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Dermatillomania: tormentarsi la pelle per noia o frustrazione

FLASH NEWS

La Dermatillomania, nota in inglese anche con il termine di “compulsive skin-picking”, è un disordine del controllo degli impulsi, che spinge una persona a stuzzicarsi, toccarsi, strofinarsi, tormentarsi, graffiarsi o incidere la pelle del viso o del corpo, spesso nel tentativo di eliminare piccole irregolarità o imperfezioni cutanee, reali o immaginarie.

All’origine di questo, come di molti altri comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo, quali per esempio arrotolarsi i capelli con le dita o mangiarsi le unghie, secondo il modello della regolazione affettiva, sembrerebbe esserci un’esperienza caratterizzata da un vissuto emotivo negativo.

Nonostante si tratti di comportamenti che possono indurre un certo grado di sofferenza fisica, la loro messa in atto permetterebbe di soddisfare un impulso urgente, generando in questo modo una sorta di gratificazione, è questo il motivo che porta gli individui a mettere in atto in maniera ripetitiva tali comportamenti, spiega O’Connor, principale autore di un recente studio condotto presso l’Università di Montreal.

Sulla base di queste premesse, i ricercatori che hanno preso parte allo studio ritengono sia possibile ipotizzare che sono soprattutto le persone che mostrano una generale tendenza al perfezionismo a mettere in atto questo tipo di comportamenti. Si tratta, infatti, di individui che sono per loro natura impazienti, portati ad annoiarsi facilmente e che incontrano molte difficoltà nello svolgere un compito ad una velocità “normale”. Spesso faticano a rilassarsi e tendono a sentirsi frustrati o insoddisfatti quando non riescono a raggiungere i propri obiettivi.

La ricerca ha coinvolto un campione di 48 soggetti, la metà dei quali riferiva di mettere in atto una qualche forma di comportamento ripetitivo focalizzato sul corpo. A ciascuno di essi, dopo una breve intervista telefonica, è stato chiesto di rispondere ad un questionario che includeva una scala volta a valutare il proprio stato affettivo generale. Successivamente, ogni partecipante è stato esposto individualmente a quattro situazioni sperimentali, costruite in modo da indurre un differente stato emotivo: stress, rilassatezza, frustrazione e noia.

Mentre nelle prime due condizioni venivano mostrati dei filmati in cui erano rappresentati rispettivamente un aereo che precipitava e delle onde che si infrangevano sulla spiaggia, nella terza condizione per generare uno stato di frustrazione veniva assegnato ai soggetti un compito che si presupponeva essere facile ma che in realtà non lo era affatto. Nell’ultima condizione, invece, i partecipanti venivano lasciati da soli per circa 6 minuti al fine di indurli alla noia.

I risultati ottenuti hanno permesso di confermare le ipotesi dei ricercatori dell’Università di Montreal. Coloro che generalmente tendevano a mettere in atto comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo riferivano di aver sentito una forte urgenza nel mettere in atto questo tipo di comportamenti, rispetto invece a soggetti che normalmente non erano portati a farlo.

In modo particolare tale esigenza insorgeva in condizioni di noia e frustrazione invece che in situazioni di rilassatezza. Ciò potrebbe indicare che il mettere in atto questo tipo di comportamenti non sia il risultato di una generale tendenza all’essere nervosi o irritabili, valutata attraverso i questionari self report, bensì dell’influenza di particolari circostanze esterne. Queste persone potrebbero quindi beneficiare di un trattamento volto a modificare le proprie credenze perfezionistiche ed il loro modo di reagire ad esperienze di frustrazione e noia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

l’inconsistenza scientifica del concetto di “Ideologia del gender” – Comunicato AIP

COMUNICATO STAMPA AIP (Associazione Italiana Psicologi) DEL 12 MARZO 2015

 

Sulla rilevanza scientifica degli studi di genere e orientamento sessuale e sulla loro diffusione nei contesti scolastici italiani

Oggi si assiste all’organizzazione di iniziative e mobilitazioni che, su scala locale e nazionale, tendono a etichettare gli interventi di educazione alle differenze di genere e di orientamento sessuale nelle scuole italiane come pretesti per la divulgazione di una cosiddetta “ideologia del gender”.

