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La terapia metacognitiva di Wells: pregi e considerazioni critiche

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 10 Ago. 2011

Aggiornato il 03 Mag. 2012 12:06

wells

Si pensa di conoscere bene, di aver veramente compreso qualcosa: una persona, una teoria o una terapia. E invece non è così. Un giorno ci si rende conto che si è fatta conoscenza solo di un aspetto introduttivo, di una sala di rappresentanza, mentre invece nel tinello ci aspettano sorprese.

La terapia e teoria metacognitiva di Adrian Wells (2009) si presentano come una riforma moderata del modello cognitivo standard. Si parla di credenze, sia pure metacognitive. C’è un questionario autosomministrato, il Metacognition Questionnaire, che valuta contenuti cognitivi. Per la precisione metacognitivi. E quindi si conclude che Wells effettivamente rimane nel campo cognitivo standard, che si tratta di un tipo da seconda ondata e mezzo.

Poi però si inizia a studiare a fondo il suo modello, che lui chiama un po’ pomposamente il Self-Regulatory Executive Function (S-REF). Si inizia studiare la sua ipotesi di processo psicopatologico, il cognitive attentional sindrome (CAS). E infine si iniziano a studiare attentamente le sue tecniche terapeutiche, e si comprende che siamo in presenza di un modello massicciamente neo-comportamentale e processuale di terza ondata che col vecchio cognitivismo standard ha poco a che fare. E così improvvisamente ci si rende conto che con quei colleghi wellsiani con cui credevi di condividere un linguaggio finora hai spesso intrattenuto conversazioni comicamente ricche di equivoci. Intendiamoci: non è che non ci si è capiti per niente, ma meno di quel che si credeva.

Il modello S-REF di Wells descrive la mente secondo tre livelli. Siamo quindi già fuori dal modello profondamente unitario della mente e della terapia di quello che io chiamerei il “computazionalismo clinico semplificato” di Ellis e Beck. Come si sa, in quel modello la mente è omogenea e gli stati mentali sono controllabili in maniera abbastanza efficiente dalla elaborazione consapevole cosciente.

Già per questo lo S-REF appartiene pienamente ai modelli cognitivi di terza ondata, che tendono a sostituire questo modello unitario con teorie multilivello, in cui l’elaborazione cosciente influenza e in qualche modo regola gli stati mentali complessi. Attenzione: regola si, ma malamente. Nel senso che si tratta di un’azione regolativa non solo poco efficiente, ma che a volte addirittura disregola e finisce per inquinare e gettare sabbia negli ingranaggi dell’elaborazione non cosciente (o non online, per usare un termine alla moda).

Nel modello S-REF di Wells ci sono tre livelli: 1) primo livello, in cui sono presenti processi cognitivi rapidi e irriflessi, che si sviluppano abbastanza caoticamente tutti assieme (in gergo tecnico: sono disposti in parallelo), che producono valutazioni emotive globali confuse e genericamente negative o positive, o a un livello leggermente più sofisticato paura, rabbia, gioia e poco altro, processi che quindi si dicono metaforicamente “down” ovvero di basso livello, che “poppano” pensieri intrusivi in automatico al livello cosciente o in altri casi meno intrusivi e automatici si presentano in forma di stati emotivi, cioè percezioni vivide immediatamente legate all’azione (action readiness) e proceduralmente confuse e opache (il soggetto non sa bene perché ha una certa emozione: sa di aver paura ma non sa sempre ed esattamente bene di che ha paura); 2) secondo livello, ovvero elaborazione cosciente online con i pensieri disposti uno dopo l’altro e con un certo ordine logico (insomma, in gergo tecnico sono disposti sequenzialmente), un’elaborazione trasparente e dettagliata (il soggetto sa abbastanza bene perché pensa una certa cosa); 3) terzo livello, conoscenza depositata nella memoria a lungo termine per lo più in forma meta-cognitiva.

Finora questo modello S-REF mi era parso inutilmente complesso (e perciò pomposo e prolisso) rispetto a una terapia cognitiva delle metacredenze che mi pareva molto più semplice. Troppe chiacchiere per una terapia cognitiva che mi pareva rimanere al fondo beckiana: credenze disfunzionali, critica e ristrutturazione. Unica novità, qui si trattava di metacredenze.

Non era così. La complessità del modello generava il tratto originale di Wells, che è questa. L’originalità di Wells -che lo rende abbastanza diverso da altri riformatori (come per esempio Young)- è che per lui il problema non è affatto la  minore controllabilità del livello emotivo basso, ma nei livelli superiori e soprattutto nel livello metacognitivo depositato nella memoria e lungo termine. Le credenze metacognitive, infatti, per Wells svolgono una funzione utile solo se usate con parsimonia, anzi con estrema parsimonia. Se si esagera, invece di regolare disregolano perché finiscono per accentuare in maniera eccessiva e dannosa l’attività consapevole online. Per Wells l’attività consapevole online è utile -o meglio è funzionale- solo se usata con semplicità, pragmaticità e parsimoniosa prudenza. Se si esagera (e basta poco per esagerare) sui finisce nello stato disfunzionale e patologico cosiddetto del rimuginio (tipico degli stati ansiosi) o della ruminazione (tipico degli stati depressivi).

