L’uomo è un sistema complesso in cui mente e corpo sono a tutti gli effetti due facce di una stessa medaglia in rapporto di interdipendenza e sinergia. Il nostro cervello-mente cambia a seguito di stimoli ambientali, ma anche un farmaco, specie se assunto a lungo e in dosi significative, può generare cambiamenti nella fisiologia del cervello.
L’uomo è un animale sociale – Aristotele, IV secolo a.c.
Quest’affermazione di Aristotele è oggi più attuale che mai, sappiamo infatti che l’uomo non può essere né pensato né studiato al di fuori del contesto e dell’ambiente fisico e sociale nel quale vive e si sviluppa fin dalla nascita; l’uomo è animale sociale in quanto viene concepito, nasce, cresce e si sviluppa per mezzo della relazione e sempre all’interno di un contesto ambientale e socio culturale.
D’altro canto l’esperienza, attraverso il contatto con l’ambiente e le relazioni con gli altri, genera cambiamenti nel nostro sistema nervoso e altera il nostro comportamento per mezzo dell’apprendimento. Questi cambiamenti investono l’uomo su più livelli: biologico, psicologico, fisiologico, comportamentale. Questo in quanto l’uomo è un sistema complesso, dove mente e corpo devono essere concepiti, e sono a tutti gli effetti, due facce di una stessa medaglia, in rapporto di interdipendenza e sinergia, tanto che potremmo affermare che ogni processo somatico ha un corrispettivo psichico e viceversa. Già Kandel nel 1996 ci aveva suggerito che mente e cervello vanno concepiti in rapporto di equazione, in quanto dal cervello derivano tutti i processi mentali normali e patologici e tutte le reazioni a livello neurobiologico e neurofisiologico andranno ad alterare il nostro comportamento, provocando cambiamenti in tutti il sistema corporeo. Il link tra il mentale e il cerebrale è infatti costituito dalle emozioni, che nella loro essenza squisitamente relazionale fungono da regia nell’interdipendenza tra soma e psiche. Ogni emozione è presente e agente tanto nella mente quanto nel corpo.
Ogni emozione infatti, nonché ogni stato d’animo, sentimento, sensazione ecc attiva nel nostro corpo il rilascio di sostanze chimiche specifiche che altereranno la neurochimica del corpo a partire da quella del cervello, ma anche i processi psichici della mente e il comportamento del soggetto.
Ad esempio quando viviamo una situazione particolarmente stressante il nostro corpo produce Cortisolo, altresì definito “ormone dello stress”, un ormone che se rilasciato a dosi eccessive può compromettere anche il buon funzionamento del sistema immunitario, andando a inficiare il nostro benessere psico-fisico; quando ci innamoriamo invece il nostro organismo produce un cocktail di ormoni che ha in noi l’effetto di una droga, questi ormoni, ossitocina, serotonina, adrenalina, ci fanno sentire bene, euforici, felici, con la testa un po’ tra le nuvole e qualche difficoltà di concentrazione. L’ossitocina in particolare è l’ormone che agisce come principale “regolatore” dei comportamenti pro-relazionali, tra cui: la formazione dei legami di coppia, i comportamenti parentali di accudimento, sia nei maschi (nei maschi in particolare la vasopressina) che nelle femmine, la predisposizione ai comportamenti di attaccamento, i rapporti amicali e di affiliazione (Marazzini, Roncaglia, Piccinni, Dell’Osso, 2008). L’alta ossitocina è proporzionale alla monogamia degli animali, mentre gli individui poligami, della stessa specie, hanno livelli di OXT più bassi e nelle femmine (vole prairie) aumenta la risposta sessuale recettiva orientata a formare una stabile relazione di coppia, stimolando il desiderio di vicinanza tra individui (Panksepp, 1998). L’ossitocina, infatti, detto anche “Ormone dell’Amore”, ha un ruolo fondamentale nel processo di sviluppo dell’individuo in quanto regola i bisogni relazionali e di cura attraverso un’azione diretta sul cervello rettiliano (l’ossitocina, infatti, è un neutralizzatore dell’acelcolina che se presente a livelli alti può risultare tossica producendo atteggiamenti aggressivi). Quest’ultimo che si configura come la matrice del cervello mammifero-emotivo, è la sede dei nostri istinti primitivi, e regola comportamenti atti alla sopravvivenza individuale per mezzo del soddisfacimento dei bisogni di base: fame, sete, sonno etc. Tali comportamenti sono riconducibili a loro volta all’effetto nell’organismo del rilascio di serotonina, ormone che viene prodotto dal nostro “secondo cervello”: l’intestino, sede delle emozioni primitive (Panksepp, 2011). Si tratta di una recente scoperta di Michael D. Gershon (1998), che afferma:
La teoria dei due cervelli poggia su solide basi scientifiche. Basti pensare che l’intestino, pur avendo solo un decimo dei neuroni del cervello, lavora in modo autonomo aiuta a fissare i ricordi legati alle emozioni e ha un ruolo fondamentale nel segnalare gioia e dolore. Insomma l’intestino è la sede di un secondo cervello vero e proprio. E non a caso le cellule dell’intestino producono il 95% della serotonina, il neurotrasmettitore del benessere. Nei prossimi anni potremmo scoprire che il cervello dell’addome è la matrice biologica dell’inconscio. Una scoperta importante per gli uomini quanto quella di Copernico sul sistema solare.