L’AIP ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di “ideologia del gender”. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale.

Le evidenze empiriche raggiunte da questi studi mostrano che il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere sono appresi sin dai primi anni di vita e sono trasmessi attraverso la socializzazione, le pratiche educative, il linguaggio, la comunicazione mediatica, le norme sociali. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, daormai più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali, scientifiche e professionali, che promuovono la salute mentale(tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.), le quali, derubricando l’omosessualità dal novero delle malattie, hanno ribadito una concezione dell’omosessualità come variante normale non patologica della sessualità umana.

L’Unicef, nel Position Statement del novembre 2014, ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Favorire l’educazione sessuale nelle scuole e inserire nei progetti didattico-formativi contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettendo in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare fenomeni come il bullismo omofobico, la discriminazione di genere, il cyberbullismo. La seria e appropriata diffusione di tali studi attraverso corrette metodologie didattico-educative può dunque offrire occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico e a contrastare le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici, valorizzando una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza.

L’AIP riconosce la portata scientifica di Gender Studies, Women Studies, Lesbian and Gay Studies e ribadisce l’importanza della diffusione della cultura scientifica psicologica per la crescita culturale e sociale del nostro paese.

 

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Cosa succede nella mente di un uomo al primo appuntamento?

Questo simpatico video di animazione mostra cosa accade nella mente di un uomo durante il primo appuntamento.

Le due fazioni, emozione e ragione, rappresentate da due buffi neuroni, si contendono la priorità sulle decisioni da prendere e le azioni da mettere in atto per conquistare la giovane donzella, ma il risultato è disastroso!

Il video è di Josiah Haworts ed è stato prodotto al Ringlin College of Art and Design insieme a Joon Soo Song e Joon Shink Song.

In apertura, è interessante notare come la “ragione” metta in atto comportamenti di controllo (sistemare le forchette sul tavolo) per gestire l’ansia dell’attesa, mentre l’emotività è occupata a rappresentarsi mentalmente scenari gratificanti, ovvero impegnata in attività che rimandano al concetto di pensiero desiderante (Caselli e Spada, 2001).

Conclude il video un finale inatteso e sorprendente.

https://youtu.be/3Fd7j6vyoL4

 

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Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose (2015) – Recensione

In legami d’amore Jessica Benjamin ricostruisce a partire dal rapporto madre-bambino la struttura del dominio erotico e ci aiuta a capire in che modo un atto d’amore può trasformarsi in pratica di sottomissione.

Questo libro utilizza la critica femminista e la reinterpretazione della teoria psicoanalitica per analizzare l’azione reciproca tra amore e dominio, dove la dominanza è intesa come un percorso a due sensi, un sistema che implica la partecipazione sia di chi si sottomette al potere sia di chi lo esercita.

Nel primo capitolo del libro l’autrice cerca di dimostrare in che modo le dinamiche di dominanza e sottomissione abbiano origine proprio a partire dalle caratteristiche del primo legame d’amore, quello tra madre e figlio/a.

Il dominio e la sottomissione sono il risultato del venir meno della tensione necessaria tra l’affermazione del sé e il riconoscimento reciproco che permette al sé e all’altro di incontrarsi su un piano di assoluta parità. Hegel dimostrò che questa lotta per farsi riconoscere dall’altro, volta alla ricerca di conferma personale, costituisce il nucleo delle relazioni di dominio.

Il dominio è una distorsione dei legami d’amore. Chi prende questa strada per stabilire il proprio potere trova un’assenza là dove dovrebbe esserci l’altro, un vuoto dovuto ad un mancato riconoscimento, l’altro appare così minaccioso per il proprio sé – o per eccessiva pericolosità o per estrema debolezza o entrambe le cose- che deve essere controllato. Si crea quindi un circolo vizioso: più l’altro viene soggiogato, meno è vissuto come soggetto umano e maggiore diventa la distanza e la violenza che il sé deve usare contro di lui.

