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I Pazienti gravi e difficili: l’uso della NET, della co-terapia e della terapia integrata

Narrative exposure therapy, coterapia e terapia integrata sono trattamenti di elezione nei casi di pazienti gravi come quelli con BPD o disturbo bipolare

Di Edoardo Maria Tognoni

Pubblicato il 18 Gen. 2022

Aggiornato il 21 Gen. 2022 11:34

In presenza di pazienti gravi, con l’ausilio dell’oggetto analitico e di un eventuale oggetto transizionale, il terapeuta può essere il perturbatore strategicamente orientato

 

Introduzione

Nella pratica terapeutica ci potrebbe capitare di avere in cura un paziente considerato grave e difficilmente gestibile. Secondo alcuni specialisti, ad esempio, con il disturbo borderline non c’è molto da fare e i “border” vengono definiti incurabili. Con questa visione delle cose finiremmo presto per andare in burnout e buttare tutti i nostri anni di studio nel cestino. Un approccio diverso dovrebbe prevedere di mettersi accanto al paziente e provare a “camminare” per un breve tratto insieme a lui. Questo ci permetterebbe di capire le diverse modalità di approccio che ogni persona può avere in terapia, le diverse lacune emotive che ci potrebbero essere e che possono inficiare il percorso di cura. Oltre ciò, aiuta saper “inquadrare” il paziente come essere capace e depositario di risorse che gli permettono di compiere azioni e di progredire nella vita, nonostante le difficoltà che incontra nel suo percorso.

Se gli altri lo considerano ingestibile e non migliorabile, noi abbiamo il dovere morale e professionale di accoglierlo e validare ogni suo vissuto. Tutto ciò per permettergli di costruirsi giorno dopo giorno.

Il Protocollo NET

Nei casi considerati più gravi possiamo avvalerci del protocollo NET; la Narrative Exposure Therapy (NET) è un trattamento breve e focalizzato sulla cura delle sindromi inerenti il trauma, in particolare, quelli articolati e di difficile gestione (Schauer, Neuner & Elbert, 2014). Il principio basilare del suddetto protocollo, è la teoria della rappresentazione duplice (Brewin et al., 1996; Moss, 2016); essa muove i suoi passi dall’ipotesi che la narrazione che una persona fa a se stessa circa il proprio vissuto influenzi le modalità attraverso le quali percepisce le esperienze quotidiane e il benessere soggettivo. Il paziente costruisce, con l’aiuto del terapeuta, un percorso della sua vita, un simbolo, fatto di una corda, fiori e pietre, che mette in ordine cronologico gli eventi della sua esistenza – positivi, negativi (anche traumatici) della persona. Costruita la linea della vita, il paziente inizia la sua narrazione fino a che non incontra gli eventi negativi ovvero le pietre; essi vengono affrontati tramite l’esposizione immaginativa, spazio in cui il terapeuta prova a chiedere un resoconto dettagliato circa il vissuto emotivo e cognitivo, nonché riguardo le risposte fisiologiche vissute dal paziente  durante l’evento traumatico.

Il paziente è incoraggiato a esporre la sua esperienza emotiva mentre elabora il racconto, senza sganciarsi dal presente, collegando ciò che ha provato a fatti episodici. In questo modo, si facilita la rielaborazione e l’integrazione armonica di tutto il vissuto personale. Tutto ciò avviene dopo aver rimodulato la portata degli eventi di vita a valenza altamente negativa. Un ulteriore punto da considerare nel protocollo in questione è “l’essere nel presente”. Il paziente ci arriva ricordandosi che le emozioni e le risposte fisiche che occorrono in risposta ai ricordi, in questo caso di natura traumatica, sono espressamente collegate a specifici fattori come un posto particolare o un luogo specifico. Altresì, esse sono rimodulate e riprocessate all’interno del percorso di vita del paziente difficile, così da unirle ad un significato specifico e non lasciarle vagare come schegge impazzite. Possiamo prendere in prestito una parola dalla neuropsicologia: Anosognosìa. Essa indica la non consapevolezza della propria situazione da parte del paziente in ambito cognitivo. Invece, tramite il lavoro della NET e “L’essere nel presente” è possibile ovviare a questa condizione, ma per quanto riguarda la parte emotiva (alessitimia) e la narrativa di vita.

