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Il ruolo della paura nei disturbi d’ansia

 

Una possibile spiegazione di alcuni fenomeni legati all’‪‎ansia‬, quali per esempio l’ipervigilanza‬, ‪e l’‎iperallarme‬, potrebbe essere legata all’attivazione automatica dell’amigdala, in seguito alla percezione di uno stimolo spaventoso.

Mediante la percezione visiva identifichiamo ed assegniamo significati agli oggetti nello spazio ed è in base ad essi che reagiamo. La percezione della paura consente una risposta adattiva a situazioni di minaccia, attraverso una reazione automatica d’attacco/fuga, attivando una specifica area cerebrale: l’amigdala. Una lesione di quest’area determina una diminuzione della capacità di riconoscere la paura mentre una sua stimolazione, negli esseri umani, porta a sperimentare ansia e paura (Bear, et al.2005).

Una possibile spiegazione di alcuni fenomeni legati all’‪‎ansia‬, quali per esempio l’ipervigilanza‬, ‪e l’‎iperallarme‬, potrebbe dunque essere legata all’attivazione automatica dell’amigdala, in seguito alla percezione di uno stimolo spaventoso. È questa la conclusione a cui sono arrivati alcuni studiosi ed, ancora più interessante, è il fatto che la percezione dello stimolo non debba essere obbligatoriamente consapevole.

Nello studio di Whalen e colleghi (1998), infatti, i partecipanti percepivano espressioni facciali in assenza di conoscenza esplicita. Venivano loro presentate delle espressioni di ‪paura‬ e felicità sovrapposte ad espressioni neutre, che dunque le mascheravano, impedendo così la percezione consapevole delle emozioni sottostanti. Mentre le espressioni facciali venivano proiettate su uno schermo, si registravano i segnali di attivazione cerebrale, mediante risonanza magnetica funzionale. Al termine della presentazione degli stimoli veniva poi chiesto ai partecipanti di descrivere qualsiasi aspetto dei volti presentati; commentare le espressioni emotive dei volti; e se avessero visto o meno qualche espressione di felicità o qualche volto spaventato.

I risultati dello studio dimostrarono che, nonostante i partecipanti dichiaravano di non aver percepito le espressioni facciali della paura in modo esplicito, si verificava comunque in essi un’attivazione dell’amigdala. Questa parte del ‪cervello‬, dunque, risultava essere implicata anche nel monitoraggio di stimoli emotivi inconsapevoli. Inoltre, il livello di attivazione dell’amigdala era influenzato in modo differenziale dalla valenza emotiva degli stimoli: l’intensità del segnale aumentava per gli stimoli di paura e decresceva per quelli di felicità.

Dunque entrambe le espressioni, paura e felicità, forniscono informazioni sul potenziale di minaccia in un dato ambiente, e incidono differentemente sul livello di attività dell’amigdala.

Tali risultati sarebbero in linea con l’ipotesi che considera le prime risposte agli stimoli affettivi, automatiche; esse non richiederebbero pertanto consapevolezza. L’attivazione dell’amigdala, dunque, potrebbe rappresentare il substrato neurobiologico del primo step, automatico, dell’elaborazione degli stimoli emotivi. Da tale step il processo potrebbe evolvere verso un’analisi più differenziata, da cui emergerebbe la distinzione tra le varie emozioni.

Per Whalen e colleghi (1998), dunque, l’amigdala potrebbe giocare un ruolo principale nei fenomeni clinici che si osservano nei disturbi d’ansia. Infatti, in questi soggetti, l’attivazione di quest’area cerebrale potrebbe commettere errori nel processare le informazioni a livello implicito e dare origine a fenomeni tipici quali: ipervigilanza, iperallarme e mancata abituazione agli stimoli.

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Buddha’s Brain: cambia il tuo cervello – Recensione

Il libro indica le possibili pratiche che possono associarsi al lavoro psicologico con il terapeuta: il paziente sa che possono agire aumentando la sua speranza.

Rick Hanson, neuropsicologo e Richard Mendius neuroscienziato, sono gli autori di un libro dal titolo esotico, “il cervello di Buddha”. Di esotico c’è, però, solo il titolo, il resto è un appassionante viaggio guidato nei rapporti tra neuroscienza, psicoterapia e tradizione spirituale della scuola buddhista Theravada. Di R. Hanson sono stati tradotti in italiano due libri sullo stesso argomento. Buddha’s brain li supera per completezza e utilità.

  • Completezza: nel libro viene esaminato, sulla base delle recenti acquisizioni neuroscientifiche, il rapporto tra mente e cervello. Il cervello si sa che cosa sia, definire la mente è più complesso. Gli autori intendono con questo termine tutte le attività cognitive, emozionali, relazionali che fanno parte dell’esistenza. Quale rapporto hanno con il funzionamento cerebrale? Grande questione al pari di quella “cosa c’era prima del big bang”. Certo senza un cervello non ci sarebbe mente ma come questa influisce sul cervello? Gli autori partono da diversi assiomi oggi dimostrati dalla neuroscienza: per esempio, il cervello è plasmabile, può modificarsi in risposta ad azioni esterne veicolate dalla mente. E’ una buona notizia. Possiamo sperare che certe aree celebrali responsabili di stati di benessere possano essere “allevate” e “allenate” attraverso opportune pratiche. Le grandi tradizioni sapienziali ci indicano alcune di queste pratiche, in particolare quella buddista; la scuola Theravada in particolare indica nella meditazione di consapevolezza ( vipassana) la via per agire sulla mente. Non a caso tra i pionieri della mindfulness ,numerosi sono gli psicologi e psichiatri i praticanti di questa scuola buddista.

  • Utilità: il conoscere cosa succede nel nostro cervello quando si pratica è un ottimo appoggio alla psicoterapia. Avere consapevolezza che la meditazione agisce modificando aree cerebrali responsabili dell’umore e della cognizione può rafforzare la fiducia nella possibilità di cambiamento.

Infine, ma meno importante, le diverse teorie e scuole che, non raramente, si accapigliano tra loro, potrebbero trovare alcuni punti di appoggio in queste antiche pratiche senza considerarsi esclusive.

I comportamentisti nel vedere sottolineato nel libro che i cambiamenti di comportamento agiscono sullo stato psichico dei pazienti; i neuroscienzati riduzionisti vedendo che è la pratica che cambia il cervello e non solo viceversa. E ancora gli psicologi del profondo (o psicodinamici) ritrovano nel libro che la psiche può essere ristrutturata attraverso le relazioni, e infine i cognitivisti possono trovare conferma dell’importanza dei modelli cognitivi costruiti nella prima infanzia.

Si potrebbe continuare ma chi scrive non è né psicologo, né psicoterapeuta e tanto meno psicanalista.

E’ però un paziente e qui sta molta dell’utilità del libro. Gli autori sostengono, grazie alla loro esperienza, che l’adottare pratiche già presenti nella storia della ricerca dell’uomo, possa ridurre la sofferenza del vivere. Sono pratiche che agiscono sulla mente principalmente: la meditazione di consapevolezza che oggi possiamo chiamare mindfulness, il cambiamento di abitudini oggi paragonabile agli esercizi che agiscono sulle modificazioni nella vita pratica quotidiana, dal prendersi cura di sé al coltivare empatia, accettazione, etc.. Infine si può sottolineare l’importanza dell’esercizio fisico (ad esempio, hatha yoga) non competitivo ma come strumento di consapevolezza e di non identificazione con i nostri pensieri.

Il libro indica le possibili pratiche che possono associarsi al lavoro psicologico con il terapeuta: il paziente sa che possono agire aumentando la sua speranza. Naturalmente ci si guarda bene dal voler convertire a una fede o visione del mondo e della natura. Non occorre né essere buddisti, credenti o atei o altro ancora, ma solo essere aperti e avere fiducia. Ingredienti necessari sia al terapeuta che a chi cerca di alleviare la sua sofferenza, spesso non solo incomprensibile ma assurda.

T.F.

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Si preferisce l’apprendimento sociale rispetto a quello individuale!

FLASH NEWS

E’ apprendimento sociale quell’ insieme di processi unicamente umani che consentono agli individui di appropriarsi, di apprendere, in una relazione esperto-novizio non solo delle conoscenze ma anche dei modelli culturali e delle pratiche condivise per vivere la quotidianità.

Così come impariamo per trials and errors oppure osservando ciò che accade nel mondo accanto a noi, indipendentemente dalle interazioni, ad esempio osservando le associazioni di eventi e/o oggetti che co-occorrono con regolarità (apprendimento individuale).

Un nuovo studio pubblicato su PLOS one ha elegantemente analizzato due processi tipici della specie umana: da una parte l’apprendimento per osservazione e per associazione degli eventi, sganciato dalla relazione con l’altro, dall’ altra l’apprendimento del “novizio” attraverso l’interazione con un proprio consimile “esperto”, significativo interlocutore comunicativo.

Nello studio bambini di 18 mesi osservavano nella condizione di baseline un adulto alle prese con una scatola con due pulsanti e una luce a forma di cuore. Entrambi i pulsanti erano in grado di far illuminare il cuore ma con una frequenza diversa: il pulsante di destra con maggiore frequenza (due terzi delle volte in cui veniva pigiato) rispetto al pulsante di sinistra (un terzo delle volte in cui veniva pigiato).

Nella condizione sperimentale l’adulto, al posto di rimanere neutrale come nella condizione di controllo, interagiva con il bambino attraverso sia i canali non verbali (ad esempio, il contatto oculare), sia attraverso il canale verbale parlando al bambino nel cosiddetto “motherese” per sottolineare il significato delle proprie azioni. In seguito, i bambini venivano valutati per le loro prestazioni alle prese con la scatola che si illumina.

Quello che è emerso è una prova empirica della rilevanza delle interazioni umane tanto semplice quanto affascinante: nella condizione di baseline, ciò che conta è il criterio dell’efficienza, cioè il bambino impara e riproduce il comportamento per cui è conveniente pigiare il pulsante di destra poichè è più probabile che illumini il cuore, rispetto al pulsante di sinistra che ha mostrato una probabilità più bassa.