Il ruolo dell’”altro” non è meno complicato, coloro che vengono soggiogati e non riconosciuti, possono nell’atto stesso di emanciparsi, restare innamorati dell’ideale di potere che hanno subito e che è stato loro negato. Talvolta riescono a respingere il diritto del padrone a dominarli, non respingono però la sua personificazione del potere, si limitano a rovesciare i termini della questione, agendo gesti di “rivalsa narcisistica” che mantengono il ciclo di potere.

Per fermare il ciclo di dominio l’altro deve introdurre una differenza,

“vogliamo che l’altro soggetto sia fuori dal nostro controllo e tuttavia abbiamo bisogno di lui”.

Accettare questo paradosso, sostiene l’autrice, è il primo passo per dipanare i legami d’amore. Procedendo nella lettura si giunge ad un interessante approfondimento dei rapporti erotici sadomasochistici, nei quali possiamo scorgere la “pura cultura” del dominio, una dinamica che mette in campo sia il dominio sia la sottomissione.

L’autrice sottolinea come la fantasia di dominio erotico incarni sia il desiderio di indipendenza sia quello di riconoscimento; il sadico ricerca tramite il potere sul corpo dell’altro l’affermazione del sé mentre l’individuo che si sottomette al dominio erotico cerca di arrivare alla libertà passando per la sua schiavitù, alla liberazione sottomettendosi al controllo, sogna di dominare subendo prevaricazione.

Si tratta di un enorme paradosso a cui l’autrice cerca di dare una risposta, ponendosi la domanda “In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono”? Viene affrontato in modo dettagliato il desiderio femminile, cercando di capire in che modo il desiderio mancante della donna si manifesti così spesso in una forma di adorazione dell’uomo che invece lo vive in prima persona e si cerca di delineare le dinamiche che portano alcune donne ad avere una propensione per quello che comunemente possiamo chiamare “amore ideale”, dove la donna si sottomette e adora un altro, ovvero quello che lei pensa di non poter essere.

Per spiegare ciò l’autrice ripercorre il mondo freudiano del padre, in cui le donne vengono definite dalla mancanza di quello che gli uomini possiedono, il fallo. Nella teoria freudiana il fallo simboleggia allo stesso tempo potere, desiderio e differenza e come portatore del fallo il padre simboleggia la separazione dalla madre; il potere del padre viene giustificato in quanto sarebbe l’unica strada verso l’individualità. L’autrice cerca di decostruire la teoria psicoanalitica classica suggerendo una rappresentazione alternativa e dimostrando che non è l’anatomia ma la totalità della relazione di una bambina con il padre, in un contesto di polarità di genere, che spiega quella che viene percepita come “mancanza” della donna.

La parte successiva del saggio si concentra sull’ “enigma edipico”, dove la Benjamin analizza il modello edipico freudiano, proponendo una versione edipica meno scissa che lascia spazio a livelli successivi e antecedenti di integrazione tra il ruolo di “padre liberatore” e quello di “madre divorante” tipico del modello classico.

La difficoltà risiede nel fatto che nel modello edipico freudiano il potere del “padre liberatore” viene usato come difesa nei confronti della “madre divorante”. Per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza, così viene a formarsi un ideale paterno di separazione che finisce per incarnare il rifiuto assoluto della femminilità.

Ciò accresce la scissione tra soggetto maschile e oggetto femminile e con essa l’unità duale di dominio e sottomissione. Questa struttura polarizzata della differenza di genere lascia due sole alternative: unità irrazionale (quella con la madre) o autonomia razionale (quella del padre). Partendo da questa riflessione l’autrice dedica la parte finale dal saggio ad alcune riflessioni sul modo in cui tale scissione di genere si ripete nella vita intellettuale e sociale, ed elimina la possibilità di riconoscimento non solo degli essere umani come coppia ma dell’intera società nel suo insieme.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Benjamin, J. (2015). Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose. Raffaello Cortina Editore: Milano.