Queste operazioni possono essere facilitate dalla capacità del nostro sistema “corpo” di entrare in relazione con l’altro, in questo caso il terapeuta. Louis Cozolino, nel suo libro Il Cervello sociale: neuroscienze delle relazioni umane, si domanda quale impatto hanno su di noi le relazioni umane. In terapia l’importanza attribuibile alle relazioni aumenta; lo specialista, tramite una rivisitazione della “Reverìe materna”, può accogliere i vissuti emotivi del paziente e rimandarglieli validati e rimodulati, specialmente nelle fasi in cui la persona non ha le risorse mentali per effettuare un contenimento e/o abbassamento dell’arousal emotivo. In tutto il processo terapeutico il paziente è il vero protagonista della storia ri-vissuta tramite, ad esempio, le tecniche di immaginazione guidata. Dovrebbe essere presente il principio trasversale della “Talking Cure” che permette ai due dialoganti di intessere una trama proficua lungo tutto il percorso.

Il suddetto principio diventa prezioso soprattutto nella fase di stabilizzazione del paziente difficile, prima di addentrarsi nella disamina del vissuto altamente negativo o gravemente psicopatologico. La linearità di pensiero diventa un obiettivo per il paziente tramite l’esame di realtà e l’analisi fattuale. Con questa modalità si cerca di evitare l’eccesso di stimoli proveniente da una situazione gravemente compromessa e/o disregolata. Il terapeuta può insegnare al paziente a focalizzarsi sulla storia e sugli elementi più oggettivi così da aiutarlo a lavorare sulle parti che può “controllare” maggiormente. Il terapeuta e il suo paziente si addentrano nella narrazione della storia di vita di quest’ultimo.

Sebbene ci siano alcuni elementi della relazione paziente-terapeuta che potrebbero riproporre la relazione genitore-figlio e sono, eventualmente, paragonabili ad essa, l’analogia può essere utilizzata impropriamente per giustificare una folie à deux in cui il paziente vuole disperatamente che il terapeuta diventi il genitore buono che compensa il genitore cattivo del passato.

Il terapeuta potrebbe cadere in errore colludendo con questo desiderio, tentando di diventare una figura idealizzata che dovrebbe risarcire il paziente per i traumi passati.

Cosa può fare il terapeuta in casi altamente disfunzionali?

È importante sottolineare che, soprattutto nel lavoro con pazienti problematici, si potrebbe parlare della “creazione” di un nuovo oggetto nello spazio terapeutico; possiamo prendere spunto dalla teoria psicoanalitica secondo la quale l’analista e il paziente concorrono a creare l’oggetto analitico. Quest’ultimo potrebbe essere funzionale all’accoglimento e contenimento di eventuali scompensi e disregolazioni di pazienti altamente problematici e/o traumatici; esso potrebbe dare coerenza di significato al sistema terapeutico in atto, nonostante la disfunzionalità della psicopatologia. Gli oggetti sopra menzionati potrebbero avere per il paziente una funzione validante del sé, in una fase della terapia nella quale il soggetto ha meno risorse disponibili.

In presenza di un paziente grave, con l’ausilio dell’oggetto analitico e di un eventuale oggetto transizionale, il terapeuta può essere il perturbatore strategicamente orientato per il suddetto. L’oggetto transizionale non è solo l’orsacchiotto e la sua utilità non è confinata al solo periodo dell’infanzia. Il compito di accettazione della realtà non è mai completato, nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna e il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza. Il bisogno di un oggetto specifico o di un modello di comportamento può ricomparire in un’età successiva, ad esempio quando si vive una minaccia di privazione (Balestrieri, 2019). È doveroso ricordare che lo spazio di cura che viene portato avanti è privo di schemi di giudizio e dove il concetto di colpa non è contemplato. L’oggetto transizionale, soprattutto nella fase di stabilizzazione critica del paziente difficile e/o grave (es. DBP), potrebbe ovviare alle croniche sensazioni di vuoto e incompletezza che accompagnano la persona. Questa fase sarebbe di ausilio alla fase successiva di rimodulazione dei vissuti disfunzionali nonché alla ristrutturazione degli eventi di vita da cui il paziente è stato travolto.

