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La resilienza: un modello rideterminativo

La resilienza ci permette di riorganizzare la nostra vita malgrado le difficoltà o, piuttosto, in ragione di esse.

Di Roberto Cicinelli

Pubblicato il 16 Ott. 2023

Definizione di Resilienza

In questi ultimi anni siamo stati chiamati ad affrontare situazioni che ritenevamo appartenere definitivamente al nostro passato: una pandemia che ci ha restituito la percezione della nostra fragilità e dell’immanenza della morte esponendoci al pericolo del contagio di ancestrale memoria e la guerra in Europa che ha mandato in frantumi l’idea confortante di una pax occidentale che sembrava essersi definitivamente consolidata dal 1945 ad oggi.

Queste situazioni di crisi ci hanno visto reagire in modo più o meno efficace, ma l’impatto sulla sfera psicologica delle persone è stato certamente significativo, basti valutare i dati sul disagio mentale, forniti dall’ OMS (2022) che indicano come la pandemia abbia determinato un significativo aumento dei sintomi ansiosi e depressivi, circa il 25% in più rispetto al periodo precedente ,con conseguente consumo di ansiolitici e antidepressivi, in ragione del 10% in più, che raggiunge il 30% se consideriamo anche l’aumento di dosaggio.

Parimenti rilevanti sono i dati inerenti l’insorgenza del PTDS, disturbo post traumatico da stress (APA, 2013), determinato dalle esperienze connesse direttamente alla malattia quali ricoveri o morte di congiunti o conoscenti (Carmassi et al., 2020)

Questo ci porta ad interrogarci su quale possa essere il modo più funzionale per rispondere a queste situazioni: il termine utilizzato in psicologia è la resilienza, termine introdotto da Jack Block nel 1980 per indicare la capacità di un individuo di affrontare con successo un evento molto stressante o traumatico cercando di rimodellare il proprio stile di vita in termini positivi o comunque più adattivi.

Non si tratta quindi di resistere stoicamente subendo passivamente l’evento negativo quanto piuttosto di riorganizzare la propria vita malgrado le difficoltà o piuttosto in ragione di esse. Le persone resilienti sono quelle che in circostanze oggettivamente difficili, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà imprimendo un nuovo impulso alla propria esistenza.

Questa caratteristica non riveste carattere di eccezionalità, al contrario, gli studi sulla resilienza psicologica degli ultimi decenni hanno evidenziato il suo carattere di normalità. Tale cambio di prospettiva è stato in parte connesso alle scoperte in ambito neuro scientifico che hanno dimostrato come, grazie alla plasticità neuronale, il cervello umano abbia una straordinaria capacità di fronteggiare efficacemente molti eventi stressanti (Rakic 1985). 

Per quanto la resilienza sia una caratteristica potenzialmente presente in tutti gli esseri umani, la probabilità di sviluppare una risposta resiliente è correlata alla presenza di alcuni fattori di matrice individuale e ambientale, cosa che renderebbe ragione dei diversi livelli di resilienza esibiti dalle persone davanti a difficoltà significative.

L’ipotesi di base del modello di resilienza proposto riprende il modello compensatorio di Zimmerman del 2004, che sostiene come le caratteristiche individuali e le risorse ambientali contrastino l’azione negativa delle esperienze stressanti.

Tale concetto era già stato delineato da Bandura nel 1997 con il termine self-efficacy e definito come quell’insieme di convinzioni che la persona possiede riguardo alle proprie capacità di organizzare ed eseguire le azioni necessarie al raggiungimento dei propri scopi.

Dal livello di self-efficacy che una persona possiede derivano la modalità di reazione alle difficoltà della vita , l’entità dello sforzo e la capacità di perseverare di fronte agli ostacoli e alle esperienze di fallimento e conseguentemente la quantità di stress e di depressione vissuta. 