Ma nella condizione sperimentale, in cui si aggiunge l’ingrediente interattivo e relazionale tutto cambia: rispetto alla condizione neutrale in cui prevale il criterio dell’efficienza, nella condizione comunicativa i bambini preferivano di gran lunga il pulsante a bassa efficienza se accompagnato dai segnali comunicativi interattivi rispetto al pulsante ad alta efficienza (ma in assenza dell’interazione significativa con l’adulto).

Dunque sembrerebbe che gli umani abbiano una marcata preferenza per l’apprendimento dall’interazione con l’altro, anche a scapito delle performance in certe condizioni, quale il setting sperimentale qui utilizzato. D’altro canto è già noto in letteratura il vantaggio dell’apprendimento sociale nelle fasi culturali stabili: risulta più affidabile e meno soggetto ad errori, accelerando il processo dell’apprendimento individuale; viceversa, in ambienti culturali variabili l’apprendimento individuale può essere più efficace per trovare nuove soluzioni più adatte ai cambiamenti dell’ambiente (Boyd, Richerson, 2005).

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Dialectical Behavior Therapy (DBT) per il trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione, Firenze, 17-19 Aprile 2015 – Report

 

Il primo obiettivo della terapia è interrompere il comportamento alimentare problematico, attraverso l’insegnamento delle abilità adattive: mindfulness, regolazione emotiva, tolleranza della sofferenza mentale.

Debra L. Safer. Abbiamo trascorso un giorno e mezzo con la co-autrice, insieme a Eunice Y. Chen e a Christy F. Telch, del libro “Binge eating e bulimia. Trattamento Dialettico-Comportamentale”, che ha  adattato ai pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e bulima nervosa (BN) la terapia dialettico-comportamentale (DBT) di Marsha Linehan, sviluppato per la cura del disturbo borderline di personalità.

La DBT è, attualmente il trattamento che presenta la più alta efficacia “evidence based” per il BED e la BN. Le abbuffate e le condotte di eliminazione sono strategie disfunzionali di regolazione emotiva, la gestione delle emozioni dolorose è il focus dell’intervento terapeutico con questi pazienti, che hanno avuto esperienza di ambienti invalidanti e sviluppato una vulnerabilità alle emozioni.

Il trattamento è indicato in setting ambulatoriali e di ricovero, il protocollo DBT modificato, dove è stato tolto il modulo di efficacia interpersonale, è stato applicato dalla Safer e da altri ricercatori escludendo pazienti suicidari, diagnosi di psicosi, dipendenze da sostanze, disturbo borderline di personalità, multiproblematici, dove è più indicato il modello DBT standard.

Prevede la psicoterapia individuale per incrementare la motivazione e incontri settimanali di gruppo per acquisire e consolidare le nuove abilità. Il primo obiettivo della terapia è interrompere il comportamento alimentare problematico, attraverso l’insegnamento delle abilità adattive: mindfulness, regolazione emotiva, tolleranza della sofferenza mentale.

La relatrice ha illustrato i contenuti delle 20 sedute di gruppo soffermandosi sui concetti più significativi, facendo esempi, analizzando insieme delle catene comportamentali e lavorando su delle simulate.

Mi soffermo su alcuni passaggi della Safer che mi hanno colpito:

L’astinenza dialettica, che presuppone una rigorosa richiesta ad abbandonare le condotte disfunzionali e nel contempo è accettazione dei fallimenti dei pazienti;

La mente saggia, che coglie intuitivamente gli obiettivi personali;

Mindful eating, che porta la consapevolezza nell’automatismo del mangiare

Sono state ore intense, ricche di domande del pubblico e coinvolgimento da parte della docente dei presenti.

 

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Autismo: Le regole non scritte delle relazioni sociali – Recensione

Nonostante le loro differenze, gli autori hanno concordato un elenco di dieci “regole d’oro” che a parer loro ogni bambino autistico dovrebbe apprendere attraverso le modalità più consone al suo schema di pensiero, visivo o verbale, e alle caratteristiche fisiche e mentali che lo caratterizzano. Entrambi ci raccontano attraverso quali risorse e ostacoli personali sono riusciti ad apprenderle e non si può rimanere indifferenti all’impegno e all’enorme fatica che traspare dalle loro parole.

Questo libro è un viaggio alla scoperta del regno del “pensiero diverso”. Ci fanno da guida Temple Grandin, zoologa, e Sean Barron, giornalista, entrambi autistici. Attraverso la narrazione di episodi di vita reale, ci raccontano il loro percorso di apprendimento del funzionamento sociale, basato su una fitta rete di regole e soprattutto di eccezioni ad esse.

A differenza della maggior parte dei neurotipici, che apprendono le fondamenta delle relazioni sociali in modo spontaneo fin dai primi mesi di vita, per gli autistici sapersi destreggiare nel mondo delle relazioni richiede  uno studio attento e sistematico, in accordo con il loro specifico funzionamento mentale. Le modalità di pensiero di Temple e Grandin, seppur diverse, hanno avuto ed hanno tuttora importanti ripercussioni nelle loro interazioni con le persone, ma grazie a quanto hanno deciso di condividere con noi in questo libro diventa più semplice comprendere i loro comportamenti, le loro emozioni e di conseguenza il loro funzionamento sociale.

Temple e Sean sono entrambi autistici ma soprattutto sono due individui diversi e attraverso presupposti e strumenti diversi hanno saputo apprendere le regole sociali necessarie a fare di loro due adulti professionalmente soddisfatti e capaci di gestire le relazioni che desiderano. Nonostante le loro differenze, gli autori hanno concordato un elenco di dieci “regole d’oro” che a parer loro ogni bambino autistico dovrebbe apprendere attraverso le modalità più consone al suo schema di pensiero, visivo o verbale, e alle caratteristiche fisiche e mentali che lo caratterizzano. Entrambi ci raccontano attraverso quali risorse e ostacoli personali sono riusciti ad apprenderle e non si può rimanere indifferenti all’impegno e all’enorme fatica che traspare dalle loro parole.

Se conoscete un autistico provate infatti a immaginarlo impegnato nell’apprendimento di queste regole sotto descritte.

1. Le regole non sono assolute, dipendono dalle situazioni e dalle persone. Per le persone autistiche la difficoltà più grande non è imparare le regole, ma pensare in maniera flessibile, poichè ogni regola sociale presenta in realtà un’infinità di eccezioni.

2. Non tutto ha la stessa importanza nel grande disegno delle cose. Gli autistici spesso reagiscono con molta ansia al cambiamento anche di un piccolo dettaglio della situazione, che un neurotipico riterrebbe assolutamente irrilevante. Anche in questo caso un buon allenamento alla flessibilità, può offrire loro delle categorie capaci di creare una struttura logica all’interno della loro mente.

3. Nel mondo tutti commettono errori. Questo non ti deve rovinare la giornata. Alcuni autistici pretendono un mondo perfetto, prevedibile, come se fosse diretto da un piano rigoroso. Per chi fatica ad assumere la prospettiva altrui, qualsiasi errore, qualsiasi deviazione dalla perfezione, non può che essere per propria colpa e generare elevati livelli di ansia e stress. Ecco che allora è importante, anche in questo caso, aiutarli a capire che non tutti gli errori che si verificano dipendono da loro e anche quando questo accade, gli altri avranno reazioni sociali diverse a seconda che attribuiscano l’esito per esempio a mancanza di volontà piuttosto che a diffficoltà di attenzione. C’è da dire che per un neurotipico non è affatto facile comprendere gli antecedenti del comportamento autistico e questo può essere davvero l’ostacolo più grande a impedire l’interiorizzazione di questa regola.

4. La sincerità è diversa dalla diplomazia. Per genitori di bambini autistici insegnare una regola rigida può essere una scorciatoia allettante perchè sanno che, con molta probabilità, i loro bambini autistici, a differenza dei neurotipici, non la infrangeranno mai. Ma questa strategia potrebbe essere fuorviante e causare problemi nel destreggiarsi in quelle situazioni che richiedono diplomazia o l’utilizzo, per esempio, di bugie bianche. Accompagnare passo per passo il bambino nell’apprendimento delle abilità sociali è l’unica strada che può condurre al successo sociale.

5. Essere educati è adeguato in qualsiasi situazione. I bambini dello spettro autistico faticano a imparare tramite l’osservazione, hanno bisogno di un insegnamento diretto e di esperienza diretta. Se negli anni in cui sono cresciuti Temple e Sean (tra gli anni sessanta e ottanta) i diversi ambienti sociali mostravano una rassicurante uniformità circa le aspettative sociali in materia di educazione, oggi l’idea di comportamento adeguato è talmente legata alle varie sfumature del contesto da rendere l’insegnamento di questa materia molto complicato. Tuttavia il primo passo per essere accettati in un gruppo sociale è essere educati, per questo dovrebbe essere insegnata facendo leva sul rapporto di causa-effetto, senza mirare alla comprensione emotiva che potrebbe richiedere diversi anni prima che affiori nella mente autistica o addirittura non comparire mai.

6. Non tutti quelli che sono gentili con noi sono nostri amici. Anche in questo caso Temple e Sean hanno imparato in modo diverso a giudicare gli scopi e le intenzioni altrui, anche quando esse sono in contraddizione con quanto è sotto i loro occhi. Non importa che si faccia uso della logica, piuttosto che della comprensione emotiva, l’importanza di acquisire una tale abilità è ovvia. Tuttavia per molti autistici questa resterà un’impresa impossibile ed è anche per questo che, per esempio, ogni scuola dovrebbe avere un buon programma contro il bullismo.

7. In pubblico le persone si comportano diversamente che in privato. La logica che guida molti autistici nella ricerca di indizi evidenti nell’ambiente per migliorare la propria comprensione sociale, tralascia  spesso degli elementi intangibili fondamentali per capire fino in fondo il contesto. Aiutarli a prestare attenzione anche a ciò che è assente in una determinata situazione in questo caso è cruciale.

8. Impara a capire quando infastidisci gli altri. Uno degli aspetti più interessanti su cui a questo punto si richiama l’attenzione del lettore è il fatto che a volte un autistico, pur essendo consapevole di come dovrebbe comportandosi e pur desiderandolo dal punto di vista pratico o emotivo, semplicemente non può farlo. Questo può dipendere da difficoltà sensoriali così intense da innescare un cortocircuito comportamentale.

