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Il Prof. Oliver Sacks affetto da un tumore terminale, condivide i suoi pensieri in una lettera aperta

 

Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale e professore presso la New York School of Medicine, ha recentemente scoperto di avere un tumore in fase terminale. In questa commovente lettera aperta pubblicata sul New York Times condivide con il mondo le sue considerazioni su questa nuova, grave, consapevolezza:

 

I feel a sudden clear focus and perspective. There is no time for anything inessential. I must focus on myself, my work and my friends. I shall no longer look at “NewsHour” every night. I shall no longer pay any attention to politics or arguments about global warming.

This is not indifference but detachment — I still care deeply about the Middle East, about global warming, about growing inequality, but these are no longer my business; they belong to the future. I rejoice when I meet gifted young people — even the one who biopsied and diagnosed my metastases. I feel the future is in good hands.

I have been increasingly conscious, for the last 10 years or so, of deaths among my contemporaries. My generation is on the way out, and each death I have felt as an abruption, a tearing away of part of myself. There will be no one like us when we are gone, but then there is no one like anyone else, ever. When people die, they cannot be replaced. They leave holes that cannot be filled, for it is the fate — the genetic and neural fate — of every human being to be a unique individual, to find his own path, to live his own life, to die his own death…

Oliver Sacks on Learning He Has Terminal CancerConsigliato dalla Redazione

Oliver Sacks - Professor of Neurology at the NYU School of Medicine
I am now face to face with dying. But I am not finished with living. (…)

Tratto da: New York Times

 

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Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) in teatro operativo: interventi per aumentare la resilienza

Maurizio Stavola

Il PTSD maturato in un teatro operativo è diverso da quello nato a seguito di una catastrofe naturale, poiché investe la fiducia nei valori in nome dei quali il militare intraprende una professione profondamente integrata con la propria vita personale. Egli necessita, pertanto, di essere posto al centro di un percorso di studio psicologico del trauma che si confronti con la vulnerabilità della natura umana.

In guerra, nessuna persona è immune dal vivere un evento traumatico che può lasciare profonde ferite fino a manifestarsi in Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD). Una conferma a tale assunto è fornita dalle statistiche inerenti ai casi di diagnosi di PTSD tra i reduci dai teatri operativi.

E’ opportuno soffermarsi sull’idea che il PTSD maturato in un teatro operativo sia diverso da quello nato a seguito di una catastrofe naturale, poiché investe la fiducia nei valori in nome dei quali il militare intraprende una professione profondamente integrata con la propria vita personale. Egli necessita, pertanto, di essere posto al centro di un percorso di studio psicologico del trauma che si confronti con la vulnerabilità della natura umana.

Le conseguenze dell´evento traumatico (classificabili principalmente in sintomi di iperattivazione, sintomi intrusivi e sintomi di evitamento) sono influenzati dalla durata, dalla natura, dall’intensità dell’evento, dal particolare momento biografico dell’individuo e dalle sue peculiarità difensive che condizionano una serie di sviluppi fisio-psicologici e possono condurre a manifestazioni psicopatologiche a carattere acuto e cronico. La comparsa di queste espressioni patologiche dipenderà anche da una variabile individuale, determinata dalla capacità di adattamento del soggetto, denominata resilienza e capace di collocare e dare significato all’evento all’interno della propria storia personale.

Il trauma psichico può essere sinteticamente definito come una lacerazione improvvisa, violenta ed imprevedibile dell’integrità psichica, capace di provocare un’alterazione permanente delle capacità di adattamento del soggetto.

Le caratteristiche dell’evento traumatico, importanti da analizzare ai fini di una netta distinzione tra stress e trauma, sono la subitaneità e l’imprevedibilità, fattori che non permettono manovre difensive immediate. 

Tuttavia, negli ultimi anni sono state eseguite molte ricerche sul PTSD in ambito militare, soprattutto negli Stati Uniti che offrono una popolazione oggetto di studi di notevole rilevanza, i cui risultati hanno portato ad elaborare un percorso di supporto psicologico per i militari basato su interventi preventivi, d’emergenza e successivi all´impiego del militare in teatro operativo. Molti Paesi coinvolti in interventi operativi hanno, già da tempo, elaborato piani di supporto psicologico ai militari, dislocando, in ogni Reparto presente in teatro, un’Unità di Combat Stress Control, costituita da un nucleo operativo di Psichiatri e Psicologi.

Nel contempo, sono stati implementati appositi processi addestrativi e procedure riabilitative, ponendo una particolare enfasi su prevenzione, sensibilizzazione, empowerment e sostegno. Ciò significa che, prima di impiegare un militare in teatro operativo, sono attivati dei piani di formazione specifici, seguiti dal monitoraggio in loco, e, inoltre, viene fornito un supporto alle famiglie soprattutto in caso di eventi traumatici occorsi al congiunto.

E´ opportuno suddividere gli interventi sulla base di due differenti obiettivi temporali: breve/medio termine e lungo termine. Gli attori principali presi in considerazione come oggetto di intervento sono tre: i comandanti (al fine di fornire loro strumenti per riconoscere, valutare e supportare casi di PTSD), i combattenti e le famiglie. Il protagonista attivo dell´intervento è il personale qualificato (Psichiatri e Psicologi) che svolge un ruolo fondamentale durante tutto il Deployment Cycle (comprendente le fasi di dislocamento di un’Unità: pre-deployment, deployment, post-deployment).

Supporto a breve e medio termine

  • Pre-Deployment: un Team di Supporto in Patria (presso il contingente o durante il corso di indottrinamento) che opera al fine di far acquisire un´adeguata conoscenza sulla psicofisiologia dello stress in operazioni, sulle strategie di coping, sul controllo delle reazioni da combat stress ed affrontare le situazioni prevedibilmente traumatiche e stressanti tramite tecniche di gestione dell´evento traumatico, come ad esempio: Stress Inoculation Training (modalità di intervento psicologico per far fronte alle conseguenze disfunzionali dello stress sulla base di un modello di analisi dell’esperienza del soggetto sottoposto ad opportune sollecitazioni ambientali che rappresentano potenziali eventi traumatici.
    ) e Comprehensive Soldier Fitness Program (programma multifunzionale sviluppato da US Army per rafforzare la resilienza). L´attività da svolgere in questa fase è fondamentale, in virtù del fatto che il PTSD si presenta quando la reazione all´evento traumatico è pervasa da intensa paura, impotenza e orrore (criterio A2 secondo DSM-IV-TR, eliminato dalla lista dei criteri nel DSM 5 poiché esprime elementi soggettivi non utili ai fini diagnostici). Il livello di resilienza a questi tre elementi può aumentare con un adeguato addestramento basato sull´acquisizione di metodologie specifiche come: respirazione tattica (tecnica utilizzata per ottenere un controllo su risposte fisiologiche e psicologiche allo stress al fine di una migliore gestione della frequenza cardiaca, delle emozioni, della concentrazione e al fine di prevenire la paura intensa), esercitazioni in ogni scenario (per ridurre il senso di impotenza), inoculazione di fattori traumatizzanti (per limitare il senso di orrore);
  • Deployment: un Team di Supporto in teatro operativo costituito da personale specializzato in psicologia d´emergenza che utilizza strumenti specifici: colloqui e questionari, pronto soccorso emotivo individuale o di gruppo, programmi di gestione dello stress da incidenti critici come il defusing (tecnica di pronto soccorso emotivo basata su un intervento breve organizzato per il gruppo reduce da un evento traumatico da effettuare subito dopo l’episodio. L´intervento tende ad aiutare a diminuire la tensione e lo stress traumatico, attraverso la condivisione verbale dell’esperienza), tecniche di debriefing come il Critical Incident Stress Debriefing (il CISD mira a gestire emozioni intense attraverso la verbalizzazione del trauma, con il sostegno di un team o dei pari, sfruttando fattori terapeutici del gruppo utili alla riduzione dello stress post traumatico), tecniche di intervento sulla fatica da combattimento, interventi di desensibilizzazione e rielaborazione emozionale del trauma come l`Eye Movement Desensitization And Reprocessing (EMDR), terapie farmacologiche, strumenti di preparazione al rientro);
  • Post-Deployment: un Team di Supporto in Patria (presso il contingente o strutture sanitarie militari) che agisce al fine di supportare il personale con PTSD tramite tecniche specifiche (Terapia cognitiva-comportamentale, EMDR, terapie farmacologiche). Un militare potrebbe non facilmente poter evitare gli stimoli associati al trauma (criterio C sia nel DSM-IV-TR sia nel DSM 5) e dovrà affrontarli e riviverli tramite lenti processi di reintegro degli stessi utilizzando metodi di addestramento realistici (ad esempio i simulatori);
  • Supporto familiare: un Team di Supporto durante tutte le fasi del Deployment Cycle (presso il contingente o strutture sanitarie militari) al fine preparare e supportare il nucleo familiare (adulti e bambini). Il PTSD non ha impatto solo sul militare traumatizzato, bensì su tutti coloro che siano a lui legati. Occorrerà, quindi, intervenire anche sui suoi familiari per limitare qualsiasi conseguenza del trauma diretto o indiretto.

Supporto a lungo termine

  • Creazione di un Center for Deployment Psychology, all´interno del settore sanitario militare, che si occupi di ogni tipo di problematica psicologica inerente al dislocamento in teatro operativo e che possa coordinare le attività svolte dai Team di Supporto, svolgere corsi specialistici per formatori, comandanti, combattenti e familiari finalizzati alla preparazione agli eventi traumatici e allo stress conseguente, seguire il decorso del personale e dei familiari, elaborare studi statistici ed analizzarne i risultati, svolgere attività divulgativa sulla problematica;
  • Creazione di una Combat Military Psychology Community specializzata in attività di intervento durante il Deployment Cycle a stretto contatto con il mondo accademico e militare nazionale ed internazionale;
  • Supporto familiare Strutturato che possa far riferimento ad una struttura militare specializzata nel settore di intervento orientato alle famiglie;
  • Sviluppo di una logistica operativa orientata al benessere del militare nel periodo di dislocamento che possa aiutarlo a rafforzare la resilienza (attività fisica, sociale, culturale, spirituale, ludica).

 

La grande lezione che le guerre continuano ad impartirci è che esse non terminano con il cessate il fuoco, ma continuano nelle menti degli attori, attivi e passivi, i quali sviluppano spesso conseguenze potenzialmente debilitanti.

Ogni militare, prima di essere inviato in teatro operativo, necessita di acquisire un addestramento specifico finalizzato ad affrontare al meglio ogni evento potenzialmente traumatico. Non recuperare un militare che ha subìto un trauma significa rischiare di avere un professionista che non ha superato l’evento critico, con tutte le conseguenze derivabili sul piano socio-comportamentale e visibili sia in ambito lavorativo sia privato.