Gambling: credenze metacognitive e comorbilità psichiatrica

Giovanni Mansueto, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti.

Il gambling appare un fenomeno in costante crescita e di significativa complessità. La classificazione diagnostica del gioco patologico ha subìto alcune modifiche con il passaggio dal DSM-IV TR (American Psychiatric Association, APA, 1994), classificato nella categoria dei “Disturbi del Controllo degli impulsi non classificati altrove” e denominato Gioco d’azzardo Patologico (GAP), al DSM-V (APA, 2013) nel quale viene collocato nella categoria delle “dipendenze comportamentali” e rinominato Disturbo da gioco d’azzardo (Gambling Disorder). Studi epidemiologici stimano tassi di prevalenza compresi tra 1.1% e 5.3% nella popolazione adulta (Castrén et al. 2013; Lorains, Cowlishaw, & Thomas, 2010; Raylu & Oei, 2002) e in particolare nel contesto italiano si stimano tassi di prevalenza pari al 2.3% per i giovani e il 2.2% per gli adulti (Bastiani et al. 2013).

Un importante aspetto da considerare nel trattamento del gambling è rappresentato dal problema della comorbilità. Si stima che circa il 6.7 – 12 % di pazienti psichiatrici manifesti comportamenti di gioco patologico e in particolare il gioco d’azzardo patologico appare associato ad elevati tassi di comorbilità rispetto a disturbi dell’umore, ansia, abuso di sostanze e disturbi di personalità (Johansson, Grant, Kim, Odlaug & Go¨testam, 2009).

La comorbilità psichiatrica rappresenta da una parte un significativo fattore di rischio per l’insorgenza del gambling e allo stesso tempo si associa ad un maggiore gravità e decorso clinico negativo (Raylu & Oei, 2002; Johansson et al., 2009).

Sebbene una recente revisione sistematica della letteratura e meta-analisi (Gooding & Tarrier, 2009) evidenzia un significativo effetto della CBT nella riduzione del gambling nei primi 3 mesi dalla cessazione della terapia, allo stesso tempo le evidenze sull’efficacia in un lungo periodo di tempo (es. 12 mesi) sono ancora limitate (Spada, et al.,2014).

Alla luce di ciò, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) si è cercato di indagare se la terapia metacognitiva (MCT) possa rappresentare una strategia terapeutica funzionale a tale complessità. La base teorica della MCT è rappresentata dal modello della Funzione Esecutiva Regolatoria (S-EF) (Wells, 2012) secondo il quale i disturbi emotivi sono mantenuti da peculiari modalità di elaborazione delle informazioni, ovvero, il modo di usare il pensiero, l’attenzione, la memoria.

Secondo il modello metacognitivo proposto da Wells (2012), i disturbi psicologici sono determinati dall’attivazione della Cognitive Attentional Symdrome (CAS), ovvero, una modalità disfunzionale di elaborazione dell’informazione caratterizzata da stili di pensiero perseveranti (es.: rimuginio, ruminazione, iper-monitoraggio attentivo), comportamenti di evitamento e strategie di coping non adattive (Spada et al., 2014).

L’attivazione della CAS è determinata a sua volta da specifiche credenze metacognitive (Wells, 2012). Studi empirici supportano il ruolo delle credenze metacognitive nei disturbi d’ansia, depressivo, ossessivo-compulsivo e nelle dipendenze da nicotina, alcool e gambling (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Normann, van Emmerik & Morina, 2014; Spada, Giustina, Rolandi, Fernie, & Caselli, 2014; Wells, 2012).

