirandosi, infatti, sembra che continuino a mostrare questo tipo di comportamenti anche quando crescono, in risposta alle nuove esperienze che si trovano ad affrontare. Per questi bambini è risultato maggiore anche il rischio di sviluppare disturbi d’ansia durante l’adolescenza.

ATTACCAMENTO

Da un recente studio condotto da alcuni ricercatori della University of Maryland in collaborazione con il National Institute of Mental Health e la University of Waterloo, è emerso come il persistere di una tendenza all’inibizione comportamentale sia associato alla genesi di disturbi d’ansia sociale, in adolescenza, in particolare nei soggetti che durante l’infanzia avevano sviluppato una relazione di attaccamento insicuro con i propri genitori.

La ricerca ha coinvolto un campione di 165 soggetti, tutti di razza caucasica ed appartenenti ad una classe sociale medio-alta. Ciascun soggetto è stato selezionato sulla base delle modalità di risposta alle novità osservate all’età di quattro mesi, inoltre, a quattordici mesi, è stato sottoposto ad una valutazione del proprio stile di attaccamento attraverso il paradigma sperimentale della Strange Situation, che include una serie di episodi di separazione e riunione con la propria figura di accudimento primaria.

La tendenza all’inibizione comportamentale e al ritiro sociale durante l’infanzia è stata misurata ripetutamente nel corso dello studio (a 14, 24, 48 e 84 mesi), attraverso la creazione di situazioni sperimentali nelle quali i bambini venivano posti di fronte a condizioni nuove o all’incontro di soggetti loro pari ma sconosciuti, e tramite questionari compilati dai genitori in riferimento a circostanze simili che i bambini potevano aver sperimentato nella loro vita quotidiana.

ANSIA SOCIALE & FOBIA SOCIALE

A distanza di diversi anni, quando i soggetti avevano un’età compresa tra i 14 e i 17 anni, è stato poi chiesto loro e ai propri genitori di rispondere ad un questionario che valutava lo stato d’ansia adolescenziale. Coloro che hanno affermato di sentirsi più nervosi nel partecipare a feste dove avrebbero incontrato persone sconosciute o nel fare qualcosa di fronte ad un pubblico, come leggere, parlare o praticare sport, sono stati associati a punteggi più alti di ansia sociale rispetto a chi affermava di aver sperimentato in misura minore questi sentimenti.

BEHAVIORAL INIBITION AND CHILD ANXIETY (RUBRICA)

Sulla base dei risultati ottenuti, è stato quindi possibile innanzitutto confermare l’esistenza di un effetto derivante da una persistente tendenza a mettere in atto comportamenti inibitori sulla genesi di disturbi d’ansia in adolescenza, ma allo stesso tempo è emerso che tale effetto sia in realtà mediato dallo stile di attaccamento sviluppato dal soggetto durante l’infanzia.

In modo particolare ciò è risultato vero in quei soggetti classificati come insicuri alla Strange Situation e che tendevano a reagire con rabbia e non erano capaci di calmarsi al momento del ricongiungimento con i propri genitori. Tale relazione si è rivelata essere statisticamente significativa solo nei soggetti di sesso maschile.

L’identificazione di questi fattori potrebbe permettere secondo Erin Lewis-Morrarty, ricercatrice presso la University of Maryland, di intervenire in maniera precoce nel trattamento di soggetti a rischio, prima che emergano problemi clinicamente significativi.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Social behaviour, separation anxiety and adult psychopathology – SOPSI 2014

BIBLIOGRAFIA:

Psicoanalisi e vecchi merletti – di Paolo Moderato

Un Articolo del Prof. Paolo Moderato pubblicato su Huffington Post il giorno 9 Marzo 2015

 

La signora P.B. ha scritto a Sky Italia una lettera molto precisa in cui – oltre a complimentarsi per la qualità delle trasmissioni di fiction (e lamentarsi per la non altrettanto eccelsa programmazione cinematografica) – pone una questione molto importanze di traduzione. Come tutti sanno, noi italiani, insieme a francesi e spagnoli, siamo gli unici paesi europei dove film, telefilm e cartoni animati sono doppiati integralmente (e aggiungiamo in modo perfetto), anziché sottotitolati lasciando i dialoghi originali.

Questa è anche una delle ragioni per cui siamo tra i peggiori conoscitori/parlatori di lingue straniere, inglese in particolare, e contemporaneamente tra i maggiori inquinatori della nostra lingua con termini inglesi inutili (oltretutto pronunciati in modo volgarmente improprio e ridicolo). Atteggiamento molto provinciale, se paragonato alla difesa dell’integrità linguistica che avviene in altri paesi, tra cui anche quelli appena citati. Annamaria Testa, su questi stessi temi, ha appena lanciato una meritoria campagna e approfitto per sostenerla da queste pagine.