Per raggiungere efficacemente l’obiettivo di riabilitare un militare dopo un evento traumatico è necessario elaborare un programma di supporto psicologico, da svolgere durante il Deployment Cycle, caratterizzato da una multidimensionalità di intervento e da immediatezza dell’azione, a sostegno del militare e anche della sua famiglia, basato su un approccio olistico alla problematica, definendo un insieme di interventi tra loro armonicamente collegati.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

American Sniper: un riflettore sul PTSD nei veterani di guerra – Cinema & Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association. (2000). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quarta Edizione Rivista. Tr. it. Milano. Masson.
  • American Psychiatric Association. (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Quinta. it. Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA

SITOGRAFIA:

Arti marziali & benessere psicologico – II parte

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

Nelle arti marziali così intese, il tramite principale tra corporeità, lo sviluppo delle capacità autoregolatorie e le potenzialità interiori della persona, è la respirazione. Nel tai chi chuan le tecniche vengono eseguite sempre sulla base di un corretto allineamento dei segmenti osteo-muscolari, tra di loro e rispetto alla forza di gravità.

La pratica marziale condotta da un istruttore esperto e preparato richiede all’allievo un continuo monitoraggio degli stati del suo corpo. Ciò serve per raggiungere una condizione di rilassamento dalle tensioni muscolari che compromettono la qualità della tecnica. Il bravo istruttore segnala gradualmente e in modo sempre più sofisticato quale segmento del corpo è teso e impedisce la fluidità del movimento; porta continuamente l’attenzione dell’allievo in quel segmento, abituandolo a compiere poi da solo questa operazione in modo sempre più sofisticato ed efficace. In altre parole, l’istruttore favorisce un’amplificazione della percezione dello stato del corpo dell’allievo.

Questa amplificazione propriocettiva ed enterocettiva col tempo si estende oltre i momenti della pratica, ed è facilmente rievocabile anche nel corso di stati emotivi problematici. A lungo andare l’allievo vede incrementare la propria capacità di decodificare lo stato del suo corpo, e di modificarlo sensibilmente, anche in situazioni che esulano dal contesto dell’allenamento.

Nelle fasi più avanzate dell’apprendimento, la pratica è tesa  a sviluppare una coesione mentale di ordine superiore, che deriva dalla capacità di regolare gli stati mentali problematici regolando il corpo. L’allievo impara a riconoscere che uno stato mentale ansioso, preoccupato, si associa costantemente a uno stato del corpo specifico; mentre uno stato mentale efficace, pronto, recettivo e concentrato si associa ad uno stato del corpo rilassato e fluido. Diventerà automatico conservare nel corpo la memoria dello stato rilassato e riprodurlo quando è necessario.

Nelle arti marziali così intese, il tramite principale tra corporeità, lo sviluppo delle capacità autoregolatorie e le potenzialità interiori della persona, è la respirazione. Nel tai chi chuan le tecniche vengono eseguite sempre sulla base di un corretto allineamento dei segmenti osteo-muscolari, tra di loro e rispetto alla forza di gravità. Questo allineamento crea le condizioni per una “centratura” del corpo rispetto allo spazio; mentre ogni movimento imparerà ad essere generato dal ritmo della respirazione diaframmatica profonda. Il respiro decide il ritmo e la forza del movimento. Se il respiro viene emesso lentamente e gradualmente, il corpo, centrato, si muoverà lentamente. L’emissione violenta del respiro produrrà un movimento esplosivo.

Lo studio di questa respirazione nel contesto del tai chi chuan ha importanti implicazioni psicologiche. Esistono prove sperimentali su come essa sia correlata significativamente con una riduzione dello stress (Lee et al., 2003; Zhang et al., 2014). Chapell, in un articolo apparso nel 1994 su Perceptual and Motor Skills, ha indagato la relazione tra respirazione diaframmatica e mediatori cognitivi dello stress. L’ipotesi che l’autore propone su base empirica è che l’evidente riduzione dello stress determinata dalla respirazione diaframmatica sia dovuta a un’attenuazione del cosiddetto “chiacchierio interno”, quella sorta di rumore cognitivo di fondo, che in alcuni soggetti si intensifica fino alla ruminazione, e che occupa la nostra mente durante le attività quotidiane, impedendo una vera attenzione sulle cose e sul momento presente. Il chiacchierio interno si  associa ad attivazioni involontarie e irregolari dei movimenti respiratori e dei muscoli connessi con la fonazione; movimenti simili a quelli che si realizzano quando parliamo realmente.

La respirazione diaframmatica, grazie alla sua lentezza, regolarità e profondità, compete secondo Chapell con quelle attivazioni muscolari irregolari, quindi ridurrebbe il chiacchierio interno associato ad esse. L’attenuazione del chiacchierio interno implica un rallentamento della successione dei pensieri, soprattutto quelli afinalistici e fuori contesto. La mente diventa più attenta e focalizzata sul momento presente, perchè più libera dal rumore di fondo del chiacchierio interno e dalla sollecitazione neurovegetativa ad esso correlata. Diverrà più facile e immediata l’intuizione delle connessioni tra eventi contingenti e pensieri, e dei processi mentali che ci portano ad attribuire significati spesso disfunzionali a quanto ci accade, alimentando emozioni negative.

Su questa base sarà possibile porre sotto uno sguardo critico quei processi. Riusciremo più prontamente a dire a noi stessi che quel dato evento ha generato in noi un’emozione così dolorosa perchè lo abbiamo letto in un determinato modo; comprenderemo che è stata la nostra lettura, la percezione di sè che dietro essa si cela, a dotare l’evento di una carica così dolorosa. Il chiacchierio interno sarà allora sostituito da un “dialogo” interno della mente con se stessa e della mente col corpo. Sulla base di questo dialogo abbiamo inoltre accesso al senso della sostanziale transizionalità dell’emozione negativa: l’emozione  è alimentata dal significato doloroso; non appena rivediamo criticamente quel significato, l’emozione si disperde o si attenua.

I risultati di Chapell hanno ricevuto numerose conferme empiriche. Per esempio, Philippot e Dallavalle (1998) hanno mostrato come le modalità e la qualità delle respirazione abbiano un impatto significativo sullo stato emotivo: la respirazione diaframmatica è correlata con una più efficace regolazione emotiva, e quindi con un maggior benessere psicologico.

Esistono diverse evidenze empiriche circa i meccanismi fisiologici alla base di questa correlazione. Gli ampi movimenti che il diaframma compie attraverso le fasi di questa respirazione determinano un’alternanza continua di compressione e decompressione degli organi addominali.

Lo studio di Zhang et al. (1992), ha misurato le variazioni di pressione esofagea e gastrica nelle fasi di inspirazione ed espirazione durante la pratica del tai chi chuan in un gruppo di otto soggetti. Gli autori hanno riscontrato che le variazioni significative di pressione negli organi addominali determinata dalle escursioni diaframmatiche genera le condizioni per una sorta di “massaggio dolce” agli organi addominali stessi. Questo determina a sua volta una vasodilatazione e un conseguente aumento della superficie del letto capillare. Il flusso ematico nei tessuti aumenta, il metabolismo cellulare viene stimolato e viene favorita l’eliminazione delle sostanze di rifiuto.

Inoltre, la stimolazione meccanica degli organi addominali e l’aumento della pressione negativa toracica determinato dall’ampia escursione diaframmatica in inspirazione favoriscono un aumento naturale del ritorno venoso; il che si traduce in un miglioramento dell’efficienza dei processi che fanno riconfluire il sangue dagli organi addominali e toracici alle vene cave e quindi al cuore, che può a sua volta trasferirlo più efficacemente nel circolo sistemico. Questo si traduce in un aumento del flusso a livello di tutti gli organi peiferici e in una loro più efficace ossigenazione e nutrizione. Dal punto di vista fisiologico, quindi, i benefici di questo tipo di respirazione saranno evidenti a livello sistemico.

Esistono diverse prove empiriche dei benefici della pratica protratta della respirazione tai chi anche sulle funzioni cerebrali superiori. Litscher e collaboratori (2001), per esempio, hanno studiato gli effetti sulle funzioni corticali in due maestri mediante ultrosonografia doppler, riscontrando un aumento del flusso ematico cerebrale, con conseguente miglioramento dell’ossigenazione e dell’efficienza delle cellule nervose. Altri studi mostrano una correlazione significativa tra pratica del tai chi chuan e miglioramento della modulazione vagale, che a sua volta è correlata con sensazioni soggettive di calma e tranquillità (Lu e Kuo, 2003).

Questo dato è coerente con quanto riportato da Ryu et al. (1996), che aveva evidenziato un significativo incremento dei livelli ematici di endorfina durante la respirazione tai chi. Altri autori hanno evidenziato gli effetti benefici che questi cambiamenti neurofisiologici determinano sulla qualità del sonno (Li et al., 2004), sui sintomi depressivi (Tsang et al., 2002), sui sintomi ansiosi (Sharma & Haider, 2014), e più in generale sul benessere psicologico (Tsang et al., 2003).

Questi sono solo alcuni tra i riscontri empirici più significativi sul rapporto tra arti marziali e benessere psicologico. Prima di concludere, però, può essere interessante citare un dato di review nettamente contrastante. Endresen e Olweus (2005) hanno esaminato i possibili effetti dei “power sport” (tra cui le arti marziali orientali) sul comportamento aggressivo e antisociale nei soggetti tra gli 11 e i 13 anni, riscontrando che queste discipline sembrano correlate con un’amplificazione di tali condotte.

Come spiegare una discrepanza del genere? Equilibrio psicofisico, sviluppo delle potenzialità personali, regolazione emotiva…tutte chiacchiere? In realtà, andando al sodo, sempre di menare le mani si tratta? La risposta più ovvia spontanea. Dipende dal maestro. Esattamente come per la psicoterapia.

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Attacco di panico: che cos’è e come funziona?

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (04)

 

 

L’Attacco di Panico è un periodo di paura o disagio intensi in assenza di vero pericolo e accompagnati da almeno sintomi cognitivi o somatici. L’attacco di panico raggiunge rapidamente l’apice e si manifeste con breve durata, solitamente non superiore ai 10 minuti.

Gli attacchi di panico possono essere

(1) inaspettati quando non è possibile associare l’attacco a un fattore specifico preciso,

(2) sensibili alla situazione se sono associati a contesti specifici (es: la guida in autostrada).

I sintomi che possono caratterizzare l’attacco di panico sono: palpitazioni, cardiopalmo o tachicardia, sudorazione, tremori fini o a grandi scosse, sensazione di soffocamento, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio), brividi o vampate di calore.

Il circolo del panico si fonda sulla paura della paura, cioè il timore di tutti quei segnali fisici che corrispondono alla paura (es: affanno, tachicardia, brividi, pressione al petto ecc…). La paura è un emozione che si attiva quando l’individuo percepisce una minaccia. La paura prepara il corpo a reagire a questa minaccia. 

Cosa succede quando uno dei segnali corporei della paura viene esso stesso interpretato come una minaccia (paura della paura)? Il corpo reagisce aumentando i segnali della paura. Si innesca in questo modo un vortice di apprensione e la paura si trasforma in panico.

