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Evitare di evitare: il senso di non appartenenza nel disturbo evitante

I soggetti con Disturbo Evitante di Personalità spesso evitano ogni tipo di contatto sociale perchè troppo sensibili al rifiuto e al giudizio altrui.

Di Maria Obbedio

Pubblicato il 27 Set. 2019

La caratteristica peculiare dei soggetti con Disturbo Evitante di Personalità è l’estrema sensibilità al rifiuto. Queste persone evitano ogni tipo di contatto sociale non perché lo desiderino, ma perché temono di essere respinti. Il comportamento di evitamento nasce infatti come strategia di padroneggiamento dell’esperienza di impaccio al contatto con gli altri.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

 Ognuno di noi è inserito in un contesto sociale e fa parte di diversi gruppi di riferimento da quando nasce a quando diventa anziano. L’appartenenza è un concetto sociologico che implica una relazione tra l’individuo e le persone che lo circondano. L’uomo, in quanto animale sociale, da quando nasce entra a far parte della prima comunità sociale: la famiglia;  essa rappresenta il primo palcoscenico nel quale sperimentare e sperimentarsi, instaurare relazioni e in cui coltivare le abilità sociali, rappresentazioni di sé e dell’altro.

G. Gaber scriveva:

L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme. Non è il conforto di un normale voler bene. L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé.

Il Disturbo Evitante di Personalità

Il Disturbo Evitante di Personalità è caratterizzato da un pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo. Tale disturbo è anche caratterizzato da un comportamento stabile di evitamento verso le relazioni e le situazioni in cui la persona può essere sottoposta a valutazione da parte degli altri. Il comportamento evitante spesso inizia nella prima infanzia con timidezza, isolamento, timore degli estranei e delle situazioni nuove. Anche se la timidezza è un precursore comune del disturbo, nella maggior parte degli individui tende a scomparire gradualmente con la crescita. Al contrario, gli individui che sviluppano il disturbo evitante di personalità possono diventare progressivamente più timidi con l’adolescenza e l’età adulta, quando le relazioni sociali assumono via via importanza maggiore.

Criteri clinici (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition [DSM-5])

Per una diagnosi di Disturbo di Personalità Evitante, i pazienti devono presentare un pattern persistente di evitamento del contatto sociale, sentimenti di inadeguatezza e un’ipersensibilità alle critiche e al rifiuto, come mostrato da 4 o più dei seguenti modi:

  • Evitamento delle attività legate al lavoro che implicano il contatto interpersonale perché temono di essere criticati o rifiutati o che la gente possa disapprovarli.
  • Mancanza di volontà di essere coinvolti con le persone a meno che non siano sicuri di essere graditi.
  • Riserva nelle relazioni strette perché temono la derisione o l’umiliazione.
  • Preoccupazione di essere criticati o rifiutati nelle situazioni sociali.
  • Inibizione in nuove situazioni sociali, perché si sentono inadeguati.
  • Una visione di sé come socialmente incapace, poco attraente, o inferiore agli altri.
  • Riluttanza nel correre rischi personali o nel partecipare a qualsiasi nuova attività perché possono essere umiliati.

Inoltre, i sintomi devono avere inizio nella prima età adulta.

Il primo ad utilizzare la definizione “personalità evitante” è stato Theodore Millon (1969). Millon differenzia il Disturbo Evitante dal Disturbo Schizoide di personalità, in quanto sostiene che – nonostante entrambi siano caratterizzati dalla mancanza o scarsezza di relazioni – mentre nel primo vi è un forte desiderio di rapporti intimi, nel secondo la mancanza di intimità è vissuta come egosintonica. Secondo Millon, dunque, mentre lo schizoide non ha relazioni significative in quanto non è interessato agli altri, il ritiro dell’evitante è dovuto alla contrapposizione tra desiderio di relazioni sociali e timore del rifiuto e del giudizio negativo. Dunque, egli concettualizza la problematica dello schizoide come “deficit” e quella dell’evitante come “conflitto”.