9. “Integrarsi” è spesso legato all’apparire integrati nell’aspetto e nelle parole. Uniformarsi socialmente apre le porte all’interazione sociale. La vera sfida per i genitori è insegnare ciò nel rispetto di quello che è il figlio perché come dice Sean “per essere accettati nel lungo termine bisogna piacersi abbastanza da far sì che la propria personalità unica possa comunque risplendere“.

10. Ciascuno è responsabile dei propri comportamenti. Forse questa, tra tutte, è la regola che faremmo meglio a ripassare tutti.

Un libro interessante, che forse farà venire anche a voi  mal di testa come a me, ma se questo contribuirà a farvi anche solo lontanamente immaginare quanto sia complicato per un autistico orientarsi nel nostro confuso e ambiguo mondo sociale, ben venga e che sia da incoraggiamento per fare dei passi nella loro direzione e iniziare a mettere in discussione alcune delle nostre regole non scritte delle relazioni sociali.

 

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Il bisogno di appartenenza e il difficile rapporto con gli altri

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta di Domenica 26 Aprile 2015

 

Il rapporto con gli altri, con i migranti, con i diversi tira sempre in ballo i nostri peggiori pensieri più o meno xenofobi e che più o meno non condividiamo (en passant: battuta di Pino Caruso prima ancora che di Altan).

La reazione chimica tra la novità dell’incontro e il bisogno di appartenenza che pur nutriamo rischia di infilarci in un vicolo cieco. Troppi massacri del secolo scorso sono avvenuti in nome del bisogno di appartenenza nazionalistico. Ed è ancor più vero che nella sua forma estrema, il nazismo, il bisogno di appartenenza si è mostrato in una forma definitivamente bestiale e distruttiva. Che sia giusta quindi una lunga penitenza è desiderabile.

Tuttavia il bisogno di appartenenza, come tutti i bisogni psicologici, tende a ripresentarsi in forma camuffata quando è negato.

Il problema è che si è indebolito anche il senso di appartenenza politica e ideologica (e questo potrebbe spiegare certe conversioni da sinistra al leghismo). Un tempo –e io c’ero- l’affiliazione politica era anche una comunità che si caratterizzava non solo per le idee condivise ma anche per segni di riconoscimento che, decifrati, riscaldavano il cuore. Ci si riconosceva tra comunisti con lo steso trasporto con il quale si riconosce immediatamente un compatriota che s’incrocia casualmente nelle strade di un lontano paese straniero, con il quale si scambia una rapida occhiata affettuosa nella folla estranea di una città che non è la nostra, in una di quelle sere in cui si è fuori casa per lavoro e ci si sente particolarmente a disagio e privi delle solite piccole cose che accompagnano la nostra vita nei luoghi che ci sono familiari.

Cose che magari una volta tornati a casa reputeremo fastidiose e perfino odiose, ma la cui mancanza in quel pub così estraneo al nostro gusto, le cui pareti sono rivestite fino all’angolo più lontano di un legno fin troppo caloroso mentre fuori il tempo è umido e inclemente e tutto questo ci ricorda che il clima soleggiato e i baretti dalle pareti imbiancate del nostro paese mediterraneo non appartengono a quelle atmosfere nordiche; tutto questo ci affligge il cuore.

Roy F. Baumeister e Mark R. Leary (1995) sono stati coloro che hanno dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie (https://www.stateofmind.it/2014/05/essere-sestessi-identita-sociale/). Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non eliminato.

Il bisogno di appartenenza è una componente fondamentale del più ampio bisogno di socializzazione dell’uomo. Di questo bisogno la nostra -più che giusta- mentalità progressista favorisce soprattutto la componente di apertura agli altri, di costruzione dei legami. Tuttavia la socializzazione è fatta anche di un bisogno –se vogliamo più emotivo- di sicurezza e di ragionevole prevedibilità del comportamento e delle intenzioni altrui. Per capirci: è verissimo che, da un punto di vista strettamente logico è irrazionale la tendenza comune a fidarsi di più di coloro che classifichiamo come culturalmente affini; o peggio: etnicamente affini. Si tratta di una di quelle scorciatoie emotive che la mente utilizza per tirare avanti in un mondo complesso e difficile. Tuttavia fingere che sia possibile eliminare all’istante le barriere culturali può essere un piacere sterile e la vera apertura, quando è genuina e fruttifera è fatta anche di disagio, non di superficiale amichevolezza.

Tutti noi abbiamo bisogno del contatto con gli altri, e negli altri si cerca una giusta contemperanza di differenza e somiglianza. Quel tanto di differenza necessaria per non annoiarsi, qual tanto di somiglianza necessaria per non disorientarsi. Tutti noi, scrivono Baumeister e Leary, cerchiamo nel contatto con l’altro sia la novità e lo stimolo che un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi.

È proprio la possibilità di riconoscere nell’ altro sia dei tratti nuovi che dei tratti prevedibili che ci fornisce l’energia di incontrare il diverso e di esserne stimolati. Non c’è incontro senza barriera. Il problema è che la barriera è inevitabilmente eretta con materiale poco nobile: i mattoni della barriera sono i segnali più primitivi di appartenenza al gruppo, segnali che sono spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni e semplicismi culturali. Quel popolo è reputato chiassoso, caloroso, inaffidabile e portato alla musica, e quell’altro invece schivo, riservato e così via.

Inoltre, la capacità di convivere con culture straniere è diventata il test con le quali le società occidentali verificano la propria capacità di rispettare il valore liberale della tolleranza. Ma a questo test sono sottoposti anche i migranti, le persone che vengono a vivere nei paesi occidentali. Test che include la tolleranza per stili di vita che in paesi non occidentali sono invece attivamente repressi. Questi stili di vita incomprensibili per molti migranti comprendono, lo si è capito, soprattutto i comportamenti sessuali. E in particolare le libertà sessuali. E ancora più in particolare, le libertà sessuali delle donne, dei gay e in generale del mondo LGBT.

Per Mark Sedgwick (2011) al momento questi stili di vita possono essere in tal grado inaccettabili per chi proviene da culture non occidentali da determinare un dilemma per i governi europei: come tollerare la possibile intolleranza altrui verso stili di vita occidentali? Una ricerca effettuata in Danimarca ha mostrato come il sentimento di appartenenza per la loro nuova patria dei giovani immigrati sia basso, per non dire insoddisfacente (Kühle, Lindekilde, 2010).

In passato ci si è illusi che il processo di secolarizzazione potesse, per virtù sua propria, eliminare i conflitti religiosi e culturali riducendoli a problemi economici, risolvibili sull’arena del mercato senza utilizzare la violenza se non quella sublimata della concorrenza economica.
Purtroppo si sta scoprendo che il cosiddetto “ritorno di Dio” non è affatto un fenomeno che si oppone alla secolarizzazione, ma che la accompagna. È vero che nelle società secolarizzate all’occidentale si assiste a una diminuzione del numero di persone che partecipano a forme di vita comune dotate di senso rituale e religioso. Ma è anche vero che questo numero diminuito di devoti fa di costoro dei militanti molto più agguerriti e organizzati, con l’effetto paradossale di un aumento della loro partecipazione incisiva alla vita sociale e culturale (Casanova, 1994). Il che può essere un contributo prezioso alla vitalità della vita sociale. Ma non quando ci sia la tendenza a coltivare nel proprio milieu gruppi di azione terroristica (Achterberg, Houtman, Aupers e coll., 2009).

La speranza è che sia proprio questo accompagnarsi di secolarizzazione e rinnovato bisogno simbolico di appartenenza in minoranze attive, militanti e agguerrite a generare una felice dialettica tra libertà liberale e conservatorismo comunitario. In fondo, perfino le democrazie occidentali più laicizzate comunque si poggiano su un armamentario simbolico che è comunitario: il mito della rivoluzione in Francia è una simbologia che è anche profondamente nazionale. I festeggiamenti annuali del 14 luglio -presa della Bastiglia- possono esprimere un valore universale e proponibile all’intera umanità, ma sono anche la commemorazione sacra di un evento leggendario e fondante della Francia. Allo stesso modo gli Stati Uniti hanno una loro mitologia non facilmente esportabile altrove e che fornisce carne e sangue ai principi liberali di quel paese. Il cittadino americano non è un astratto utente di diritti, ma l’uomo della frontiera americana. Si può ammirare o rifiutare questa mitologia, ma è indubbio che essa è un mastice che unisce i singoli individui in una storia e una narrazione, fornendo contenuto storico ai principi liberali.

In conclusione, ogni singolo paese e ogni singola cultura deve riuscire a personalizzare nella propria storia il contenuto universale della modernità, pena l’eterna e inquietante sensazione di scimmiottare usanze altrui, malgrado tutto il loro nobile contenuto universale. Non è un mistero che oggi tutte le varie sensibilità culturali debbano fare i conti con la potente pervasività simbolica dell’immaginario americano, della mitologia individualistica americana. Mitologia che fa sì che le situazioni, gli ambienti e le usanze tipiche del popolo americano siano percepite come un “grande ovunque” in cui ognuno può identificarsi, salvo poi scoprire che però permane una barriera che fa sì che le riproposizioni locali suonino imitative. Di qui un sottile disagio universale, un’attrazione verso il centro della civiltà che è al tempo stesso un timore e una repulsione. E che ci rende poi più difficile proporre un discorso di integrazione a chi viene a vivere da noi. Però, dobbiamo provarci.

 

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Lucy e la rabbia: quanto è difficile esprimere le emozioni! – Rubrica Peanuts (02)

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA 02

Quanto è difficile esprimere le emozioni!

Lucy esprime la sua rabbia - Peanuts 02

Lucy e la rabbia

La piccola e impetuosa Lucy tenta di esprimere il suo stato emotivo attraverso il linguaggio ma, trovandosi in difficoltà, opta per una strategia più immediata e risolutiva: sferza un bel pugno in faccia al malcapitato Linus.

Dalla reazione fisica è intuibile che Lucy sia dominata dall’emozione di rabbia nei confronti del fratello minore, forse per un senso di ingiustizia subita o per non sentirsi al centro delle attenzioni genitoriali. Chi conosce le vicissitudini dei personaggi sa che Lucy accusa spesso il fratello di averla declassata, con la sua nascita, a un ruolo di secondo piano. Per vendicare il torto subito, Lucy non perde occasione per nascondere a Linus la sua amata coperta o per impartirgli compiti e doveri.