Il vortice del panico è favorito dal fatto che il cambiamento fisiologico iniziale è spesso improvviso e inspiegabile. Il panico può spaventare a tal punto da diventare oggetto di preoccupazione anticipatoria. Cioè la persona può iniziare a temere di avere nuovi attacchi di panico.

Il rischio è reagire evitando tutte le situazioni che possono attivare un attacco di panico oppure affrontare le situazioni solo se accompagnati da qualcuno. In questo modo si innesca un problema di agorafobia, intesa come la paura relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali può essere difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali può non essere disponibile aiuto in caso di un improvviso attacco di panico. Una delle conseguenze pericolose dell’agorafobia è quello di ridurre l’autonomia e rinunciare ad attività quotidiane piacevoli o utili per la soddisfazione personale.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Many features of corporate psychopaths can be mistaken for leadership or positive traits. For instance, their lack of emotional responsiveness can be seen as a good business trait for leaders to possess, their grandiose promises and ambition to be successful can be seen positively for corporations.

How to tell if the guy in the next cubicle is an everyday sadistConsigliato dalla Redazione

The Dark Tetrad of personalities: they don’t get along? They get ahead. (…)

Tratto da: Quartz

 

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Facebook: il confronto con gli altri può renderci depressi? – Psicologia del Social Network

FLASH NEWS

“Facebook può essere un passatempo salutare e divertente se lo si utilizza per restare in contatto con la propria famiglia o con qualche vecchio amico. Tuttavia, se esso è utilizzato per indagare il benessere economico di un conoscente o la relazione sentimentale di un amico intimo – cose che causano invidia agli altri utenti – può conseguirne lo sviluppo di una sintomatologia depressiva”.

L’utilizzo di Facebook è diventata un’attività quotidiana per molti milioni di persone, nel bene e nel male. Proprio perché l’impatto di tale social network è stato così ampio, gli psicologi sono interessati ad approfondire il vissuto emotivo a esso associato e studiare il modo in cui il suo utilizzo quotidiano può influenzare la salute mentale degli individui.

In particolare, i ricercatori dell’University of Missouri hanno scoperto che l’utilizzo di Facebook può suscitare invidia tra i suoi fruitori, portando conseguentemente allo sviluppo di sintomi depressivi. Margaret Duffy, docente di comunicazione strategica presso l’ MU School of Journalism, afferma che la modalità e gli scopi con cui si utilizza il social network determinano le reazioni emotive delle persone. Più precisamente, “Facebook può essere un passatempo salutare e divertente se lo si utilizza per restare in contatto con la propria famiglia o con qualche vecchio amico. Tuttavia, se esso è utilizzato per indagare il benessere economico di un conoscente o la relazione sentimentale di un amico intimo – cose che causano invidia agli altri utenti – può conseguirne lo sviluppo di una sintomatologia depressiva”.

Insomma, un conto è l’utilizzo intelligente di un social network in quanto tale, ovvero come strumento per mantenere attivamente una rete di contatti interpersonali; diverso è invece utilizzarlo per ficcanasare, spettegolare, scuriosare i fattacci altrui e rimanere costantemente delusi e insoddisfatti quando qualcuno dei nostri contatti pubblica le foto di una vacanza costosa in qualche luogo da favola, o immortala momenti intimi di apparente perfezione con il proprio partner o, ancora, fotografa la propria lussuosa auto nuova fiammante.

Quello che Duffy e Edson Tandoc, dottorando presso l’MU ed assistente docente presso la Nanyang Technological University a Singapore, definiscono “survelliance use of Facebook”, consiste nel servirsi di esso come strumento per confrontare la propria condizione e stile di vita con quelli altrui.

In questo studio, gli autori hanno osservato molti giovani utenti intenti nell’utilizzo del social network, concludendo che nel momento in cui se ne fa un utilizzo del tipo “surveillance” si tendono a provare sentimenti d’invidia ed una serie di sintomi depressivi ad essa associati. Queste persone dimenticano probabilmente che uno dei motivi che spinge le persone ad utilizzare i media è la possibilità di riflettere tramite questi un’immagine positiva di sé stessi. Insomma, provare invidia, oltre ad essere controproducente, è anche del tutto immotivato: nessuno pubblicherà mai foto del proprio partner colto sul fatto mentre tradisce, nessuno diffonderà un selfie scattato nel momento successivo alla comunicazione del proprio licenziamento, nessuno condividerà la foto di quel giorno che siamo tornati a casa e l’abbiamo trovata devastata dopo che degli abili topi d’appartamento vi hanno fatto visita. Sarebbe comunemente ritenuto assurdo dare un’immagine di sé stessi come traditi, licenziati, derubati … in altre parole, deboli e sfortunati. Sarebbe un colpo basso inferto alla propria autostima!

“E’ importante che si studi l’impatto dei social media” dice Tandoc.Basandoci sui nostri studi, che d’altra parte sono in linea con quanto riscontrato fino ad ora da altri ricercatori, l’utilizzo di Facebook può avere effetti positivi sul benessere personale. Ma quando causa invidia tra gli utenti, allora questa è tutta un’altra storia. Le persone dovrebbero essere consapevoli di quanto sia importante nella nostra società l’immagine che si dà di sé stessi, motivazione che spinge gli individui a postare solo foto e commenti che possano dare un’idea positiva e un aiutino all’autostima che, probabilmente, è tanto scarsa da calpestarla. Questa consapevolezza diminuirebbe senz’altro i sentimenti d’invidia e il conseguente sviluppo di tratti depressivi, dandoci modo di utilizzare Facebook come quel che dovrebbe essere, una risorsa che ci consenta di mantenere attiva la nostra rete sociale.”

 

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Il contagio emotivo su Facebook è possibile? I risultati della ricerca

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia: Bando 2015 per 2 Borse di Studio da 3000€

!!! SCADENZA 31 MARZO 2015 !!!

È indetto pubblico CONCORSO NAZIONALE per l’assegnazione di due borse di studio dell’importo di € 3.000,00 (€ Tremila/00) ciascuna per un lavoro inedito in materia di NEUROSCIENZE e PSICOLOGIA sul tema:

MALATTIE NEURODEGENERATIVE: ASPETTI CLINICI, PSICOLOGICI ED ASSISTENZIALI

La partecipazione al concorso è riservata:

  • laureati in Medicina e Chirurgia
  • laureati in Psicologia

che abbiano conseguito il titolo non prima dell’anno accademico 2005/2006. I lavori, inediti, devono pervenire in sei copie entro il 31 MARZO 2015 alla

 

Segreteria del Premio Nazionale

Fondazione “Opera Santi Medici Cosma e Damiano – Bitonto – ONLUS” Piazza Mons. Aurelio Marena, 34 – 70032 Bitonto (Ba)

 

I lavori, in formato cartaceo e digitale su cd rom, anonimi e contrassegnati da un motto, devono essere chiusi in un plico che dovrà altresì contenere una busta chiusa con all’interno:

  • foglio che riporti il motto e le generalità del candidato;
  • copia del certificato di Laurea e/o attestato del Responsabile del Centro presso cui il lavoro di ricerca è stato eventualmente effettuato;
  • sintesi del lavoro presentato (non più di tre cartelle);
  • curriculum vitae et studiorum del candidato;
  • dichiarazione del consenso del trattamento dei dati personali ai sensi del D. Lgs. 196 del 2003.

Il giudizio della Commissione esaminatrice, composta da rappresentanti della scienza medica, nominata e presieduta dall’Arcivescovo di Bari-Bitonto, è insindacabile.

Il Premio Nazionale Santi Medici sarà consegnato nel mese di Maggio 2015

SCARICA LA LOCANDINA

 

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PREMIO STATE OF MIND PER LA RICERCA IN PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

Giornata mondiale della sindrome di Asperger: i mille volti del disturbo in tv e al cinema

Dal protagonista di “Adam” a Sheldon Cooper di “The big bang theory”: i mille volti della sindrome di Asperger al cinema e in tv

Il 18 febbraio, in occasione della Giornata mondiale sulla sindrome di Asperger, Erickson e Spazio Asperger ONLUS presentano una carrellata sulle rappresentazioni cinematografiche di un disturbo molto più diffuso di quanto si creda.

Domani, 18 febbraio, è la giornata mondiale della Sindrome di Asperger, una condizione dello spettro autistico lieve che nelle persone si traduce in una serie di difficoltà nella reciprocità sociale ed emotiva, e nella comunicazione non-verbale.

ARTICOLI E RISORSE SU: DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

Le persone Asperger hanno un profilo atipico per quanto riguarda sensi, emozioni, pensieri e comportamenti. Possono sembrare persone bizzarre o maleducate, solitarie o altezzose. E con interessi limitati, preoccupazioni inusuali e una certa propensione verso azioni ripetitive e atipiche.

[blockquote style=”1″]Sono le persone che nessuno immagina che possano fare certe cose quelle che fanno cose che nessuno può immaginare.[/blockquote]

Dal film “The Imitation game”

Sicuramente tutti noi abbiamo incontrato almeno una persona Asperger. Forse l’abbiamo giudicata semplicemente un po’ insolita, fuori dagli schemi. Mentre ne abbiamo conosciute molte altre attraverso gli schermi televisivi e cinematografici. Tra film e serie tv, la Sindrome di Asperger è stata raccontata in molti modi diversi e proprio le storie narrate nei film ci permettono di capirla un po’ più facilmente. Con la consulenza di David Vagni di Spazio Asperger Onlus abbiamo cercato di ricostruire l’unicità e l’identità nella Sindrome di Asperger attraverso la sue diverse rappresentazioni. Perché così come ogni Asperger è diverso, ogni personaggio può manifestare, esplicitamente o in maniera latente, solo alcuni tratti della sindrome.

C’è però un aspetto che accomuna le storie di molti Asperger: «È il senso di non appartenenza, la costante sensazione di essere pesci fuor d’acqua, fuori sincronia e sordi alla danza sociale che avviene intorno a noi. È la Solitudine dei numeri primi» dice David Vagni.

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Uno dei più famosi “numeri primi” narrati dal cinema è Adam, un ragazzo cresciuto, a causa delle sue difficoltà, in un ambiente iperprotettivo, consapevole di essere Asperger e intrappolato da questa etichetta. Non riesce a capire i desideri e i sentimenti degli altri. Vive una storia di amore intensa ma piena di incomprensioni a causa delle sue interpretazioni letterali e della sua tendenza a dire sempre tutto quello che gli passa per la mente.

Molto diverso è Oskar: a soli 9 anni, se ne va in giro con già in tasca un biglietto da visita. Spinto al miglioramento dal padre, è un bambino brillante, con interessi particolari, differenti da quelli dei coetanei. Ha un linguaggio molto ricercato, ricco di termini enciclopedici. Oskar esplora New York con la sua macchinetta fotografica e registra persone, oggetti, dettagli. Ha bisogno di trasformare la vita in immagini da non dimenticare. Ma non provate ad abbracciarlo, altrimenti si agita. E se lo invitate a una festa, non alzate il volume della musica perché i suoni alti lo farebbero gridare. Emozioni? Intense e difficili da esprimere. Il suo mondo è Molto forte incredibilmente vicino. Vi condurrà in un’avventura di crescita personale.