La caratteristica peculiare dei soggetti con questo disturbo è, quindi, l’estrema sensibilità al rifiuto. Queste persone evitano ogni tipo di contatto sociale non perché lo desiderino, ma perché temono di essere respinti. Il rapporto sociale viene intrapreso solo quando questi soggetti sono certi e sicuri di ricevere un’accettazione totale da parte dell’altro. Essi hanno difficoltà a confidarsi, a parlare in pubblico o intraprendere conversazioni o esperienze che li condurrebbero al centro dell’attenzione. L’ansia e la paura fanno da sfondo alle attività quotidiane di queste persone. Ogni occasione sociale è fonte di angoscia, viene vissuta con forte ansia perché potrebbe essere causa di umiliazione, rifiuto. Tali soggetti si sentono inadeguati e vivono in maniera amplificata qualunque situazione esca dalla routine quotidiana. Si potrebbe dire che il motto intrinseco di questo disturbo sia “se mi ritiro, nulla mi farà del male”.

Il comportamento di evitamento nasce come strategia di padroneggiamento dell’esperienza di impaccio al contatto con gli altri.  La distanza che il paziente frappone tra sé e gli altri è solo un ingranaggio di un più sottile circolo vizioso che il paziente stesso crea: “se mi estraneo, non annoierò gli altri, non mi sentirò inadeguato” e ciò diventa una sorta di profezia che si autoavvera che genera nell’altro una risposta di allontanamento. L’evitante appare come avvolto nella nebbia, inaccessibile, diverso. Sebbene visto dall’esterno possa sembrare il contrario, i soggetti con questo disturbo nutrono un grande desiderio di vicinanza: il desiderio che nutrono viene vissuto davvero come un conflitto che causa ben presto sofferenza.

Nel Disturbo Evitante di Personalità è centrale la sensazione di non appartenere all’altro e di non riuscire a condividere. La mente dell’evitante è opaca e fa fatica a percepire i propri stati mentali e le emozioni. Nella concettualizzazione di Beck e collaboratori (1990) l’evitante ha un’idea di sé come inetto, indesiderabile, inadeguato, privo di alcun valore, e mette in atto una costante autocritica. Inoltre, sviluppa un problema secondario, in quanto critica il proprio comportamento evitante, accusandosi di essere pigro e passivo. Gli altri, al contrario, sono generalmente percepiti come superiori e giustamente rifiutanti e critici. Infatti, il soggetto evitante crede di meritare il rifiuto a causa della scarsa fiducia e stima in sé stesso. Partendo da tali concezioni di sé e degli altri, i soggetti con Disturbo Evitante tendono a distorcere l’interpretazione del comportamento altrui, leggendo anche le reazioni neutrali come negative e interpretando qualunque azione dell’altro come messa in atto in funzione propria. La solitudine causata dal prolungato evitamento, assieme alla costante autocritica, conducono ad uno stato emotivo fondamentalmente depresso, interrotto soltanto da fugaci fantasie riguardanti il futuro, caratterizzate dalla risoluzione completa e senza alcuno sforzo personale dei propri problemi (Beck et al., 1990).

Appartenenza e condivisione

Il senso di condivisione/appartenenza si basa sulla percezione di avere dei contenuti mentali (come interessi, credenze, valori o affetti) in comune con un’altra persona (condivisione) o con un gruppo di persone (appartenenza) ed è il frutto di molteplici operazioni metacognitive (Dimaggio, Procacci & Semerari, 1999). Infatti, il soggetto deve, in primo luogo, essere in grado di rappresentarsi sia il proprio che l’altrui scenario mentale ed in secondo luogo avere la capacità di porli a confronto, in modo tale da poter riconoscere ciò che vi è in comune. Una disfunzione metacognitiva in un solo punto del processo è sufficiente a compromettere l’esito finale, portando il soggetto a sperimentare un senso di diversità, estraneità e distacco nei confronti degli altri. Nel Disturbo Evitante, chiaramente deficitarie sono le abilità di decentramento, ovvero di comprensione della mente altrui. Gli altri sono quindi rappresentati unicamente come giudicanti e rifiutanti, in quanto il soggetto trasforma automaticamente i propri timori nei contenuti mentali altrui.