Esprimere verbalmente la rabbia o in generale le emozioni, può essere molto faticoso, sia per gli adulti che per i bambini. Un approccio psicoterapeutico che mira all’autoregolazione delle emozioni è la Terapia Razionale-Emotiva-Comportamentale (REBT, dalla dizione inglese rational- emotive behavior therapy) ideata dallo psicologo statunitense A. Ellis (1913).

L’assunto di base della REBT è che le reazioni emotive non siano direttamente influenzate dagli eventi esterni, ma che derivino dal significato che noi attribuiamo agli eventi (Di Giuseppe et al., 2014). L’approccio clinico è stato adattato all’ambito educativo, soprattutto con finalità preventive, e ha preso il nome di Educazione Razionale Emotiva (Knaus, 1974). In Italia esistono molte scuole che hanno applicato questi principi e attualmente l’ERE è tra i più diffusi programmi di educazione socio-affettiva nel nostro Paese (Di Pietro, 19

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Effetto “cooties”: l’amigdala e la repulsione dei bambini nei confronti dei pari di sesso opposto?

FLASH NEWS

L’effetto “cooties” consiste nella squisita repulsione che in certi momenti i bambini hanno, intorno ai sette-otto anni di età, nei confronti dei loro pari del sesso opposto.

Si tratta dei confini della propria identità sociale, tale per cui il genere diventa una delle prime categorie cui riferirsi: di conseguenza si preferisce di gran lunga condividere il tempo e le attivita’ con amici dello stesso genere. Crescendo i bambini divengono anche piu’ flessibili, ma verso la pubertà di nuovo si assiste a questo noto  fenomeno di esclusione. Questo effetto tende infine a eclissarsi intorno all’età dell’adolescenza in cui si inizia ad avere un certo interesse nonchè attrazione sessuale per i coetanei dell’altro sesso.

Un nuovo studio di neuroimaging ha identificato una specifica area cerebrale deputata alla regolazione dell’effetto cooties: di nuovo, la grande protagonista emotiva, e cioè l’amigdala.

I ricercatori hanno valutato l’effetto cooties sia a livello comportamentale valutando gli atteggiamenti nei confronti dei pari di sesso opposto in un campione di 93 soggetti in via di sviluppo di età dai 7 ai 17 anni. Di questi soggetti 52 sono stati inoltre sottoposti a risonanza magnetica funzionale mentre venivano loro presentati volti di coetanei di entrambi i generi.

Secondo i dati dello studio, solo i bambini più piccoli hanno esplicitamente dimostrato un sex bias valutando i coetanei del medesimo genere in modo piu’ positivo (maggiori caratteristiche positive) rispetto ai pari del sesso opposto. Di fatto nei bambini di 10-12 anni non è stato riscontrato questo effetto nè a livello soggettivo nè a livello neurocognitivo: l’amigdala in questa fascia d’età non risponde in modo differenziale al genere dei propri pari.

Invece nei bambini più piccoli sarebbe proprio l’amigdala a reagire diversamente, e cioè ad essere maggiormente attivata, nel momento in cui si visualizzano i volti di coetanei di sesso opposto. E’ l’amigdala che si attiva non solo ai segnali di “allerta – minaccia” ma anzitutto a quelli di rilevanza, e cioè non appena l’individuo identifica qualcosa di significativo per sè (legge della rilevanza emotiva).

E di nuovo, l’effetto cooties mostrerebbe un secondo picco nell’età della prima pubertà: scansare quelli del sesso opposto, nel momento in cui il corpo inizia a modificarsi, in transizione dall’infanzia all’adolescenza; l’effetto cooties puo’ avere la funzione di ridefinire nuovamente di confini di genere prima di avventurarsi verso l’attrazione sessuale in adolescenza. E di nuovo, il cervello e l’amigdala, rispondono in modo coerente a questa nuova fase di sviluppo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Rivista Italiana di Costruttivismo – è online il quarto numero

Rivista Italiana di Costruttivismo - HEADER

 

E’ online il quarto numero della Rivista Italiana di Costruttivismo.

La Rivista Italiana di Costruttivismo nasce dall’interesse di un gruppo di psicologi nel diffondere il Costruttivismo, nelle sue varie applicazioni, in lingua italiana. È un semestrale scientifico scaricabile gratuitamente in formato pdf previa iscrizione al sito – nel quale sono ospitati articoli di autori italiani e stranieri, oltre a interviste e book review.

ARTICOLI/ARTICLES
 

Scienza sospetta e scienziato sospetto. Il danzatore, o la danza?, di David Green
Dodgy Science and Dodgy Scientists. The Dancer or the Dance? (English original version), by David Green

Comprendere la colpa, approfondire la vergogna, di Bernardette O’Sullivan
Embracing guilt, excavating shame (English original version), by Bernardette O’Sullivan

Didattica costruttivista in psicoterapia costruttivista: il modello dell’Institute of Constructivist Psychology. Quando il post-moderno incontra l’antico, di Francesca Del Rizzo
Teaching psychotherapy in constructivist psychotherapy: the model of the Institute of Constructivist Psychology. When the post-modern meets the ancient, by Francesca Del Rizzo

Attraverso gli occhi di una figlia: uno sguardo sulla vita e sul lavoro di Gregory Bateson. Intervista a Nora Bateson, a cura di Elena Bordin e Carlo Capuzzo
Through daughter’s eyes: a glance on life and work of Gregory Bateson. Interview to Nora Bateson, by Elena Bordin and Carlo Capuzzo

Recensione “Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie. Nuove applicazioni della didattica costruttivista nella scuola” a cura di Anna Carletti e Andrea Varani, di Giovannio Stella
Book Review “Ambienti di apprendimento e nuove tecnologie. Nuove applicazioni della didattica costruttivista nella scuola” edited by Anna Carletti and Andrea Varani, by Giovanni Stella

Recensione ai Video “Introduction to Qualitative Grids” con il Professor Harry Procter, PhD, a cura della Personal Construct Psychology Association (PCPA), di Chiara Centomo
Video Review “Introduction to Qualitative Grids” with Professor Harry Procter, PhD, edited by Personal Construct Psychology Association (PCPA), by Chiara Centomo

 

Sezione speciale: la dissertazione di Hinkle
Special section: Hinkle’s dissertation
 

La lunga marcia verso una teoria della personalità. Struttura e cambiamento alla luce della teoria delle implicazioni costruttive, di Simone Cheli
The long march towards a theory of personality. Structure and change in the light of theory of constructive implications, by Simone Cheli

Tradurre Hinkle, di Francesca Del Rizzo
Translating Hinkle, by Francesca Del Rizzo

Il cambiamento dei costrutti personali dal punto di vista di una teoria delle implicazioni di costrutto. Dissertazione presentata a parziale completamento dei requisiti per il dottorato in filosofia nella Graduate School della Ohio State University, di Dennis Neil Hinkle, B.A., M.A.
The change of constructs from the viewpoint of a theory of construct implications. Dissertation presented in Partial Fulfillment of the Requirements for the Degree of Doctor of Philosophy in the Graduate School of The Ohio State University, by Dennis Neil Hinkle, B.A., M.A.

 

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COSTRUTTIVISMO

AIPPC 2015 SLIDER
IV Congresso Nazionale AIPPC – Psicologia e Psicoterapia Costruttivista

Disturbo Borderline di Personalità: che ruolo ha la ruminazione mentale?

L’eccessiva ruminazione mentale è ormai riconosciuta come uno dei principali responsabili dei disturbi depressivi (Caselli, Giovini, Giuri & Rebecchi, in press) e uno dei principali bersagli della psicoterapia. Recentemente alcuni autori hanno suggerito che questo stile di pensiero può essere responsabile della difficoltà nel gestire le emozioni negative tipica dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BDP). 

La ruminazione mentale è uno stile di pensiero caratterizzato dalla continua e ripetitiva analisi delle cause e delle conseguenze dei propri problemi e del proprio malessere (es: Perché mi capita? Perché reagisco sempre in questo modo).

L’eccessiva ruminazione mentale è ormai riconosciuta come uno dei principali responsabili dei disturbi depressivi (Caselli, Giovini, Giuri & Rebecchi, in press) e uno dei principali bersagli della psicoterapia. Recentemente alcuni autori hanno suggerito che questo stile di pensiero può essere responsabile della difficoltà nel gestire le emozioni negative tipica dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BDP). 

Gli individui con BDP provano emozioni negative particolarmente intense e durature e ciò può portarli a mettere in atto comportamenti disregolati e impulsivi, che vanno da aggressività verbale a comportamenti compulsivi (es: abbuffate) a gesti autolesivi.

Le teorie psicologiche suggeriscono che questi comportamenti abbiano lo scopo di eliminare la sofferenza emotiva (cercando di influenzare il comportamento degli altri o anestetizzandosi attraverso l’uso di sostanze). Tuttavia queste strategie nascondono conseguenze negative e non sempre sono efficaci.

Una recente ricerca (Selby et al., 2009) ha dimostrato che la ruminazione mentale può essere responsabile di questa rapidissima ‘cascata’ emotiva verso stati di intensa sofferenza.

In situazioni di comune disagio, la ruminazione mentale agisce come una pompa che intensifica le emozioni negative producendo uno stato di disagio talmente intenso che diventa difficile sostenerlo senza reagire in modo impulsivo.

Se questi risultati verranno confermati dalla futura ricerca, allora interventi sulla gestione del proprio stile di pensiero e sul controllo della ruminazione mentale potranno essere molto utili anche nel psicoterapia del Disturbo Borderline di Personalità.

 

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La relazione tra ruminazione, stress percepito e sintomi depressivi 

 

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Neurobiologia e aggressività reattiva e strumentale

La scienza criminologica e la psicopatologia forense pongono in questi ultimi anni sempre maggiore enfasi sullo studio del rapporto tra atto aggressivo-violento e funzionamento di determinate aree cerebrali.

In questo cotesto, Stracciari, Bianchi e Sartori (2010) notano come le funzioni psichiche riconducibili alle categorie giuridiche della capacità di intendere e di volere rispetto all’atto aggressivo-violento siano tutte in qualche modo legate alla funzionalità del lobo frontale. Più specificamente, Blair e collaboratori hanno osservato che gli psicopatici, caratterizzati da una scarsa capacità empatica, sono predisposti a forme di “aggressività strumentale” e non a quelle di tipo “reattivo” (Blair, Mitchell e Blair, 2005); una distinzione questa, da tempo accettata dalla comunità scientifica, su cui è il caso di spendere qualche parola in più.