Per quanto concerne il disturbo bipolare, il paziente elabora in maniera concreta la sua esperienza personale. L’intervento su una modalità poco flessibile e concreta comporta: ricostruire le caratteristiche elementari della sequenzializzazione di una trama, cioè ricostruire gli aspetti basici di cronologia, casualità e tematicità e anche la ricostruzione della distinzione tra interno/esterno. Dopo di che, il lavoro diventa uguale per tutti; si cerca di ampliare la trama narrativa. Una volta che si ricostruisce l’aspetto nucleare di base, si comincia il lavoro di ampliamento e articolazione.

È importante aiutare il soggetto a centralizzare gli aspetti positivi del suo vissuto per aumentare l’agency positiva, dopo aver pensato alla corretta stabilizzazione e “messa in sicurezza” del paziente nelle prime fasi della psicoterapia tramite l’inserimento nella comfort zone terapeutica.

Nei pazienti con dissociazione traumatica si rileva una particolare frammentazione nei ricordi ed una scarsa integrazione negli schemi generali del paziente. Essi si palesano per le loro sensazioni e affetti intensi, spesso poveri dal punto di vista verbale (Van der Kolk et al. 2001). L’integrazione di questi ricordi diventa il core della terapia.

In aggiunta, dovrebbe essere prevista l’acquisizione di livelli sempre più funzionali di tolleranza degli aspetti emotivi che possono emergere con le loro sensazioni corporee.

In terapia, soprattutto il paziente difficile è portato a “sezionare” lui stesso le emozioni alla base di tutti i giorni. Sarebbe utile pensare ad un addestramento per Il paziente tramite la “visual imagery” emotiva, così da depotenziare in maniera funzionale l’arousal delle emozioni che rivestono un ruolo centrale nel vissuto difficile e/o traumatico della persona. Il contenitore sicuro della terapia può diventare a tutti gli effetti un modulatore dei riverberi emotivi che potrebbero palesarsi con la gestione di un paziente grave. È importante non superare la soglia critica oltre la quale il paziente potrebbe disregolarsi e rendere vani i progressi compiuti in terapia.
Dopo aver concluso la fase di stabilizzazione con e per il paziente si può procedere alla parte integrativa.
Per integrazione si fa riferimento all’importanza del lavoro, nel corso della terapia, sugli eventuali processi mentali dissociati. Un’attività di contatto con il proprio corpo e l’ambiente circostante potrebbe essere il grounding.

Il grounding mira a far sentire il paziente in diretto contatto con il suo corpo. È un esercizio che può aiutare a farlo sentire più presente a se stesso nelle azioni quotidiane. Attraverso questa tecnica si cerca la riduzione dei sintomi dissociativi contrastando il frequente effetto numbing (ottundimento emotivo) particolarmente presente nei Disturbi Dissociativi: a questo fine è importante, anche in seduta, un ambiente adeguato e funzionale. Oltre ciò, il terapeuta può far dedicare il paziente alle tecniche di stimolazione sensoriale e corporea autoprodotta (musiche, odori forti, esercizi corporei di stretching etc.). La persona deve essere parte attiva nel processo terapeutico. Lo specialista riporta in asse il paziente in caso ci fosse uno “sbandamento” da parte sua.

Durante la terapia, la cura personale e funzionale costituiscono uno degli obiettivi principali nella gestione di un paziente difficile. Prendersi cura di sé aiuta a riconoscere di poter avere dei confini rispetto agli altri e di essere in grado, con l’aiuto del terapeuta, di dare forma e direzione al proprio quotidiano. Nei pazienti gravi, con spunti dissociativi o fenomeni conclamati, mantenere un saldo ancoraggio a una semplice routine quotidiana e a degli schemi che possano aiutarli a “funzionare” meglio può indicare una via di uscita. Ad esempio, si può sottolineare la fondamentale importanza di avere una rete sociale come supporto o di iniziare un percorso di istruzione che possa dare al paziente un background più solido.