Ben-X, come accade spesso nei ragazzi Asperger, ha come proprio interesse specifico il computer, in particolare un gioco di ruolo online, dove impersona un cavaliere leale e dalla forte integrità morale che difende la principessa Scarlite, avatar di una ragazza che guiderà il giovane nel corso del film verso un´imprevedibile soluzione finale. Ben subisce, senza riuscire a capire come evitarla, l’aggressione di coetanei bulli che arrivano a umiliarlo al punto di fargli decidere di abbandonare la scuola e ritirarsi a vivere segregato in casa. Come sostiene lo psicologo australiano Tony Attwood, il più grande esperto mondiale sulla sindrome di Asperger, questi ragazzi «non soffrono a causa della sindrome, ma a causa delle persone che li circondano».

Anche se è certo che la sindrome di Asperger è più comune nei ragazzi che nelle ragazze, negli ultimi tempi donne e ragazze Asperger che iniziano a essere rappresentate anche nei film.

Il riccio presenta un bel rapporto tra una giovane Asperger e un mentore saggio in grado di capirla. I problemi alimentari e famigliari si intrecciano con i preconcetti di una cultura che non accetta la diversità. Destino migliore Amelie che ci trasporta nel suo fantastico mondo. Un personaggio che sembra uscito da una favola, ingenua e pulita, desiderosa di aiutare il prossimo e capace di stupirsi davanti alle piccole cose. Una storia felice che spesso purtroppo nella realtà non è tale.

Passando ai telefilm, incontriamo Bones, antropologa forense le cui abilità sul lavoro e la cui onestà sono inversamente proporzionale alle sue abilità sociali. Completamente diversa è Lisbeth: giacca in pelle nera, piercing, tatuaggi. Odia gli Uomini che odiano le donne. Calcolatrice e a volte spietata è tra i migliori hacker al mondo. La sua storia costellata di abusi e violenza ha nascosto a lungo il suo cuore.

Come dice Attwood: «Ci sono le brave ragazze, perfette nell’evitare i guai, anche troppo. E quelle che dicono: “Ah. Va all’inferno. Mi tingo i capelli, mi faccio piercing e tatuaggi. Odio il mondo e… vada a quel paese… il mondo intero!” Ed escono fuori dai binari perché odiano il mondo e quindi pensano: “Perché dovrei essere coerente?”».

Un altro tipo di donna Asperger è presente in Crazy in Love, film che racconta la storia di amore tra due Asperger, in qualche modo prototipi di due lati spesso mescolati caoticamente dell’essere Asperger. Ragione ed emozione. Un ragazzo rigido, preciso e iper-razionale; una donna artistica ed emotiva: come andrà a finire?

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Protagonista di una famosissima sit-com è Sheldon Cooper: fisico teorico di professione, ossessivo e infantile, all’apparenza cinico, spesso in rapporto conflittuale con il suo gruppo di amici in The Big Bang Theory, uno stereotipo comico della sindrome di Asperger che attraverso l’ironia rende possibile l’accettazione. Altro scienziato, questa volta storico, è Alan Turing, ritratto in The Imitation Game. Il suo contributo alla criptografia ha permesso di salvare milioni di vite durante la seconda guerra mondiale.

Perché, quindi, non chiudere questo breve carosello con una delle frasi finali del film: “Ora, se desidereresti essere nato normale… Ti posso giurare che io non lo desidero. Il mondo è un posto infinitamente migliore precisamente perché non lo sei”.

 

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Disturbi dello Spettro Autistico – Autismo

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Le Edizioni Centro Studi Erickson si occupano dal 1984 di didattica, educazione, psicologia, lavoro sociale e welfare attraverso la produzione di libri, riviste, software didattici e servizi on-line. Pubblicazioni molto conosciute e apprezzate, perché affiancano la presentazione scientificamente rigorosa di teorie e metodologie innovative a suggerimenti operativi, studi di caso e buone prassi. Attualmente le Edizioni Erickson hanno un ricco catalogo che tocca i temi delle difficoltà di apprendimento, della didattica per il recupero e il sostegno, dell’integrazione delle persone diversamente abili, delle problematiche adolescenziali e di quelle sociali. Ampio spazio è dedicato anche all’autismo e alla sindrome di Asperger.

Spazio Asperger ONLUS è un’associazione di professionisti e persone nello Spettro Autistico, impegnata nella ricerca scientifica e nella diffusione di buone pratiche e cultura attraverso la formazione e il supporto di persone, famiglie e professionisti. La sua missione è la valorizzazione della neurodiversità attraverso l’educazione, la comprensione e l’inclusione sociale.

Per maggiori informazioni: [email protected]

Dalla paura all’ansia – Introduzione alla Psicologia (03)

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (03)

 

 

Ansia e paura hanno lo stesso interruttore nel cervello, ovvero sono codificate nella medesima area cerebrale, ma i motivi per cui si manifestano sono diversi.

 

Proviamo a fare un gioco? Chiudi gli occhi e immagina qualcosa di molto spaventoso. D’istinto, cosa hai voglia di fare? Scappare, giusto! Infatti, la fuga è la prima reazione automatica che utilizziamo quando percepiamo di essere in pericolo. Lo scopo è quello di difenderci o di scappare dalla situazione pericolosa.

Questa risposta, chiamata in gergo ‘attacco-fuga’, è accompagnata da una serie di modificazioni fisiologiche che avvengono nel nostro corpo: il cuore batte più velocemente del solito, ci sentiamo tesi, respiriamo rapidamente, sudiamo, abbiamo la bocca secca e siamo molto più vigili perché dobbiamo capire istantaneamente cosa fare per metterci al sicuro o ci paralizziamo totalmente. La paura è una emozione provata da tutti, soprattutto in condizioni di reale pericolo.

Capita, a volte, che la paura diventi qualcosa di diverso e, a questo punto, ci troviamo a imboccare un sentiero più tortuoso e dissestato, che chiameremo ansia.

Ansia e paura hanno lo stesso interruttore nel cervello, ovvero sono codificate nella medesima area cerebrale, ma i motivi per cui si manifestano sono diversi. Nel primo caso, quando proviamo paura, siamo spaventati da qualcosa di reale. Se dovessimo sostenere un esame, è normale aver paura, ma nel momento in cui vorremmo andasse tutto secondo i nostri piani, cioè prendere assolutamente un trenta e lode, e chiaramente non si ha la certezza che questa cosa si verifichi, allora parleremo di ansia e non di paura. Insomma, l’ansia si scatena quando si effettuano previsioni negative e catastrofiche su eventi percepiti come importanti o pericolosi.

Anche in questo caso ci sono una serie di modificazioni fisiologiche simili a quelli della paura: giramenti di testa, vertigini, senso di confusione, mancanza di respiro, senso di costrizione o dolori al torace, appannamento della vista, senso di irrealtà, il cuore batte in fretta o salta qualche battito, perdita di sensibilità o formicolii alle dita, mani e piedi freddi, sudore, rigidità muscolare, mal di testa, crampi muscolari, paura d’impazzire o di perdere il controllo.

Insomma, un’esperienza molto intensa che può spaventare molto.

L’ansia è generata spesso dalle valutazioni che si effettuano su un determinato evento, o meglio dai pensieri, previsioni il più delle volte, su quello che accadrà in futuro. Nell’incertezza che un evento possa non andare come ci piacerebbe, vorremmo controllare evenienze nefaste, a questo punto l’ansia aumenta e si alimenta.

L’ansia, però, potrebbe presentarsi anche senza un motivo apparente, manifestandosi in modo eccessivo e privo di ogni controllo. In questo caso si otterrà una risposta eccessiva e sproporzionata, che innescherà sensazioni di ansia future.

In generale, i pensieri che possono generare ansia sono:

  • Sopravvalutazione del pericolo: Se mi espongo in pubblico sarò un fallimento
  • Sottovalutazione delle proprie capacità di affrontare una situazione: non essendo capace di gestire una situazione di gruppo, allora la evito

Quando le situazioni generano un’ansia difficili da gestire in maniera autonoma e appropriata , ci si rivolge a un psicoterapeuta che fornisce gli strumenti adeguati per affrontarla.

Anche questo viaggio è finito, ci diamo appuntamento alla prossima settimana.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Morto un vecchio frac se ne fa un altro? – Musicoterapia

Quel gruppo mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta su come una semplice (ma non banale…) canzone possa essere ricca di significati personali e di letture diverse e possa essere uno strumento utile anche nel lavoro con persone affette da patologie psichiatriche gravi.

Non avevo mai ascoltato bene il testo della canzone Vecchio frac di Domenico Modugno (1955), fino a quando un paziente ha chiesto di ascoltarla durante il gruppo di musicoterapia che tengo settimanalmente nel reparto psichiatrico dove lavoro. Quella mattina il gruppo era iniziato in modo insolito, con due giovani pazienti che avevano pensato di farmi una sorpresa intonando a cappella, dall’inizio alla fine, la celeberrima Margherita di Cocciante (che non sentivo dai tempi delle gite in pullman alle medie). Oltre a portarmi vicino alla commozione, queste sorprese tendono a spiazzarmi e ad alleggerire di un bel po’ la pesantezza e la difficoltà dell’usurante lavoro nell’ istituzione psichiatrica, che per sua natura ha la tendenza a mettere la malattia davanti alla persona (“lunedì trovami un posto letto per uno psicotico”, “No signora, in questo reparto curiamo solo i disturbi del comportamento alimentare, che però non abbiano mai commesso gesti autolesivi”, etc.).

Il brano di Modugno racconta di quest’uomo elegantissimo, un po’ speciale e completamente immerso in una peregrinazione nella solitudine della notte. Tranne un gatto occasionale, gli altri personaggi della canzone sono tutti soggetti inanimati (strade, caffè, fanali, bastone, etc.) e senza quasi che te ne accorgi l’uomo va incontro leggero e fischiettante al tragico finale in cui il frac “se ne scende lentamente, sotto i ponti verso il mare, verso il mare se ne va…”, lasciandoti una sensazione di stupore e di lieve sgomento. Non mi sarei aspettato che nel lontano 1955 il grande Modugno potesse cantare di un suicidio in modo quasi spensierato, ispirato tra l’altro da un fatto reale (il suicidio del principe Raimondo Lanza di Traiba che si defenestrò da un hotel romano).

Il problema era che quella mattina nella sala, su dieci partecipanti al gruppo, almeno quattro avevano considerato seriamente il suicidio nell’ultimo periodo o l’avevano tentato e questo un po’ mi preoccupava, forse in nome del “primum non nocere”, uno dei principi cardine della medicina, che ti inculcano già dai primi anni di università. Capita infatti abbastanza frequentemente che certi brani, proprio per il potere evocativo della musica, possano causare forti reazioni emotive soprattutto nelle persone con la “pelle psichica” più sottile, come i pazienti con personalità borderline, con il rischio conseguente che in questi stati mentali commettano qualche agito.