La resilienza personale deve quindi essere intesa come un insieme di processi attivi protratti nel tempo. Più che una risposta immediata o una modalità di adattamento all’insorgenza di una crisi, la resilienza implica l’azione complessa di più processi interattivi; dal modo in cui l’individuo affronta una situazione problematica, alla sua capacità di gestire stati transitori di disorganizzazione personale, fino all’utilizzo delle strategie di coping più adattate nell’immediato e nel lungo periodo.

La Resilienza: una capacità fondamentale

Prima di procedere ulteriormente è opportuno chiarire un punto fondamentale: perché mai i problemi personali sono inevitabili? 

A questa domanda si può rispondere con tutta una serie di ragioni; tuttavia mi limiterò a citare le due più importanti. Innanzitutto in quanto esseri umani noi tutti abbiamo sin dalla nascita la capacità di provare dolore e infelicità. Questa potrà non sembrare una grande scoperta, tuttavia ha importanti implicazioni per l’argomento che stiamo trattando. 

Vi siete mai chiesti perché abbiamo la capacità di provare dolore e altre spiacevoli sensazioni? Ciò sarà dovuto a un capriccioso errore nel cammino dell’evoluzione? Perché mai non è possibile vivere la nostra vita felici e beati, invece di dover lottare per superare ogni giorno problemi e inaspettate tragedie?

Per quanto strano possa sembrare, la capacità di provare dolore e disagio costituisce un importante elemento di adattamento.

È proprio la nostra capacità a provare dolore, infatti, che ci consente di capire come sottrarci alle situazioni pericolose. Un bambino incapace di provare sensazioni dolorose si troverebbe in permanenza ostacolato nell’apprendere, e avrebbe ben poche probabilità di sopravvivere senza sviluppare una consapevolezza delle minacce presenti nell’ambiente. 

In altre parole, siamo dotati di un sistema nervoso che utilizza il dolore come segnale di pericolo, come stimolo di adattamento. Chi di noi ha superato l’infanzia ha imparato a evitare gli oggetti appuntiti, l’acqua profonda, i luoghi elevati, il fuoco e così via. In realtà abbiamo imparato a prevedere i pericoli di ogni sorta, a stare sul chi vive di fronte a situazioni minacciose.

Questa capacità è utile quando queste situazioni si presentano in gran numero; il problema è che spesso sopravvalutiamo la possibilità o l’intensità di una minaccia al nostro benessere.

Per sopravvivere dobbiamo essere sì capaci di sensazioni, ma anche di sviluppare adeguate competenze che ci consentano di bilanciare i vantaggi e gli svantaggi che una data situazione ci arreca, valutandoli in un contesto temporale che ricomprenda il nostro futuro possibile.

La seconda ragione risiede invece al di fuori della persona: ed è che il mondo che ci circonda è in continuo mutamento. L’adattamento non è affatto qualcosa di statico, per il quale ci si confronta col mondo e ci si piega alle sue esigenze. Queste esigenze, infatti, variano col tempo, e la persona che vuole adattarsi deve essere pronta a cambiare con esse. Pensate per un momento ai molti disagi che incontriamo comunemente dopo la maturità; ad esempio: andare all’università; iniziare un lavoro; sposarsi; traslocare; mettere al mondo e allevare dei figli; subire un incidente; far fronte alla perdita di un caro amico o di una persona amata e molto altro ancora. 

La nostra esistenza di ogni giorno è piena di molte tensioni, grandi e piccole, che possono subire variazioni col tempo. Ciò che tutto questo intende sottolineare, naturalmente, è che il cambiamento è inevitabile e spesso causa di tensioni. Persino un cambiamento positivo è un’esperienza che sottopone a tensione. Una promozione sul lavoro, un matrimonio, un figlio da tempo desiderato possono essere cambiamenti benvenuti, ma l’affrontarli si traduce spesso in disagi per la persona, tali da porre nuove richieste alle sue risorse. 

