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I benefici di lungo periodo di uno scandalo che investe il capo in azienda

FLASH NEWS

Ricerche attuali mostrano che scandali nei quali sono coinvolti capi di grandi aziende non hanno un impatto negativo a lungo termine e possono anzi sortire effetti positivi sui guadagni. 

Infatti, dagli studi emerge che le misure correttive messe in atto dopo un avvenimento scandaloso instillano fiducia nei clienti di tali imprese, aumentando i profitti di queste ultime fino a surclassare i rivali che non si sono macchiati l’immagine adottando condotte reprensibili.

Nonostante ciò, è bene sottolineare che le conseguenze a breve termine per gli azionisti sono piuttosto disastrose. I capi d’azienda che commettono frodi fiscali o prendono parte a interscambi commerciali poco puliti, costano molto caro ai propri azionisti nei giorni immediatamente successivi alla diffusione pubblica di tali notizie.

In uno studio che comprendeva l’analisi di 80 scandali finanziari avvenuti in USA, emerge che le quote sono tragicamente cadute in una percentuale compresa tra 6.5 e 9.5 percento nella mensilità successiva al misfatto, costando collettivamente ai soci circa 1.9 miliardi di dollari per ogni azienda coinvolta in uno scandalo. E non si tratta solo di condotte immorali in campo finanziario, ma avvenimenti di tale genere possono anche riguardare la sfera personale, come l’avere una relazione extraconiugale, mentire sul proprio curriculum o essere coinvolto in questioni di molestie sessuali.

Comunque, gli effetti negativi non durano a lungo. Tre anni dopo, il valore delle azioni delle stesse aziende coinvolte nella ricerca superava quello di altre imprese non coinvolte in alcuno scandalo. Nonostante tutto, infatti, le 80 compagnie studiate – che includono grandi nomi come Apple, Hewlett Packard, IBM, JP Morgan and Yahoo – mostrano un aumento di guadagni, che si verifica a partire da tre anni dopo lo scandalo.

La ricerca, condotta dal Dottor Surendranath Jory dell’University of Sassex, è stata pubblicata sul Journal of Applied Economics. Le imprese analizzate dallo studioso e dai suoi colleghi dell’East Carolina University e dell’University of Texas-Pan American erano state coinvolte in avvenimenti scandalosi in un periodo compreso tra il 1993 e il 2011. Nello studio veniva utilizzato il punteggio ROA (Return on Assets, che in italiano si potrebbe tradurre con l’espressione beni convertibili in liquidità) come misura dell’efficienza delle aziende nel convertire i loro beni in guadagni. Dai dati emerge che le aziende il cui Chief Executive Officer era stato coinvolto in uno scandalo guadagnavano il 10 percento in più delle compagnie rivali.

Secondo il Dottor Jory questo potrebbe essere dovuto al fatto che le misure di sicurezza messe in atto in seguito ad un evento collettivamente ritenuto immorale, misure quali ad esempio punizioni esemplari e maggiori controlli al fine di prevenire futuri abusi, apportino dei cambiamenti che rendono gli investitori maggiormente fiduciosi. Come dire, che se nessuno si augura che uno scandalo avvenga tra le proprie fila, può stare tranquillo che, dopo una grossa perdita iniziale, andrà tutto per il meglio.

 

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Lo psicologo Paul Rozin e i suoi colleghi hanno anche scoperto che è molto più probabile che gli studenti dell’università della Pennsylvania affermino che il loro ateneo fa parte della “Ivy league” rispetto a quelli di Harvard, che come tutti sanno fa parte di quel gruppo di prestigiose università statunitensi. Tra parentesi, lo studio è apparso su Psychological Science, che è esattamente il nome che ci aspetteremmo per una rivista di psicologia, visto che gli psicologi sono paranoicamente preoccupati di non essere considerati veri scienziati.

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Tratto da: Internazionale

 

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Psicofarmaci: l’Italia sempre più impasticcata. Soluzioni? Aumentare l’offerta di Psicoterapia e sostegno psicologico

[blockquote style=”1″]I dati del Rapporto Osmed 2014 diramati all’Aifa sono impietosi e allarmanti: nel nostro Paese il consumo di antidepressivi è divenuto talmente ampio da costituire, a detta dei vertici dell’agenzia, ‘una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica’. Durante i primi 9 mesi del 2014, i nostri concittadini hanno acquistato più antidepressivi, e contestualmente meno antibiotici e meno vaccini. Non c’è da stupirsi: da tempo la rabbia e la depressione vengono individuati da enti di ricerca e istituzioni quali fattori chiave della crisi sociale che stiamo attraversando. Ciò che invece stupisce è che si continui a trascurare l’opportunità di appropriatezza ed efficacia offerta dall’apporto di psicologi e psicoterapeuti, le cui potenzialità vengono tuttora colpevolmente trascurate dal Servizio Sanitario Nazionale. Curare la depressione costa poco rispetto ai costi diretti ed indiretti che genera: il rapporto Osmed ne è l’ennesima conferma…[/blockquote]

 

 

Boom antidepressivi. Gli psicologi: “I dati Aifa dimostrano che bisogna rafforzare psicoterapia”Consigliato dalla Redazione

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Allarme dell’Ordine del Lazio dopo i dati dell’ultimo rapporto Osmed che pongono gli antidepressivi tra le principali componenti della spesa farmaceutica pubblica. “Stupisce che si continui a trascurare l’opportunità di appropriatezza ed efficacia offerta dall’apporto di psicologi e psicoterapeuti”… (…)

 

SCARICA IL RAPPORTO OSMED 2014 (PDF)

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Un cattivo matrimonio spezza davvero il cuore? Relazioni sentimentali & malattie cardiache

Una relazione sentimentale infelice potrebbe portare a un più alto rischio di malattie cardiovascolari, soprattutto nelle donne e in età avanzata. Cosa fare per evitare un cuore spezzato? La ricerca e l’articolo segnalato raccomandano di curare le cattive relazioni matrimoniali ad ogni età, ricorrendo a sostegno psicologico e a percorsi terapeutici di coppia.   

 

[blockquote style=”1″]Tradimenti, litigi e crisi di coppia spezzano il cuore degli innamorati nel vero e concreto senso della parola, soprattutto se essi sono anziani e se donne. Le valutazioni operate nel quinquennio studiato dalla équipe, hanno mostrato che, specie in caso di tradimento, le donne tendono ad ammalarsi di patologie cardiache più degli uomini, un fenomeno che in qualche caso conduce alla morte. Analogamente un coniuge che critica o che è costantemente esigente, è dannoso per la situazione cardiovascolare della moglie…[/blockquote]

Matrimonio infelice, il cuore si ammala Consigliato dalla Redazione

Relazioni sentimentali e malattie cardiache: un cattivo matrimonio spezza davvero il cuore - Immagine: 70248072
Le coppie che vivono dentro un matrimonio cattivo hanno un rischio maggiore di malattie cardiovascolari rispetto a quelle che vivono un buon matrimonio. (…)

Tratto da: Medicitalia.it

 

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La coppia omosessuale e l’omogenitorialità

L’orientamento sessuale dei genitori influisce sui figli: i bambini di genitori omosessuali presentano una minor conformità con gli stereotipi di genere, più apertura a esperienze omosessuali e più capacità critica nell’affrontare stereotipi e pregiudizi.

Ci sono delle differenze significative tra coppie eterosessuali e omosessuali che possono influire negativamente sul benessere di un figlio? La letteratura scientifica, attraverso studi comparativi con coppie eterosessuali senza figli (sia sposate che conviventi) ha documentato come queste ultime presentino delle similitudini con le coppie gay e lesbiche per quanto riguarda la durata del rapporto, la soddisfazione di coppia, le modalità di far fronte ai conflitti, l’intimità fisica, la vicinanza affettiva ed emotiva, le minacce di allontanamento o i periodi di separazione transitoria (Kurdek, 2004, 2006, 2009).

Infatti, come le coppie eterosessuali, un gran numero di gay e lesbiche vuole costruire delle relazioni stabili, durature (Johnson, 1990; McWhiter, Mattison, 1984; Peplau e Spalding, 2000) e spesso riesce in questo suo proposito. Diversi ricercatori statunitensi tra cui Kurdek (2003), Nardi (1997) e Peplau e Spalding (2000) hanno rilevato che un consistente numero di coppie omosessuali conduce una relazione dalla durata più che decennale. In Italia, studi di tipo descrittivo (Barbagli e Colombo, 2007) hanno attestato come il 40-49% dei gay e il 50-55% delle lesbiche vive una relazione fissa.