Lo spettro del suicidio poi, anche solo tentato, aleggia costantemente nei luoghi di cura della psichiatria e nelle teste degli operatori psichiatrici, ben consapevoli in realtà che se uno è determinato a farlo, non può essere impedito neanche da un ricovero nell’ ospedale più sicuro del mondo.

In realtà quella volta, come spesso succede nel nostro lavoro, andò molto diversamente da come paventavo. La persona che aveva fatto la richiesta motivò la propria scelta dicendo che il brano risuonava con i propri pensieri di poter scomparire dal mondo e questo gli procurava una certa serenità e un senso di liberazione dalla sofferenza. Altre persone, anche quelle con recenti tentativi in anamnesi, condividevano lo stesso pensiero e non parevano per nulla turbate dalle parole di Modugno.

Mi pare che questo atteggiamento possa confermare le attuali tendenze psicoterapiche, sempre più ricche di evidenze, che considerano fondamentale l’accettazione anche dei fenomeni mentali più spaventosi. L’evitamento della sofferenza mentale e la tendenza a scappare dall’esperienza psicologica sgradita in realtà possono rappresentare dei fattori di rischio rispetto alla messa in atto di comportamenti suicidari (Luoma JB e Villatte JL, 2011). D’altra parte la sola presenza di ideazione suicidaria, pur meritando sempre la massima considerazione, può tuttavia essere presente in modo transitario in tantissime persone (in certi studi fino al 30%) della popolazione generale (ten Have et al., 2009), senza esitare in gesti autolesivi.

Tornando al gruppo di quella mattina, solo una voce si distingueva dal “coro”: quella di una delle ragazze che all’inizio mi aveva cantato la canzone di Cocciante. Anche lei pareva rasserenata dall’ascolto, ma per un motivo diverso. Nel brano trovava infatti la ricerca del nuovo, immaginando che il protagonista gettasse il proprio frac nel fiume, liberandosi di un pesante fardello per indossare un vestito diverso (“si chiude una porta e si apre un portone!”).

Leggendo il testo anche questa interpretazione ci può stare, perché letteralmente sono il frac e il cilindro a galleggiare, anche se poi nell’ ultima strofa si parla di un “Addio al mondo”, che potrebbe essere inteso (con un eccesso di ottimismo) come il vecchio mondo della persona, pronto a essere rinnovato. La ragazza era alla fine del ricovero e forse, anche grazie al percorso compiuto, mostrava un atteggiamento più positivo, più capace di rielaborare ulteriormente gli stimoli della canzone.

Il gruppo accolse bene anche questa diversa lettura del brano ed alcuni mostrarono un certo stupore.
La cosa curiosa è che tanti anni prima l’impietosa commissione di censura di Stato spingeva l’ascoltatore verso questa interpretazione, quando Modugno fu costretto a cambiare il verso ricorrente “chi mai sarà quell’uomo in frac” in “di chi sarà quel vecchio frac”.

A quei tempi non si parlava ancora di accettazione e mindfulness ed era ancora abbastanza fresco l’“effetto Werther”, l’imitazione dei comportamenti suicidiari ispirati dagli eroi della letteratura. Quel gruppo mi ha fatto riflettere per l’ennesima volta su come una semplice (ma non banale…) canzone possa essere ricca di significati personali e di letture diverse e possa essere uno strumento utile anche nel lavoro con persone affette da patologie psichiatriche gravi. La domanda nasce spontanea: più serenate e meno Serenase?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Arti marziali & benessere psicologico – I Parte

 Sul tatami, con i suoi fratelli di allenamento, vive per la prima volta nella sua vita un senso di appartenenza che trova la sua profonda radice nella corporeità. Condividere la fatica, il sacrificio, il divertimento governato da regole. Apprendere attraverso il proprio corpo, e attraverso il corpo dell’altro.

Alfredo (chiamiamolo così) ha diciannove anni. Dice di avere un corpo di legno. Gli sembra che i segmenti del suo corpo non riescano a evitare di litigare tra loro quando si tratta di intraprendere qualsiasi azione. Le gambe, per esempio, sempre a polemizzare con le braccia invece di collaborare con loro per creare un movimento coordinato. Che so, per camminare. Correre, poi, non se ne parla. Fare sport, un desiderio congelato, che ha smesso di nutrire da quando aveva otto anni. Che strano, però, a guardarlo da fuori Alfredo non sembra affatto il burattino di legno che descrive. Magro, è magro, ma di una magrezza vitale. Segaligna, ma in qualche modo pulsante, muscolare, bisognosa di esprimersi.

Me lo dice dopo i primi dieci minuti della prima seduta: ha letto da qualche parte sul web che insegno arti marziali. Di arti marziali, mi dice, non c’ha capito mai molto, ma – non sa perchè – quell’insolito connubio tra Freud e Bruce Lee lo ha incuriosito. Forse è il motivo principale per cui ha scelto me. Forse per i terapeuti vale la stessa cosa che si dice dei libri. Che non li scegliamo noi, ma sono loro a sceglierci.

Gli dico che fare arti marziali è il modo principale attraverso cui mi prendo cura di me stesso. Sembra colpito. Abbassa lo sguardo e mi dice che anche lui ha bisogno di un modo per prendersi cura di sè. Non è mai riuscito a farlo, dice.

La terapia prenderà forma plasmandosi ogni volta, ad ogni seduta, sull’immediatezza. Aiutarlo a fare un po’ salotto insieme va bene per sciogliere momentaneamente l’esoscheletro stratificato attorno alla sua esistenza. Potrà anche essere di legno ogni volta che entra nel mio studio, ma quando esce voglio che senta di essere fatto di carne viva. Almeno per un po’.

Capiremo insieme che da quando ha ricordo di sè, ha ricordo di una rigidità anche più interna rispetto a quella corporea. Momenti, sempre più frequenti fino a diventare un tono di fondo, in cui l’attenzione rivolta su di sè diventava opprimente. Osservarsi e vedersi vulnerabile, inadeguato, estraneo agli altri.

Comprendiamo cause, svisceriamo copioni interni, attribuiamo colpe a genitori che poi, insieme, perdoniamo. (Ovviamente, senza  usare la parola colpa; in fondo la psicoterapia, tra le altre cose, è anche un po’ questo: dare colpe senza mai darne l’impressione). Confezioniamo cornici di significato che levighiamo con cura. Un giorno, Alfredo ha anche un’intuizione importante. Tutte le volte, numerose, che ha invidiato la forza fisica e la padronanza del corpo che mi ha attribuito nella sua immaginazione, forse ha esagerato. (Si sente fuori campo la voce dei miei menischi rotti che gli danno ragione). Capiamo che forse era solo un altro modo in cui si manifestava la sua percezione di sè come uno che nella vita passerà sempre inosservato.

Passa un anno. Alfredo si innamora. Questo gli era già successo molte volte. La novità è che stavolta la ragazza in questione ne viene informata. La terapia volge lentamente al termine. Ci interroghiamo però su perché, nonostante la strada fatta, ogni volta che una situazione, anche la più innocua, gli elicita quel senso di vulnerabilità ontologica, il corpo ritorni ad essere di legno. Una partita a bowling con la fidanzata e gli amici di lei. Ora sa osservare meglio sul nascere pensieri come “sono tutti migliori di me…più belli, più intelligenti, più spigliati…lei avrebbe potuto scegliere uno di loro, e probabilmente lo farà”. Sa anche metterlo in discussione. “Col dottore abbiamo visto tante volte quanto questo dipenda dal mio schema basato sul rifiuto subito”. Ma questo non basta ad arrestare quella trasformazione della carne in legno. Ad assistere alla perdita dell’immediatezza nello scambio che il corpo stabilisce con lo spazio. Infatti, nella partita a bowling non azzecca manco un tiro. La palla calamitata ogni volta dal canaletto a margine della pista. Quello messo lì apposta perché gli imbranati non facciano danni. Fa perdere la sua squadra tre volte di seguito. Attorno a sè, solo persone sorridenti, che vorrebbero scherzarci su, ma rimangono disarmate dal suo sguardo che diventa sempre più spento. La sua fidanzata vorrebbe abbracciarlo, ma sta imparando che in questi momenti è meglio lasciarlo stare. Ci sarà tempo dopo, quando saranno soli, per rassicurarlo. E a quel punto lui saprà leggere solo la fatica a cui, cronicamente, la costringe. “Sicuramente si stancherà di me”.

Secondo me tra un terapeuta e un maestro di arti marziali non c’è molta differenza, sempre che uno faccia il terapeuta e il maestro di arti marziali in un certo modo. Così mi confeziono la giustificazione della violazione del setting e del confine terapeutico che sto per commettere. Gli dico che la prossima seduta sarà in palestra. Una lezione privata con me e poi, se la roba che gli mostrerò gli piace, valuteremo la possibilità di inserirlo nella collettiva. Non sembra molto sorpreso. Come se si fosse sempre aspettato da me un’uscita del genere. L’occulta simmetria della relazione terapeutica. Tu conosci il paziente e non ti rendi conto che lui finisce per conoscere te.

Fatto sta che accetta, senza farmi molte domande. Solo, vuole sapere che tipo di arte marziale. Gli spiego che pratico due discipline complementari. Tai chi chuan e il jiu jitsu brasiliano. La differenza tra loro è che il secondo è esterno, il primo interno. Esterno vuol dire che studia come produrre ed emettere forza attraverso l’uso, sempre più economico, dei muscoli; interno vuol dire che persegue il medesimo obiettivo attraverso l’uso della respirazione.

Dopo tanti anni di pratica, però, questa distinzione perde senso. L’esterno diventa interno e viceversa. Un’altra differenza importante è che il tai chi chuan studia il combattimento in piedi, mentre il jiu jitsu brasiliano enfatizza il combattimento a terra. Portare l’avversario al suolo, per poi neutralizzarlo e indurlo a desistere dal combattimento, senza l’utilizzo di colpi. Gli dico che secondo me per lui è meglio il jiu jitsu.
Come introduzione teorica è un po’ essenziale. Come terapeuta sono logorroico, come insegnante di arti marziali l’esatto contrario. Comunque gli basta.

Ovviamente, quando sale sul tatami si sente di legno. Quando gli spiego le tecniche, gli parte un riflesso verbale. “Non ci posso riuscire”. Tanto che a un certo punto gli dico, ma con tono calmo – il che rende piuttosto efficace l’intervento terapeutico – che non deve rompere co’ sta storia, perchè è evidente che le cose le sta riuscendo a fare. Ride.

Poi lottiamo. Nel jiu jitsu brasiliano si lotta già nella prima lezione. Il messaggio che sta dietro questo è che la lotta a terra è una  routine ancestrale che condividiamo con molte specie animali, ma che poi perdiamo. I neonati, e i bambini fino a circa quattro anni, compiono spontaneamente molti movimenti tecnici del jiu jitsu brasiliano. Non occorre molto tempo per recuperare questo retaggio motorio evoluzionisticamente fondato, basato sul gioco della lotta a terra come mezzo sicuro, tra fratelli, per acquisire destrezza nel combattimento ed aumentare le possibilità di sopravvivenza.