Uno dei primi studi sul rapporto tra metacognizoine e gambling è stato condotto da Lindeber et al. (2011) in un campione di 91 giocatori patologici, evidenziando il ruolo predittivo delle metacredenze cognitive (metacredenze negative e metacredenze relative alla necessità di controllo) nel gambling, indipendentemente dalla presenza di stati ansiosi e /o depressivi. Come evidenziato dagli autori, le “metacredenze negative” e la “necessità di controllo” fanno riferimento a un range di credenze secondo cui certi pensieri non dovrebbero essere sperimentati in quanto negativi, e, l’esperienza di tali pensieri, se non controllati, potrebbe condurre a conseguenze negative.

Pensieri negativi e stati emotivi nei giocatori possono essere rappresentati dal pensiero relativo ai gioco, dal desiderio di giocare o da bassi livelli di umore, rappresentando per il giocatore potenziali trigger o possibile prova di perdita di autocontrollo.

Lindeberg et al. (2011), ipotizzano che il soggetto può ruminare e/o rimuginare su tali pensieri e stati emotivi, cercando di monitorarli o sopprimerli, esacerbando stati affettivi negativi. Secondo gli autori (Lindeberg et al., 2011) ciò a sua volta potrebbe incrementare la probabilità di ricorrere al gioco come strumento, seppur temporaneamente, di contenimento. Sulla scia di questo studio, successivi disegni sperimentali hanno fornito ulteriore evidenza del potenziale coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling.

Spada et al. (2014), identificano in un campione di 10 giocatori patologici, la presenza di metacredenze positive e negative relative al gioco, il quale rappresenterebbe per gran parte dei soggetti una strategia di coping finalizzata alla risoluzione di problemi economici e/o alla regolazione degli propri stati interni emotivi-cognitivi. Un ulteriore rafforzamento del potenziale coinvolgimento della prospettiva metacognitiva nel gambling è fornita da Caselli et al. (2014), evidenziano il ruolo predittivo, indipendentemente dalla presenza di emozioni negative e craving, del pensiero desiderante a sua volta associato a credenze metacognitive positive e negative (Caselli e Spada, 2010).

Infine, in un recente studio (Mansueto et al., 2015) è stato indagato il ruolo delle credenze metacognitive in relazione alla comorbilià psichiatrica. In un campione clinico di giocatori patologici (n=69) e un campione di soggetti estratti dalla popolazione generale di (n= 58) è stata indagata la relazione tra credenze metacognitivie, sintomatologia psichiatrica e comportamenti legati al gioco, attraverso la somministrazione di questionari self-report quali South Oaks Gambling Screen (SOGS, Lesieur & Blume, 1987), Metacognition Questionnaire 30 (MCQ-II, Wells & Cartwright-Hatton, 2004), Symptom Checklist-90-R (SCL-90, Derogatis, 1994). Tale studio ha condotto ai seguenti risultati:

rispetto alla popolazione generale, i giocatori patologici sono caratterizzati dalla presenza di credenze metacognitive negative, credenze metacognitive relative alla necessità di controllo dei pensieri, e maggiore sintomatologia ansiosa, depressiva, ossessiva-compulsiva, ipersenbilità interpersonale e ostilità;

– nel campione dei giocatori patologici la relazione tra metacognizione (credenze metacognitive negative e positive) e gambling appare essere mediata dalla concorrente sintomatologia psicologica; in particolare sembra rilevate nel rapporto di mediazione, la sintomatologia dell’area ansiosa, ossessiva-compulsiva e relativa all’ipersensibilità interpersonale e all’ostilità.