L’insieme dei dati a disposizione ci dimostra come le coppie omosessuali “funzionano” in modo molto simile a quelle eterosessuali, in termini di soddisfazione, impegno reciproco, durata e stabilità del legame, distogliendo l’attenzione dall’orientamento sessuale come fattore discriminante e introducendo nuove curiosità nell’indagare le specificità delle coppie gay e lesbiche.

A tal proposito è stata rilevata una maggiore propensione a una divisione più paritaria dei compiti domestici da parte delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali (Blumstein, Schwartz, 1983; Carrington, 1999; Green, Bettinger e Zacks, 1996; Barbagli e Colombo, 2007; Coltrane, 2000; Kurdek, 2006; Solomon, Rothblum e Balsan, 2005).

Anche per quanto riguarda l’organizzazione del potere e della presa di decisione nelle coppie, le ricerche evidenziano come le coppie omosessuali siano più egualitarie e paritetiche (Peplau e Cochran, 1980) e come questa equità sia associata a dinamiche della coppia più funzionali: una più soddisfacente risoluzione dei conflitti e un minore tasso di violenza fisica/psicologica (Borghi, 2006).

Infine, le ricerche sulle tematiche di discussione inquadrano aree comuni fra le coppie omosessuali ed eterosessuali, riportando somiglianze per quanto riguarda frequenze e argomenti: in generale sembra che gli argomenti su cui si confrontano i partner di una coppia siano connessi agli affetti, alle finanze e al mantenimento della casa (Kurdek, 1994, 2005, 2006; Metz, Rosser e Strapko, 1994). Queste caratteristiche delle coppie omosessuali sono sufficienti a garantire un adeguato sostegno protettivo, emotivo ed educativo ad un bambino?

Gli studi effettuati da Stacey e Biblarz (1981 – 1998, citati in Bottino e Danna, 2005) portano ad evidenziare come l’orientamento sessuale dei genitori influisca sui figli: i bambini di genitori omosessuali presentano una minor conformità con gli stereotipi di genere, più apertura a esperienze omosessuali e più capacità critica nell’affrontare stereotipi e pregiudizi.

Eppure, non sono emerse discrepanze per ciò che concerne il benessere psichico: Stacey e Biblarz (2001) riportano i risultati di studi che affermano l’assenza di differenze nei livelli di ansia, di autostima e di altre dimensioni legate allo sviluppo psicologico del bambino. Inoltre, non è emersa alcuna relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e le abilità cognitive dei figli anche se “finora nessun lavoro ha confrontato la realizzazione a lungo termine dei bambini nell’istruzione, nell’occupazione, nel reddito e in altri ambiti della vita” (Stacey e Biblarz, 2001, p. 171).

Altre ricerche hanno trovato che i figli cresciuti con genitori omosessuali presentano le stesse caratteristiche di bambini di età analoga cresciuti con genitori eterosessuali per ciò che concerne lo stile genitoriale, l’equilibrio emozionale e l’orientamento sessuale dei figli (Allen e Burrel, 1996), e che non esistono particolari differenze nell’attitudine materna né per quanto riguarda l’acquisizione del concetto di Sé (Mucklow e Phelan, 1979).

Tuttavia, “le poche differenze significative effettivamente trovate tendono a favorire i figli di madri lesbiche” (Stacey e Biblarz, 2001, p. 172): la review presa in esame suggerisce che in media le madri (madri lesbiche, madri eterosessuali e co-madri) tendono a un maggiore investimento nella cura dei figli rispetto ai padri, e che siano più adatte alle attività di cura cruciali per il loro sviluppo cognitivo, emotivo e sociale (Furstenberg e Cherlin, 1991; Simons et al., 1996). Secondo Stacey e Biblarz, questi risultati riflettono qualcosa di più di un semplice “effetto di genere”, poiché l’orientamento sessuale è la “variabile esogena” chiave per la quale genitori di sesso diverso o uguale si uniscono e costituiscono nuclei familiari.

La discussione dei risultati degli studi sintetizzati dalla ricerca portano Stacey e Biblarz a considerare come gli stessi risultati possano essere influenzati da aspetti e fattori che non sono direttamente inerenti all’orientamento sessuale.

In definitiva, la maggior parte delle differenze evidenziate dalle ricerche, quando non favorisce i genitori omosessuali, è un effetto secondario del pregiudizio sociale oppure rappresenta una di quelle differenze che le società democratiche dovrebbero rispettare e proteggere. Stacey e Biblarz propongono infatti di considerare l’omofobia e le discriminazioni i soli motivi per cui l’orientamento sessuale dei genitori può avere influenza sui figli.

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La famiglia omosessuale in Italia tra dogmi e ricerca scientifica

BIBLIOGRAFIA:

  • Allen, M., e Burrell, N. (1996). Comparing the Impact of Homosexual and Heterosexual Parents on Children: Meta-Analysis of Existing Research. Journal of Homosexuality, 32, pp. 19-35.
  • Barbagli, M., e Colombo A., (2007). Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia. Bologna: Il Mulino.
  • Blumstein, P., Schwartz, P. (1983). American Couple: Money, Work, Sex. New York: Morrow.
  • Borghi, L. (2006). Tramanti non per caso: divergenze e affinità tra lesbo-queer e terzo femminismo. In T. Bertilotti, C. Galasso, A. Gissi e F. Lagorio (a cura di), Altri femminismi. Corpi culture lavoro. Roma: Manifesto Libri
  • Bottino, M., e Danna D., (2005). La Gaia Famiglia. Che cos’è l’omogenitorialità. Trieste: Asterios.
  • Carrington, C. (1999). No Place Like Home: Relationship and Family Life among Lesbians and Gay Men. Chicago: University of Chicago Press.
  • Coltrane, S. (2000). Research on Household Labor: Modeling and Measuring the Social Embeddedness of Routine Family Work. Journal of Marriage and the Family, pp. 1208-33.
  • Costantini, G. (2010). L’omosessualità e il desiderio dell’omogenitorialità: dalla coppia omosessuale ai bisogni del bambino. Tesi di laurea non pubblicata, Facoltà di Psicologia – Università degli Studi dell’Aquila, L’Aquila, Italia.
  • Furstenberg, F.F. Jr, e Cherlin, A. (1991). Divided Families. Cambridge: Harvard University Press.
  • Green, R. J., Bettinger, M., e Zacks, E. (1996). Are Lesbian Couples Fused and Gay Male Couples Disengaged? Questioning Gender Straightjackets. In J. Laird, R. J. Green (a cura di.), Lesbians and Gay in Couples and Families: Handbook for Therapists (pp 185-230). San Francisco: Jossey-Bass.
  • Johnson, S.E. (1990). Staying Power: Longterm Lesbian Couples. Tallahassee: Naid Press.
  • Kurdek, L.A. (2004). Are Gay and Lesbian Cohabiting Couples Really Different From Heterosexual Married Couples?. Journal of Marriage and Family, 66, pp. 800-900.
  • Kurdek, L.A. (2009). Assessing the Health of a Dyadic Relationship in Heterosexual and Same-Sex Partners. Personal Relationship, 16, pp. 117-27.
  • Kurdek, L.A. (2003). Differences between Gay and Lesbian Cohating Couples. Journal of Social and Personal Relationships, 20, pp. 411-36.
  • Kurdek, L.A. (2006). Differences between Partners from Heterosexual, Gay, and Lesbian Cohabiting Couples. Journal of Marriage and Family, 68, pp. 509-28.
  • Kurdek, L.A. (2004). Gay Men and Lesbians: The Family Context. In M. Coleman e L. Ganong (a cura di), Handbook of contemporary families: considering the past, contemplating the future (pp.96-115). Thousand Oaks: Sage.
  • Kurdek, L.A. (2005). Gender and Marital Satisfaction Early in Marriage: A Growth Curve Approach. Journal of Marriage and the Family, 67, pp. 68-84.
  • Kurdek, L.A. (1994). The Nature and Correlates of Relationship Quality in Gay, Lesbian, and Heterosexual Cohabiting Couples: A Test of the Individual Difference, Interdependedence, and Discrepancy Models. In B. Greene e G.M. Herek (a cura di.), Lesbian and Gay Psychology: Theory, Research, and Clinical Applications. Thousand Oaks: Sage.
  • McWhiter, D.P., e Mattison, A.M. (1984). The male Couple: How Relationship Develop. Englewood Cliffs: Patienche-Hall.
  • Metz, M.E., Rosser, B. R. S., e Strapko, N. (1994). Differences in Conflict Resolution, Styles among Heterosexual, Gay, and Lesbian Couples. Journal of Sex Research, 31, pp. 1-16, 1994.
  • Mucklow, B., e Phelan, G.K., (1979). Lesbian and Traditional Mothers Responses to Adult Response to child Behavior and Self- Concept. Psychological Reports, vol. 44.
  • Nardi, P.M. (1997). Changing Gay & Lesbian Images in the Media, in J. Sears, W. Williams (a cura di), Overcoming Heterosexim & Homophobia: Strategies that Work. New York: Columbia University Press.
  • Peplau, L.A., e Spalding, L.R., (2000). The Close Relationship of Lesbians, Gay Men, and Bisexuals. In C. Hendrick e S.S. Hendrick (a cura di), Close Relationship: A Sourcebook. Thousand Oaks: Sage.
  • Simons, R.L., et al., (1996). Understanding Differences between Divoced and Intact Families: Stress, Interactions, and Child Outcome. Thousand Oaks: Sage.
  • Solomon S., Rothblum E. D., e Balsam K.F., (2004). Pioneers in Partnership: Lesbian and Gay Male Couples in Civil Unions Compared with Those Not in Civil Unions, and Married Heterosexual Siblings. Journal of Family Psychology, 18, pp. 275-86.
  • Stacey, J., e Biblarz, T.J., (2001). (How) Does the Sexual Orientation of Parents Matter?. American Sociological Review, Vol. 66, pp. 159-183.

