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Dialogo sul lavoro e la felicità (2021) di Paolo Iacci e Umberto Galimberti – Recensione

Ci si può svegliare ogni mattina e essere felici di andare a lavoro? Può portare anche benessere emotivo? Su ciò riflette 'Dialogo sul lavoro e la felicità'

Di Iris Gargano

Pubblicato il 26 Gen. 2022

Il libro Dialogo sul lavoro e la felicità tratta la complessità del mondo del lavoro oggi, chiedendo se possa essere uno strumento di realizzazione della propria identità, oltre che un mezzo di sopravvivenza.

 

Oggi viviamo in mondo basato sul mito del successo e dove solo il possesso di denaro è basilare per consentire una vita felice. Non sappiamo più cosa sia giusto o sbagliato, cosa ci rende felici o infelici, sappiamo solo ciò che è utile e ciò che ci fa guadagnare.

É possibile svegliarsi ogni mattina ed essere felici di andare a lavoro? Come può il lavoro essere fonte di benessere non solo economico, ma anche emotivo? E soprattutto, quando abbiamo smesso di chiederci cosa ci rende davvero felici, cosa favorisce la realizzazione del nostro sé più autentico?

Non aspettatevi misteri finalmente risolti o risposte semplicistiche. Questi interrogativi nel dialogo tra Galimberti e Iacci partono da un’analisi più filosofica della conoscenza che l’uomo deve avere di se stesso per raggiungere la felicità (intesa come scopo della vita), fino ad indagare le logiche del mercato su cui si fonda la società contemporanea e la conseguente perdita di senso generale cui assistiamo oggi, a partire dai più giovani. Perché se esiste una certezza, è che per inseguire il mito del successo e del denaro, stiamo dimenticando di chiederci cosa ci appassiona veramente, cosa ci piace fare, ci stiamo dimenticando di fare l’unica cosa che può dare un senso alla nostra vita, cioè esprimere noi stessi. Il senso della vita risiede in quello che siamo, che abbiamo fatto e che stiamo facendo. Galimberti e Iacci non pretendono di avere la verità in tasca, ma di indurre una riflessione profonda, attraverso uno scambio quanto mai stimolante, illuminante, provocatorio, educativo.

Oggi manca lo scopo, affermano le due menti. Un numero sempre più elevato di giovani si domanda perché dovrebbe investire energie ed impegnarsi se già sa che con grandi difficoltà potrà raggiungere stabilità economica; perché studiare se non si hanno speranze di trovare un lavoro che possa essere fonte di soddisfazione. Può il lavoro effettivamente essere la leva di sviluppo dei propri talenti, di realizzazione della propria identità e non solo un mezzo di sopravvivenza, più o meno agiata? In una società in cui siamo abituati a misurare il nostro valore a suon di like vi è l’urgenza di educare alla sensibilità, ai sentimenti, ad una visione della vita fatta tutt’altro che di sicurezze. E questo a partire dalle agenzie primarie: la famiglia e la scuola. Ai bambini bisogna dire la verità, spiegare che nella vita non tutto è garantito e che non ci sarà per sempre il genitore a risolvere i problemi; un’adeguata educazione emotiva ridurrebbe, forse, questa sperimentazione di angoscia e insignificanza nei giovani. La scuola, dal canto suo, non dovrebbe formare “futuri diplomati parcheggiati all’università”, ma insegnare che i libri, i contenuti, servono per imparare a pensare, a sviluppare l’abilità del pensiero critico per andare oltre ai significati evidenti delle cose; ad avere delle idee proprie, a non diventare vittime di un sistema o di ritmi imposti dall’esterno. E infine, c’è bisogno di educazione ai sentimenti anche nelle organizzazioni, poiché il talento è una fonte da cui sgorga acqua sempre nuova. Ma questa fonte perde ogni valore se non se ne fa il giusto uso, scrive Wittgeinstein.

Una vita all’insaputa di chi siamo veramente non è degna di essere vissuta.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Galimberti, U. & Iacci P., (2021) Dialogo sul lavoro e la felicità. Egea.
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