Un noto maestro disse:

[blockquote style=”1″]”Prendete due persone, insegnategli una tecnica di jiu jitsu ciascuno; poi metteteli su un’isola deserta con la consegna di lottare ogni giorno cercando di utilizzare quell’unica tecnica; tornate dopo tre mesi; troverete due lottatori di jiu jitsu”[/blockquote]

Mentre lotta, Alfredo sembra attraversare diversi stati emotivi. Si arrabbia, perchè ha quasi un quarto di secolo meno di me e ad avere il fiatone è lui (questo è inevitabile quando si lotta con un compagno di allenamento più esperto); gli viene da ridere quando lo faccio volare per poi riachiapparlo in aria e annullare l’impatto col tatami; si sente vulnerabile quando lo immobilizzo per qualche secondo per spiegargli che quello è l’obiettivo quando si lotta.

Sembra anche intuire che io non sto semplicemente insegnandogli, ma mi sto allenando con lui. E mi sto divertendo con lui. Che è molto molto diverso dal divertirsi alle sue spalle. Quella vitalità, che avevo intuito in lui già al nostro primo incontro, trova un canale espressivo. Lui sembra esserne spettatore stupito. Al termine della lotta è stremato.

Si iscrive al corso collettivo. La sua psicoterapia finisce, inizia la pratica marziale. Dopo tre mesi, è un lottatore di jiu jitsu. E si è dimenticato di essere di legno.

Sul tatami, con i suoi fratelli di allenamento, vive per la prima volta nella sua vita un senso di appartenenza che trova la sua profonda radice nella corporeità. Condividere la fatica, il sacrificio, il divertimento governato da regole. Apprendere attraverso il proprio corpo, e attraverso il corpo dell’altro.

Quel senso di appartenenza, è riuscito ad esportarlo anche fuori. Ora, in mezzo agli altri, la memoria somatica del suo corpo, forte, flessibile, fluido, rigido solo nei momenti giusti, immerso in quella via di mezzo tra gioco e combattimento, plasma una diversa percezione di sè. Si può essere vulnerabili, come quando si subisce un’immobilizzazione da un avversario più esperto, ma questo non significa soccombere. Non significa mai essere umiliati. E’ una posizione dell’animo che si può abitare, continuando a lottare-giocare con un altro che tante altre volte, anche lui, ha sperimentato quella stessa vulnerabilità. Chi lotta, nel jiu jitsu, lo fa sempre sentendosi vulnerabile.

Alfredo non rappresenta un caso eccezionale, secondo me. In fondo, uno schema sè/altro ha origine da esperienze radicate nella corporeità. Da stati emotivi somaticamente marcati vissuti in esperienze interpersonali prototipiche. Plausibile che uno schema si possa anche modificare funzionalmente attraverso un approccio sofisticato basato sulla corporeità. Insegnando al corpo a ripensare la mente.

Nella seconda parte approfondirò le basi empiriche su cui si basa questa ipotesi, descrivendo nel dettaglio i processi psicofisiologici che si attivano in alcune pratiche marziali.

CONTINUA DOMANI CON LA SECONDA PARTE

 

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Un programma di prevenzione potrebbe dunque essere più efficace di un provvedimento punitivo: è difatti dimostrato che insegnare ai genitori di bambini che mostrano queste problematiche come affrontare al meglio quella fase dello sviluppo porta a significative riduzioni dei problemi di condotta.

Come è noto, le punizioni oltre a scoraggiare gli atti di delinquenza servono soprattutto a far riconoscere l’errore e trasmettere un nuovo quadro valoriale. Ma questa metodologia è efficace con tutti i tipi di criminali? Un recente studio dell’università di Montreal sostiene di no.

Secondo Blackwood, un criminale con tratti psicopatici presenta delle caratteristiche diverse da un criminale comune, primo fra tutti è l’incapacità di apprendere dalle punizioni. Criminali di questo tipo sembra non traggano alcun beneficio dai programmi di riabilitazione: hanno tassi maggiori di recidività e scontare la pena sembra non influenzi affatto la loro condotta.

Visto che in media uno su cinque dei criminali violenti è anche psicopatico, fare un tentativo per identificare i meccanismi neurali sottostanti il loro comportamento è indispensabile per sviluppare interventi più efficaci.

In questa ricerca gli autori hanno utilizzato le Immagini di Risonanza Magnetica per studiare la struttura e le funzioni cerebrali in un campione di criminali violenti (condannati per omicidio, stupro, tentato omicidio e lesioni personali gravi) in Inghilterra; 12 di loro con diagnosi di disturbo di personalità antisociale e psicopatia, 20 presentavano un disturbo di personalità antisociale ma non erano diagnosticati psicopatici e il gruppo di controllo era invece composto da 18 non-criminali sani.

I risultati mostrano l’esistenza di anormalità strutturali della materia grigia (riduzione bilaterale del volume della corteccia prefrontale rostrale anteriore e dei lobi temporali) in entrambi i gruppi di criminali, ma il gruppo di psicopatici presenta anche anormalità specifiche della materia bianca.

Aver individuato la presenza di alterazioni specifiche della materia bianca potrebbe aiutare a spiegare perché i criminali psicopatici persistono nei loro atti violenti nonostante le punizioni ricevute. Quale alternativa potrebbe essere utile, allora?

Come spiega Blackwood gran parte dei crimini violenti sono commessi da uomini che avevano messo in atto condotte problematiche già da piccoli: gli antecedenti della psicopatia emergono infatti già in giovane età: è allora che la struttura e il funzionamento cerebrale si delineano in maniera più dettagliata, ma è anche il momento il cui ci sono ancora le potenzialità per poter effettuare delle modificazioni.

Un programma di prevenzione potrebbe dunque essere più efficace di un provvedimento punitivo: è difatti dimostrato che insegnare ai genitori di bambini che mostrano queste problematiche come affrontare al meglio quella fase dello sviluppo porta a significative riduzioni dei problemi di condotta, quantomeno nei bambini che non sono ancora del tutto insensibili agli altri.

Ovviamente le dinamiche dei comportamenti violenti persistenti sono sottili e complesse e le anormalità cerebrali associate agli stessi non sono di facile individuazione. Ricerche di questo genere sono cruciali per ottenere le informazioni necessarie per sviluppare programmi di prevenzione e interventi specifici per provare a modificare il comportamento e diminuire il rischio di commettere crimini violenti.

 

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Ordine degli Psicologi e MIUR: la figura dello psicologo a scuola come supporto al corpo docente

 

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Lauro Mengheri, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Toscana, ha annunciato l’accordo tra il MIUR e il Consiglio Nazionale degli Psicologi per promuovere la presenza dello psicologo nelle scuole italiane come aiuto ai docenti ed alunni:

 

È recentissimo l’accordo tra Consiglio Nazionale degli Psicologi e MIUR sulla formazione agli insegnanti su Bisogni Educativi Speciali e Disturbi Specifici dell’Apprendimento, in virtù del quale gli psicologi del territorio nazionale saranno nelle scuole di tutta Italia a promuovere una politica di valorizzazione delle diversità che va ben oltre la certificazione della disabilità e le diagnosi di Disturbi dell’Apprendimento.

[ Toscana ] Psicologi a scuola per valorizzare la diversità. C’è l’accordo tra l’ordine e il MIUR | gonews.itConsigliato dalla Redazione

Per la prima volta l’Ordine degli Psicologi è tra i formatori del mondo della scuola per temi delicati quali la lettura della diagnosi e la personalizzazione della didattica senza costi aggiuntivi per le scuole «È recentissimo l’accordo tra Consiglio Nazionale degli Psicologi e MIUR sulla formazione agli insegnanti su Bisogni Educativi Speciali e Disturbi Specifici dell’Apprendimento, in virtù del quale gli psicologi del territorio nazionale saranno nelle scuole di tutta Italia a promuovere una politica di valorizzazione delle diversità che va ben oltre la certificazione della disabilità e le diagnosi di Disturbi dell’Apprendimento» (…)

Tratto da: gonews.it

 

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La guerra, i gattini e la percezione dell’orrore – Psicologia

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del giorno 15 Febbraio 2015

È cambiata la percezione nel nostro tempo presente, in cui siamo al tempo stesso protetti  – almeno in Occidente – come non mai rispetto alle guerre e al tempo stesso siamo espostissimi come non mai non solo a informazioni, ma a rappresentazioni crudamente realistiche di queste guerre? Direi di si, ma solo in parte.

Strane coincidenze.  Due giorni fa Linkiesta m’invita a scrivere su come è cambiata la percezione della guerra e dei conflitti e, poche ore prima, alcuni colleghi mi parlavano del colonnino destro dei giornali online, luogo a quanto pare sempre misteriosamente pieno di tette e di gattini.

Che c’entra? Beh, la spiegazione di una collega era che il colonnino destro servisse a bilanciare tutte le notizie alla sua sinistra, nella parte seria dello schermo: guerre, massacri, ecatombi in mare. La collega aveva preferito usare la parola “evitamento”, termine tecnico probabilmente poco noto al grande pubblico. Per intenderci, l’evitamento somiglia a quel che Freud chiamava rimozione: l’eliminazione di rappresentazioni mentali sgradevoli. Nella psicologia moderna non c’è più l’eliminazione completa, la cancellazione dalla memoria, il rimosso. Si pensa che la mente si limiti a spostare l’attenzione, a evitare il contenuto sgradevole. E a sostare su un paio di tette. O anche su un gruppo di teneri gattini.

È questa la risposta da dare a Linkiesta? La percezione della guerra è oggi per noi tutti un solo grande evitamento? Facciamo tutti finta di niente, aggrappandoci a un paio di tette e ai dolci gattini esposti a destra? Se è così, mi tocca produrre un po’ di dati sul fenomeno e un po’ di nozioni tecniche per il lettore. Cos’è l’evitamento?

Però, a pensarci bene, non sono convinto. Che evitamento sarebbe, scusatemi? C’è un colonnino a destra pieno di tenere ed erotiche distrazioni e tre quarti di spazio a sinistra pieno di guerre, rapine, stragi e sangue. Dov’è l’evitamento?

Per spiegarmi questo colonnino guardo un po’ di letteratura neurologica e apprendo che il movimento oculare naturale va da sinistra a destra, che infatti è anche la nostra direzione di lettura (Arnheim, 1954; 1974). Il che poi potrebbe non significare nulla: la direzione sinistra destra non è quella di tutte le scritture, come sappiamo. Mi chiedo: chissà se i giornali scritti da destra a sinistra piazzano altrove il colonnino pruriginoso.

Insomma, sembra che la nostra attenzione sia consapevolmente guidata – da redazioni scafatissime in neurologia – ad atterrare, dopo un percorso accidentato di stragi e di sangue, su contenuti più dolci e consolanti. Tutto questo non mi pare propriamente un volgere altrove l’attenzione; è semmai un dosaggio accattivante di tensione e distensione che cattura l’attenzione e la tiene desta, ma non la devia e nemmeno la distrae.