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Nell’aggressività reattiva è un evento frustrante o minaccioso ad attivare il soggetto suscitando frequentemente rabbia. Per contro, l’aggressività strumentale è quella finalizzata a uno scopo, che in genere non riguarda la sofferenza della vittima ma, piuttosto, il dominio su quest’ultima, o l’ascesa nella gerarchia di un gruppo.

Aggressività reattiva e strumentale sembrano mediate da due differenti sistemi neurocognitivi. L’aggressività reattiva è l’esito della risposta animale a una minaccia percepita come ineludibile. Infatti, in generale, se la minaccia è modesta, l’animale risponderà col cosiddetto freezing, ossia paralizzandosi come se fosse istantaneamente congelato. Se la minaccia è più grave e pericolosa, l’animale tenterà la fuga.

A livelli estremi, quando la minaccia è imminente e la fuga impossibile, l’animale attiverà una risposta aggressiva di tipo, appunto, reattivo. Anche l’uomo può aggredire reattivamente perché percepisce uno stato di minaccia reale o perché è insufficiente la regolazione dei sistemi neuronali che mediano questa forma di aggressività.

Una terza possibilità è che la minaccia non sia reale ma sia percepita come tale, in associazione con un’iperattivazione dei sistemi neurali a base filogenetica che mediano la risposta alla minaccia percepita. Come già detto, invece, la maggior parte delle condotte antisociali (frodare, rubare, rapinare, nonché procurare lesioni o uccidere) è di carattere strumentale, e quando un soggetto le mette in atto è probabile che attivi gli stessi sistemi neurocognitivi chiamati in causa per ogni altro agire finalizzato a raggiungere uno scopo (Blair, Mitchell e Blair, 2005; Ceretti e Natali, 2009).

Per approfondire ulteriormente le differenze tra violenza reattiva/impulsiva e strumentale e i loro correlati neurobiologici occorre fare una breve digressione sulle cosiddette capacità di regolazione emotiva, limitando il campo a come questo aspetto viene analizzato nell’ambito più prettamente criminologico.

Dazzi e Madeddu (2009) riportano la fondamentale suddivisione delle capacità di regolazione emotiva in processi involontari e volontari. Nel primo caso si tratta delle risposte automatiche del soggetto agli stimoli emozionali. I processi volontari si riferiscono invece all’abilità del soggetto di utilizzare risorse percettive (come l’attenzione) e di inibire risposte comportamentali al fine di regolare comportamenti ed emozioni. È ovvio che processi involontari e volontari si integrano in una capacità regolatoria complessa: soggetti con alta reattività (quindi con bassa soglia di eccitabilità neurovegetativa) possono bilanciare questa vulnerabilità se in grado di esercitare funzioni volontarie di controllo.

Tornando ora alla distinzione tra aggressività reattiva e strumentale, è possibile affermare che il deficit delle funzioni regolatorie e di controllo emotivo rappresenti il substrato biologico dell’aggressività reattivo-impulsiva, tipico dei disturbi di personalità “esplosivi”, delle patologie da discontrollo degli impulsi episodico e di parte dei disturbi antisociali (Dazzi e Madeddu, 2009). Un deficit nell’area dell’apprendimento e della capacità di comprensione mentalistica della mente altrui sarebbe invece il substrato per l’aggressività strumentale, non reattiva, tipica della psicopatia.

I correlati neuropatologici dell’aggressività prevalentemente reattiva trovano sempre maggiore conferma nei dati di neuroimaging funzionale. Si è visto per esempio che due pazienti con danno a livello della corteccia prefrontale subìto nella prima infanzia mostravano comportamenti apertamente violenti (Anderson et al., 1999). Le regioni cerebrali compromesse in questi soggetti includevano più specificamente le aree ventrale, mediale e aspetti polari della corteccia prefrontale.

Similmente, Grafman e collaboratori (1996) hanno valutato 279 veterani della guerra del Vietnam riscontrando che il danno frontale è correlato con reazioni violente e aggressività. Anche Raine e collaboratori (2000) hanno rilevato che soggetti con personalità aggressiva impulsiva presentavano una riduzione dell’11% della sostanza grigia a livello della corteccia prefrontale. Il danno alla corteccia orbito-frontale correlerebbe quindi con l’aggressività di tipo reattivo, principalmente attraverso una disregolazione dei sistemi del tronco cerebrale, normalmente regolati dalla corteccia orbito-frontale, coinvolti nella mediazione delle risposte di base alla minaccia; questo danno quindi potenzialmente accresce il rischio di violenza reattiva alla minaccia/frustrazione. I pazienti con lesione orbito-frontale mostrano in effetti un rischio elevato di aggressività reattiva (Dazzi e Madeddu, 2009).

Così come le disfunzioni frontali hanno dimostrato la loro significatività nella disregolazione, disinibizione e inclinazione alla reattività, le disfunzioni a livello del sistema limbico, e in particolar modo dell’amigdala, hanno acquistato rilevanza come correlato neurale delle forme aggressive in cui prevale l’assenza di considerazione per l’altro o la disfunzione nella percezione della sofferenza altrui; elementi questi particolarmente chiamati in causa nell’aggressività strumentale (Dazzi e Madeddu, 2009).

A quanto pare quindi l’amigdala sarebbe chiamata in causa non solo, come è noto, nell’attivazione della paura, ma anche nel riconoscimento della paura e della sofferenza della vittima. L’ipoattivazione dell’amigdala impedirebbe quindi il controllo del comportamento basato sul riconoscimento della sofferenza dell’altro, ossia l’aggressività di tipo prevalentemente strumentale.

Non è pero forse possibile tagliare con l’accetta i correlati neurobiologici dell’atto aggressivo-violento. Sarebbe troppo semplicistico affermare che la violenza reattiva e impulsiva, una sorta di violenza “calda”, sarebbe il frutto del fattore A, e quindi del sistema neurale A1 (ipoattivazione o lesione della corteccia orbito-frontale), mentre la violenza strumentale, orientata a uno scopo, una sorta di violenza “fredda”, è il frutto del fattore B e quindi del sistema B1 (ipoattivazione o lesione dell’amigdala).

A conferma di questa necessità di avere uno sguardo più orientato al riconoscimento della complessità che al bisogno di semplificazione (anche a costo di una sincera ammissione del limite intrinseco delle ricerche), stanno alcuni studi di neuroimaging funzionale, che hanno studiato l’attivazione dei circuiti amigdalo-orbitofrontali durante l’information processing in pazienti con storia di aggressività impulsiva e reattiva, e non strumentale (Coccaro, McCloskey, Fitzgerald e Phan, 2007).

Amigdala e corteccia orbito-frontale condividono connessioni bidirezionali dirette e indirette, la cui efficienza è necessaria per la regolazione emotiva e il controllo dell’aggressività che si fonda, almeno in parte, sulla corretta decodifica del valore degli stimoli in entrata al fine di pianificare il comportamento più adeguato alla situazione.

Nei soggetti studiati l’amigdala reagiva eccessivamente in risposta alle facce rabbiose ma non ad altre espressioni emotive, mostrando che questi soggetti danno risposte aberranti in relazione a contesti minacciosi. L’iperattività amigdalica è “minaccia dipendente”, per cui l’iperarousal limbico non è generalizzato per tutti gli stimoli emotivi, a differenza di quanto avviene in altri disturbi di personalità come il borderline, nei quali si è visto che l’amigdala iper-reagisce a una varietà di espressioni facciali emozionalmente positive, negative e neutre.

Questi risultati suggeriscono che la disfunzione dell’amigdala sia da collegarsi anche all’aggressività reattiva, che si attiva in circostanze di provocazione sociale reale o percepita. Lo stesso studio ha mostrato che diverse regioni delle aree prefrontali risultavano ipo-responsive nei soggetti con aggressività reattiva. Una spiegazione possibile è che, nell’ambito del circuito orbitofronto-amigdaloideo, la corteccia orbitofrontale non veniva impegnata sufficientemente nell’interazione regolatoria con l’amigdala (sinistra), che era iperattiva nei soggetti aggressivi.

Tre tipologie di disfunzioni sono possibili: un’esagerata reattività dell’amigdala e una diminuita reattività orbitofrontale alle immagini visive che trasmettono minaccia; un’insufficiente connettività amigdalo-orbitofrontale durante un compito di riconoscimento; una correlazione diretta e positiva tra la reattività dell’amigdala ai volti rabbiosi e il grado di aggressività manifestata in passato. Nella sostanza, l’ipotesi di fondo sarebbe quindi che lo scollamento del circuito amigdala-corteccia orbitofrontale possa rappresentare il focus fisiopatologico nelle forme di aggressività e violenza di tipo reattivo (Dazzi e Madeddu, 2009).

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Psicologia dell’aggressività: genesi, fenomenologia e meccanismi scatenanti

BIBLIOGRAFIA:

Fattori predittivi di dropout in una comunità per doppia diagnosi – Psicoterapia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Personality structure predicts early dropout in patients with substance-related disorders and comorbid personality disorders

Autori: Emanueli Preti, Chiara Rottoli, Serena Dainese, Rossella Di Pierro, Fabio Rancati, Fabio Madeddu (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

 

Abstract

Questo studio si propone di indagare i fattori predittivi di un precoce dropout in pazienti con doppia diagnosi, prendendo in esame variabili socio-demografiche, diagnostiche e di struttura della personalità. Abbiamo ipotizzato che la struttura di personalità del paziente dimostrasse capacità predittive migliori rispetto alle variabili descrittive per ciò che concerne l’abbandono precoce del trattamento. A quarantasette pazienti ricoverati consecutivamente in una comunità residenziale per doppia diagnosi sono stati somministrati la Structured Interview of Personality Organization (STIPO), la Structured Clinical Interview for Axis II Disorders (SCID II), la Response Evaluation Measure 71 (REM71), la Symptom Check List 90–R (SCL90-R) e infine la Borderline Personality Disorder Check List (BPDCL). Differenze significative sono emerse tra il gruppo dropout (coloro che hanno abbandonato la comunità) e il non-dropout: problemi negli investimenti e nella corenza del sè (STIPO) erano più elevati nel gruppo dropout; nello stesso gruppo un numero significativamente alto di pazienti mostra un’organizzazione di personalità borderline (88.9%). I risultati sostengono l’uso di interviste che indagano la struttura della personalità nella valutazione di pazienti con doppia diagnosi.

