Una scelta imperfetta non è una scelta sbagliata (e anche se fosse?)
La società odierna pare essere ossessionata dalla scelta perfetta in ogni ambito: il partner, l’abito, il ristorante, il lavoro, lo sport, il cellulare, lo scatto migliore. In un mondo in cui tutto è potenzialmente accessibile, la ricerca spasmodica della perfezione risulta essere un processo estremamente dispendioso e controproducente, ciò che accade è infatti che ci si incastri in una vetrina di centinaia di opportunità analizzandone meticolosamente pro e contro e investendo una quantità significativamente problematica di tempo ed energie.
Ipotizzando l’acquisto di un nuovo cellulare, ad esempio, un tempo si usava raggiungere il negozio di elettronica più vicino per poter scegliere il dispositivo che si preferiva; oggi invece abbiamo maggior scelta, nel mondo reale (centri commerciali) e nel mondo virtuale (negozi online), e abbiamo accesso così a una gamma indefinitamente ampia di opzioni. Ciò potrebbe costituire un beneficio, per coloro che sanno fermarsi a una scelta sufficientemente soddisfacente, e una fonte di stress per chi crede di dover valutare ogni possibilità per poter ottenere l’offerta perfetta, rimuginando e dedicando tempo che avrebbe invece potuto investire in attività piacevoli e rilassanti. Tale tendenza è sostenuta dall’illusione che il controllo possa garantire felicità e stabilità; si dà infatti per scontato che questo sia un processo funzionale in termini di benessere psicologico e qualità di vita, senza considerare che non sempre la scelta perfetta può essere individuata a priori e che, soprattutto, i costi psicologici del perfezionismo possono avere un impatto negativo maggiore di quelli che può avere una decisione di serie B.
È necessario sottolineare che il rimuginio che si accompagna spesso al perfezionismo patologico differisce da una sana riflessione razionale, per via della sua natura astratta, irrazionale e ansiogena. Il rimuginio costituisce quindi una risposta cognitiva disfunzionale a uno stimolo che genera ansia (come la ricerca di un nuovo cellulare) ed è sostenuto dalla credenza erronea che pensare ripetutamente e ossessivamente a un problema aiuti a risolverlo, in questo caso scegliendo l’opzione migliore (Caselli et al., 2017). Questo processo, oltre ad aumentare l’ansia e toglierci del tempo prezioso, ci priva del privilegio di osservarci sopravvivere più che dignitosamente alle conseguenze di un errore e, soprattutto, di constatare che una scelta imperfetta non è necessariamente sbagliata e che, anche se lo fosse, il mondo non crollerebbe.
Se mi accontento sono più felice? Scopriamo di più sul decision making
Ebbene sì, da recenti studi sul tema del decision making, è emerso che accontentarsi può rendere più felici. Accontentarsi davanti a una decisione significa scegliere l’opzione che incontra di più le nostre esigenze; trovare quindi un compromesso con le nostre aspettative e farci andare bene ciò che più le soddisfa.
Barry Schwartz, autore del libro “The Paradox of Choice: Why More Is Less” sostiene che una scelta “buona abbastanza” ci permetta di vivere più serenamente i momenti di decisione e del pentimento se la scelta fatta è sbagliata.
Cercare sempre l’alternativa migliore costa energia, fatica e felicità: si perde tempo in una lunga ricerca, esaminando tantissime opzioni diverse e rimuginando prima di sceglierne una.
Si pensa che avere più opzioni sia vantaggioso, ma in realtà questa vastissima disponibilità di risorse ci vincola a un continuo confronto tra esse e non ci rende più liberi nella scelta.
I cosiddetti maximizers (cioè, coloro che cercano l’opzione migliore) hanno questa tendenza a informarsi e fare ricerca prima di prendere una qualsiasi decisione, da quale TV acquistare a quale offerta di lavoro accettare. Tuttavia, proprio questa infinita ricerca dell’opzione migliore, potrebbe spesso portarli a scarsi risultati, lasciando un forte senso di frustrazione e insoddisfazione.
Chi si accontenta della scelta più soddisfacente invece (i cosiddetti satisfiers), oltre a ridurre notevolmente i tempi, confronta molte meno opzioni e informazioni. Non si va all’inseguimento della perfezione, ma di quello che più fa per noi.
Quindi, è più efficace cercare l’opzione migliore o accontentarsi?
Il concetto che emerge è che i maximizers, di solito, tendono a fare meglio, ma si sentono peggio, mentre chi si accontenta vive meglio.
Questo non vuole suggerire di scegliere sempre i compromessi, ma di cercare di bilanciare tra i due modi di prendere decisioni, cercando di viverle al meglio.
Consigli per un decision making più efficiente
Alcune decisioni valgono la pena di spendere tempo e risorse per meditarle.
La maggior parte delle decisioni che siamo chiamati a prendere nella nostra quotidianità, tuttavia, sono in realtà molto meno importanti. Per fortuna, esistono alcune strategie che ci possono aiutare a ridurre il tempo e le forze che dedichiamo a questi dilemmi.
Barry Schwartz, psicologo esperto di decision making e professore presso la sede di Berkeley della University of California, consiglia due strategie in particolare: rischiare e individuare cosa è davvero importante per noi. Schwartz spiega infatti che vedere una decisione come reversibile riduce il lavoro di ponderazione da fare a monte. Inoltre, individuare alcune aree in cui è necessario per noi prendere decisioni più meditate è una buona pratica. Non è necessario essere satisfiers per ogni decisione da prendere, si può anche essere maximizers a patto che non avvenga per tutte le decisioni.
Secondo Valerie Reyna, professoressa presso la Cornell University, si può ridurre il numero di decisioni da prendere automatizzando alcune parti della giornata. Reyna usa l’esempio dell’attività fisica: “Al posto di chiedersi se fare attività fisica o meno ogni mattina, si può decidere di uscire a correre di mattina solo nei giorni lavorativi”.
Secondo la stessa studiosa, avere una buona intuizione è più importante di analizzare ogni dettaglio di un problema nello specifico e conduce spesso a decisioni migliori (Brainerd & Reyna, 2001).
Infine, Thea Gallagher, psicologa clinica e professoressa associata presso il NYU Langone Health, suggerisce di porre dei limiti al proprio decision making, ad esempio concedendosi solo 15 minuti per trovare un nuovo paio di cuffie online o utilizzando solo siti dei quali ci si fida.