Cronicità e carico assistenziale del disturbo ossessivo compulsivo (DOC)
Quali cambiamenti avvengono nella vita domestica quando il disturbo ossessivo compulsivo irrompe in famiglia? E come “aiutare chi aiuta” nell’affrontare la convivenza quotidiana con la sofferenza mentale?
I primi sintomi del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) possono comparire in giovane età (infanzia o tarda adolescenza), soprattutto nella popolazione maschile (Boggetto et al., 1999). Questo esordio precoce può interferire con la possibilità di apprendere abilità sociali ed emotive utili nella futura vita adulta, quali prendere decisioni, risolvere problemi, reagire allo stress percepito e regolare le proprie emozioni (Albert et al., 2015).
Nella maggior parte dei casi, il decorso diviene cronico, soprattutto se i sintomi non sono opportunamente trattati (Ravizza et al., 1997). La cronicità di qualunque patologia, indipendentemente dalla diagnosi, implica il bisogno di prendersi cura di una persona o addirittura di sostituirsi a lei nelle incombenze e responsabilità quotidiane per l’intero arco di vita. Chiunque di noi abbia prestato cure a un familiare in condizione di cronicità, sa bene che il carico assistenziale produce un distress emotivo, fatto di sentimenti di frustrazione, rabbia, sensi di colpa, unito a limitazioni nelle attività sociali, e talvolta anche lavorative, per dedicarsi all’accudimento del congiunto.
Il DOC in famiglia tra accomodamento e antagonismo
Se confrontati con le famiglie di altri pazienti psichiatrici, i familiari di persone con DOC risultano i più coinvolti nella patologia, in quanto le compulsioni si verificano soprattutto in ambito domestico (Cosentino et al., 2015).
Il coinvolgimento familiare può variare all’interno di un continuum che oscilla tra comportamenti di accomodamento (dalla traduzione inglese accommodation, atteggiamento accondiscendente e accomodante) e, all’estremo opposto, di antagonismo.
L’accomodamento si riferisce alla tendenza da parte dei parenti di fornire rassicurazioni ai congiunti con DOC, assisterli o partecipare anche per ore alle compulsioni, facilitare l’evitamento di situazioni ansiogene, sostituirsi ai pazienti in compiti di loro responsabilità e modificare radicalmente attività e routine familiari (Van Noppen et al., 1991). L’accomodamento familiare potrebbe consistere in comportamenti quali (Albert et al., 2017): accompagnare il congiunto vicino alle finestre per assicurarsi che non perda il controllo e non si lanci di sotto; scortarlo nelle situazioni sociali, per garantirgli che non faccia del male agli altri; tagliare gli alimenti al posto del paziente per evitare che tocchi lame e coltelli; evitare nelle conversazioni argomenti che potrebbero innescare le ossessioni (ad esempio, notizie di cronaca su suicidi, omicidi e diffusione di malattie contagiose); lavare accuratamente il bagno, prima che il proprio caro vi si rechi per le sue compulsioni; passargli gli asciugamani, facendo particolare attenzione a non sfiorare superfici e oggetti potenzialmente contaminati.
L’accondiscendenza familiare può temporaneamente ridurre l’ansia del paziente ed evitare che questi metta in atto le compulsioni, tuttavia conferma in lui che le sue ossessioni sono pericolose, che gli eventi temuti si possono concretamente verificare e che le compulsioni sono necessarie per alleviare l’ansia ed evitare catastrofi (Saliani et al., 2011). In altri termini: se anche un nostro caro ci sostiene nella gestione dei rituali compulsivi e si preoccupa che tutto sia “sotto controllo”, questo significa che le mie ossessioni sono “reali”.
Su un versante opposto, il coinvolgimento familiare potrebbe manifestarsi mediante un atteggiamento di antagonismo, in cui i parenti rifiutano di assecondare o partecipare ai sintomi (Van Noppen et al., 1991). Tale atteggiamento si manifesta mediante reazioni ostili (ad esempio, forzare bruscamente il paziente ad interrompere una compulsione in corso o a sopprimerla prima che venga attivata), iper-critiche, giudicanti (“Ti comporti come una pazza”) e punitive (“Se non cambi, ti lascio per sempre”).
Si tratta di una modalità meno diffusa rispetto a quella di accomodamento, solitamente adottata dai familiari nel tentativo di aiutare i loro cari “a migliorare” e “a cambiare” (Chambless e Steketee, 1999; Renshaw et al., 2005 ). Sottende la convinzione che la persona possa esercitare un controllo sui sintomi del DOC e, nonostante sia attuata dai familiari con intenzioni positive, suscita prevalentemente nei pazienti vissuti di rabbia, vergogna, sensi di colpa, comportamenti aggressivi ed elevata conflittualità, con conseguenti minori richieste di aiuto dirette ai familiari (Saliani et al., 2011).
È stato dimostrato che atteggiamenti tanto di accomodamento quanto di antagonismo sono in grado di mantenere la sintomatologia, aumentare i livelli di stress familiare e, paradossalmente, favorire atteggiamenti stigmatizzanti di rifiuto verso la persona con DOC all’interno dello stesso nucleo familiare (Storch et al., 2007; Peris et al., 2008; Amir et al., 2000; Calvocoressi, 1999). Inoltre, tali reazioni interferiscono col buon esito della psicoterapia cognitivo comportamentale e del trattamento farmacologico del DOC (Garcia et al., 2010).
Come aiutare un familiare con DOC?
Essere a conoscenza dei comportamenti che possono contribuire a mantenere il DOC pone in luce quanto sia importante il ruolo dei familiari nello scardinare i meccanismi che ne sono alla base. Congiunti e amici non possono che rivelarsi una risorsa attiva e indispensabile in quanto coinvolta in prima linea.
Come possono le famiglie aiutare le persone con DOC? Il gruppo di ricerca di Saliani e colleghi (2011) ha evidenziato alcune strategie di comunicazione utili ai familiari per supportare chi è affetto da DOC:
- Validare emozioni e vissuti del proprio congiunto. Comunicare vicinanza ed empatia rispetto alla sofferenza e alle difficoltà quotidiane può indurre il paziente a parlare liberamente, senza sentirsi giudicato per il proprio disturbo. Occorre riconoscere che il DOC costituisce una patologia, non un segno di pigrizia o di scarsa forza di volontà: è contro la patologia che paziente e familiare devono allearsi.
- Rifiutarsi in modo fermo ma gentile di essere coinvolti nella compulsione, ad esempio: non fornire rassicurazioni, non facilitare l’evitamento di situazioni temute, non accettare che regole e routine domestiche vengano stravolte dai rituali.
- Spiegare i motivi del proprio rifiuto. Evitare tipici comportamenti di accomodamento, come rassicurazioni superficiali (ad esempio, la pacca sulla spalla), bugie a fin di bene facilmente smascherabili (“Non hai toccato nulla di sporco”), dispute razionali (ovvero smontare con la logica e la razionalità le ossessioni dei pazienti), suggerimento di soluzioni temporanee, compiacenza (fare esattamente ciò che il paziente richiede, nella speranza di fermare ossessioni e compulsioni). Evitare anche forme di antagonismo come la supplica addolorata (esercitare supplichevoli pressioni morali, “Smettila, ti prego, così mi fai soffrire”) e il biasimo (rimproveri, critiche, offese).
- Supportare e incoraggiare il congiunto a tollerare l’ansia.
Ogni membro della famiglia può essere coinvolto nelle manifestazioni del DOC, con costi emotivi, sociali e personali elevati. Importante è che paziente e familiare si riconoscano come alleati verso un fronte comune ed entrambi dalla parte della cura.