Rimuginio e ruminazione una volta stabiliti tendono a rigenerarsi spontaneamente, in quanto che il paziente spontaneamente tenta di gestirli “pensando”, cioè moltiplicando l’attività di pensiero consapevole online. Ma per Wells questo è strutturalmente patologico, perché l’attività online è utile solo se usata con parsimonia, forse perfino con avarizia. Esagerando si creano loop disfunzionali: appunto rimuginio e ruminazione.

Quindi per Wells gli “emotional disorders” non sono “emotional” e la sofferenza emotiva in realtà non è mai emotiva ma sempre ruminativa e metacognitiva.

Fin qui sembrerebbe esserci un certo livello di compatibilità con il cognitivismo standard. In Wells troviamo cose che in qualche modo somigliano ai circoli viziosi autorigeneranti e alle credenze patologiche. Ma in realtà non è così. Per Wells il problema non è solo nelle credenze come per Beck, ma nel processo disfunzionale stesso che generano. Per questo Wells parla di cognitive attentional sindrome (CAS). Per Wells la sofferenza emotiva di tipo depressivo e ansiosa è generata da un errore non tanto di credenze, ma di stile cognitivo. Un eccesso di attenzione e di uso del pensiero consapevole. Il problema non è tanto la credenza negativa, ma lo star lì a infinitamente ribadirsela in testa. Insomma, il rimuginio come processo e non come credenza. Questa differenza parziale nel modello teorico diventa poi abissale nel modello terapeutico.

Infatti la terapia metacognitiva di Wells, fedele ai propri presupposti, concorda col paziente un lavoro cognitivo ancora una volta parsimonioso e limitato alle sole metacognizioni, Le cognizioni beckiane del modello standard su di sè, il mondo e gli altri sono considerate del tutto ininfluenti, e si limitano ad essere il contenuto neutro del processo disfunzionale generato dall’eccesso di attività consapevole online e dalle metacognizioni depositate nella memoria a lungo termine (che così diventano le uniche credenze davvero attive; tutte le altre sono dei fantocci vuoti).

Ma perché per Wells questo lavoro terapeutico sulle (meta) credenze deve essere necessariamente parsimonioso? La risposta è semplice e credo che i lettori ci siano già arrivati da soli. Infatti, essendo l’analisi critica delle (meta) credenze fondamentalmente un lavoro di consapevolezza online, esso rischia di diventare facilmente a sua volta un ennesimo rimuginare insensato. Esso quindi va limitato a quel minimo indispensabile per iniziare a far capire al paziente che pensare bene significa pensare poco, anzi pochissimo. Se invece per capire questo ci mettiamo troppo tempo, impiegando troppe energie mentali (e terapeutiche, se siamo in seduta) ecco che abbiamo già iniziato a pensare troppo, cioè a rimuginare e/o a ruminare.

E in cosa consiste questo lavoro parsimonioso? Qui Wells è costretto in parte a contraddirsi ricorrendo all’armamentario del vecchio Beck. Il lavoro è quello classico di questioning e challenging. Il terapeuta esorta il paziente a non dare per scontate ma ad attivamente dimostrare le sue credenze metacognitive, che per semplicità qui riduco a due (ma non sono molte di più): che il rimuginio/ruminazione è utile (credenza positiva) e che il rimuginio (ruminazione è incontrollabile (credenza negativa).

Ma per Wells, lo ripeto, Il challenging beckiano va eseguito in stile minimale, non più dello stretto indispensabile. Basta sfidare il paziente a dimostrarci che effettivamente lui non può fare altro che rimuginare (vale qui la regola d’oro di Beck: non sono io che devo dimostrare al paziente che la sua credenza a sbagliata, deve essere lui che mi dimostra che è giusta). Non di più. Una volta che il paziente non riesce a dimostrarci che effettivamente lui non passa tutto il suo tempo a rimuginare e basta, si passa a una fase pienamente neocomportamentale (e quindi di terza ondata), cioè di un “comportamentismo mentale” in cui i pensieri non sono più concepiti come pensieri dotati di scopi e portatori di credenze, ma puri eventi mentali privi di senso, da desemantizzare e con i quali esercitarci a non averli!