Empathy: The self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy – Neuropsychology

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Empathy. The self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy

Autore: Claudio F. Bivacqua (Dipartimento di Psicologia, Università di Palermo)

 Abstract

Le neuroscienze attuano un’importante distinzione fra l’empatia emotiva e l’empatia cognitiva (Shamaay-Tsory,2010), identificando con il primo termine la condivisione immediata dell’emozione di un altro,  mentre con il secondo, una forma più complessa di empatia, che consiste in un sistema cognitivo che permette di assumere la prospettiva dell’altro.

Saxe e colleghi dimostrano come la giunzione temporo parietale di destra (rTPJ) si attivi maggiormente quando la nostra prospettiva è diversa da quella dell’altro, stabilendo un’incongruenza fra i diversi stati mentali e permettendo al soggetto di elaborare contemporaneamente e consapevolmente le informazioni relative al sé e all’altro (Saxe et al.,2005).  Questo studio, da realizzare attraverso un paradigma di stimolazione magnetica transcranica (TMS), vuole indagare il ruolo della giunzione temporo parietale di destra nell’empatia emotiva, ipotizzando una maggiore capacità di simulare l’espressione emotiva di un altro quando la giunzione temporo parietale di destra viene inibita. Quest’area cerebrale avrebbe il ruolo di stabilire un confine tra il sé e l’altro permettendo un’elaborazione emotiva integrata di differenti stati emotivi.  Questi risultati mostrano l’importanza della TPJ non solo nella capacità di “perspective taking” ma anche in un ruolo emozionale.

Abstract

The neuroscience makes an important distinction between emotional empathy and cognitive empathy (Shamay-Tsoory,2011). Emotional empathy refers at an immediate emotional sharing, while cognitive empathy refers to a cognitive system that involve understanding of the other’s perspective. Saxe and colleagues (2005) show the role of right temporo-parietal junction (rTPJ) in the perspective taking when our point of view is different from other, establishing an incongruence about the different states of mind. Other studies demonstrate that TPJ allows to elaborate and to integrate sensorimotor and cognitive information from self and other. This study investigates the role of rTPJ in emotional empathy, through its inhibition by a train of   Trancranial Magnetic Stimulation (TMS), demonstrating  a major skill to discriminate an emotional expression of other when this is incongruous with own emotional state. This brain area would function to establishing a border between self and other allowing an integrating emotional elaboration about the different emotions. These results show the importance of TPJ not only in a cognitive perspective taking task but also in an emotional task.

KEYWORDS

Empathy,  emotional contagion, emotion recognition, temporo-parietal junction

 

PREMIO STATE OF MIND 2014

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La meditazione come elisir di giovinezza, almeno mentale

FLASH NEWS

Praticare meditazione aiuta a preservare il tessuto cerebrale e quindi migliorare la salute mentale.

Dagli anni ’70 l’aspettativa di vita è cresciuta significativamente in tutto il mondo, oggi si vive anche 10 anni in più rispetto ad allora. Non male, se non fosse che più si invecchia e maggiore è il rischio di malattie mentali. E allora come fare? Un recente studio della UCLA (University of California – Los Angeles) sostiene che la meditazione possa minimizzare questo rischio.

Gli autori di questa ricerca si sono concentrati principalmente sull’associazione tra avanzamento dell’età e diminuzione della massa grigia. Hanno notato che praticare meditazione aiuta a preservare il tessuto cerebrale e quindi migliorare la salute mentale.

Lo studio ha messo a confronto 50 soggetti che hanno meditato regolarmente per anni e 50 che non l’hanno fatto e i risultati mostrano che la perdita di massa è inferiore nei meditatori abituali.

Ovviamente non è possibile stabilire una causalità tra meditazione e conservazione del tessuto cerebrale, sono troppi i fattori che potrebbero influire: scelte di vita, tratti di personalità, genetica… tuttavia è sorprendente la misura della differenza individuata tra i due gruppi: la meditazione sembra avere un effetto diffuso e coinvolgere regioni in tutto il cervello.

Indagini di questo tipo offrono una prospettiva diversa, l’attenzione dei ricercatori infatti è più spesso rivolta a identificare gli elementi che aumentano il rischio di patologie mentali, guardare agli aspetti della vita, invece,  è tipico di un approccio che, oltre alla cura, promuove la salute e punta a migliorare la qualità della vita.

Come dice Luders, autrice della ricerca:

[blockquote style=”1″]“I risultati sono promettenti. Sperando che questi stimolino ulteriori studi esplorativi permetterà un effettivo passaggio dalla teoria alla pratica” [/blockquote]

non solo per vivere più a lungo ma anche meglio.

 

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Nella mente dello Psicoterapeuta (Cortometraggio di animazione)

Questo breve video illustra in maniera semplice e accessibile quello che avviene nella mente dello Psicoterapeuta nel corso delle sedute di Psicoterapia e all’interno della relazione terapeutica.
La seconda parte del video evidenzia l’importanza per lo stesso terapeuta di avvalersi dell’aiuto o della supervisione di colleghi professionisti.

 

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Come riattivare la capacità di eseguire gesti con la mano in soggetti colpiti da ictus

Un esperimento sulla riabilitazione motoria condotto da Nadia Bolognini e Giuseppe Vallar dell’Università Bicocca di Milano ha dimostrato che una lieve stimolazione elettrica della parte posteriore dell’emisfero sinistro del cervello è in grado di riattivare la capacità di eseguire gesti con la mano in soggetti colpiti da ictus. 

 

 

«L’attività del cervello umano danneggiata da un ictus cerebrale, – spiega Giuseppe Vallar, Ordinario di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica dell’Università di Milano-Bicocca – può essere migliorata da una stimolazione che passa attraverso la scatola cranica. Stimolare elettricamente la corteccia cerebrale dell’emisfero sinistro, che programma i movimenti volontari (ad esempio, fare ciao con la mano), migliora l’esecuzione di questi gesti da parte dei pazienti ‘aprassici’, che non sono più capaci di farli dopo una lesione cerebrale.  Questo risultato dimostra che capacità fondamentali dell’uomo, come fare un movimento per decisione volontaria e cosciente, possono essere rese più efficienti dalla stimolazione delle aree cerebrali che svolgono questa funzione. Inoltre, dimostrare la plasticità del cervello migliorandone la prestazione apre la strada ad applicazioni della stimolazione elettrica transcranica nel campo della riabilitazione di deficit neuropsicologici come l‘aprassia».

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Guns & Violence: la violenza contro le donne

Troppo spesso “l’unica differenza tra una donna maltrattata e una donna morta è la presenza di una pistola”.

