I professionisti della salute mentale della Seconda guerra mondiale sono stati i pionieri della ricerca inerente alla capacità umana di adattarsi con competenza a circostanze o eventi avversi della vita: la resilienza (Masten & Cicchetti, 2016).
Piuttosto che concentrarsi strettamente sulle caratteristiche proprie dell’individuo che contribuiscono al processo di resilienza, le spiegazioni socio-ecologiche definiscono la resilienza come un processo co-facilitato dagli individui e dagli ambienti all’interno dei quali essi nascono e si sviluppano (Ungar, 2011).
L’attenzione sulle complessità della resilienza ha elicitato nuove domande di ricerca e nuove implicazioni per la pratica clinica, come: “Quali fattori o processi promozionali e protettivi sono rilevanti? Per quali persone, in quali contesti?” (Ungar, 2019).
In effetti, appare necessaria una maggiore comprensione di ciò che potrebbe proteggere le persone dalla malattia mentale, in un mondo in cui almeno un adulto su cinque manifesta un disturbo mentale (Steel et al., 2014) e in cui un numero considerevole di bambini viene colpito in maniera affine (Polanczyk et al., 2015)
Purtroppo, i fattori e i processi promozionali e protettivi (Promotive and Protective Factors and Processes -PPFP), tipicamente associati a risultati positivi, vengono troppo spesso circoscritti a variabili psicologiche, come l’autoregolazione o le strategie di coping ma, in realtà, i PPFP possono essere distinti in interni o esterni all’individuo.
Al giorno d’oggi, i ricercatori concordano sul fatto che le influenze sistemiche contano almeno quanto i fattori individuali. A dimostrazione di ciò, Masten e Cicchetti (2016) hanno suggerito che “la resilienza di un bambino dipenda dal funzionamento e dall’interazione di molti altri sistemi, sia interni al bambino (sistema immunitario, sistema di risposta allo stress, ecc.), sia nelle relazioni o nella resilienza familiare, sia nei più ampi sistemi socioculturali ed ecologici in cui la vita e lo sviluppo di quel bambino avvengono” (Masten & Cicchetti, 2016). La resilienza in età adulta e in età avanzata dipende in egual misura da questi molteplici sistemi (Infurna & Luthar, 2018). In altre parole, le influenze sistemiche sono importanti per la resilienza durante l’intero corso della vita.
L’obiettivo della revisione sistematica presa in esame è stato quello di ampliare la comprensione dei sistemi interagenti che facilitano la salute mentale degli individui sottoposti a stress atipico.
La resilienza umana dipende da una serie di sistemi biologici, psicologici, sociali ed ecologici interagenti tra loro, come sottolineato dalle varie definizioni di resilienza emerse negli ultimi dieci anni.
A sostegno di questa prospettiva, in una revisione sistematica inerente i fattori moderatori della resilienza, che sono stati associati ad effetti positivi per la salute mentale dei bambini nonostante la loro esposizione a condizioni di abuso, differenti fattori individuali ed ecologici si sono dimostrati egualmente importanti (Fritz et al., 2018). A livello individuale, l’evidenza suggerisce che la rivalutazione cognitiva, un’alta tolleranza allo stress, una bassa soppressione delle emozioni e un attaccamento sicuro sono da considerarsi fattori di resilienza per un bambino vittima di abusi. A livello sociale, il supporto della famiglia allargata e le pratiche genitoriali positive potrebbero influenzare la resilienza. Inoltre, a livello comunitario, un elevato sostegno sociale determinerà dei risultati psicosociali e comportamentali.
La resilienza è stata associata anche ad influenze genetiche. In una delle poche revisioni sistematiche inerenti alle varianti genetiche che contribuiscono alla capacità biologica della resilienza psicologica, Niitsu e colleghi (2019) hanno individuato sei geni che sembrerebbero avere un ruolo nello sviluppo della resilienza.
Ulteriori studi hanno mostrato come l’ambiente urbano, naturale e dei servizi è fondamentale per la resilienza umana. Per esempio, uno studio condotto su soggetti anziani, residenti a Pechino, ha scoperto che la qualità del quartiere era significativamente legata al benessere psicologico. I fattori rilevanti includevano lo spazio pubblico e il numero di servizi disponibili (Zhang et al., 2018). Anche il preservare gli spazi naturali, all’interno di un ambiente urbano, può avere un effetto sulla resilienza individuale e collettiva, riducendo l’ansia e fornendo uno spazio per la riflessione e l’attività fisica (Van den Bosch & Ode Sang, 2017).
A dimostrazione degli effetti esercitati dal contesto e dalla cultura, gli studi hanno dimostrato che le comunità che si preoccupano di promuovere narrazioni culturali di forza e di leadership femminile, a seguito di episodi di violenza politica, contribuiscono allo sviluppo della resilienza a livello comunitario (Somasundaram & Sivayokan, 2013).
Altre ricerche hanno mostrato come anche altri fattori contestuali possono predire l’adattamento in condizioni di avversità, ma è importante che queste combinazioni vengano concettualizzate in modo differente per i giovani e per gli adulti (Theron, 2020).
Una descrizione della resilienza psicologica dovrebbe anche includere le variabili inerenti all’esposizione al rischio di un individuo, compresa la qualità delle esperienze avverse, la loro gravità e la rilevanza culturale delle sfide affrontate.
Sarebbe bene, dunque, considerare la resilienza non come l’obiettivo, ma come il mezzo per raggiungere risultati funzionali come la salute mentale.
Secondo gli autori, per sviluppare la resilienza, come primo passo, i clinici dovrebbero valutare l’esposizione al rischio e la disponibilità di PPFP.
Indipendentemente dal percorso di intervento, i clinici dovrebbero considerare le dinamiche contestuali, culturali del corso della vita. Difatti, gli interventi che si propongono di modificare solo un sistema – come un programma per migliorare il senso di autostima di un bambino a scuola – mostrano pochi effetti a lungo termine (Fenwick-Smith et al., 2018).
Quando all’interno dell’ambiente sociale di un paziente il cambiamento viene facilitato, i risultati sono migliori, rispetto agli interventi focalizzati esclusivamente su trattamenti psicofarmacologici o cognitivi.
Così facendo, la ricerca sulla resilienza sarà in grado di spostare il lavoro clinico dalla costruzione di un robusto individualismo verso interventi che creino una situazione di salute mentale positiva per gli individui provenienti da diverse condizioni sociali e che consentano ai soggetti di possedere risorse adeguate e supporti necessari al gestire le avversità nel migliore dei modi.
A tal fine, i professionisti della salute mentale avranno bisogno di lavorare in team multidisciplinari che includano professionisti che facilitino l’accesso ai supporti socio-ecologici protettivi, mentre si occupano dei disturbi. Così facendo, sarà più probabile costruire la capacità psicologica di cui gli individui necessitano per affrontare l’esposizione alle avversità ora e in futuro.