Ma torniamo alle puntualizzazioni della nostra signora P.B., che scrive: “nella fiction NCIS stagione 11 ep.13, il medico Mallard dice ‘si è curato da solo invece di rivolgersi ad uno psicanalista’ traducendo l’espressione inglese “professional help”. Lo stesso errore ricorre nella serie NCIS Los Angeles, stagione 5 episodio 12, dove “terapy session” viene tradotta con “psicanalisi”. È un errore di traduzione fuorviante e pericoloso e lo dico con cognizione di causa: questi errori sono causati dall’ignoranza diffusa e dallo stigma per cui invece di dire “psichiatra” diciamo “psicanalista” (neanche psicologo!), pertanto è un doppio errore. La parola “psicoanalista” è vecchia, usata solo in Italia in questo suo significato erroneamente onnicomprensivo.

I tipi di terapie possibili sono tante: potrei fare un elenco di molte voci tra le quali una è la psicanalisi, quindi l’uso che ne state facendo è sbagliato!

Il tema della confusione semantica delle professioni psico è un tema caldo. Quindi, mentre ringrazio la signora P.B. per avermi concesso di pubblicare stralci della sua lettera, mi complimento con la sua sensibilità culturale (è una professionista, ma non in questo campo). Il tema, infatti, è stato messo sul tappeto proprio recentemente da due colleghi Ruggero, e Dimaggio e ripreso sulla stampa nazionale.

Psicoanalisi e vecchi merlettiConsigliato dalla Redazione

Da qualunque punto la si guardi, sembra che la situazione della clinica psicoanalitica sia molto critica, almeno negli Stati Uniti (ma non solo): per Italia, l’onda è stata lunga ma alla fine è arrivata pure da noi. Stante questa situaz… (…)

 

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Stress: conoscerlo per fronteggiarlo

Annamaria Quercia 

“La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si possa pensare, noi non dobbiamo e non possiamo evitare lo stress, ma possiamo andargli incontro in modo efficace traendone vantaggio, imparando di più dai suoi meccanismi, e adattando a esso la nostra filosofia dell’esistenza”. (Selye, 1973)

Lo stress definito da Hans Selye, che per primo introdusse tale concetto in medicina, come una reazione aspecifica dell’organismo nei confronti di uno o più agenti stressanti di varia natura. Lo stress non è altro che la prima sollecitazione che l’organismo subisce quando vi è un cambiamento nell’equilibrio tra organismo e ambiente e si verifica quando le esigenze di un individuo superano quelle delle risorse e delle capacità di farvi fronte. Però non sempre lo stress viene a connotarsi come un fattore negativo e tanto meno come patogeno e precursore di malattia.

Al contrario, lo stress è una necessità fondamentale dell’essere biologico per il suo adattamento.

La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quanto si possa pensare, noi non dobbiamo e non possiamo evitare lo stress, ma possiamo andargli incontro in modo efficace traendone vantaggio, imparando di più dai suoi meccanismi, e adattando a esso la nostra filosofia dell’esistenza“. (Selye, 1973). 

Lo stress positivo è definito:

Eustress (eu: buono, bello) inteso come uno stress fisiologico diverso e positivo, indispensabile alla vita che si manifesta sotto forma di stimolazioni ambientali costruttive ed interessanti che genera in noi il desiderio di superare una sfida e raggiungere un obiettivo, e ha le seguenti caratteristiche:

– Motiva e focalizza l’energia

– E’ a breve termine

– Fa parte delle nostre capacità di coping

– E’ stimolante

– Migliora le prestazioni

 

Eventi positivi che potrebbero causare l’eustress sono:

• Una promozione al lavoro

• Iniziare un nuovo lavoro

• Matrimonio

 

Mentre lo stress negativo definito distress (dis: cattivo, morboso) inteso come quello che ci provoca maggiori difficoltà come conflitti emotivi, ansie, presenta le seguenti caratteristiche:

– Provoca ansia o preoccupazione

– Può essere breve o a lungo termine

– Sembra spiacevole

– Riduce le prestazioni

– Può causare problemi psicologici e fisici

 

Molteplici fattori potrebbero causare lo stress come:

– La morte di un coniuge

– Perdita di persone care

– Ricovero (se stessi o un membro della famiglia)

– Infortunio o malattia

– Il conflitto nelle relazioni interpersonali

– Disoccupazione

I fattori di stress non sempre sono limitati a situazioni in cui una situazione esterna sta creando un problema, anche sentimenti ed eventi interni possono causare stress negativo. Esempi sono: la paura di volare, la preoccupazione di eventi futuri ecc. Viviamo in un’epoca stressante, chi non si è mai definito o non si definisca stressato?

Molti tendono a sottovalutare lo stress o non sanno riconoscerlo e quindi possiedono poche risorse per minimizzare i suoi effetti negativi.
Quindi impariamo a conoscerlo meglio per riuscire meglio a gestirlo. Ognuno di noi risponde agli eventi stressanti in modo diverso, questo perché ogni persona fa esperienze diverse e fa proprie delle strategie interpretative e di pensiero diverse. Inoltre un ruolo fondamentale nell’interpretazione degli eventi, sia interni che esterni, spetta all’apprendimento. Noi impariamo a comportarci in un certo modo di fronte a certi stimoli e questi meccanismi di apprendimento agiscono in modo automatico, al di fuori della nostra consapevolezza.