Un terzo punto sul quale è opportuno porre l’accento è l’affermazione che il risolvere i problemi personali richiede sforzi e capacità. Tuttavia questi sforzi e queste capacità non vanno al di là delle nostre possibilità, e non occorre esser dotati di un’intelligenza o di una forza di volontà fuori dell’ordinario per poterle ottenere.

I principi per lenire la maggior parte dei problemi personali sono una aumentata consapevolezza , una profonda valutazione ed accettazione di se stessi e del mondo accompagnata alla capacità di agire per ottenere i risultati desiderati attraverso una ristrutturazione degli abituali stili di pensiero che consenta una lettura più realistica del mondo esterno e del proprio comportamento consentendo il cambiamento dei processi di autoregolazione emotivi.

Dobbiamo quindi considerare che, benché l’ipotesi di base dalla quale partiamo è che i problemi personali sono qualcosa di inevitabile e quindi nessuno può sfuggirvi totalmente l’approccio che proponiamo confida nella capacità potenziale delle persone di ridurre la propria vulnerabilità e di promuovere la resilienza, tale approccio esorta le persone a credere nelle proprie capacità e pone l’attenzione sulla ineluttabilità del cambiamento come processo autopoietico di riorganizzazione delle proprie esperienze che può avvenire in modo consapevole e può essere almeno in parte guidato o re indirizzato dall’individuo. Ciascuno di noi può inoltre imparare nuove competenze ed abilità che lo aiuteranno a minimizzare la minaccia che certi eventi portano alla nostra possibilità di vivere un’esistenza piena e soddisfacente.

Gli strumenti resilienti

In antitesi quindi a un modello clinico centrato sul deficit, l’approccio orientato alla resilienza fa riferimento alle risorse e alle potenzialità individuali per affrontare le difficoltà.

Un evento critico può perturbare l’equilibrio personale di una persona e può indurre un cambiamento importante nel sistema di credenze cosa che a sua volta genererà delle conseguenze in termini di una riorganizzazione nei processi di adattamento. Le avversità possono quindi generare inizialmente una crisi di significato e una potenziale disorganizzazione del Sé ma anche spingere l’individuo ad adottare strategie più efficaci ed a sviluppare una ristrutturazione degli schemi cognitivi intesi come capacità di adattamento autoregolato, di auto trasformazione delle proprie caratteristiche strutturali allo scopo di conservare la propria organizzazione, rivelando che una crisi può risultare un punto di svolta positivo e che gli eventi negativi della nostra vita non sempre ci danneggiano nel lungo periodo.

Allora l’interrogativo rilevante diviene il seguente: quali sono le risorse in grado di promuovere la stabilità e la salute in condizioni di perturbazione e cambiamento. 

Abbiamo già indicato alcuni fattori individuali che si rivelano utili per moderare l’effetto degli eventi traumatici; diversi studi hanno identificato ulteriori caratteristiche utili a produrre una risposta resiliente indicate come le life skills: l’insieme cioè di competenze cognitive emotive e relazionali che includono la stima di sé, la consapevolezza delle proprie capacità, una buona dose di flessibilità cognitiva, la facilità all’adattamento, la predisposizione ad una visione tendenzialmente ottimista.

La psicologa americana Suzanne Kobasa (1979) ha introdotto il termine hardiness per definire le caratteristiche psicologiche presenti nelle persone con buone capacità resilienti che sono riconducibili a tre principi ricorrenti:

  1. la sensazione da parte della persona di poter esercitare un controllo sugli eventi; 
  2. la tendenza ad impegnarsi concretamente nelle attività di vita quotidiane; 
  3. la predisposizione a leggere i cambiamenti inaspettati come un’opportunità piuttosto che come un problema

L’aspetto significativo a mio avviso risiede nell’aver evidenziato che uno degli elementi più importanti nell’individuo resiliente consiste nella capacità di attuare una corretta analisi degli eventi stressanti, spostando l’attenzione non tanto sull’evento stesso quanto piuttosto sull’attribuzione di significato operata: uno stesso avvenimento potrà essere percepito come minaccioso, benigno o insignificante a seconda dell’impatto che stimiamo avrà sulla nostra vita. 