Negli USA il Secondo emendamento della Costituzione Americana sancisce dal 1791 il diritto di portare armi: «A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed.»; se tale diritto potesse essere esteso anche ai singoli cittadini, e non solo a milizie organizzate, è stato a lungo oggetto di dibattito e di diverse interpretazioni da parte delle Corti dei singoli stati. Nel 2008 la Corte Suprema ha posto fine alla questione: il diritto individuale dei cittadini a possedere armi da fuoco è inviolabile, al pari di quello di voto e di libertà di espressione.

È paradossale come tale sentenza sia nata dal ricorso di alcuni cittadini che sostenevano che difendere la propria famiglia nella propria casa fosse un diritto insindacabile: tra il gennaio del 2009 e il giugno del 2014 in più della metà delle uccisioni di massa con armi da fuoco l’assassino ha ucciso proprio il partner o un membro della propria famiglia.

La violenza domestica negli Stati Uniti è un problema strettamente legato alla violenza armata: negli ultimi 25 anni la maggior parte degli omicidi di partner sono stati commessi con una pistola e la probabilità che una persona che commette violenza domestica uccida il proprio partner aumenta di ben 5 volte se possiede un’arma da fuoco.

Poiché il rischio che possedere un’arma da fuoco si intersechi con la violenza domestica è molto elevato, diverse leggi federali e statali hanno cercato di porvi rimedio tentando di togliere le pistole dalle mani dei più pericolosi delinquenti tra le quattro mura. Le leggi più severe proibiscono infatti ai maltrattatori domestici e agli stalker di comprare o possedere un’arma (e qualora ne fossero già in possesso hanno l’obbligo di rinunciarvi) e al momento dell’acquisto richiedono attraverso il National Instant Criminal Background Check System una verifica che il compratore abbia o meno i requisiti per comprarla. Sono leggi che hanno contribuito a salvare la vita di numerose persone, soprattutto donne…dove e quando sono state applicate. Eh già, perché sono talmente tante le scappatoie e le difficoltà di applicazione di tali leggi nei diversi stati che i risultati ottenuti nella lotta alla violenza armata in casa non possono essere considerati assolutamente soddisfacenti!

Innanzitutto la legge federale non fa nulla per tenere le armi fuori dalla portata di fidanzati maltrattanti (nonostante la maggior parte delle donne venga uccisa più da uomini che sta frequentando che non dal proprio marito) né dalle mani di chi si è macchiato di reati minori (misdemeanor ) di stalking. In secondo luogo in 35 stati americani la legge statale non proibisce a chi è stato condannato per reati minori di violenza domestica di possedere un’arma da fuoco e poiché nel caso di un conflitto tra la legge statele e federale i tribunali statali non sono subordinati a quelli federali, l’applicazione della legge federale in questi casi è difficile.

A ciò aggiungiamo che acquistare un’arma negli USA è estremamente semplice: la legge federale richiede il Background Check (una verifica che dura spesso solo 90 secondi) solo per l’acquisto di armi presso rivenditori con licenza federale, ma non richiede tale controllo nella compravendita tra parti private o presso rivenditori senza licenza federale. È quindi sufficiente farsi un giro, per esempio, sul sito www.armslist.com per acquistare una Smith & Wesson: niente di più facile. Non stupisce che 1 su 4 degli acquirenti online a cui sarebbe proibito acquistare un’arma abbia precedenti per violenza domestica.

Infine molti stati non richiedono a chi è stato condannato per violenza domestica di rinunciare alle proprie armi da fuoco o non hanno procedure in grado di garantire che questo vi rinunci. Se si considera che contro le donne maltrattate vengono utilizzati i più disparati oggetti, anche solo per intimidirle o costringerle a fare o lasciarsi fare qualcosa contro la propria volontà, e che le armi da fuoco sono molto più comuni nelle case di donne maltrattate e dei loro partner, non ci si può non preoccupare, visto quanto sono letali (Sorenson & Wiebe, 2004).

Troppo spesso, infatti, “l’unica differenza tra una donna maltrattata e una donna morta è la presenza di una pistola” .

 

Guns and Violence Against Women – LEGGI L’INTERO REPORT

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Linee guida per il supporto alle donne vittime di violenza – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet (2014). Recensione

“Il mondo virtuale non è a misura di bambino e nemmeno a misura di preadolescente. Potrà diventarlo solo se noi adulti sapremo regolamentare, supervisionare e accompagnare i minori all’interno di un territorio così vasto e complesso”.

Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva presenta il manuale: Tutto troppo presto, L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet. Un libro che parte dall’esigenza, clinica ed educativa, di accompagnare ragazzi ma sopratutto genitori nel tema dell’educazione sessuale 2.0, ovvero l’educazione sessuale rivolta ad un pubblico di nativi digitali. Argomento per nulla semplice e scontato se solo si pensa che un ragazzo o ragazza d’oggi, prima ancora di avere la sua prima esperienza sessuale, è già stato esposto/a ad un numero di immagini di natura sessuale inimmaginabile per un adulto appartenente alle generazioni precedenti.

I ragazzi di oggi vivono in un mondo in cui alla parola “sesso” vengono attribuite caratteristiche diverse da quelle con cui siamo cresciuti noi. L’eros è ormai “sdoganato dal territorio di negazione, paura e repressione in cui i nostri nonni (…) l’avevano relegato”. Il sesso oggi è fluido, vissuto con il compagno/a di una sera, in modo estemporaneo, senza che questo comporti necessariamente alcuna conseguenza.

Il sesso oggi è possibile, perché ora non ci sono più resistenze di sorta nei confronti dell’attività erotica di qualsiasi natura. Inoltre il sesso oggi è accessibile, perché non esiste nessun limite esterno alla visione di uno stimolo erotico. Centinaia di sito pornografici permettono di vedere realizzata qualsiasi tipo fantasia erotica senza nessun tipo di difficoltà. Non che la TV di oggi lasci grande spazio all’immaginazione.

Qui l’autore si chiede dove siano la dimensione del sogno e del desiderio in un mondo in cui la sessualità pare non avere più aspetti misteriosi e inaccessibili. “In adolescenza, sognare e desiderare la sessualità è vitale, perché significa darle il tempo di maturare nella mente prima che diventi azione, prepararla e pensarla prima della sperimentazione concreta”.

Il sesso infine è normalizzato, che sarebbe un dato di per sé assolutamente positivo se non fosse che oggi molti ragazzi crescono con la convinzione che “fare sesso” sia normale a prescindere, e che rappresenti un’attività ludica finalizzata a procurarsi eccitazione, sensazioni forti e piacere. “Ma siamo davvero convinti che consentire ai figli di autogestire una sessualità così intesa sia la condizione giusta per viverla al meglio e integrarla in un percorso e in un progetto di vita degno di questo nome?”

Non vi è dubbio che, sopratutto nei giovanissimi, la corsa verso una sessualità “facile, immediata e di pronto consumo” è stata favorita e accelerata dalla diffusione delle nuove tecnologie. Le tecnologie mettono i nostri figli a contatto diretto con il mondo ma allo stesso tempo consentono loro di esplorare in totale autonomia territori per i quali potrebbero non avere acquisito le giuste competenze. Il fatto che un ragazzo o una ragazza siano competenti a livello tecnico, quindi sappiano muoversi agilmente con gli strumenti tecnologici, non significa che siano in grado di integrare ciò che incontreranno online sul piano cognitivo e sopratutto sul piano emotivo.

Il mondo virtuale non è a misura di bambino e nemmeno a misura di preadolescente. Potrà diventarlo solo se noi adulti sapremo regolamentare, supervisionare e accompagnare i minori all’interno di un territorio così vasto e complesso”.

Accettare una sfida educativa di questo tipo significa non rinunciare al nostro ruolo. Senza cadere nelle facili tentazioni del proibizionismo a priori, che blocca i nostri figli nel loro sviluppo, e nemmeno in quello del diniego che cancella ogni possibilità di difendersi da possibili rischi negandone l’esistenza. Una sfida educativa che ci porta a mantenere il nostro ruolo di guida e accompagnamento anche nei bisogni mutati dei nostri figli. Il silenzio delle generazioni passate dovrebbe trasformarsi oggi in competenza e sopratutto comunicazione.

Ecco che la lettura di questo libro fornisce al lettore un modello e un’idea di educazione sessuale alternativi, intorno a cui progettare il proprio ruolo educativo o terapeutico che sia. L’obiettivo è quello di “educare ad una sessualità non fluida ma consistente, che diventi una dimensione strutturata e tangibile nel percorso di crescita, e preveda tappe e azioni differenziate in base al grado di sviluppo e maturazione del minore”.