Io credo che oggi siamo molto più consapevoli dell’orrore rispetto a una volta. Confrontiamo ad esempio l’iperrealismo della violenza nei film di ora con l’ingenua rappresentazione che ne davano i film del passato. Oggi vediamo con evidenza l’esplodere sanguinoso della carne colpita dai proiettili, la deformazione disumana del corpo colpito a morte. Nei film di un tempo la morte violenta era uno svenimento stilizzato, un improvviso afflosciarsi dell’attore senza troppo sangue sparso, afflosciarsi la cui funzione era teatrale e non realistica: segnalare che il personaggio usciva di scena, oltre che dalla vita.

Che poi, percettivamente, non è affatto detto che gli zampilli e gli schizzi impazziti siano davvero più realistici. Alcuni complottisti hanno elucubrato che la morte del poliziotto Ahmed Merabet, ucciso dagli attentatori di Charlie Hebdo, fosse una messinscena proprio in base alla mancanza di schizzi di sangue. In effetti nel filmato la morte del povero Ahmed non è grandguignolesca come nei film di Tarantino. Tuttavia il sonoro dei colpi di fucile è reale e raggelante, molto più raggelante sia degli spari educati dei vecchi film in bianco e nero che dell’iperfracasso tridimensionale dei film di oggi.

L’esposizione alla guerra e alla violenza è cambiata? Si, ma forse non in un’unica direzione.

Per certi aspetti è aumentata, per altri diminuita. È aumentata la consapevolezza della terribilità della guerra e dei massacri. Per secoli le rappresentazioni sono state stilizzate o assenti. Ricordiamoci che anche dopo la seconda guerra mondiale per quindici anni si tacquero le stragi perpetrate a danno degli ebrei. Non che non si sapessero, ma mancava un’esposizione pubblica. Tutto cambia solo con il processo ad Adolf Eichmann, il criminale di guerra che organizzò la deportazione degli ebrei d’Europa nei campi di concentramento. Fu catturato in Argentina dal Mossad nel 1960 e processato in Israele nel 1961. Il processo fece esplodere l’esposizione mediatica dei crimini nazisti in una misura fino a quel momento assente. Dal 1945 al 1961 fanno sedici anni di silenzio.

Lo ripeto: questo non vuol dire che ci sia una direzione unica di cambiamento. Sicuramente dagli anni ’60 in poi, probabilmente con i film sulla guerra del Vietnam, la guerra e il conflitto sono rappresentati sempre più come una macelleria con poco o nulla di eroico. Anche i western, da Sergio Leone in poi, hanno reso la violenza sempre più cruda e meno elegante. Nei decenni precedenti la rappresentazione della guerra era meno vivida e precisa nella mente del pubblico. Questa incoscienza spiega il pazzo entusiasmo che travolse i popoli europei allo scoppio della prima guerra mondiale. I giovani soprattutto si buttarono a corpo morto in quella festa mondiale della morte nel luglio del 1914, tutti sicuri di andare a fare un’eroica scampagnata e di tornare a casa per Natale.

Attenzione, però: già dopo quella guerra ci fu un movimento opposto, con i libri dei reduci, a cominciare dal “Niente di nuovo dal fronte occidentale” di Remarque. Una letteratura disillusa e cruda fece cadere il velo dell’eroismo e la realtà orribile della carne maltratta dagli spari e straziata dalle bombe divenne evidente. In una scena durante un combattimento, il soldato Haje Westhus è ferito gravemente alla schiena. La ferita è così profonda e ampia che Haje può vedere attraverso lo squarcio il suo stesso polmone spugnoso allargarsi e restringersi. Certo, per un Remarque disilluso c’era uno Jünger altrettanto crudo, ma tutt’altro che smitizzante: “Nelle tempeste d’acciaio” nobilita la guerra. Fatto sta che l’ingenuo entusiasmo del 1914 non si rinnovò più e divenne rassegnata accettazione per la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea e infine aperto rifiuto per il Vietnam.

Andando indietro nel tempo le oscillazioni continuano. A bilanciare un Kipling che nobilita il conflitto ci sono ancor prima un Tolstoj e uno Stendhal che rappresentano il caos insensato delle battaglie del periodo napoleonico, e l’orrore delle mutilazioni nelle terribili sale chirurgiche da campo. E così indietro nel tempo. Avete letto l’Iliade? Fatelo. Non attendetevi solo nobili eroi. Omero rappresenta la morte in battaglia con crudo realismo: i versi rendono esplicitamente e onomatopeicamente, perfino in traduzione, il raccapricciante spaccarsi e frantumarsi delle ossa sotto i colpi delle aste dei guerrieri.

Avete letto Plutarco? Fatelo. Non attendetevi solo nobili eroi. Il centurione Crastino, soldato di Giulio Cesare, morto nella battaglia di Farsalo, viene descritto orrendamente sfregiato dalla spada che lo ha ucciso: “colpito in bocca da una spada, così che la punta di questa gli squarciò la nuca”. La morte di Crastino è descritta anche da Cesare in persona nel De Bello Civili con toni molto più composti e senza il gusto plutarchiano per il sanguinolento. Come si vede, oscillazioni percettive ci sono sempre state, ed epoche violentemente incoscienti si sono sempre alternate ad altre molto meno entusiaste della guerra.

Le oscillazioni possono essere anche più vicine nel tempo. Possono avvenire e poi rovesciarsi anche nel volgere di pochi anni. Inoltre lo stesso gusto realistico e grandguignolesco può funzionare anche per celebrare la guerra e non solo per condannarla e generare repulsione. In concomitanza con la guerra irachena del secondo Bush furono pubblicati o ripubblicati una serie di libri di argomento militare il cui obiettivo era proprio fornire una rappresentazione realistica delle battaglie, dall’antichità in poi. La battaglia nel suo svolgersi concitato di mischia caotica, di corpi che cercano di sopraffarsi fisicamente, con tutto ciò che c’è di bestiale e penoso in un simile spettacolo. La battaglia, insomma, come qualcosa di radicalmente diverso dalla metafora degli scacchi o del nobile duello.

Tra questi i migliori restano i libri di Victor D. Hanson: “L’ arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica“ e “Il volto brutale della guerra. Okinawa, Shiloh e Delio: tre battaglie all’ultimo sangue”. È interessante osservare, lo ripeto, come in Hanson la nobilitazione della guerra non avviene affatto attraverso una stilizzazione eroica e asettica, ma nasce proprio dall’analisi realistica degli aspetti più agghiaccianti e repulsivi, compresa la descrizione delle defecazioni che sfuggivano agli opliti greci nel momento della carica, della corsa col cuore i gola e con le aste dritte di fronte a se precipitando a sbattersi in faccia all’esercito nemico, anch’esso in moto affannoso con le lunghissime aste spianate. In quei momenti terribili, ci racconta Hanson, gli eroi ammassati nella falange greca, uno addosso all’altro -spalla a spalla come si dice nella retorica della guerra- mollavano a ritmo continuo delle gran palle di merda che cadevano, nella concitazione della corsa a perdifiato, addosso un po’ a tutti.

L’intento di Hanson è paradossalmente celebrativo: egli fa un continuo parallelo tra questa attitudine al violento scontro frontale degli eserciti occidentali e lo sviluppo della libertà personale dei cittadini, ovviamente in Occidente. E senza tanti complimenti contrappone quest’attitudine occidentale allo scontro unico e decisivo all’attitudine orientale alla guerriglia, agli agguati e all’anti-eroico conflitto cronico a bassa intensità, mettendola in relazione a un’altra classica opposizione che risale ai tempi di Erodoto: libertà occidentale contro dispotismo orientale. Non basta. Hanson ulteriormente sviluppa la sua visione in libri dai titoli sempre più crudi -per esempio “Massacri e Cultura; Le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo”- e collegando insieme attitudine alla guerra frontale, libertà e sviluppo capitalistico, inteso come frutto di questo virilismo occidentale. Chiaramente questa letteratura diventò strumento di propaganda quando Bush lanciò la sua crociata in Iraq dopo l’attentato al World Trade Center.

Per rispondere alla domanda iniziale: è cambiata la percezione nel nostro tempo presente, in cui siamo al tempo stesso protetti  – almeno in Occidente – come non mai rispetto alle guerre e al tempo stesso siamo espostissimi come non mai non solo a informazioni, ma a rappresentazioni crudamente realistiche di queste guerre? Direi di si, ma solo in parte.

Dexter - Immagine: Copyright © 2011 - Showtime
Dexter lo psicopatico e la mentalizzazione degli stati emotivi

Da una parte la nostra epoca è molto meno propensa rispetto alle precedenti all’idealizzazione eroica e stilizzata della guerra. Al tempo stesso, non è vero che le epoche passate non abbiano saputo guardare al volto orrendo della guerra e non è nemmeno vero che l’orrore sia sempre e solo repulsivo. Quello stesso orrore, quell’odore raccapricciante del sangue può affascinarci. Come ci affascina tutta la letteratura dell’orrore o come mi affascina lo splatter della serie TV “Dexter”. La sto guardando spesso in queste sere e mi piace molto. Ve la raccomando. È meglio della guerra e anche meglio delle tette sui colonnini destri.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Arnhem, R. (1954). Art and Visual Perception. A Psychology Of The Creative Eye. Rewgents of The University of California. Tr. It. Arte e percezione Visiva. Milano, Feltrinelli, 1974.
  • Hanson, V. D. (1989). The Western Way of War: Infantry Battle in Classical Greece. New York: Alfred A. Knopf. Tr. It.  L’arte occidentale della guerra. Descrizione di una battaglia nella Grecia classica. Milano: Garzanti, 2009.
  • Hanson, V. D. (2001). Carnage and Culture: Landmark Battles in the Rise of Western Power. New York: Doubleday. Tr. It. Massacri e Cultura. Le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo. Milano: Garzanti, 2002.
  • Hanson, V. D. (2003). Ripples of Battle: How Wars Fought Long Ago Still Determine How We Fight, How We Live, and How We Think. New York: Doubleday. Tr. It. Il volto brutale della guerra. Okinawa, Shiloh e Delio: tre battaglie all’ultimo sangue. Milano: Garzanti, 2005.

La Demenza in famiglia: la riabilitazione attraverso gli interventi sui familiari

L’importanza del ruolo di un supporto psicologico diretto ai famigliari risulta da uno studio che ha riconosciuto una significativa riduzione dei livelli di depressione, nei caregivers di individui affetti da demenza, partecipando a un programma di supporto telefonico (Tremont et al, 2014).

 

Nei prossimi 20 anni il numero delle persone colpite da demenza aumenterà drammaticamente a causa dell’incremento della longevità umana. In Europa, la popolazione anziana è in continua crescita, grazie al benessere e al miglioramento della qualità della vita, con uno sbilanciamento a favore delle donne soprattutto nelle classi più vecchie.