Questa ricerca fornisce un ulteriore supporto a precedenti evidenze empiriche (Caselli & Spada, 2010; Lindeberg et al., 2011; Spada et al., 2014) sul coinvolgimento delle credenze metacognitive nel gambling. Sebbene i limiti impliciti dello studio dovuti all’ampiezza del campione e l’impiego di test self-report, tali risultati portano ad ipotizzare che le credenze metacognitive potrebbero contribuire al mantenimento delle condotte patologiche di gioco, probabilmente, favorendo l’esacerbazione e/o il mantenimento di stati affettivi (per lo più di natura ansiosa) concorrenti. Sulla base di quanto riportato, gli studi sopradescritti forniscono alcuni punti di riflessione in relazione a possibili implicazioni terapeutiche:

(a) forniscono preliminari evidenze sulla possibilità di considerare la Terapia Metacognitiva (Wells, 2012) un’utile integrazione nel trattamento del comportamento legato al gioco patologico e della relativa sintomatologia psicologica concorrente;

(b) in linea con il modello teorico (Wells, 2012), diversamente dalla CBT, l’intervento terapeutico non dovrà mirare a monitorare e testare la veridicità dei pensieri e delle credenze, ma dovrà focalizzarsi sul modo in cui il soggetto reagisce a queste idee, fornire strategie di gestione e cambiamento di stili di pensiero disfunzionali, nonché esser centrato sulla modifica di credenze metacognitive;

(c) si sottolinea l’importanza durante la fase di assessment di una approfondita valutazione psicodiagnostica e di un accurato assessment metacognitivo;

(d) focalizzarsi sulle credenze metacognitive disfunzionali potrebbe favorire la riduzione dei sintomi psicologici concorrenti contribuendo alla riduzione e/o contenimento delle condotte funzionali al comportamento di gioco patologico.

In conclusione i dati sembrano incoraggianti nel considerare il potenziale contributo della Terapia Metacognitiva nel Gambling, inoltre, la cornice teorica delineata appare ricca di stimoli per ulteriori studi al fine di chiarire ulteriormente il ruolo delle credenze metacognitive nell’esacerbazione e mantenimento del gambling.
Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Neuroscienze: i circuiti neuronali che regolano l’appetito

FLASH NEWS

Nel nostro cervello vi sarebbero specifici circuiti di neuroni che regolano la sensazione di appetito e sazietà nel senso che sono deputati all’atto stesso del nutrimento. Ma non solo.

Secondo un nuovo studio della Yale School of Medicine, questi stessi circuiti conosciuti da tempo per regolare la sensazione di fame avrebbero una ulteriore funzione in quanto coinvolti nell’attuazione di comportamenti ripetitivi e stereotipati finalizzati a uno scopo specifico, e cioè il reperimento del cibo quando si ha fame.

Si tratta di una popolazione di neuroni presenti nell’ipotalamo, conosciuti come neuroni AGRP. In uno studio sui roditori è stato dimostrato che in assenza di cibo i topi attuano comportamenti ripetitivi in relazione all’ attivazione di tale popolazione neuronale.

In tal senso, secondo gli autori, questa primitiva regione ipotalamica sarebbe alla base anche di comportamenti più complessi rispetto alla sola gestione della sensazione di fame. Dunque l’attivazione dei neuroni AGRP in assenza di cibo stimola la ricerca di nutrimento e comportamenti ripetitivi e stereotipati che corrispondono a una diminuzione dei livelli di ansia e che regrediscono a seguito del consumo di cibo.

Secondo gli autori dunque il coinvolgimento di questa popolazione neuronale in comportamenti stereotipati, ripetitivi e compulsivi legati alla sensazione di fame potrebbe essere utile per comprendere dal punto di vista neurocognitivo gli aspetti comportamentali dei disturbi dell’alimentazione.

 

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Tracce del tradimento: perché si lasciano e perché si cercano – Introduzione

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Introduzione (01)

Una serie di articoli sul tradimento. E sul lasciare e cercare tracce del tradimento. Quasi a tradire la segretezza del tradimento. Per State Of Mind, a partire da oggi, ci chiediamo con una serie di articoli come e perché si lasciano tracce nel tradimento.

All’inizio c’è una coppia. Un uomo e una donna. Due uomini. Due donne. Insomma, una coppia. Adolescenti, adulti, anziani, coetanei, amanti, al primo incontro, fidanzati, conviventi, sposati, in via di separazione. Che s’interessano, desiderano, stimano, dedicano, amano, inseguono, cercano, fuggono, ritrovano.