Il manuale di Pellai è organizzato in quattro capitoli tematici che affrontano temi fortemente  connessi all’educazione sessuale ma che non compaiono nei classici manuali che trattano questo argomento. Rispettivamente il tema della sessualizzazione precoce delle bambine, il fenomeno del sexting, della pornografia e dell’adescamento online vengono illustrati in maniera comprensibile, documentata da casi clinici e consigli utili per i genitori, film da vedere a scuola e in famiglia, strumenti da usare sia in un percorso preventivo che in quello clinico. Abbinato al libro un blog offre molti materiali utilizzabili per percorsi di prevenzione.

 

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Parlare di sesso con i propri figli: una guida pratica – Recensione

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Pellai A. (2015). Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli nell’era di internet. De Agostini Libr. ACQUISTA ONLINE

Come cambiano i sogni tra le diverse culture?

FLASH NEWS

I dati attualmente disponibili sui raffronti del contenuto onirico tra paesi diversi suggeriscono un messaggio importante: la gente di tutto il mondo fa sogni simili.

Vi siete mai chiesti il motivo per cui gli individui solitamente fanno sogni diversi? Certamente i contenuti dei sogni cambiano tra le persone in base alle diverse esperienze personali, o alle diverse culture. Infatti, l’obiettivo di questo studio è stato confrontare i contenuti onirici di individui appartenenti a culture diverse attraverso l’uso di questionari standardizzati.

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I test sono stati tradotti in più lingue e usati per rilevare e analizzare scientificamente i temi onirici. Alcune domande del questionario avevano lo scopo di elicitare libere associazioni definite a priori, per esempio “Avete mai sognato…” a cui seguivano una serie di contenuti possibili (per esempio essere inseguiti, sognare di volare, di cadere). I ricercatori avevano poi la possibilità durante l’intervista di aggiungere altre domande che riguardavano la frequenza o l’intensità con cui i temi del sogno si sono presentati e l’intervallo di tempo trascorso tra i diversi sogni.

È risaputo che ricordare il contenuto dei sogni è un processo molto complesso che potrebbe minare l’affidabilità del ricordo. Nonostante i limiti dell’uso del questionario standardizzato possiamo, grazie a questo studio, avere uno spaccato trasversale alle culture sul mondo dei sogni che coinvolge più gruppi di persone provenienti da ambienti diversi.

Il ricercatore Calvin Kai-Ching Yu dell’Università di Hong Kong Shue Yan ha utilizzato una traduzione cinese di un questionario sul sogno e ha intervistato 384 studenti presso l’Università di Hong Kong (per lo più studenti di psicologia, in prevalenza donne con età media di 21anni). I temi più diffusi (presentati in ordine di prevalenza) furono: scuole e insegnanti, essere inseguito o perseguitato, cadere, arrivare troppo tardi, una persona ora viva come morta, cercare sempre senza successo di fare qualcosa, volare o sollevarsi da terra, sentirsi congelati di paura, infine esperienze sessuali.

I risultati della ricerca sono stati poi confrontati da Michael Schredl e dai suoi colleghi che hanno utilizzato un questionario simile, per studiare i sogni degli studenti universitari tedeschi (quasi tutti studenti di psicologia, con prevalenza di donne, di età media di 24anni). I dieci temi più diffusi tra gli studenti sono stati (presentati in ordine di prevalenza): scuola, insegnanti, studiare, essere inseguiti o perseguitati, esperienze sessuali, cadere, arrivare troppo tardi, sognare una persona ora viva come morta, volare o sollevarsi da terra, essere sul punto di cadere, sentirsi congelati di paura.

Vi è una notevole sovrapposizione nella top ten dei temi del sogno tra gli studenti cinesi e gli studenti tedeschi. I sogni che hanno come tema contenuti accademici o essere inseguiti sono più diffusi tra gli studenti cinesi e tedeschi. Una differenza chiave è che invece sogni su esperienze sessuali sono presenti più comunemente tra gli studenti tedeschi.

In Canada, Tore Nielsen e i suoi colleghi hanno somministrato un questionario sul sogno in tre università, ottenendo così i dati su un campione più ampio (oltre 1.000 studenti). I dieci temi del sogno più diffusi in un campione di studenti canadesi sono: essere inseguito o perseguitato, esperienze sessuali, cadere, scuole, insegnanti e studiare, arrivare troppo tardi, essere sul punto di cadere, cercare di nuovo di fare qualcosa, sognare una persona ora viva come morta, volare o sollevarsi da terra, sentire una presenza nella stanza.

È interessante notare che i sogni con temi scolastici (scuola, insegnanti, fallimento di esami) sono stati il tema più comune tra gli studenti cinesi e tedeschi, ma non gli studenti canadesi. Studenti cinesi e tedeschi condividono una maggiore prevalenza di sogni accademici, mentre i sogni di natura sessuale sono tra i sogni più diffusi sia per i canadesi e tedeschi. Studenti cinesi e canadesi sognano di “provare e riprovare a fare qualcosa” – un tema che raro tra gli studenti tedeschi.

Questi dati ci offrono la possibilità di confrontare e contrapporre i contenuti onirici di persone che sono nate e sono state costantemente esposte a culture e a lingue diverse, ma tuttavia, è opportuno riconoscere i limiti di questo studio. Non possiamo generalizzare i risultati di questa ricerca all’intera popolazione in quanto alcuni temi del sogno differiscono in base alle situazioni a cui il soggetto è abitualmente esposto (studente vs lavoratore vs pensionato)

Negli studi futuri si potrebbe stabilire un confronto cross-culturale più ampio in merito ai contenuti del sogno e si dovrebbero reclutare soggetti di varie età, professioni e background educativo e socio-economico. Nonostante questi aspetti controversi, i dati attualmente disponibili sui raffronti del contenuto onirico tra paesi diversi suggeriscono un messaggio importante: la gente di tutto il mondo fa sogni simili.

 

 

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Sogno e Psicoterapia Cognitiva – Congresso SITCC 2014

 

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REBT: l’utilizzo dei principi terapeutici anche nelle situazioni di successo

La REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale), ideata dallo psicologo clinico Albert Ellis, utilizza una serie di tecniche e principi per gestire il malessere del soggetto e gestire situazioni problematiche o difficili.

Ma è possibile usare questi principi in contesti di successo? Certamente sì. Eccessivo orgoglio, esagerata autostima o grandiosità possono provocare difficoltà in condizioni che implicano la ricerca di successo ed interferire nelle relazioni interpersonali.

 

[blockquote style=”1″]When faced with success, it is healthy to take note of your good performance and feel happiness and contentment. These are functional emotions which will probably motivate you to recognize and repeat strategies that worked well, and will probably promote good relationships with others.On the other hand, unhealthy responses relating to performing well might be described as excessive pride, megalomania, inflated self-esteem or intoxication with one’s own awesomeness.These are probably enjoyable in a sense, and I can see why very few people seek therapy for excessive pride. However, excessive pride is not very functional as it can interfere with interpersonal relationships and sabotage success. Excessive pride frequently leads people to excessive confidence in their decision-making or opinions.Making matters worse, excessive pride leads people to depreciate and dismiss others (who could be right!) and to disregard information that is inconsistent with their outlook. Prideful people run the risk of being badly surprised by realities that they had previously written off, and being the last to realize their own mistakes…[/blockquote] 

REBT When You Are WinningConsigliato dalla Redazione

– (…)

 

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Di Battista, Matteo Salvini campioni mondiali di bufale e il “pensiero emotivo”

Privo di idee per questo editoriale, mi soccorrono segnalandomi la notizia della classifica mondiale delle balle riportate dal New York Times e rimbalzata in Italia dal Post e da Linkiesta. Penso: se ne parliamo anche noi facciamo doppio o triplo rimbalzo; ma è anche vero che non ci sono idee in magazzino. E poi le balle hanno il loro risvolto psicologico, che noi di State of Mind dovremmo essere in grado di approfondire meglio di quegli altri arrivati prima di noi. Si spera.

A insaporire il tutto ci sarebbe l’allusione de Linkiesta al fatto che noi italiani saremmo primi in classifica in questa gara di balle e di sciocchezze. Sarebbe un bel contrasto con l’editoriale della settimana scorsa in cui prendevo in giro gli altri paesi europei. Ora tocca agli italiani. Già vedo il mio capo-redattore godere a mettere in crisi la mia anti-esterofilia.