Quando il cervello emotivo si evolve da quello mammifero, viene a formare due sistemi: il sistema limbico, adibito al piacere e mediato dalla dopamina, e il sistema mesolimbico, regolato dall’ipotalamo, adibito alle funzioni affettive e mediato dall’ossitocina-vasopressina. Recenti studi hanno dimostrato che i circuiti neuronali ed i processi endocrini del sistema OXT (sistema dell’ossitocina, neuropeptide più abbondante dell’ipotalamo) sono presenti solo nei mammiferi, sostenendo in questa specie la fondamentale funzione evolutiva di controllo e inibizione dell’attività del cervello rettile, permettendo i comportamenti di cura e attaccamento (Ibidem). Il coinvolgimento di ossitocina e vasopressina in relazione alle diverse forme di attaccamento, da quella infantile a quella genitoriale, a quella di coppia, ha sollevato poi l’ipotesi dell’esistenza di vari circuiti neuronali implicati nella regolazione dei comportamenti riproduttivi, accuditivi e di attaccamento, e in generale di tutti i comportamenti pro-sociali. Questa piccola parentesi per evidenziare come tutti i comportamenti, dai più istintivi ai più razionali, coinvolgono processi corporei complessi che si realizzano su più livelli a partire da quello neurobiologico. Il nesso tra quanto appena riportato e lo studio della psicofarmacologia è che ci sono sostanze chimiche che, se assunte dall’organismo, sono in grado di provocare reazioni neurobiologiche e neurofisiologiche alla stessa stregua degli stimoli ambientali e sociali. Conoscere la fisiologia del cervello è fondamentale in quanto i farmaci psicotropi agiscono proprio in specifiche aree cerebrali, ovvero a livello corticale, limbico, ipotalamico e del tronco encefalico ed alterano lo stato di coscienza, i ritmi sonno-veglia, l’affettività e il sistema nervoso autonomo.
La psicofarmacologia infatti studia l’effetto che alcune sostanze chimiche, altresì definite farmaci, hanno sull’organismo, in particolare a livello emotivo, cognitivo e comportamentale. Non dimentichiamo che l’OMS definisce i farmaci come sostanze usate per modificare sistemi fisiologici o stati patologici a beneficio di chi lo riceve. Parliamo di medicina quando un farmaco viene somministrato a scopo terapeutico, cioè per aiutare l’organismo a modificare o correggere alcune funzioni. Per questa ragione la psicofarmacologia può essere considerata una scienza ibrida che necessita conoscenza anche dal punto di vista psicologico, neurobiologico, farmacologico ecc.
Possiamo far risalire la storia della psicofarmacologia agli esperimenti di Kraepelin (1880) che testò sostanze d’uso comune e prodotti medici su compiti psicologici in soggetti sani, ma il termine “psicofarmacologia” è stato coniato nel 1920 dal farmacologo americano Macht per descrivere gli effetti dei farmaci su alcuni test di coordinamento neuromuscolare. Nel 1949, poi l’australiano John Cade introduceva il Litio come stabilizzante dell’umore nella cura della sindrome maniaco depressiva, nel 1953 Laborit scopriva gli effetti antipsicotici della clorpromazina (psicosi e schizofrenia), nel 1954, Nathan Kline pubblicava i risultati del suo studio sulla somministrazione della reserpina a 700 pazienti psichiatrici (ipertensione) e lo stesso anno Frank Berger scopriva il primo ansiolitico, il meprobramato.
I farmaci sono dunque delle sostanza in grado di produrre un effetto sul comportamento per mezzo di un’azione sul sistema nervoso, ecco perché vengono definiti anche sostanze psicoattive. Gli psicofarmaci, in particolare, producono il loro effetto alterando la neurochimica del cervello e producendo diversi effetti a seconda del sito d’azione sul quale agisce. In pratica tutte le funzioni cerebrali possono essere alterate dagli psicofarmaci.