È evidente quindi che il valore “oggettivo” di un evento problematico può venire ridimensionato anche in modo significativo in ragione della valutazione complessiva che ne faremo che risulterà fortemente influenzata dall’insieme delle nostre convinzioni riguardo alla soggettiva filosofia cognitiva adottata ed all’insieme di capacità funzionali che ci riconosciamo.

Il ribaltamento attuato è determinante in quanto sposta tutto il significante non tanto sull’evento in sé, quanto piuttosto sulla interpretazione che la persona è in grado di elaborare relativamente all’evento stesso. In tal modo l’individuo si riappropria della sua centralità sottraendosi ad una visione deterministica che lo condannerebbe ad essere un elemento passivo in balia di una presunta realtà “oggettiva”; che di fatto non esiste.

Questo modello interpretativo ovviamente può essere specularmente attuato anche in senso negativo, indicando cioè come spesso siamo noi stessi che contribuiamo a creare o ad alimentare i nostri problemi adottando aspettative e pretese del tutto irrealistiche. 

In altre parole, spesso noi pensiamo o agiamo in modo da aggravare i nostri problemi che si determinano dal modo in cui vorremmo che le cose fossero in violazione del principio di realtà; paradossalmente non riusciamo ad accettare che le cose siano esattamente come sono, rifiutando l’irrifiutabile e cioè che la realtà si sia già configurata in quel modo.

In genere la nostra prima opzione è che sia la situazione a dover cambiare per adattarsi alle nostre aspettative, riproponendo uno schema di pensiero magico infantile, ma appare più realistico che siamo noi a dover cambiare le nostre aspettative per conformarle alla situazione data; la cruda realtà è che il mondo in genere non si cura molto dei nostri desideri.

Appare quindi evidente perché le varie persone reagiscono in modo diverso alla stessa situazione, in quanto percepiscono le cose in modo diverso, attribuiscono differenti significati agli avvenimenti e rispondono con azioni che sono in parte influenzate dai modi di affrontare le sfide della vita che hanno appreso ; ed alcuni di noi hanno imparato ad affrontarle in modo più efficace di altri. Però, e questa è forse la cosa più importante, voglio sottolineare il fatto che il nostro modo di percepire le cose e di affrontarle può essere cambiato. Noi non siamo affatto un coacervo di tratti immutabili e immodificabili, che ci portano inesorabilmente ad avere la pressione alta, ad essere obesi, depressi e così via. Per quanto alcuni cambiamenti possano richiedere del tempo e spesso notevole impegno, noi tutti abbiamo la capacità di migliorare i nostri modelli di vita.

Poiché le cause di un problema sono situazioni, schemi di comportamento e modelli di pensiero, non deve sorprendere che le soluzioni efficaci siano quelle che non tentino soltanto di modificare gli eventi, possibilità che, come abbiamo detto, spesso non è perseguibile, ma che intervengono direttamente sulle cause che determinano una lettura disfunzionale e cioè sugli schemi cognitivi adottati dall’individuo.

Per ottenere tali risultati dobbiamo muoverci su due livelli di intervento che, assumendo un modello rappresentativo dell’individuo interconnesso e complesso sono ovviamente profondamente interdipendenti.

Un primo livello più intelligibile da un’ottica cognitiva classica è quello che pone l’attenzione sulle numerose modalità processuali che vengono utilizzate durante la selezione e l’elaborazione dell’informazione, quelle che Beck nel 1972 ha definito “distorsioni cognitive”: il pensiero dicotomico, l’astrazione selettiva, l’inferenza arbitraria ecc.