In fondo, ci sta. C’è tutta una tradizione di pensiero che sottolinea la propensione irrazionalistica non solo dell’italiano medio, ma addirittura del pensiero alto e filosofico in Italia. È la cosiddetta Italian Theory, una corrente filosofica che pare stia conquistando il mondo, descrivendo la nostra tradizione filosofica come una tempesta gravida di passioni da Machiavelli in poi fino a Gianni Vattimo, passando per Giordano Bruno e Giambattista Vico. Vari libri documentano questi corrente di studi, sia in inglese (Borradori, 1988; Hardt & Virno, 1996; Chiesa & Toscano, 2009) ma anche, per fortuna, in Italiano. In particolare raccomando il bel libro “Pensiero Vivente” di Roberto Esposito (2010). Godibile e leggibile, che ci crediate o no.

Nel bene e nel male noi italiani saremmo bravi a mantenere il contatto con l’origine emotiva del pensiero, con le associazioni intuitive e automatiche che danno forza alle passioni.

Gli automatismi irrazionalistici del pensiero non sono del tutto insensati. Essi sono frutto di scorciatoie (in termini tecnici: di “euristiche”) che non obbediscono a una dettagliata valutazione analitica della situazione, che non prendono in considerazione tutto il ventaglio di possibilità esplicative disponibili, che non sono sottoposte a un controllo di coerenza logica e nemmeno a processi di revisione critica.

Le euristiche sono strategie di pensiero semplificate, scorciatoie logiche -o illogiche- che ci permettono di giungere a valutazioni e decisioni rapide in situazioni comuni e quotidiane, dove più spesso capita di avere a disposizione poche e inaccurate informazioni. Due psicologi israeliani, Amos Tversky e Daniel Kahneman, (1983) hanno studiato a fondo queste euristiche.

Ho detto: nel bene e nel male. Mantenere il contatto con la propria emozionalità ha anche i suoi contro. È vero: controllare le informazioni è utile ma noioso. Un istinto automatico ci induce a credere e a diffondere le notizie nella loro forma più grossolana, ma che permette l’interpretazione più chiara e immediata. Che poi sarebbe la nostra. Al polo opposto di questo automatismo troviamo il pensiero critico, il critical thinking (Glaser, 1941) ovvero la facoltà di considerare in maniera ponderata le informazioni, confrontando varie fonti e esaminando le inferenze logiche passo per passo.

Arrivato qui, sarebbe tempo che mi abbandonassi a una filippica su noi italiani, proni alle associazioni mentali facili ed emotive, populistiche e demagogiche. Il che è anche vero. E che sarebbe anche confermato dal New York Times, secondo il quale noi italiani saremmo i campioni mondiali delle balle facili e semplicistiche. Tanto è vero che primo in classifica troviamo Alessandro Di Battista, esponente politico del Movimento 5 Stelle, con la sua sparata sulla Nigeria:

[blockquote style=”1″]60 per cento del territorio è in mano ai fondamentalisti islamici di Boko Haram, la restante parte Ebola[/blockquote]

smentita da Pagella Politica. La seconda balla in classifica è quella che dice che la Commissione Europea si appresterebbe ad abolire i tostapane doppi, è invece internazionale ma divulgata da un italiano: Matteo Salvini della Lega Nord. E in quanto tale sarebbe italiana (o padana?) Dopodiché basta, il resto della balle provengono da oltralpe.

Sta bene. Pagato il pedaggio al pressapochismo italiano, mi appresto però a parzialmente confutarlo (o a confermarlo? Vedremo). Noto che il New York Times si è limitato a fornire una lista di balle da tutto il mondo, non a scrivere un articolo sull’Italia campione di balle, come sembra suggerire il titolo di alcuni articoli italiani. Si vede che però limitarsi a riportare la lista delle balle non era abbastanza eccitante. Occorreva rincarare la dose con una mezza balla, ponendoci al centro dell’interesse mondiale per le balle, in un curioso narcisismo all’incontrario. Forse è una mezza balla che secondo il New York Times noi cacciamo balle. Il che però sembra confermare la tendenza italiana alla balla.

Vi siete persi? Tranquilli. Anche io. Succede, a leggere troppe balle.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Glaser, E.M. (1941). An Experiment in the Development of Critical Thinking, Teacher’s College, Columbia University, 1941
  • Borradori, G. (Ed.) (1998). Recoding Metaphysics. The New Italian Philosophy. Louisville, KY, USA: Evanston.
  • Chiesa, L., & Toscano, A. (Eds.) (2009). The Italian Difference between Nihilism and Biopolitics. Melbourne, Australia: re.press.
  • Esposito, R. (2010). Pensiero Vivente. Origine e Attualità della Filosofia Italiana. Torino: Einaudi. English translation by Hanafi, Z. (2012). Living Thought: The Origins and Actuality of Italian Philosophy (Cultural Memory in the Present). Stanford, CA, USA: Stanford University Press.  
  • Tversky, A., Kahneman, D. Extentional versus intuitive reasoning: The conjunction fallacy in probability judgement. In «Psychological Review», 90, 1983, pp. 293-315.
  • Hardt, M., & Virno, P. (Eds.) (1996). Radical Thought in Italy. A Potential Politics. Minneapolis & London: University of Minnesota Press.

L’ABC delle mie emozioni: alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT

 

Attraverso esercizi mirati, letture, fiabe, disegni, il bambino è guidato dall’adulto in questo percorso che gli consente, nei vari capitoli, di accrescere le proprie abilità emotive.

“A volte ci sentiamo contenti, a volte ci sentiamo arrabbiati, altre volte può capitare di sentirci tristi, altre volte ancora ci capita di sentirci spaventati. [ ] ”

Il libro “L’ABC delle mie emozioni 4-7 anni. Programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT” è uno strumento che consente di lavorare in maniera progressiva e mirata sulle competenze emotive del bambino che va dai 4 ai 7 anni. E’ un manuale rivolto a genitori, insegnanti o educatori che intendono iniziare un percorso di educazione emotiva con uno o più bambini, con lo scopo ultimo di ampliare le abilità emozionali. L’autore, Mario Di Pietro, è psicologo e psicoterapeuta, e da anni si occupa di  problematiche emotive dell’età evolutiva. Ha pubblicato svariati libri sull’argomento per Edizioni Erickson Trento.

Il libro si basa sul presupposto teorico che la capacità di comprendere e di gestire le proprie ed altrui emozioni sia una competenza fondamentale per l’adattamento sociale e relazionale di ogni essere umano. Conoscere le emozioni rappresenta per l’appunto un’abilità primaria che ci consente di sviluppare strategie di coping e risorse per fronteggiare le difficoltà e per stabilire buone relazioni sociali.

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Il testo si basa sui principi teorici della REBT (Terapia Razionale Emotiva Comportamentale) di Albert Ellis: utilizzando il modello ABC, si focalizza l’attenzione sui pensieri “irrazionali” (o pensieri “dannosi”, per utilizzare un linguaggio più accessibile ai bambini) che portano necessariamente a sperimentare emozioni negative, con lo scopo finale di sostituirli con pensieri più “razionali” (o meglio, pensieri più “utili”).

E’ quindi fondamentale imparare ad ascoltare e comprendere il modo in cui il bambino parla a sé stesso, per poi insegnargli a pensare in modo più positivo nelle varie situazioni. Questo processo naturalmente, presuppone che il genitore, l’insegnante, l’educatore (o comunque chi sta utilizzando il presente manuale), abbia una conoscenza sufficientemente approfondita dei principi teorici e delle idee principali che sottostanno alla teoria della REBT e che in sostanza costituiscono le fondamenta del presente laboratorio. Proprio per questo motivo il libro presenta alcuni capitoli iniziali (semplici ed essenziali ma al contempo molto efficaci) dedicati alla spiegazione dello strumento e dei suoi presupposti teorici a chi lo andrà ad applicare.

Attraverso esercizi mirati, letture, fiabe, disegni, il bambino è guidato dall’adulto in questo percorso che gli consente, nei vari capitoli, di accrescere le proprie abilità emotive. Nei primi capitoli, al bambino viene insegnato ad ampliare il suo lessico emotivo; descrivendo le varie emozioni con i rispettivi correlati fisiologici, mimico-facciali e cognitivi. Successivamente i vari capitoli si concentrano sulle emozioni di  rabbia, paura e tristezza presentando al bambino varie tecniche e strategie per meglio comprenderle e gestirle. Infine, l’ultimo capitolo lavora sul riconoscimento dei pensieri e su come questi ultimi possano influenzare le  emozioni che proviamo.