Soprattutto con pazienti affetti da Disturbi Dissociativi gravi o PTSD complesso, la prima sfida riguarda la loro sicurezza e i possibili comportamenti anticonservativi. In questi casi, una sorta di contratto di sicurezza deve essere concordato in modo chiaro e diretto. Il terapeuta dovrebbe aiutare il paziente a esplicitare l’attivazione del suo sistema cooperativo tramite il quale diventa possibile la messa a punto dell’alleanza terapeutica in cui, in maniera esplicita, possono condividere un obiettivo comune. È importante rimanere all’interno dei confini terapeutici così da evitare attivazioni emotive disfunzionali da parte del paziente. Uno strumento utile potrebbe essere l’auto-osservazione o auto-monitoraggio tramite diari giornalieri. Il tutto deve essere supportato dal terapeuta in maniera accurata; quest’ultimo può riformulare e rimandare ciò che si evince dagli homeworks dati al paziente. Non è da tralasciare la validazione delle emozioni sia positive che negative che la persona porta con sé nello spazio sicuro della terapia.

Così facendo è possibile iniziare a dare una continuità narrativa agli eventi/emozioni affrontati dal paziente; tramite queste manovre la persona riesce ad abbassare il “rumore” dei sintomi?

Il terapeuta può riformulare in termini generativi quello che il paziente porta così che quest’ultimo possa sentirsi sempre in grado di migliorare ed essere performante tramite le sue risorse.

Se ci trovassimo a gestire un paziente borderline o bipolare, per riuscire a fornire un confine sicuro tra la fantasia-impulso e l’azione e contenere i desideri del paziente, ad esempio in caso di eventuali acting out verbali e/o fisici, inizialmente, basteremmo come “pellicola” di protezione? Come possiamo aiutarlo ad integrare emozioni e vissuti discordanti, ammesso che ne abbia veramente coscienza?

La Co-terapia e la terapia integrata a confronto

In quest’ultima parte vorrei focalizzarmi sull’uso della co-terapia messo a confronto con la terapia integrata in caso prendessimo in carico un paziente difficile.

Pongo due domande che serviranno come spunto per trattare il nodo centrale sulla co-terapia: “L’ordine mentale, di solito, tende a ricomporsi quando siamo da soli? Potrebbe essere vero che l’assenza di socialità, in determinati momenti della nostra vita, si intende, ci può aiutare a ricordare chi siamo veramente?”.

In casi di pazienti gravi e difficili, la citazione su riportata potrebbe non avere molto senso; il motivo si ritrova nella possibile facile frammentazione e disorganizzazione mentale. Una possibilità di cura potrebbe essere quella di adottare un setting terapeutico peculiare, quello integrato o direttamente in co-terapia.

Per quanto riguarda il primo, si tratta di un setting unico in cui lo stesso specialista può “erogare” sia la terapia farmacologica sia la psicoterapia. Invece, nella co-terapia esistono due setting totalmente diversi che hanno l’obbligo di dialogo costante. Potrebbe capitare la situazione in cui uno specialista è il farmacologo e l’altro lo psicoterapeuta.

Tramite l’ipotesi che il trattamento a SMI (setting multipli integrati) è di elezione nei pazienti con DBP o, comunque considerati gravi, passiamo in rassegna vantaggi e limiti della psicoterapia nei setting multipli integrati.

La Co-terapia appare un valido strumento di cura ma, nella pratica clinica, è faticoso a livello tecnico. Ci troviamo di fronte a due relazioni terapeutiche contemporanee, due setting differenti gestiti da due professionisti diversi; tutto ciò aumenta la complessità della terapia e può mettere a rischio la buona riuscita della terapia, fondamentale in casi di grave psicopatologia.

Questo tipo di attività parallela potrebbe portare ad una eccessiva frammentazione del vissuto del paziente problematico, ad esempio borderline o psicotico. Questi ultimi hanno bisogno di linearità nel percorso di terapia cercando di evitare eventuali “scontri” relazionali tra i terapeuti.

In casi di trauma o estrema disregolazione si potrebbe pensare ad una terapia integrata, la quale prevede la presenza di un solo specialista che effettua la psicoterapia e che cura la parte psicofarmacologica.