È ormai noto che gli esseri umani sono portati a ragionare più per euristiche e schemi irrazionali che secondo la logica, ad avere convinzioni disfunzionali e a formarsi una visione del mondo contraddittoria, andando incontro a sofferenze e comportamenti assurdi, secondo la dicotomia funzionale/disfunzionale, che sostituisce quella classica normalità/patologia. 

La caratteristica di questi pensieri è che non nascono da una riflessione o da un ragionamento, vengono dati “per buoni” senza un’effettiva messa in discussione da parte della persona, che tende ad accettarli e ad utilizzarli nella propria vita in modo acritico.

Le regole che una persona utilizza per elaborare i dati di realtà sono spesso distorte o irrealistiche, cosicché le conclusioni che ne vengono tratte sono considerate così ovvie e scontate da essere assunte come vere spingendo molto raramente l’individuo a sottoporle ad una verifica di validità.

Gli errori procedurali portano l’individuo a definire una propria filosofia di vita, una struttura cognitiva personale riassumibile in alcune regole tacite indicate da Kelly (1955) come i costrutti di base, da Ellis (1962) come le idee disfunzionali e da Guidano (1987) come le Organizzazioni di significato personale; comunque siano state concettualizzate tali modalità mantengono un comune elemento: determinano sempre una chiusura organizzazionale, ecco perchè l’elaborazione delle informazioni, malgrado la quantità e la variabilità delle esperienze possibili assuma sempre caratteristiche stereotipate.

Le credenze sono le lenti attraverso cui osserviamo il mondo mentre viviamo e influenzano quello che vediamo e rappresentano il nucleo essenziale di ciò che siamo della nostra comprensione del mondo e del significato che attribuiamo alla nostra esperienza in questo modo esse finiscono per definire la nostra realtà.

Le credenze primarie sono essenziali per definire l’identità individuale e le strategie di coping e si declinano in precetti che rappresentano modelli di linguaggio sincretico che modula regole tacite più organizzate e strutturate rendendo evidente che la consapevolezza non abbraccia tutte le regole che utilizziamo.

La consapevolezza è resiliente

Appare dunque necessario rileggere il processo elaborativo alla luce delle recenti affermazioni sviluppatesi nel campo delle neuroscienze riguardo alla conoscenza tacita. 

Il concetto di processamento analogico è stato chiaramente concettualizzato da Paivio negli anni 80 con la teoria della doppia codifica che prevede come l’informazione dopo essere stata raccolta dal sistema sensoriale sia assoggettata preliminarmente ad una fase elaborativa che dipende da una complessa interconnessione tra percezione, schemi anticipatori, attivazioni delle configurazioni di riferimento mnestiche, per poi essere immagazzinata in uno dei due sistemi specializzati preposti; le informazioni processate o processabili mediante il linguaggio, vengono immagazzinate verbalmente nel sistema analitico dove si utilizzano i ragionamenti astratti, sequenziali, finalizzati; qui il processamento è condizionato dall’analisi logico-formale e quindi risulta essere molto più preciso,ma proprio per questo più lento e più dispendioso da un punto di vista di economia psichica

Diversamente le informazioni non verbali sono utilizzate del sistema analogico dove prevale la sintesi e quindi le concezioni olistiche, le gestalt: è questo il mondo delle immagini dei sapori dei suoni. L’elaborazione dominante è quella tacita o come viene chiamata da Singer (1966) elaborazione primaria.

Nell’evoluzione umana l’elaborazione tacita è indubbiamente il livello di conoscenza che appare per primo durante lo sviluppo individuale: ovvero la percezione immediata di sé e della realtà, dalla scarsa capacità di verbalizzazione e da una ridotta astrazione concettuale. In questa fase mancano quindi tutte le caratteristiche mentali superiori e più sofisticate, mentre troviamo in embrione tutte le componenti delle future distorsioni cognitive: la visione dicotomica, la generalizzazione arbitraria, le varie tipologie di doverizzazioni, una visione assolutistica delle cose e del mondo ecc.; qui il paradigma dominante è la velocità non certo l’accuratezza elaborativa.