Le nostre stesse valutazioni personali degli eventi e delle cose subiscono l’effetto dell’apprendimento e una volta consolidatesi funzionano in modo relativamente autonomo. La valutazione cognitiva che il soggetto fa dello stimolo e delle sue capacità di affrontarlo, nonché le strategie di adattamento (coping) messe in atto per reagire alla situazione stressante, sono essenziali nel determinare il grado di stress sofferto.

E’ ormai ampiamente accertato che, nell’uomo, la risposta all’agente stressante è mediata da fattori che sono collegati fondamentalmente ai processi cognitivi e all’emotività, quindi complessivamente alla personalità del soggetto. 

Non è facile stabilire una tipologia di personalità che abbia maggiore probabilità di sviluppare una patologia psichica o organica in seguito a una serie di eventi stressanti ripetuti o protratti nel tempo. Fattori di vulnerabilità allo stress oltre al genere, alla personalità, alla valutazione cognitiva sono l’età, il supporto sociale, eventuali patologie psichiatriche. Con l’aumentare dell’età, l’individuo, assume un maggiore senso di controllo.

Numerosi studi hanno dimostrato che una prolungata esposizione allo stress potrebbe avere un impatto negativo sulla nostra salute. La ricerca psicosomatica ha dimostrato le possibili conseguenze associate allo stress come l’insorgere di malattie somatiche come: allergie, artrite reumatoide, asma, cefalea (tensiva, emicrania), colite (colon irritabile, colite ulcerosa), disturbi dermatologici, disturbi gastrointestinali, disturbi cardiovascolari.

Altre conseguenze dello stress potrebbero provocare reazioni emotive (irritabilità, ansia, disturbi del sonno, depressione, ipocondria), reazioni cognitive (difficoltà di concentrazione, perdita della memoria, scarsa propensione all’apprendimento, reazioni comportamentali (alcol o tabacco).

E’ opportuno precisare che il rapporto tra stress e malattia non deve essere inteso in senso di stretta causalità, piuttosto in senso statistico-probabilistico; l’evento stressante modifica la reattività dell’organismo, rendendo più probabile in termini statistici l’insorgenza della malattia. 

Sono stati individuati vari fattori di rischio di sviluppo della malattia somatica, tra cui la suscettibilità genetica, la tendenza a reagire allo stress con rabbia, risentimento, frustrazione, ansia o depressione. Lo stress diventa fattore di rischio di malattia quanto più assume caratteri di cronicità e quindi un evento stressante diventa fattore di rischio per l’insorgenza di malattia quanto più è etologicamente innaturale, intenso e sommato ad altri, non riparabile con l’azione diretta né con comportamenti indiretti, non elaborato dall’attività fantasmatica, sintonico con esperienze precedenti e accompagnato da sentimenti negativi (Castrogiovanni e Invernizzi, 1994).

Secondo un recente studio canadese una dose giornaliera d vitamina D potrebbe migliorare la risposta cardiaca allo stress. I risultati dello studio indicano che la vitamina D è in grado di migliorare la funzionalità del sistema nervoso autonomo in risposta a forti fattori di stress. Di fronte a una situazione di stress, la variabilità della frequenza cardiaca riesce a ristabilirsi prontamente su modalità ottimali se i livelli di vitamina D sono adeguati. 

Con questo studio emerge l’importanza di un’integrazione di vitamina D ai fini di rendere il cuore più reattivo nei confronti dello stress. L’importante effetto protettivo della vitamina D nei confronti del sistema cardio-circolatorio è stato oggetto di diversi studi nel corso degli anni. Uno dei più recenti, pubblicato sull’International Journal of Cardiology, proverebbe che un’integrazione di vitamina D potrebbe ridurre la risposta da stress.

I risultati dello studio indicano che la vitamina D è in grado di migliorare la funzionalità del sistema nervoso autonomo in risposta a forti fattori di stress. Di fronte a una situazione di stress, la variabilità della frequenza cardiaca riesce a ristabilirsi prontamente su modalità ottimali se i livelli di vitamina D sono adeguati. Con questo studio emerge l’importanza di un’integrazione di vitamina D ai fini di rendere il cuore più reattivo nei confronti dello stress.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Biondi M., Pancheri P. Fattori psichici che influenzano condizioni mediche. In Cassano GB. Et al., Trattato italiano di Psichiatria
  • Castrogiovanni P., Invernizzi G. (1994). Stress psicosociale e malattia. In Cassano GB., Manuale di Psichiatria, UTET, Torino
  • Mills, H., Reiss, N., & Dombeck, M. (2008). Self-Efficacy and the Perception of Control in Stress Reduction, Consultato online il 23/02/2015
  • Selye H. (1950). Stress. Einaudi,Torino
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