I due specialisti devono essere collaborativi tra di loro per tutto il percorso di cura del paziente, questo punto nodale, oltre a costituire la base della co-terapia, potrebbe dare più problemi nel quadro complessivo di gestione del paziente. Le comunicazioni fra terapeuti devono essere costanti e orientate alla assoluta autenticità e fiducia reciproca. Gabbard e Kay nel 2011 hanno usato un’espressione alquanto particolare per indicare la peculiarità tecnica e relazionale della comunicazione fra terapeuti: Tempo non fatturabile. Una delle discriminanti su cui focalizzarsi potrebbe essere l’impegno professionale dei due specialisti, volto alla corretta stabilizzazione del paziente prima e poi al buon andamento del viaggio terapeutico. Per questo motivo è bene programmare periodici “rendez-vous” tra gli specialisti, con annessi brain-storming focalizzati sul medesimo paziente; essi dovrebbero essere svolti senza fretta e faccia a faccia. Altresì, si può impostare un programma di supervisione che possa mantenere le parti in equilibrio; il grado di collaborazione è demandato ad una terza parte esterna ai setting terapeutici. Il ritmo degli incontri dovrebbe rispondere all’esigenza reciproca di sostegno, di affrontare i problemi che insorgono nella relazione con il paziente o tra co-terapeuti.

Con i pazienti difficili e provenienti da storie di attaccamento disorganizzato, i curanti potrebbero esacerbare dei conflitti, spesso inevitabili, provocati dalle conseguenze disfunzionali del suddetto attaccamento. Nonostante le costanti difficoltà che si possono incontrare sarebbe importante riconoscere celermente gli eventuali aspetti di conflittualità tra gli specialisti, che a volte potrebbero assumere connotati caleidoscopici. L’importanza della riconciliazione tra i terapeuti pone al paziente un’importante chance per sviluppare il suo personale assetto della Teoria della Mente. Così è portato a sperimentare, nel rapporto diretto con e fra i suoi terapeuti, la capacità di negoziare l’alterità di un diverso punto di vista, nonché sviluppare la tolleranza per l’inevitabile divergenza di opinioni, essenziale in una relazione interpersonale di qualunque genere.

L’ausilio della co-terapia sarebbe difficile da gestire anche nei casi di pazienti gravi provenienti da storie di attaccamento disorganizzato. Una prima spiegazione potrebbe essere l’insostenibilità, per alcuni pazienti, di gestire l’elevato grado di autenticità nella comunicazione che le co-terapie ben strutturate e ben condotte rapidamente richiedono e mettono in evidenza. La seconda ipotesi sosterrebbe l’idea che esistono soggetti gravi con importanti deficit cognitivi e metacognitivi; essi non sarebbero in grado di gerarchizzare le figure di riferimento e, per questo motivo, non riuscirebbero a tollerare la contemporanea presenza di due terapeuti.

La co-terapia o Trattamento a setting multipli integrati, nonostante sia ipotizzabile come intervento di elezione nel caso del DBP o comunque dei pazienti gravi (es. psicosi), può presentare delle criticità. È bene ribadire alcuni concetti inerenti la teoria dell’attaccamento.

Questi pazienti sembrano mostrare una compromissione più meno grave delle capacità di sviluppare relazioni di attaccamento molteplici e differenziate, ognuna di queste rivolta ad una specifica figura di attaccamento.

Dopo aver sviluppato molteplici legami di attaccamento, direzionati verso i vari membri della famiglia o esterni ad essa, i primati e l’uomo li ordinano in una gerarchia di importanza relativa, come quella che caratterizza l’assetto globale dei rapporti di ciascun individuo con chi può prendersi cura di lui.

La dimensione mentale dell’attaccamento, anziché essere gerarchica e monotropa (rivolta preferenzialmente, ma non esclusivamente, a una figura di attaccamento, detta primaria proprio perché ne esistono di secondarie), in questi pazienti tende a divenire monolitica (rivolta ad una sola persona con modalità rigide ed esclusive). Si può così definire un’ipotetica patologia dell’attaccamento che possiamo chiamare Deficit di gerarchizzazione e di monotropismo.

Oltre ciò, i pazienti suddetti hanno ulteriori caratteristiche da non sottovalutare nella scelta della terapia più appropriata. Ci può essere la perdita della capacità di considerare autonoma la mente di potenziali nuove figure di attaccamento; figure diverse da quella che non solo è, allora, primaria, ma diviene l’unica con cui poter interloquire.