Ciò detto, assumendo che i processi taciti esercitino un ruolo cruciale nell’organizzare l’ordine e la regolarità delle nostre esperienze ne consegue che le emozioni in generale hanno un ruolo primario nel processo di conoscenza. 

Le sensazioni e le emozioni rappresentano senza dubbio il primo sistema conoscitivo autorganizzato atto a strutturare un insieme di regolarità ambientali dalle quali diventa possibile ricavare un margine di previsione nei confronti del mondo esterno, in grado di favorire un adattamento efficace.

In questa ottica la primarietà delle emozioni nello sviluppo della conoscenza risulta evidente anche dal punto di vista ontogenetico. Fin dalle prime fasi di sviluppo, quando cioè non è ancora possibile identificare qualcosa che assomigli a una capacità cognitiva, seppure rudimentale, i bambini già posseggono le qualità primarie delle sensazioni e la capacità di manifestarle attraverso schemi espressivi motori. 

D’altra parte tutte le sensazioni di base sono processi, che per loro natura tendono ad essere globali e diffusi, e come tali non facilmente decodificabili e controllabili.

Nel corso dello sviluppo individuale viene progressivamente a stabilirsi una relazione dinamica e complementare tra i due livelli di conoscenza. Grazie a questa complementarietà le regole tacite che forniscono all’individuo gli aspetti invarianti della sua percezione del mondo e di sé, possono subire un continuo processo di ristrutturazione cosciente come risultato dell’assimilazione incessante dell’esperienza.

I due livelli non vanno però considerati come le polarità di un continuum, ma piuttosto come due dimensioni tendenzialmente indipendenti legate da una costante e profonda interazione reciproca.

Questo potrebbe spiegare ad esempio perché le euristiche possono essere applicate a sé stessi e non agli altri o viceversa ed anche come possano convivere tranquillamente nell’individuo due o più convinzioni che sono in evidente contraddizione tra loro dato che derivano da due interpretazioni diverse dello stesso evento conseguenti dall’applicazione dei due sistemi di conoscenza. 

Quindi un processo percettivo-valutativo inizia con le considerazioni consapevoli intenzionali che noi facciamo riguardo ad una data situazione che vengono espresse con immagini mentali organizzate in un processo di pensiero; esse riguardano una miriade di aspetti della nostra relazione con quell’evento, riflessioni sulla situazione presente, sulle conseguenze che può avere per noi o per gli altri, insomma una complessa valutazione cognitiva consapevole.

Alcune delle immagini mentali che vengono evocate sono verbali (parole o frasi riguardanti attributi e significati) altre non sono verbali e vengono assemblate in una serie di immagini in cui sono incluse sia le caratteristiche percettive delle situazioni sia gli schemi motori, espressivi ed emotivi, sia le regole tacite che forniscono all’individuo gli aspetti invarianti con i quali interpreta ed elabora i significati che caratterizzano soggettivamente tali situazioni. 

Appare evidente quindi come l’immagine del Sé consapevole consista in un insieme limitato di modelli di se stessi e del mondo in quanto priva del livello tacito dell’elaborazione e parimenti rende ragione della miriade di differenti aspetti in continuo mutamento e spesso in contraddizione tra loro che concorrono ad una definizione del Sé come una articolazione di sottosistemi piuttosto che come un’unità coesa.

L’obiettivo di una rappresentazione complessa ma coerente del Sé, capace di inglobare tutti gli aspetti che compongono i sotto sistemi, risulta essere la chiave per sviluppare un modello più efficace che possa recuperare le risorse necessarie per migliorare realisticamente il concetto di autostima concorrendo a sviluppare capacità di risposte adattative più articolate e funzionali e quindi più resilienti.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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