“Ricorda! Quelli che pensi può farti sentire bene o farti stare male, può farti sentire sereno, felice oppure triste, spaventato, arrabbiato. Stai attento ai tuoi pensieri e scegli quelli che ti aiutano a stare meglio.”

Il libro è ricco di esercizi e di giochi ed è sicuramente uno strumento molto utile per chi intende lavorare con i bambini nell’area dell’educazione all’emotività; tuttavia non è da escludere che, con i suoi esempi pratici e diretti, possa essere direttamente spunto di riflessione anche per gli adulti che lo leggono.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Di Pietro, M. (2014). L’ABC delle mie emozioni (4-7 anni). Programma di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT. Erickson Editore. ACQUISTA ONLINE

Attaccamento, regolazione emotiva e depressione: qual è la relazione tra queste componenti?

L’attaccamento è uno dei costrutti più conosciuti e utilizzati nell’ambito della psicologia cognitiva, sia da un punto di vista diagnostico che prognostico, che esplicativo della psicopatologia.

In sostanza, quando nasciamo siamo portati in modo innato a mettere in atto una serie di comportamenti al fine di assicurarci la vicinanza con chi ci fornisce le cure (solitamente la mamma); diciamo che questa è la strategia di elezione che tutti noi proviamo a utilizzare per sopravvivere.

Nella migliore delle ipotesi i caregiver rispondono in un modo adeguato e pertinente alle richieste del figlio, aiutandolo a regolare le emozioni, alleviando il suo disagio e proteggendolo dai pericoli. Fin qui insomma tutto bene: io ho bisogno, la mamma c’è, mi costruisco nel tempo un’idea di me come al sicuro, dell’altro come disponibile e del mondo come un posto interessante da esplorare.

Quando invece la mamma per qualche motivo non è in grado di rispondere in modo consono alle richieste di vicinanza del bambino, questo mette in atto il piano B, che consiste in strategie di regolazione delle emozioni (cioè strategie per non rimanere angosciati a lungo) diverse dalla ricerca dell’adulto e che possono sfociare in una relazione di attaccamento che viene definita insicura (Main, 1990).

In particolare, si possono aprire due strade: il bambino può sviluppare un attaccamento ansioso o evitante. Un bambino con un attaccamento ansioso si iper-attiva richiedendo continuamente vicinanza e cura, in uno stato sempre iper-vigile verso i pericoli esterni e con una continua preoccupazione nel tentativo di anticipare possibili pericoli. Purtroppo, questa strategia solitamente ha l’unico esito di aumentare il disagio e l’angoscia che il bambino sente.

Dall’altra parte, un bambino che ha percepito una mamma distante e non disponibile si sposterà verso un attaccamento evitante, caratterizzato dalla tendenza a arrangiarsi e a contare solo su di sé, nella sensazione generale che le relazioni di vicinanza siano in realtà una fregatura inutile e pericolosa; in quest’ottica, svilupperà delle strategie di gestione delle emozioni che portano a una distanza dall’altro, insieme al tentativo di sopprimere ricordi dolorosi e brutti pensieri (lontano dagli occhi lontano dal cuore).

Si è poi visto che questi tre stili di attaccamento (sicuro, ansioso e evitante) vengono imparati dal bambino e immagazzinati  come modelli che influenzano a loro volta il modo in cui una persona adulta cerca di gestire le proprie emozioni e i propri comportamenti, e che si riflettono nelle relazioni significative da grandi.

Le persone con un attaccamento evitante si porteranno dietro un’idea negativa degli altri, che renderà per loro difficile stare emotivamente vicino alle altre persone e praticamente impossibile dipendere emotivamente da qualcun altro. D’altra parte, le persone con un attaccamento ansioso si porteranno dietro un’idea negativa di sé in termini di basso valore personale, e di conseguenza nelle relazioni tenderanno a ricercare in modo continuo la vicinanza dell’altro, a preoccuparsi e a rimuginare.

A un certo punto diventiamo grandi. Quando siamo adulti, volenti o nolenti, in qualche modo le emozioni impariamo a gestirle. In questo senso si parla di “regolazione emotiva” per descrivere quel processo con cui moduliamo le emozioni, e cioè impariamo a non farci sopraffare dal dolore di una perdita e a non andare nel panico se siamo preoccupati per qualcosa. Ci sono sostanzialmente due tipi di regolazione emotiva: quella utile (adattiva) e quella non utile (maladattiva).

Un esempio di regolazione emotiva utile si ha quando cerchiamo il lato positivo delle situazioni, quando analizziamo le cose in modo costruttivo, quando sappiamo mettere in campo le nostre capacità di problem solving. La regolazione poco utile (e a volte dannosa) consiste invece per esempio nella soppressione delle emozioni e dei pensieri e nell’evitamento, così come nella tendenza a mantenere un’eccessiva distanza dagli altri o nella propensione a concentrarci sui problemi facendoci le domande sbagliate, che non ci portano a risolverli ma a affondarci dentro.

Quest’ultimo è il caso della ruminazione, che è stata definita come un processo di pensiero ripetitivo che riguarda l’umore depresso, le sue cause e conseguenze (Nolen-Hoeksema, Wisco, Lyubomirsky, 2008). Molte ricerche hanno sottolineato la relazione tra attaccamento insicuro (ansioso o evitante) e sintomi depressivi sia in adolescenza (Cooper, Shaver, Collins, 1998) che nell’età adulta (Mickelson, Kessler, Shaver 1997).

D’altra parte, la depressione è spesso considerata come un disturbo che deriva da strategie inutili di regolazione delle emozioni, prima tra tutti proprio la ruminazione (Nolen-Hoeksema, 2000).  Ma in che relazione stanno esattamente l’attaccamento, la regolazione emotiva e i sintomi depressivi?

Da questa domanda si sono mossi tre autori (Malik, Wells, Wittkowski, 2015) che in un articolo pubblicato quest’anno dal Journal of Affective Disorders hanno rivisto la letteratura finora esistente, per capire meglio quale fosse la relazione tra queste due componenti (l’attaccamento e la regolazione emotiva) e i sintomi depressivi.

A quanto pare, mentre ci sono evidenze discordanti sul rapporto tra attaccamento evitante, strategie di regolazione emotiva e sintomi depressivi, c’è una certa concordanza in letteratura circa il ruolo di mediatore delle strategie di iper-attivazione nella relazione tra attaccamento ansioso e sintomi depressivi.

Questo significa che in qualche modo la relazione tra l’attaccamento ansioso e la presenza di sintomi depressivi passa per il tipo di strategia che usi per gestire le emozioni, in particolare una strategia che ti iper-attiva, cioè ti rende molto attento e fa di te un esagerato pensatore, con lo scopo di analizzare le situazioni e cercare di anticipare eventuali difficoltà.

Questo risultato da una parte esclude un pericoloso pseudo-determinismo. Visto che non abbiamo molta possibilità di decidere noi quale tipo di attaccamento sviluppare nell’infanzia, il fatto che quello non determini lo stato emotivo adulto ci dà qualche speranza. Dall’altra parte, da un punto di vista clinico, questo ci dice che è preferenziale, in terapia, insegnare al paziente strategie diverse e più utili di regolazione delle emozioni, piuttosto che addentrarci in interventi ben più intensivi (e delicati per il paziente) finalizzati a correggere gli effetti di esperienze di attaccamento precoci.

Come dire, per capire dove stiamo andando è importante sapere da dove veniamo, ma è più importante sapere dove siamo ora e che strada possiamo imboccare.

 

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True Detective (2014): una Pastorale Americana nella Lousiana Cajun

Senza mai diventare invadente, la critica che l’autore porta a quelle società rurali prevalentemente incardinate sui principi morali è costante e fa da sfondo a un’umanità decadente, affaticata, fallita nei suoi buoni propositi di rettitudine e creatrice essa stessa dei mostri che combatte.

True Detective è una serie televisiva statunitense trasmessa per la prima volta nel 2014. Venti anni dopo Twin Peaks, in maniera più concisa e meno surrealista di Twin Peaks, la serie ripropone uno dei grandi temi thriller cari a letteratura e cinematografia americana: la caccia al mostro. Questa volta al posto del metodico Cooper e della sfuggente Diane troviamo i detective Martin Hurt (Woody Harrelson)e Rustin Cohle (Mattew McConaughey), rispettivamente e per loro stessa ammissione un tipo “normale” e un tipo “critico”.