English Abstract

This study aims at investigating the predictive factors of early dropout in dual diagnosis patients, considering socio-demographic, diagnostic and personality structure variables. We hypothesized that the personality structure of the patient will show better predictive properties on dropout compared with descriptive variables. Forty-seven patients consecutively admitted in a dual diagnosis residential treatment unit were administered the Structured Interview of Personality Organization (STIPO), the Structured Clinical Interview for Axis II Disorders (SCID II), the Response Evaluation Measure 71 (REM71), the Symptom Check List 90–R (SCL90-R) and the Borderline Personality Disorder Check List (BPDCL).  Significant differences emerged between the dropout and no-dropout group: investments and self-coherence problems (STIPO) were higher among dropouts; moreover, in the dropout group a significantly higher number of patients showed a borderline personality organization (88.9%). Results support the use of structural interviews in the assessment of dual diagnosis patients.

Keywords: disturbi di personalità; disturbi correlati alle sostanze; doppia diagnosi; assessment; struttura di personalità.

ALLEGATO 1ALLEGATO 2 ALLEGATO 3

 

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La doppia diagnosi nell’attività di consulenza psichiatrica – SOPSI 2014

L’ADHD e i suoi sottotipi: il contributo delle più recenti tecniche di neuroimaging

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

Lo studio, secondo gli autori, mettendo in luce la presenza di anomalie microstrutturali differenti nei sottotipi di ADHD, può dare ragione dell’eterogeneità di questo disturbo, che si riflette anche in una scarsa coerenza tra i risultati ottenuti con la DTI nelle ricerche condotte precedentemente.

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (DDAI), attention deficit/hyperactivity disorder (ADHD), è la più recente etichetta diagnostica utilizzata per descrivere bambini che presentano problemi di attenzione, impulsività e iperattività in contesti sociali anche molto diversi tra loro (a casa, a scuola, con gli amici…).

Secondo i criteri del Diagnostic and Statistical Manual Of Mental Disorders, quinta edizione (DSM V), si distinguono tre sottotipi di ADHD: disattento, iperattivo e combinato.

Il sottotipo disattento ha spesso difficoltà nel sostenere l’attenzione, nel seguire un discorso e nell’organizzare le proprie attività; spesso evita o è riluttante ad impegnarsi in compiti che richiedono uno sforzo mentale sostenuto, perde le proprie cose ed appare sbadato. Il sottotipo iperattivo-impulsivo, diagnosticato più raramente delle altre due forme cliniche, mostra difficoltà a giocare o ad impegnarsi in attività tranquille, si alza in classe o in altre situazioni dove ci si aspetta che rimanga seduto, parla eccessivamente, interrompe, risponde in modo precipitoso, è invadente e fatica a tollerare l’attesa. Il sottotipo combinato, infine, presenta entrambe le aree problematiche.

Sebbene l’ADHD sia uno dei disturbi neuropsichiatrici infantili più diffusi e studiati al mondo, la sua eziologia e patofisiologia non sono state ancora del tutto comprese, specie in riferimento ai suoi sottotipi. Una nuova frontiera nella ricerca in questo campo è rappresentata dallo studio della sostanza bianca, quel tessuto nervoso composto dai fasci di fibre che collegano tra loro le varie aree cerebrali.

Quest’area di ricerca ha ricevuto un grande impulso dopo l’avvento della Diffusion tensor imaging (DTI). Questa tecnica di neuroimmagine, sfruttando la peculiare direzionalità delle molecole d’acqua all’interno dei fasci di fibre, consente di creare immagini 3D particolarmente vivide delle connessioni cerebrali. È con questa tecnica che un gruppo di ricercatori cinesi è recentemente riuscito ad evidenziare la presenza di pattern di alterazione microstrutturale diversi nei più comuni sottotipi di ADHD, il disattento (ADHD-I) e il combinato (ADHD-C).

Nell’ADHD-I sono state riscontrate delle anomalie nei circuiti occipito-temporali, in particolare a livello del cuneo sinistro (una regione del lobo occipitale) e del giro temporale medio e superiore sinistro. Il cuneo, essendo coinvolto nella visione, potrebbe essere relato ai disturbi attentivi dei bambini esaminati. Il giro temporale medio e superiore, invece, è coinvolto nella percezione e nei processi di controllo di attenzione e azione, che infatti risultano alterati.

Nell’ADHD-C, oltre a riscontrare la presenza delle stesse anomalie evidenziate nell’ADHD-I, sono state osservate delle alterazioni a livello del precuneo, dei circuiti fronto-sottocorticali, implicati nel controllo motorio e comportamentale, nel lobo limbico e nella corteccia cingolata destra. I bambini con ADHD-C, insomma, presentano maggiori alterazioni microstrutturali, localizzate per altro in regioni cerebrali implicate nel controllo comportamentale, a livello del quale mostrano infatti più seri disturbi rispetto ai bambini con ADHD-I.

Lo studio, secondo gli autori, mettendo in luce la presenza di anomalie microstrutturali differenti nei sottotipi di ADHD, può dare ragione dell’eterogeneità di questo disturbo, che si riflette anche in una scarsa coerenza tra i risultati ottenuti con la DTI nelle ricerche condotte precedentemente.

 

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ADHD: nuove prospettive con la tecnica pomodoro & il SOBER

 

BIBLIOGRAFIA:

Pornografia online: le disfunzioni sessuali correlate

 

 

 

Il sesso dei giovani nativi digitali è sempre più multimediale. Tra chat, siti porno e immagini erotiche scambiate via tablet o cellulari, il rischio è che “la frequentazione abituale di questi spazi web allontani dal rapporto reale con altre persone, e induca precocità nell’orgasmo, autoerotismo spinto e calo del desiderio”. Ad analizzare gli effetti ‘velenosi’ del sesso virtuale sui giovani italiani di 18-20 anni è Carlo Foresta della Uoc Servizio per la patologia della riproduzione umana dell’Azienda Università-Ospedale di Padova, che ha svolto uno studio su 893 studenti delle scuole superiori di Padova e provincia.

I risultati, recentemente pubblicati sull’International Journal of Adolescent Medicin Health, sono stati descritti in un incontro per illustrare un progetto di prevenzione andrologica che coinvolgerà 30 mila studenti universitari maschi per tre anni. Secondo la ricerca “il 78% dei giovani è un fruitore abituale di siti porno, anche se l’abitudine al collegamento web – precisa Foresta all’Adnkronos Salute – varia da qualche volta al mese (29%) a più volte a settimana (63%), ogni giorno o più volte al giorno (8%), con una permanenza nei siti in media di 20-30 minuti”. I giovani intervistati dichiarano che la frequentazione di questi siti diventa spesso un’abitudine, e il 10% considera questa abitudine come una dipendenza…

Sesso in un click. Giovanissimi stregati da chat e siti porno, tra solitudine e calo del desiderioConsigliato dalla Redazione

Ad analizzare gli effetti ‘velenosi’ del sesso virtuale sui giovani italiani di 18-20 anni sono i ricercatori di Padova. Il 78% frequenta abitualmente questi spazi online (…)

Tratto da: Adnkronos

 

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Morbo di Parkinson: la stimolazione cerebrale profonda

Articolo pubblicato su Linkiesta di Martedì 21 Aprile 2015

 

 

L’invio di impulsi elettrici al cervello attraverso elettrodi impiantati – una procedura conosciuta come stimolazione cerebrale profonda – permette di alleviare i sintomi del Parkinson e di altri disturbi del movimento.

Il problema, però, è che nessuno sa esattamente perché una scossa al cervello sia tanto benefica. Uno studio pubblicato recentemente su Nature Nanoscience offre una possibile spiegazione ai benefici visti nei soggetti affetti dal morbo di Parkinson: impedisce ai neuroni di entrare troppo in sincronia. Questa scoperta, se verrà confermata da studi futuri, potrebbe portare a dispositivi più sofisticati ed efficaci in grado di monitorare l’attività cerebrale e regolare automaticamente la stimolazione cerebrale.

I neuroni sani non si attivano casualmente; esiste spesso un ritmo a bassa frequenza che determina il tempismo della loro attività, come un conduttore che detta il ritmo a un’orchestra. Un crescente numero di studi suggerisce che la sincronia giochi un ruolo in diverse attività cerebrali, dalla memoria, alla percezione, al movimento.

Alcuni ricercatori dell’Università della California, a San Francisco, guidati da Philip Starr, avevano scoperto in precedenza che, rispetto ai pazienti affetti da distonia (una forma differente di disturbi del movimento) o epilessia, questa sincronizzazione è normalmente elevata nella corteccia motoria delle persone colpite da morbo di Parkinson…

Una scossa al cervello per aiutare i malati di ParkinsonConsigliato dalla Redazione

La stimolazione cerebrale profonda potrebbe portare a un dispositivo autoregolante per trattare il morbo di Parkinson in maniera più efficace (…)

Tratto da: Linkiesta.it

 

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LEGGI L’ARTICOLO IN INGLESE (MIT Technology Review)

 


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I vissuti psicologici e psicopatologici della maternità

OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

La gravidanza e la maternità costituiscono un periodo di grandi cambiamenti per la donna e per la coppia e molteplici risultano le emozioni e i vissuti psicologici associati all’evento della nascita di un bambino.

– “Sto per diventare madre, che gioia ma che fatica!

– “Sarò una buona madre?

– “Potrò riprendere il mio lavoro e la mia vita anche quando nascerà mio figlio?