Come conseguenza si stimano nel mondo 48 milioni di soggetti con demenza, che nei successivi venti anni, potrebbe raggiungere una cifra superiore agli 81 milioni, per la stragrande maggioranza concentrata nei paesi in via di sviluppo. Nei soli paesi dell’Unione Europea (EU) le più attendibili stime prospettano di superare nel 2020, i 15 milioni di persone affette da demenza, con una proporzione di 2:1 per il genere femminile rispetto a quello maschile. Un rapporto tra disabilità e costi ha evidenziato come il peso della demenza è pari al doppio di quello prodotto dal diabete.

I costi nel 2008 corrispondevano a oltre 160 miliardi di Euro, le sole cure informali sono intorno al 56% del totale. Le previsioni basate sull’evoluzione demografica in Europa fanno ipotizzare un aumento di circa il 43% di tali costi entro il 2030 (Ministero della Salute, 2013). Nel Regno Unito 700.000 persone attualmente sono affette da demenza (>1% dell’intera popolazione del Regno Unito) e in prospettiva si calcola che ce ne saranno un milione. Fra 20 anni saranno il doppio (Ferri, 2005; Knapp, 2007). Nel Regno Unito, il costo delle cure, relativo alla demenza, equivale a 17 bilioni di sterline per anno e si stima che arriverà a 50 bilioni nei prossimi 30 anni. Il costo sale in relazione all’aumento del numero delle persone anziane (Knapp; Departement of Health).

In Italia, nel 2009 si contavano 1,012,819 persone con demenza(Alzheimer.it). In Europa, la nostra nazione, è uno dei paesi con più alto tasso di persone con demenza. Circa il 62,5% delle persone con disabilità ha più di 75 anni (Disabilità in Cifre, 2009), ciò fa pensare che il fenomeno della demenza incide molto sul Sistema Sanitario Nazionale.

La demenza danneggia le persone che ne sono malate, i loro famigliari e l’intera società in quanto genera maggiore dipendenza e un cambiamento dei comportamenti individuali e di interazione sociale. Un recente studio ha sottolineato che circa due terzi delle persone con demenza vive a casa con i propri parenti. Questi si prendono cura di loro e si confrontano ogni giorno con la malattia.

Oltre a partecipare alla gran parte degli oneri finanziari del congiunto o parente i famigliari di quest’ultimo subiscono il peso psicologico della disabilità. Si è scoperto infatti che circa il 40% di loro sviluppa stati di ansia e/o depressione a livello clinico, mentre il restante 60% è affetto da sintomi di natura psicologica (Mahoney et al, 2005; Cooper et al, 2007). Studi recenti evidenziano anche un legame tra depressione e demenza e ciò porta a riflettere come la prima possa essere un fattore di rischio dell’insorgenza precoce della seconda (Wilson et al, 2014).

L’importanza del ruolo di un supporto psicologico diretto ai famigliari risulta da uno studio che ha riconosciuto una significativa riduzione dei livelli di depressione, nei caregivers di individui affetti da demenza, partecipando a un programma di supporto telefonico (Tremont et al, 2014).

Inoltre, un’ulteriore studio ha mostrato che parenti che beneficiano di un supporto psicologico in un servizio diurno di cura, circa due volte alla settimana, hanno valori più elevati di DHEA-S un ormone associato al miglioramento a lungo termine della salute (Penn State, 2014). Il fattore più importante per predire la qualità della loro salute mentale è risultato essere l’utilizzo di strategie di coping funzionali (Livingstone et al, 2014). Le strategie di coping sono risultate essere anche più rilevanti della comorbilità cognitiva e psichiatrica delle persone di cui loro si prendono cura e delle ore di assistenza che gli vengono fornite (Supplemento Livingstone G.).

Invero, i familiari che usano strategie di coping emotion-focused e meno strategie di coping disfunzionali sono meno ansiosi e con livelli di depressione minori (Cooper et al, 2008). Il trattamento dell’ansia e della depressione, nonché dei sintomi psicologici associati alla situazione di malattia del parente, dei famigliari dei soggetti affetti da demenza passa attraverso la promozione di strategie di coping emotion-focused.  I gruppi basati sulle strategie di coping sono un intervento valido ed efficace per migliorare la qualità della vita e riabilitare ai rapporti sociali persone che altrimenti sarebbero trascinate dal peso della malattia del proprio parente.

Negli USA si attuano da anni interventi di gruppo, denominati “Coping with Caregiving programmes”, per favorire il passaggio a strategie di coping funzionali nei parenti di persone con demenza. A Londra è stato testa il programma STRART (STrAtegies for RelaTives, strategie per parenti) che ha raggiunto una probabilità 7 volte inferiore rispetto alle cure tradizionali di sviluppare quadri clinici di ansia/depressione (Livingstone et al). Il programma è composto da 8 fasi e comprende un periodo che dalle 8 alle 14 settimanali. Le sessioni sono settimanali e possono avvenire anche a domicilio della famiglia che ne richiede il servizio. Nei gruppi si lavora per aumentare l’utilizzo di strategie di problem-solving ed emotion-focused. Studi condotti negli USA e nel Regno Unito hanno evidenziato come l’utilizzo di questi gruppi ha coinciso con un netto miglioramento dei livelli di ansia e depressione dei famigliari di persone dementi (Goode et al, 1998; Mausbach et al, 2006; Cooper et al, 2007).

Le terapie basate sul coping ed attuate attraverso dei gruppi sembrano essere lo strumento più efficace e conveniente per affrontare questo fenomeno sociale e clinico (Cooper, Balamural, 2007). Ci sono numerose prove che dimostrano come questi interventi siano efficaci nella riduzione dei sintomi legati all’ansia (Cooper), alla depressione (Gallagher-Thompson et al, 2001, 2003; Coon et al, 2003, Steffen, 2000) e nell’aumento della self-efficacy (Steffen).

L’utilizzo di questi interventi potrebbe ridurre la spesa che il Sistema Sanitario Nazionale impiega nella cura di suddetti sintomi, poiché oltre a non avere più sintomatologie psicologiche, e fisiche correlate alla sfera psicosomatica, i familiari delle persone con demenza saranno in grado di gestire meglio lo stress e le difficoltà associate all’assistenza del proprio famigliare malato. Tutto ciò con una qualità della vita e una salute mentale migliore per tutti.

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BIBLIOGRAFIA:

La percezione del tempo nello sviluppo tipico e atipico – Neuropsicologia

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Autrice: Fabiana Nuccetelli

La percezione del tempo nello sviluppo tipico e atipico

Abstract

Il modo in cui il cervello costruisce una rappresentazione mentale del passaggio del tempo sembra essere un fenomeno molto complesso. Il nostro cervello deve stimare il passaggio di brevi intervalli di tempo con precisione molto elevata, al fine di eseguire azioni estremamente elaborate, come ad esempio le prestazioni atletiche o artistiche. D’altra parte, la percezione del tempo è fondamentale per la vita quotidiana, in quanto è necessaria per la realizzazione delle attività in cui è necessario stimare il passare del tempo (secondi o minuti). Molti studi hanno indagato la capacità di elaborazione temporale nella popolazione adulta, pochi, invece, sono stati gli studi che hanno affrontato questa tematica in una prospettiva evolutiva. Questa carenza presente in letteratura è la motivazione di base di questo lavoro sperimentale che ci ha portato ad indagare la percezione del tempo nello sviluppo tipico (esperimento 1) e atipico (esperimento 2), attraverso un compito di bisezione temporale.

Abstract in inglese

The way in which the brain constructs a mental representation of the passage of time seems to be a very complex phenomenon. Our brain has to estimate the passage of brief intervals of time with very high accuracy, in order to perform actions extremely elaborate, such as athletic performance or artistic. On the other hand, the perception of time is essential for everyday life, as it is necessary for the realization of the activities in which it is necessary to estimate the passage of time (seconds or minutes). Many studies have investigated the ability of temporal processing in the adult population, few, however, have been studies that have addressed this issue in an evolutionary perspective. This deficiency in the literature is the basic motivation of this experimental work that has led us to
investigate the perception of time in typical development (experiment 1) andatypical ( experiment 2), through a task of temporal bisection.

ALLEGATO

KEYWORDS

Percezione, Tempo, Sviluppo, Bisezione temporale, Sindrome di Williams.

PREMIO STATE OF MIND 2014

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Stress in gravidanza e benessere del feto: quale esito a lungo termine?

FLASH NEWS

I ricercatori credono che la quantità di glucocorticoidi materni possa influenzare la quantità di nutrienti trasmessa al feto e lo stato di benessere a lungo termine.

Un recente studio messo a punto dal Dipartimento di Fisiologia, Sviluppo e Neuroscienze dell’Università di Cambridge ha mostrato come nei topi, lo stress eccessivo durante la gravidanza potrebbe indurre ad assumere una maggiore quantità di cibo, compromettendo, in questo modo, la crescita e la salute della prole.

Succede che in seguito a condizioni stressanti, l’organismo secerne maggiori quantità di ormoni legati allo stress, meglio noti come glucocortioidi, che agiscono sulla regolazione del metabolismo dei carboidrati sia negli adulti che nel feto. Gli autori della presente ricerca, dunque, hanno indagato in che modo questi ormoni, se presenti nella madre in gravidanza, possano influenzare la quantità di glucosio trasmesso al proprio figlio tramite placenta.

Per riprodurre condizioni di forte stress, ai topi fu somministrata un’alta quantità di glucocorticoide (corticosterone),  in diversi momenti della gravidanza; i topi in gravidanza furono divisi poi in gruppi diversi: ad un primo gruppo era consentito di mangiare liberamente, a un secondo gruppo di mangiare con moderazione, e l’ultimo gruppo non riceveva nessun tipo di trattamento sperimentale. Infine è stata misurata la  quantità di glucosio trasmessa al feto attraverso la placenta, l’organo che fornisce tutte le sostanze necessarie per la crescita fetale del feto.

Dai risultati è emerso che quando il corticosterone era somministrato negli ultimi giorni della gravidanza, e ai topi era consentito mangiare liberamente, la placenta trasportava una quantità di glucosio insufficiente per una crescita adeguata. Al contrario quando l’ormone era somministrato precocemente in gravidanza o quando la dieta era controllata, il feto non presentava problemi relativi alla dimensione, peso e salute a lungo termine.

I ricercatori credono, dunque, che la quantità di glucocorticoidi materni possa influenzare la quantità di nutrienti trasmessa al feto e lo stato di benessere a lungo termine. Non è ancora chiaro se i risultati di questa ricerca possano essere estesi a un campione di donne che vivono reali situazioni estremamente stressanti. Per questo, nelle future ricerche si potrebbe comprendere meglio la relazione esistente negli essere umani tra stress materno, quantità di ormoni dello stress rilasciati dall’organismo e il funzionamento della placenta per la trasmissione di sostanze nutritive al feto necessarie a garantire un buono stato di salute a lungo termine.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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Dognition: il sito web per scoprire quanto è intelligente il tuo caneConsigliato dalla Redazione

Il Dott. Brian Hare, antropologo evoluzionista alla Duke University, ha creato Dognition, un sito internet che aiuta i proprietari di cani a capire meglio la mente del loro amico a quattro zampe. (…)

Tratto da: LiveScience.com

 

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