Il ventaglio di tecniche proposte di Wells è abbastanza ampio, anche se non so quanto originale dato che non sono di formazione comportamentale. Si parla di “worry/rumination postponement” (decidere col paziente un tempo fisso quotidiano per rimuginare), “attention training tecqnique” (un elenco di tecniche di gestione dell’attenzione molto interessante per un non comportamentista come me, anche se non saprei come proporla a freddo al paziente; è lo stesso problema che ho con la mindfulnes, non ci riesco proprio a dire al paziente di punto in bianco “e adesso meditiamo!”); una forma di mindfulness chiamata “detached mindfulness” (non c’è spazio per descriverla qui, basti dire che mi pare mirata a pensare non rimuginativamente); “situational attention refocusing” (anche questo lo descriverei in un altro post); “targeting meta-emotions” (argomento che devo approfondire; comunque per ora basti dire che le meta-emozioni sembrano essere ancora una volta l’esito emotivo dell’uso eccessivo e disfunzionale delle metacognizioni, il passaggio circolare dalla conoscenza depositata in memoria al livello di base inconsapevole); “developing new plans for processing” (in pratica una gestione non metacognitiva degli stati di sofferenza, in cui l’elaborazione metacognitiva disfunzionale e mantenuta al minimo e non volizionalmente accentuata verso il disastro).

Insomma la terapia di Wells consiste in due passi: critica minimalista (e poco rimuginativa) delle metacognizioni e addestramento neo-comportamntale alla gestione metacognitivamente parsimoniosa delle metacognizioni stesse. Gestione quindi in in qualche modo “accettante” alla Hayes, anche se Wells è abbastanza diffidente verso la ACT di Hayes.

Una considerazione critica: la concentrazione estrema di Wells sulla metacognizione produce un modello terapeutico particolarmente distaccato e anemotivo, per non dire anaffettivo. Il totale disinteresse verso le cognizioni verso sé, gli altri e il mondo del paziente accentua all’estremo la tendenza alla gestione pragmatica delle emozioni tipica della terapia cognitiva (una nota personale: mi ha sempre colpito come la terapia cognitiva combini uno stile accogliente e rassicurante con  na modalità di gestione in fondo anaffettiva delle emozioni).

In tal modo il mondo personale del paziente può essere totalmente trascurato e la declinazione soggettiva delle credenze può essere del tutto non esplorata. Lo so, qui si parla di quei famigerati significati personali cari alla corrente costruttivista e che non a tutti piacciono, ovvero quelle formulazioni per cui il paziente ci dice che la paura di rimanere bloccato in ascensore è anche la paura di essere abbandonato in un luogo soffocante e senza persone che lo rassicurino. Ne riparleremo in un altro post. Per ora basti dire che qui forse è il punto di massima divaricazione con il modello di Hayes: nel mondo privo di significati di Wells i “valori” alla Hayes non hanno senso.

Questo tratto anaffettivo e quasi desertico (un mondo senza significati, ripeto) della terapia metacognitiva di Wells porta alla stupefacente dichiarazione (sempre di Wells) che questa terapia sarebbe eseguibile in un numero di sedute ancora minore del famigerato numero di 12 sedute che costituisce il totem del trattamento cognitivo (e il bersaglio delle ironie di terapeuti di altro orientamento). Wells parla addirittura di 6-8 sedute. Dopo aver letto il suo modello comprendo bene che un simile trattamento iper-formalizzato, che propone al paziente uno stringente addestramento (quasi a rotta di collo, però)  ad attutire il più possibile la tendenza a rimuginare metacognitivamente è possibile.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi: possibile con chi? Con pazienti selezionati? Magari in trial psicoterapeutici eseguiti in università da giovani ricercatori ammaestrati a somministrare questa terapia a quei pazienti selezionati, cioè che resistono e non mollano in seconda terza seduta? Per carità, c’è del giusto e del buono in tutto questo, soprattutto rispetto al terapeuta medio che invece tende a proporre troppe volte solo se stesso, la sua esperienza e -peggio- le sue idiosincrasie come metodo.

Insomma, qui però si esagera dall’altra parte (ma forse questo oscillare tra opposte esagerazioni è un inevitabile destino umano).

Naturalmente a questo punto sarebbe corretto studiare a fondo la letteratura dei trial della terapia di Wells, letteratura abbondante e sicuramente rigorosa. Ma qui il problema non è certo Wells. I limiti di questi trial trascendono il lavoro di Wells. Ci si può quindi chiedere, in attesa di andare a pazientemente controllare i dati forniti da Wells, quanti drop-out si subiscano nei trial psicoterapeutici organizzati per la terapia metacognitiva. Ci si può chiedere come siano gestiti questi drop-out, cosa si raccontino nelle riunioni cliniche i membri dello staff. Stupefacenti indici di efficacia spesso riposano su troppo ampi bacini di utenza tra i quali sono stati pescati i non troppi pazienti davvero adatti alle terapie proposte (gli studi più onesti riportano queste cifre e non sono incoraggianti). A volte ho visto in questi studi di efficacia che -è vero- la maggioranza dei pazienti che hanno finito il trattamento è migliorata significativamente, ma -è altrettanto vero- che solo una minoranza di quelli che hanno iniziato hanno poi finito. Ho voglia di rispondere: e ci mancava pure che quelli che hanno finito poi non stessero meglio!

Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York: Guilford Press.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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