Ritornando all’equazione mente cervello di Kandell (1996) è importante che uno psicoterapeuta sia a conoscenza della terapia farmacologica che il suo paziente segue, così come è importante che abbia un dialogo costruttivo con il neurologo, lo psichiatra e in generale con tutti i professionisti coinvolti nel caso e che conosca almeno le basi della psicofarmacologia. Questo in quanto, come più volte sottolineato, il farmaco provoca alterazioni su più livelli nel paziente per cui bisogna essere in grado di riconoscere e distinguere quelli che sono gli effetti di un farmaco (dal semplice uso, all’assuefazione, intossicazione, astinenza ecc) da quelle che possono essere manifestazioni sintomatologiche legate a particolari stati psicopatologici.
La prima cosa da indagare circa la terapia farmacologica è il rispetto della posologia indicata dallo specialista e la compliance del paziente. Lo psicoterapeuta non dovrebbe entrare in merito alle indicazioni del medico, ma certamente deve tenere un rapporto professionale con quest’ultimo, improntato sulla collaborazione e cooperazione con il fine di puntare al benessere del paziente.
Nel percorso terapeutico inoltre non si può trascurare di trattare l’argomento “terapia farmacologica” per cercare di capire insieme al paziente i significati che quest’ultimo attribuisce, i vissuti e le eventuali ripercussioni sul funzionamento tout court nel quotidiano. Per uno psicoterapeuta a volte la terapia farmacologica del suo paziente diventa conditio sine qua non può instaurarsi l’alleanza terapeutica, in quanto è necessario attenuare la sintomatologia del paziente prima di poter pensare qualsivoglia intervento.
Un concetto molto importante, in continuità con quanto appena riportato è che il farmaco non avrebbe solo effetto sul sintomo, attenuandolo o in alcuni casi debellandolo, ma potrebbe essere, in alcune circostanze, “curativo”, andando a generare cambianti non solo funzionali, ma anche strutturali sul sistema nervoso; ciò potrebbe accadere in particolare durante l’età evolutiva. Questo concetto è spiegabile attraverso la tesi della plasticità neuronale (Fields, 2012). Come accennato precedentemente, il nostro cervello subisce l’influenza dell’esperienza con l’ambiente e con gli altri, nello specifico sappiamo che la prima fase dei processi cerebrali plastici, avviene nel momento in cui si va modificando l’efficacia sinaptica in relazione alla neurotrasmissione, mentre i cambiamenti a lungo termine richiedono anche l’aiuto dell’espressione genica e la sintesi proteica, in modo tale da condurre non più un semplice cambiamento funzionale, ma anche strutturale, fisico, delle connessioni neurali che vengono, dunque, rimodellate in funzione dell’esperienza vissuta, determinando l’unicità di ogni singolo individuo (Downing & Zoeller, 2000). Ora riprendendo il concetto secondo cui un farmaco agisce sul nostro cervello provocando alterazioni neurochimiche, così come fa l’esperienza, nel momento in cui l’assunzione protratta del farmaco agisce sull’efficacia sinaptica di quella specifica area del cervello, potremmo non essere più di fronte ad un cambiamento funzionale dello stesso, ma di fronte ad un cambiamento strutturale; cambiamenti nella struttura delle connessioni cerebrali possono avvenire proprio grazie alla funzione espressiva dei geni, per mezzo della sintesi proteica.
Dunque il nostro cervello-mente cambia, a seguito di stimoli ambientali, specie se protratti e intensi, sia a livello funzionale che a livello fisiologico-strutturale (Kandell, 2005); anche un farmaco (specie se assunto a lungo e in dosi significative) può generare cambiamenti nella fisiologia del cervello, cambiamenti che, è doveroso specificare, possono rivelarsi favorevoli e benefici per il paziente. Un concetto innovativo e senza dubbio da approfondire con ulteriori ricerche e apporti teorici, ma molto importante se visto alla luce della pratica clinica come psicoterapeuti.
Concludo con questo pensiero: ritengo fondamentale per noi psicoterapeuti una conoscenza di base della struttura e del funzionamento del Sistema nervoso, della psicofarmacologia e della psichiatria, ciò proprio alla luce dell’unità psicosomatica dell’individuo e della necessità di studiarlo attraverso uno sguardo olistico. In definitiva concluderei sottolineando che, sebbene seguire le cure che la medicina ci offre sia giusto e sensato, a volte può non essere sufficiente attenersi solo a questo, e ciò vale anche per la psicologia: è necessario che i saperi circolino e che medicina e psicologia costruiscano un dialogo aperto nella teoria e nella pratica in un’ottica tanto di cura quanto di prevenzione.