Si potrebbe palesare un grave deficit della TdM; ad ogni interlocutore si attribuiranno intenzioni, pensieri e sentimenti della figura di attaccamento percepita e considerata come “unica”. Da questo potrebbe derivare un deficit della capacità di intrattenere punti di vista multipli su un evento specifico; infine ci potrebbe essere il conseguente rischio di sviluppare convinzioni deliranti particolarmente resistenti alla critica da parte di nuove figure che tentino di offrire cura, ad esempio i due co-terapeuti con i setting diversi. Si potrebbe evidenziare il rischio di sperimentare una forte e insopportabile dissonanza cognitiva nella relazione con due terapeuti che stiano cercando di instaurare la talking cure; il paziente potrebbe valutare impossibile il proseguimento di relazioni simultanee con entrambi.

Nel caso del DOC grave ci potrebbe essere la continua attivazione del sistema agonistico con i due specialisti; alla base ci potrebbe essere la convinzione altamente disfunzionale del paziente secondo la quale: Per valere veramente è necessario dominare sull’altro. Queste sfide agonistiche avrebbero come vulnus le capacità intellettuali. Resistere alle svalutazioni intellettuali del paziente ha lo scopo di non farlo sentire “mostruoso e distruttivo”; ciò potrebbe operare sottosoglia e più nello specifico ad un livello inconscio. C’è il rischio che il soggetto, protagonista nella terapia, possa operare un continuo confronto svalutativo ai danni dei terapeuti anche in modalità alternata. Tutto ciò apparirebbe come un tentativo di valutare la solidità della cooperazione paritetica degli specialisti; altresì, quanto detto sarebbe inconciliabile con la convinzione disfunzionale e, verosimilmente, patogena secondo la quale “valere vuol dire prevalere sull’altro”. Nel corso del trattamento il paziente può “lanciare” ripetuti test ai danni dei terapeuti per creare conflitti inter-terapeutici. L’esito controproducente sarebbe quello di riconoscere come top-down e bottom-up gli specialisti a livello relazionale.

Nel mondo del DOC difficile e/o grave, il principio base della pari cooperazione tra i due setting sembra inconcepibile al paziente tanto da diventare minacciosa; la minaccia sussiste in virtù della credenza nucleare patogena secondo la quale: se non si domina sull’altro non si vale.

I pazienti con storie di attaccamento disorganizzato potrebbero rispondere all’attivazione del sistema di attaccamento in seduta con una disregolazione o, quanto meno, un’escalation agonistica nei confronti del terapeuta o dei terapeuti. Può emergere in diverse situazioni, sia positive che negative.

Conclusioni

Per poter modulare e validare al meglio tutte le situazioni e gli esempi riportati, ritengo che il miglior approccio terapeutico per i pazienti gravi/difficili possa essere la terapia integrata.

Un solo specialista, con un solo setting, ha la capacità di sintonizzarsi in maniera più efficace con il paziente. In caso di scompenso ha tutte le risorse e le informazioni necessarie per agire prontamente a beneficio del paziente. Nel doppio setting, invece, ci sarebbe un rischio maggiore di frammentazione del lavoro e un’esposizione più elevata per il paziente ad eventuali episodi di dissociazione e derealizzazione eccessiva. Questo lo porterebbe ad esperire un vissuto eccessivamente negativo e, probabilmente, scarsamente tollerabile. Ecco perché la terapia integrata può essere più indicata per casi di pazienti Borderline, DOC grave, Disturbo Bipolare grave e per tutte quelle situazioni altamente difficili da gestire.

Si rende necessaria una continua supervisione da parte di un collega esperto che possa indicarci dove effettuare correzioni e dove migliorare; oltre questo si auspicano le classiche intervisioni tra colleghi che sono un buon metodo per implementare il nostro bagaglio di conoscenze.

Come recita il titolo del libro di Fabio Geda: L’esatta sequenza dei gesti, la terapia è un perfetto incastro tra due pianeti che si incontrano. Saper riparare gli strappi e gli eventuali intoppi fa parte di questa esatta sequenza dei gesti che può rimanere, in buona parte, nel mondo della prossemica e del non verbale. Paziente e terapeuta dialogano su più livelli grazie alla messa in pratica dello scaffolding emotivo da parte di quest’ultimo.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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