La gravidanza e la maternità costituiscono un periodo di grandi cambiamenti per la donna e per la coppia e molteplici risultano le emozioni e i vissuti psicologici associati all’evento della nascita di un bambino. La Benedek ha definito la gravidanza come un evento psicosomatico che genera modificazioni sia fisiologiche che psicologiche. La Bibring, invece, utilizza l’espressione di “crisi maturativa” e concepisce la gravidanza come un processo in cui si riattivano conflitti legati al periodo infantile e si riattualizzano processi di identificazione inconsci con la figura materna. I conflitti infantili trovano una risoluzione in questo periodo di svolta, che comporta una rielaborazione delle proprie esperienze e il raggiungimento di un maggiore livello di integrazione. Secondo la Pines (1982), le neo-mamme in questa fase del ciclo vitale ridefiniscono la propria identità femminile, rivivono il processo di separazione-individuazione dalla propria madre e sperimentano una duplice identificazione con la madre e il feto: sono allo stesso tempo figlie delle loro madri e madri dei loro figli.

La gravidanza, tuttavia, non viene vissuta da tutte le donne nello stesso modo: infatti, essa può arrivare nel momento giusto, troppo presto o troppo tardi, dopo tanti tentativi, può essere desiderata o non programmata, può avvenire senza che si abbia un partner stabile o si potrebbe essere in un Paese straniero o in difficoltà economiche. Questi fattori influenzano il proprio modo di vivere la gravidanza e le emozioni conseguenti: ad es. la donna potrebbe essere in ansia o esperire un umore deflesso se la gravidanza arriva troppo presto o se non si ha un partner stabile supportivo o se si versa in difficoltà economiche, ecc. Dunque, a seconda del proprio vissuto, possono emergere soprattutto emozioni positive di gioia e speranza o emozioni negative durature e intense di ansia o tristezza. Tuttavia, anche nelle situazioni in cui la gravidanza è desiderata ed è rappresentata positivamente nella propria mente, possono alternarsi emozioni positive e negative, gioie e ansie, speranze e delusioni.

Diverse ricerche (Raphael-Leff, 2014) hanno dimostrato che le donne durante la gravidanza sviluppano uno stile materno che influenza le aspettative, fantasie e rappresentazioni della donna gravida e la relazione tra madre e bambino. Raphael-Leff ha definito 3 stili materni: la madre “facilitante” e la madre “regolatrice”, mentre nel mezzo si colloca lo stile della “reciprocità”. La madre “facilitante” vive la maternità come un’esperienza positiva che le consente di rivivere l’unione vissuta con la madre durante l’infanzia; la donna si costruisce la propria identità di madre, accetta la gravidanza e si prepara adeguatamente al parto; dopo la nascita del bambino tende a ricercare la vicinanza del piccolo e a rimandare la ripresa dell’attività lavorativa.

Talvolta però la madre “facilitante” può idealizzare eccessivamente il bambino, negando qualsiasi forma di imperfezione; la madre “facilitante” in genere non coglie nessun difetto o problematica nella gravidanza, la vive come un’esperienza meravigliosa e a volte rischia di sacrificare completamente se stessa e la sua realizzazione personale e professionale per il bambino. La madre “regolatrice”, invece, non tollera le trasformazioni corporee, considera il feto un intruso, la gravidanza le riattiva conflitti infantili e il parto è concepito come un’esperienza negativa; tende a tornare velocemente allo svolgimento delle sue attività quotidiane e a delegare la cura del bambino ad altre figure significative. In una posizione intermedia, invece, si colloca lo stile della reciprocità: la donna è felice di aspettare un bambino, ma presenta anche rimpianti rispetto ai cambiamenti inevitabili che subiranno la sua vita professionale, personale e di coppia.

Riporto una citazione del testo “La gravidanza vista dall’interno” di Raphael-Leff emblematica per comprendere lo stile della reciprocità:

Quanto alla gravidanza  quello che ho dentro è un essere benvenuto e sono felice che ci sia. Sono io che l’ho invitato, sento che ha preso il controllo in maniera creativa, non invasiva. Il bambino non mi fa richieste irragionevoli, è una sensazione benevola. Sono sempre più legata a questa creatura che si muove dentro di me, e osservo anche come risponde alle cose. Ma non voglio fantasticare troppo, a rischio di rimanere delusa: questo bambino è una persona con le sue risposte e con una personalità, che sono sinceramente curiosa di conoscere. Non voglio introdurre le mie aspettative personali, è meglio aspettare e stare a guardare e vedere come si sviluppano queste qualità nel corso del tempo.

I cambiamenti che caratterizzano questa fase delicata della vita di una donna e della coppia sono molteplici. Innanzitutto, il primo cambiamento riguarda la propria immagine corporea e per alcune donne può essere difficile accettare l’aumento di peso, il pancione e le relative difficoltà fisiche nello svolgere le attività quotidiane che possono insorgere soprattutto negli ultimi mesi.

Dopo il parto, invece, è necessario rinunciare allo stato di gravidanza e separarsi dal bambino interno, per instaurare un rapporto affettivo con un bambino reale e non più ideale. Oltre ai cambiamenti fisici, la maternità comporta anche delle conseguenze a livello sociale e psicologico in quanto la neo-mamma si assume le responsabilità insite nel ruolo genitoriale e talvolta può essere costretta a lasciare il suo lavoro, generando delle difficoltà finanziarie nella famiglia; mentre in altri casi può temere di perdere la sua libertà e la propria identità ed è necessario riorganizzare le giornate in base alle esigenze del bambino (Schaffer, 2005). Nonostante la maternità generi questi cambiamenti, l’arrivo di un figlio può comportare anche un aumento della sicurezza personale, una maggiore realizzazione di sé e un miglioramento nelle relazioni con la propria famiglia d’origine (Schaffer, 2005).

La gravidanza comporta anche una ridefinizione del rapporto di coppia, in quanto sia a livello reale che immaginario, è necessario includere il terzo e questo tende a turbare l’equilibrio familiare (Bastianoni, Taurino, 2009). Anche il partner si trova ad affrontare un processo di adattamento che dipende dalla sua storia infantile e dal processo di identificazione con il padre. È stato dimostrato che nel corso della transizione alla genitorialità, generalmente, il grado di soddisfazione e di benessere percepito dalla coppia si riduce sebbene questo declino non interessi tutte le coppie (Belsky, Rovine, 1990).

Entrambi i genitori, in genere, si chiedono quali comportamenti e modalità relazionali che hanno appreso dalla famiglia d’origine intendono riproporre al loro figlio. La nascita di un bambino genera anche una ridefinizione del rapporto con i propri genitori in quanto l’assunzione del ruolo genitoriale porta a instaurare con la famiglia d’origine una relazione paritaria e adulta (Bramanti, 1999).

La nascita di un figlio porta entrambi i genitori a chiedersi se saranno competenti e adeguati nell’adempiere ai compiti impliciti nel ruolo genitoriale. Il costrutto di “self-efficacy” si riferisce a quanto i genitori si percepiscano capaci di rapportarsi e di comportarsi in modo adeguato col piccolo svolgendo con successo i compiti connessi al ruolo genitoriale. Se il livello di efficacia nei genitori è alto ciò li rende meno vulnerabili allo stress connesso alla genitorialità e li porta ad affrontare con più serenità anche le piccole difficoltà quotidiane. Nel complesso un alto livello di “self-efficacy” sia nella madre che nel padre è associato ad una globale soddisfazione della vita familiare (Bramanti, 1999).

Ogni futuro genitore durante l’attesa del bambino fantastica sul nascituro, su come sarà, il nome, il genere, ecc. e in questo modo entrambi i genitori cominciano a fargli spazio, non solo nell’esterno, ma anche nella propria mente e ci si prepara psicologicamente a quello che avverrà dopo il parto. Si parla in questo caso di “bambino ideale” fantasticato e atteso durante la gravidanza. Il genitore proietta tutte le sue aspettative sul bambino e lo concepisce come la realizzazione di un progetto personale e di coppia. Tuttavia, crearsi delle aspettative troppo alte rispetto al piccolo potrebbe far incorrere in future delusioni nel momento in cui questo non risponde alle proprie esigenze elevate: più alte sono le aspettative, più alta potrebbe essere la delusione e questo potrebbe generare delle difficoltà relazionali col bambino che non risponde alle proprie aspettative e un senso di fallimento personale. Anche per quanto concerne la rappresentazione del genitore si distinguono quella del “genitore ideale” e del “genitore reale”: l’idea del genitore ideale viene definita in base alle proprie esperienze, alla propria personalità e alla famiglia d’origine.

La letteratura ha evidenziato che soprattutto le primipare appaiono molto vulnerabili nel post-partum e necessitano di un adeguato supporto emotivo da parte del partner, della madre, di altri parenti e di esperti per l’accudimento del piccolo, l’allattamento e il riconoscimento dei segnali di benessere e di malessere del bambino. Il rientro a casa, l’allattamento, l’adattamento ai ritmi biologici del bambino sono i principali vissuti del puerperio. La neo-mamma può temere di fallire nel suo ruolo e questo le procura ansia e talvolta uno stato depressivo (Della Vedova e al., 2008). Per questo, è possibile che insorgano disturbi psicopatologici ai quali si presta sempre maggiore attenzione nell’ambito della prevenzione e del trattamento (Bellantuono e al., 2007). La letteratura classifica questi disturbi in 3 categorie principali: Maternity Blues, depressione post-partum e psicosi puerperale.

Il Maternity Blues rappresenta il disturbo emotivo più comune e, allo stesso tempo, più lieve e transitorio, che ricorre molto spesso nella prima settimana dopo il parto. È stata rilevata una prevalenza variabile dal 50 all’85% e questa non sembra differire tra le culture. Questo disturbo è caratterizzato dal seguente quadro sintomatologico: tendenza al pianto, irritabilità, labilità dell’umore, disturbi del sonno, tristezza. Sebbene questo disturbo sia considerato una conseguenza fisiologica del parto, nel 20% dei casi evolve in un Episodio Depressivo Maggiore nel giro di un anno (Caroti e Al., 2007).

La depressione post-partum richiede una diagnosi differenziale rispetto al Maternity Blues. L’insorgenza può avvenire anche in gravidanza: nel sesto mese, la depressione colpisce approssimativamente il 10% delle donne di età compresa tra i 25 e i 44 anni (Cooper, Murray, 1998). I sintomi più frequenti sono: tristezza, sentimenti di colpa o di autosvalutazione eccessivi o inappropriati, difficoltà di concentrazione, alterazioni del sonno e dell’appetito, astenia. In molti casi, i sintomi d’ansia possono associarsi per comorbidità a sintomi depressivi. L’esordio della depressione è previsto entro i primi 3 mesi dal parto e la durata media è di alcuni mesi. Le cause sono molteplici; i sintomi si possono ricondurre a fattori di tipo ormonale o di natura emotiva: il cambiamento fisico e della concezione di sé, la sensazione di perdita della libertà e della propria identità. Ad essi si aggiungono fattori pratici, tra cui l’alterazione del ritmo sonno-veglia a causa dell’allattamento e variabili psicosociali, quali una relazione insoddisfacente con il partner, la mancanza di supporto sociale, difficoltà economiche, ecc. Ad essi si aggiungono anche alcuni fattori neonatali del bambino tra cui il temperamento e fattori ostetrici e perinatali.