Poi appare un altro, nuovo, diverso, precedente, reale, immaginato, disponibile, seduttivo, sfacciato, sfuggente, irraggiungibile. Uno dei due guarda fuori, vede l’altro, mette un piede oltre il confine, furtivamente, senza che il compagno se ne accorga, esclude il compagno da questa vicenda che è sua e non della coppia; si è ritagliato uno spazio privato, forse se ne sta andando.

L’altro dei due a volte, non sempre, avverte un cambiamento, l’esclusione; sospetta, teme l’inganno, l’abbandono, l’umiliazione e allora vuole vederci chiaro e chiede spiegazioni, controlla, diffida, minaccia. Questa è la consumata figura del tradimento che tutti conosciamo per averla interpretata almeno una volta nella parte del traditore, del geloso o del rivale.

E’ la modalità più frequente con cui si transita da una coppia all’altra: il rimpasto delle relazioni avviene così nel 99% dei casi ma il restante 1% non è mai arrivato alla nostra osservazione e forse non esiste. La nuova coppia che nasce resterà tale fino a quando si metterà di nuovo in scena la figura del tradimento; e così via di coppia in coppia fino alla vedovanza.

E’ comprensibile che le cose vadano così perché gli interessi in gioco del traditore e del tradito sono in contrasto. Il traditore prima di lasciare la vecchia coppia vuole accertarsi che la nuova sia praticabile e funzioni meglio della precedente per cui è normale che cerchi un periodo di sovrapposizione in cui sperimentare il nuovo senza perdere il vecchio. E’ dunque suo evidente interesse tenere celata la nuova relazione.

Il tradito, al contrario, è interessato a non continuare a investire in una impresa che forse è già in liquidazione aumentando le perdite ed è dunque suo interesse scoprire al più presto come stanno le cose per interrompere l’investimento a fondo perduto o per impedire, per quanto è in suo potere, il proseguire della nascente relazione e ristabilire la coppia.

Questa storia è talmente antica e ripetitiva e su di essa sono state scritte un’infinità di pagine di saggistica, letteratura, poesia che non meriterebbe certo altro inchiostro. Infatti il tema di questo libretto non è il tradimento e la gelosia a cui pure si accennerà, ma una strana malformazione di entrambe, una perversione della figura classica e ben consolidata del tradimento.

Normalmente il traditore tradisce perché crede di poter star meglio (e spesso si sbaglia), il geloso cerca di scoprire il tradimento perché non vuole star peggio (e spesso si sbaglia): fino a qui ognuno gioca la sua parte sensata, coerente, efficace e di consumata tradizione. Talvolta però avvengono cose strane.

Il traditore invece di tenere con cura nascosto il tradimento ne lascia ovunque delle tracce visibili, dice di non voler essere scoperto e sembra far di tutto per esserlo, apparentemente si comporta in maniera contraddittoria ai suoi scopi, sembra volersi cacciare volontariamente nei guai perdendo il vantaggio della segretezza che gli consente di avere per un periodo di prova più o meno prolungato la situazione di “doppia coppia”.

Il geloso invece di cercare le prove del tradimento e agire di conseguenza e cioè smettere di cercarle se non ci sono o, se ci sono, interrompere il rapporto o blindarlo dalle interferenze con manovre deterrenti, cerca, cerca, si arrovella, continua a cercare, cercare e arrovellarsi.

Torniamo all’inizio: tradire ed essere traditi, lasciare e cercare tracce di questo tradimento.

Qual è il perché di questo apparentemente insensato seminare tracce e cercarle? Se varrà a evitare a qualcuno questo calvario tradendo ed essendo traditi con serietà, avremmo raggiunto il nostro scopo.