Il Disturbo Evitante non è il solo a sperimentare questa diversità: anche il Disturbo di Personalità Narcisista condivide la medesima situazione. Le emozioni associate al senso di non appartenenza sono differenti nei due disturbi considerati: mentre il narcisista vive prevalentemente con soddisfazione la sua diversità, intesa come superiorità (o alternativamente con distacco, quando si trova in uno stato mentale di vuoto ed anestesia emotiva), l’evitante prova disagio e vergogna per la sua diversità, letta come inferiorità. Dunque, per il narcisista si potrà parlare di “orgoglio” del non appartenere, mentre per l’evitante di “dolore” del non appartenere. Tuttavia, anche il narcisista, quando si trova nello stato depresso/terrifico, può sentirsi diverso in quanto rifiutato ed espulso dal gruppo; in tal caso, il senso della propria diversità e non appartenenza si accompagna ad emozioni intensamente negative. Differente è anche l’influenza dello stato di non appartenenza sul comportamento: l’evitante reagirà mettendo in atto strategie di evitamento delle situazioni sociali, mentre il narcisista manifesterà distacco e superiorità.

Il Disturbo Evitante ha quindi carenze a livello metacognitivo, fatica a decentrarsi rimanendo schiavo del suo stesso circolo vizioso. Affinché vi sia condivisione, però, le capacità metacognitive rappresentano un fattore necessario ma non sufficiente. Oltre ai deficit metacognitivi, infatti, contribuiscono alla strutturazione del sentimento di non appartenenza la presenza di credenze specifiche su di sé e sugli altri (generalmente sviluppatesi nei primi anni di vita dell’individuo) e la carenza di abilità sociali. Un esempio di tali credenze, tipica dei soggetti evitanti, è l’aspettativa di essere rifiutato dagli altri, aspettativa che, inibendo le relazioni sociali, ostacola anche lo sviluppo delle abilità metacognitive e sociali, innescando un pericoloso circolo vizioso.

Oltre al senso di diversità, la non appartenenza comporta anche la sensazione di essere particolarmente visibili e osservati (e dunque giudicabili), sensazione anch’essa tipica del disturbo evitante, che intensifica l’ansia sociale dell’individuo. Inoltre, il senso di non appartenenza è fortemente legato all’autostima in una relazione bidirezionale. Infatti, chi si ritiene inadeguato ed inferiore difficilmente sviluppa un forte senso di condivisione e appartenenza e viceversa la sensazione di non appartenenza è una grave minaccia per l’autostima. Nelle relazioni sociali la difficoltà ad abbandonare una posizione egocentrica porta il soggetto a vivere le relazioni a metà, ovvero ad essere diffidente e a temerle. Il soggetto evitante non vive le relazioni come qualcosa di minaccioso o pericoloso in quanto potrebbero esservi intenzioni nascoste, ma sperimenta un vuoto. La sensazione di vuoto è comune ad altri disturbi di personalità, è presente ad esempio nel Disturbo Borderline, ma in questo caso il soggetto sperimenta un vuoto relazionale e profondo che non riesce a descrivere, ma che traduce con un senso di estraneità, con pensieri “non mi capisci” . Il sentirsi diverso, nutre la convinzione di essere solo. Il soggetto è come se costruisse un muro, tra sé e gli altri, che lo porta ad essere solo in mezzo agli altri. L’altra faccia della medaglia della solitudine per un evitante è il sollievo, perché “se non mi espongo sono al sicuro”, sono salvo; sensazione questa momentanea perché sebbene protegge in maniera illusoria il soggetto dall’altro lo porta ad esporsi alla solitudine, all’autoavveramento delle sue credenze e alla possibilità di scenari depressivi.

Il senso di non appartenenza è solo uno degli stati mentali in cui il soggetto evitante transita. Le emozioni che accompagnano questi soggetti sono anch’esse molteplici. Sebbene il soggetto possa apparire fermo, “statico”, in realtà essi sono dei grandi osservatori,  ma non interpreti della loro vita.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Beck, A.T., & Freeman, A. (1990). Cognitive therapy of personality disorders. New York: Guilford.
  • Dimaggio, G., Procacci, M., & Semerari, A. (1999). Deficit di condivisone e di appartenenza. In: A. Semerari (a cura di), Psicoterapia cognitiva del paziente grave, pp. 231-279. Milano: Raffaello Cortina.
  • Dimaggio, G., Semerari, A. (2003). I Disturbi di Personalità Modelli e trattamento. Stati mentali metarappresentazione, cicli interpersonali. Editori Laterza
  • Millon, T. (1969). Modern psychopathology: a biosocial approach to maladaptive learning and functioning. Philadelphia; WB Saunders.
  • Aquilar, S. (2012). Le relazioni tra disturbo evitante e disturbo narcisistico di personalità: specularità, similarità e possibili dimensioni condivise (HERE).
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