La psicosi puerperale è il disturbo psichiatrico più grave e raro. I sintomi caratteristici sono: deliri, allucinazioni, brusche oscillazioni dell’umore, disturbi del comportamento. La madre manifesta un rifiuto totale del piccolo e per la maggior parte del giorno appare triste ed apatica, tanto da non dedicarsi neanche alla cura del sé. Spesso compaiono idee paranoidi di persecuzione e si rileva un alto rischio di suicidio e di infanticidio.

Questi disturbi hanno delle conseguenze sia a breve che a lungo termine anche sul bambino e sulla relazione di attaccamento tra madre e bambino. Da questo, si comprende, quanto sia fondamentale una precoce individuazione dei sintomi per evitare che il disturbo si aggravi e per poter intervenire tempestivamente.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Benedek, T.F. (1956). Toward the biology of the depressive constellation. Journal of the American Psychoanalytic Association, 4 , 389-427.
  • Bibring, G.L. (1959). Some considerations of the psychological processes in pregnancy. The psychoanalytic study of the child, 14, 113-121.
  • Pines, D. (1982). The relevance of early psychic development in pregnancy and abortion. International Journal of Psychoanalysis, 63, 311-320.
  • Raphael-Leff, J. (2014). La gravidanza vista dall’interno. Astrolabio: Roma.
  • Schaffer, H.R. (2005). Psicologia dello sviluppo. Raffaello Cortina: Milano.
  • Bastianoni, P., Taurino, A. (2009). Famiglie e genitorialità oggi: nuovi significati e prospettive. Unicopli: Milano.
  • Belsky, J., Rovine, M. (1990). Patterns of marital change across the transition to parenthood: pregnancy to three years postpartum. Journal of Marriage and the Family, 52, 5-19.
  • Bramanti, D. (1999). Coniugalità e genitorialità: i legami familiari nella società complessa: Atti del Primo Seminario Internazionale del Redif. Milano: Vita e pensiero.
  • Della Vedova, A.M., Cabrassi, F., Ducceschi, B., Cena, L., Lojacono, A., Vitali, E., De Franceschi, L., Guana, M., Bianchi, U.A., Imbasciati, A. (2008). Parto e puerperio: i vissuti delle donne in un’ottica di ricerca multidisciplinare. Syrio online. Retrieved August, 2008
  • Bellantuono, C., Migliarese, G., Maggioni, F., Imperatore, G. (2007). L’impiego dei farmaci antidepressivi nel puerperio. Recenti progressi in medicina, 98 (1), 29-42. DOWNLOAD
  • Caroti, E., Fonzi, L., Bersani, G. (2007). Modelli neurobiologici nei disturbi dell’umore post-partum. Rivista di psichiatria, 42 (6), 366-376. DOWNLOAD
  • Cooper, P.J., Murray, L. (1998). Postnatal depression. Clinical Review, 316, 1884-1886.

Terza età: sedentarietà e Tv sempre accesa

La terza età è sicuramente concepita come un’involuzione, ma bisogna ricordare che la vecchiaia potrebbe farsi sentire più tardi del previsto se la sfera fisica e quella sociale restassero, per quanto più possibile, attive.

Il tempo passa per tutti, le situazioni evolvono e gli anni scorrono. C’è chi avverte questa situazione in modo evidente e sofferto; c’è chi si adegua allo scorrere del tempo con naturalezza e tranquillità; c’è poi chi non se ne accorge nemmeno e quindi constata l’andare avanti degli anni con indifferenza e come un qualcosa di ovvio. Ma il risultato è sempre lo stesso: si sta invecchiando.

Sicuramente lo scorrere della vita è il naturale processo della nostra esistenza, ma è inevitabile constatare che l’invecchiare, e quindi il raggiungere la cosiddetta “terza età”, porta con sé ovvie conseguenze. È un dato di fatto che le persone anziane vanno incontro ad una perdita di energia sia fisica che psicologica. In merito alle conseguenze fisiche potrebbero insorgere una diminuzione della massa muscolare, una ridotta efficienza delle funzioni respiratoria e cardiovascolare, deficit della vista e dell’udito e problemi di sovrappeso. Senza dimenticare gli assai frequenti problemi di deambulazione. Tali problematiche fisiologiche comportano delle conseguenze psicologiche, tra cui scarsa autostima, demotivazione, disinteresse, apatia e pigrizia. Volendo utilizzare un unico termine, la vecchiaia molto spesso è sinonimo di “sedentarietà” (Tammaro, 2012).

Una buona parte della popolazione anziana a seguito del pensionamento ha una vita ancora dinamica e attiva; si esce per delle passeggiate, per riunirsi nei circoli, per giocare a carte o a bocce, oppure per frequentare le consuete lezioni all'”Università dell’età libera”. Tutto questo è positivo, non solo perché fa sì che la vita sociale resti attiva anche in tarda età, ma anche al  fine di un’adeguata promozione alla salute.

Ma è purtroppo ben risaputo che la maggior parte degli anziani di oggi trascorre gran parte del loro tempo tra le quattro mura domestiche. Ciò è sicuramente rapportabile alla solitudine, brutta piaga con la quale molto spesso si trovano a fare i conti le persone anziane. Infatti non è da tralasciare che la vecchiaia, e la conseguente  scarsa efficienza e apatia, porta con sé una ristrettezza delle relazioni sociali e una noia difficile da sormontare. È proprio per questo motivo che l’anziano, per passare il suo tempo senza affaticarsi troppo, trascorre le sue giornate al telefono, leggendo libri o giornali e soprattutto guardando la tv.

Ebbene sì! È sicuramente un dato di fatto che la televisione è considerata una “compagnia”. La facilità unica di premere un pulsante per poter udire delle voci è senz’altro una rassicurazione e un potente rimedio contro la solitudine in età senile, al punto tale che diventa sempre più frequente entrare nelle case dei “meno giovani” e trovarla sempre accesa. Non bisogna assolutamente dimenticare che la televisione possiede l’utilissima funzione di tenerci aggiornati su ciò che accade fuori delle mura domestiche e naturalmente ciò è fondamentale per tutti quegli anziani che trascorrono pochissimo tempo fuori casa.

Ma è pur vero che per tenersi informati sulle notizie di cronaca, politica, economia, attualità o quant’altro basterebbe non oltre un’ora di tv accesa al giorno, mentre invece in terza età il tempo trascorso seduti con il telecomando in mano è nettamente superiore a quello necessario, al punto tale che si potrebbe parlare quasi di un “abuso” della televisione. Ad aggravare questa situazione vi è la nuova tecnologia, i canali digitali e l’ampia varietà di programmi televisivi venutisi a creare negli ultimi anni. Ciò non ha fatto altro che incrementare il tempo trascorso dagli anziani davanti la tv, rendendoli contenti di questo e riducendo conseguentemente le loro uscite e la loro voglia di fare movimento.

Non è inoltre da tralasciare il fatto che le innumerevoli ore trascorse di fronte allo schermo televisivo coinvolgono le persone molto più di quanto si possa immaginare. È per questo che non c’è da stupirsi se, anche quando la tv è spenta, i pensionati di oggi continuino tra loro a parlare di ciò che hanno visto al piccolo schermo, rendendo le loro conversazioni povere e monotone e correndo anche il rischio di credere che tutto ciò che la televisione trasmetta sia vero, e quindi non informarsi affatto su ciò che invece accade nel mondo reale.

Come si potrebbe ovviare questo problema? Molti anziani, pensionati e non, hanno la fortuna di essere nonni, e quindi trascorrono un’ampia parte del loro tempo in compagnia dei loro nipoti; una compagnia “vera” e che gli permette di sentirsi utili e accolti, che gli consente di uscire e di vivere in armonia con se stessi, cosa che invece non permette la compagnia “virtuale” della tv. È però opportuno tenere presente che non tutti hanno dei nipoti e ad ogni modo anche questi ultimi crescono; quindi il mestiere di “nonno” è comunque a tempo determinato e frequentemente tende ad evolversi in un lavoro più sedentario.

Sicuramente un ottimo rimedio contro le cattive abitudini della sedentarietà in età senile è lo svolgere un’idonea attività motoria. Nell’ultimo periodo le attività sportive e gli esercizi riabilitativi rivolti agli anziani hanno subìto una grande evoluzione. Ciò è da considerarsi un grande progresso, in quanto è stato dimostrato che l’attività fisica riduce il rischio di malattie cardiovascolari e, di conseguenza, aumenta la  longevità (Scortegagna, 1996).

E non solo! Mantenersi attivi previene lo svilupparsi di patologia degenerative, quali la demenza senile o l’Alzheimer. E con “mantenersi attivi” non bisogna intendere solo le attività che coinvolgono una motricità fisica, anche perché molti soggetti di terza età soffrono di problemi di deambulazione, e ciò li impedisce di praticare attività motoria. Ma è da tener presente che vi sono altre attività costruttive e stimolanti: un esempio celebre è rappresentato dal fare i cruciverba. Ciò comporta un impegno nel mantenere attiva la concentrazione e nell’utilizzare la memoria, è ciò ovviamente contrasta le cattive abitudine sedentarie a cui sono abituati sovente gli anziani di oggi (Paganini Hill e all. 2015).

La televisione rappresenta sicuramente una compagnia e un passatempo, ma non bisogna mai dimenticare che, come qualsiasi altra cosa, va utilizzata con moderazione. Un abuso della tv rende la vita monotona; la noia non fa altro che aumentare anziché diminuire come ci si aspettava. La terza età è sicuramente concepita come un’involuzione, ma bisogna ricordare che la vecchiaia potrebbe farsi sentire più tardi del previsto se la sfera fisica e quella sociale restassero, per quanto più possibile, attive.

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