Tra i principali poli attrattivi c’è sicuramente l’interazione tra le due personalità, dove la normalità del primo nasconde il compromesso che lo pone in conflitto tra bisogni sessuali extraconiugali e bisogni affettivi familiari e dove il cinismo del secondo svela l’introversione tipica di un assetto schizoide di personalità, che favorisce il rimuginio e allontana dai valori affettivi comuni.

Nic Pizzolatto, ideatore e sceneggiatore della serie, ambienta la vicenda nella Louisiana degli uragani atlantici Andrew (1992), Katrina (2005), Irene (2011), terra dalle tipiche acque lente e fangose per secoli palude di diritti civili. La regia propone suggestive vedute aeree che svelano un territorio desolato fatto di alberi spogli, case modeste senza fondamenta e cumuli di detriti. La colonna sonora squisitamente folk (The Handsome Family), country (Cuff the Duke),  blues (John Lee Hooker), con incursioni psichedeliche (13th Floor Elevator, The Black Angels), alternata a gospel laici e musica nera popolare, lega indissolubilmente con le immagini. Il risultato di sintesi è una pastorale americana persino più acida e amara di quella raccontata da Philip Roth (Pastorale Americana, 1997), dove al posto delle buone famiglie e dei college prestigiosi troviamo i bar per camionisti e l’accademia cristiana.

L’atmosfera prevalente che si è voluta rappresentare in True Detective è la diretta emanazione di un luogo dalla genetica complessa, con radici religiose afferenti al protestantesimo, all’evangelicalismo, alla santeria e al voodoo dei creoli del sud; immersi in questa “psicosfera” (come la definisce qualcuno) i detective Hart e Cohle indagano su una serie di omicidi con apparenti connotazioni anticristiane.

La serie ha ricevuto decine di nomination e incassato già diversi premi, non ultimo quello per la migliore sigla di apertura.

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Anche se la maggiore attrattiva della serie è rappresentata dal personaggio del detective Cohle, intelligente e alienato, ipercontrollato, dalla personalità  oscura e profonda direbbero i profani ma spesso a confine tra la genialità deduttiva e l’originalità delirante tipica di chi dà prova di avere forzato la soglia dello spettro autistico, episodio dopo episodio emerge che il legante che sorregge efficacemente la trama e accomuna tutto rispecchiandosi nelle persone, nei luoghi e persino nella sigla di apertura dove la pelle suggestivamente si presta alla commistione con altre entità, sembra essere una compromissione dell’integrità.

L’integrità della pelle, quell’entità biologica con funzioni psicologiche descritta da Anzieu che opportunamente mantiene il giusto grado di separazione tra contenuti mentali e mondo esterno; nei diversi personaggi di volta in volta l’integrità perduta sarà quella morale, quella familiare o quella psichica di chi è stato sottoposto troppo a lungo a fattori stressanti.  E’ questo il caso del detective Cohle, tra le altre cose portatore di un lutto, irrisolvibile come può esserlo la perdita di una figlia, che si riflette nella predisposizione all’isolamento e all’alcolismo.

L’unico in grado di condurre le indagini a una svolta, grazie anche a un apparato percettivo particolare, sarà proprio il personaggio più sofferente e provato dagli eventi, dannato e senza Dio in quanto libero da influssi romantici e creazionisti, poiché come converrebbe a qualsiasi mente seriamente dedita all’analisi, esiste un indubbio vantaggio nel guardare ai fenomeni da una prospettiva dove l’Uomo è una specie animale al pari di altre, dove le emozioni e i sentimenti, in senso darwiniano, sono strumenti pre-programmati per la conservazione della specie e dove la coscienza, da una prospettiva illuminista, è un dispositivo di manipolazione tecnica dell’esistenza.  

In questa prima stagione di otto episodi sembra esserci in seno alla sceneggiatura un esercizio latente di crocifissione del protagonista interpretato da McConaughey, operazione che lo rende più appetibile allo spettatore perché conferisce quell’aria spiccatamente dannata che piace e forse anche perché apre la strada all’idea perturbante che chiunque si spinga troppo oltre nell’evoluzione (delle idee) rischia di perdere tutto, famiglia, affetti, contatto con la realtà. Effettivamente alcuni monologhi somigliano a una predica metafisica che fa perno sulla suggestione tanto quanto qualsiasi omelia ortodossa. Ma è un valore aggiunto a tutta la produzione.

Alla fine il mondo disegnato da Pizzolatto sembra popolato da personaggi in malinconica lotta contro sé stessi, incastrati tra il passato e il presente di una terra che lava costantemente i peccati con gli uragani ma che lascia intatta la contraddizione tra una fervente comunità religiosa e il suo esatto opposto fatto di dissolutezza, alcolismo e prostituzione.

Senza mai diventare invadente, la critica che l’autore porta a quelle società rurali prevalentemente incardinate sui principi morali è costante e fa da sfondo a un’umanità decadente, affaticata, fallita nei suoi buoni propositi di rettitudine e creatrice essa stessa dei mostri che combatte.

 

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I nostri pensieri sono influenzati dalle circostanze esterne, anche quando non lo vogliamo

FLASH NEWS

Siamo spesso abituati a pensare di avere pieno controllo sui nostri pensieri coscienti, in realtà ricerche recenti rivelano che le circostanze esterne ci influenzano molto più di quanto potremmo credere.

È quanto emerso anche da uno studio condotto da Ezequiel Morsella, professore associato di psicologia presso la San Francisco State University, che ha messo in luce come i nostri pensieri coscienti siano fortemente influenzati da ciò che accade intorno a noi e che il controllo che abbiamo su di essi sia molto inferiore rispetto a quanto potremmo immaginare.

Al fine di verificare il grado di influenza delle circostanze esterne sui nostri pensieri, nel corso dello studio sono state presentate a coloro che hanno preso parte alla ricerca 52 immagini in bianco e nero, raffiguranti parole familiari di diversa lunghezza, tra le quali per esempio una volpe, un cuore ed una bicicletta. A ciascun soggetto è stato inoltre chiesto di non pensare alla parola corrispondente all’immagine mostrata o al numero di lettere che componevano la parola stessa.

Nonostante il compito possa sembra piuttosto semplice, i risultati dello studio hanno messo in evidenza come, in media, circa il 73% delle persone evocava automaticamente la parola corrispondente all’immagine mostrata ed il 33% dichiarava di aver contato mentalmente fino al numero corrispondente alle lettere che costituivano la parola stessa.

In questo modo, secondo Morsella, la situazione sperimentale creata nel corso della ricerca ha permesso di dimostrare come anche la sola richiesta di non fare qualcosa possa innescare due differenti tipi di pensiero non intenzionale, in grado di interferire con la genesi dei nostri pensieri coscienti.

Ciò è risultato essere vero soprattutto quando le immagini mostrate si riferivano a parole di breve lunghezza. Per esempio, quando veniva presentata un’immagine raffigurante un sole, ben l’80% delle persone affermava di aver evocato la parola “sole” e circa la metà di esse confermava di aver contato mentalmente fino a 3. Quando, invece, le immagini si riferivano a parole costituite da 6 o più lettere tale effetto diminuiva di oltre il 10%. Secondo Morsella, tale fenomeno potrebbe indicare il limite stesso dei processi non consapevoli capaci di influenzare la genesi dei nostri pensieri coscienti.

“In questo modo è stato possibile capire non solo come funziona la nostra mente, ma anche che, in alcune circostanze, dovrebbe essere proprio questo il modo in cui dovrebbe funzionare”, sostiene Morsella. Nonostante possa sembrare contro-intuitivo, egli ritiene infatti che l’incapacità di fermare l’azione dei pensieri non consapevoli sulla mente cosciente possa svolgere, in particolari circostanze, una funzione adattiva.

Per spiegare ciò a cui si riferisce, Morsella porta come esempio il sentimento di colpa che, nonostante il  valore affettivo negativo che veicola, risulta difficile da reprimere. Il fatto di sentirci in colpa dopo aver compiuto qualcosa di sbagliato ha lo scopo adattivo di portarci a cambiare il nostro comportamento in futuro, spiega Morsella, allo stesso modo l’incapacità di fermare l’insorgere di questo tipo di pensieri non consapevoli ha un significato adattivo e funzionale.

 

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