 

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Il disturbo da Accumulo: recensione del libro di Perdighe e Mancini

Le persone affette da disturbo da accumulo soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Il disturbo da accumulo (hoarding disorder) è una diagnosi relativamente recente, elaborata in USA da Randy Frost e il suo gruppo di ricerca clinica alla Smith University. Si tratta di un disturbo in qualche modo apparentato al disturbo ossessivo compulsivo ma non riducibile a esso. Le persone affette soffrono di una curiosa ossessione di accumulo di oggetti, con i quali finiscono per riempire la casa all’inverosimile, riducendo al minimo lo spazio percorribile fino a rendere difficile abitarci.

Negli Stati Uniti sembra esserci un’epidemia di questo disturbo, ma anche in Europa e in Italia si stanno moltiplicando i casi. La consapevolezza di questo disturbo iniziò col caso storico dei fratelli Collyer, che giunsero ad accumulare 103 tonnellate di oggetti vari (compresi 14 pianoforti) nella loro casa a Manhattan nel corso degli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, fino a rimanere sepolti vivi nel loro stesso appartamento e a morirci nel 1947.

Si tratta certamente di un tipico disturbo della società affluente e consumistica con la sua larga disponibilità di oggetti da usare e gettare. O da non gettare, ma da conservare e collezionare, come accade in maniera perversa nel disturbo da accumulo.

Insomma per alcune persone l’attaccamento agli oggetti diventa un vero disturbo mentale: buttare è così difficile che continuano ad accumulare cose di nessun valore anche quando questo compromette la qualità della vita, la vivibilità della casa, i rapporti con gli altri.

Dal 2013 l’accumulo patologico è stato riconosciuto come disturbo autonomo e inserito con il nome di disturbo da accumulo nel DSM-5. Si tratta di un disturbo molto diffuso: ne soffre tra il 2 e il 5 per cento della popolazione.

In Italia se ne stanno occupando Claudia Perdighe e Francesco Mancini e il loro gruppo clinico, da sempre impegnati nello studio e nella cura delle varie forme di sofferenza ossessiva. Ora Perdighe e Mancini escono con un volume edito da Cortina che tratta a fondo questo disturbo ancora nuovo per noi. Il libro tratta il modello cognitivo-comportamentale del disturbo, e la sua cura. Fornisce una descrizione accurata di come alcune persone possano sviluppare un comportamento così strano. In genere costoro accumulano oggetti per due ragioni principali: potrebbe servirmi e mi sono affezionato. Una ragione emotiva e l’altra in qualche modo razionale.

Il trattamento proposto è naturalmente di tipo cognitivo-comportamentale e parte dall’analisi delle idee che sono alla base del comportamento da accumulo e dalla loro messa in discussione, insieme alla dismissione dal comportamento di accumulo. Il volume è rivolto a tutti coloro che si occupano di salute mentale, ma si presta anche a essere letto da chi semplicemente vuole comprendere meglio il disturbo (i soggetti che ne soffrono o i loro parenti).

 

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DSM 5: Disturbi ossessivo-compulsivi e disturbi correlati

 

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Ascoltare il Trauma dell’Abuso: Report dal seminario – Centro Studi Erickson di Trento

Le competenze emotive e relazionali degli operatori sono state presentate come  requisiti fondamentali per comprendere, sostenere, e trattare minori vittime di violenza e abuso.

I giorni 27 e 28 febbraio presso la sede del Centro Studi Erickson di Trento si è tenuto il seminario dal titolo: Ascoltare il trauma dell’abuso, Strumenti per operatori della tutela minorile e della scuola. Due giorni molto intensi dal punto di vista del contenuti trasmessi e dei temi affrontati. Ma sopratutto per quanto riguarda l’elevato livello emotivo che si è generato all’interno del gruppo in formazione.

Il docente, dott. Claudio Foti, ha guidato i presenti utilizzando uno stile di conduzione unico, che integra formazione tradizionale con tecniche di psicodramma psicoterapeutico rivolte a soggetti vittime di traumi o esperienze avversive. Nel corso delle due giornate sono state proposte attività di role playing orientate allo sviluppo dell’intelligenza emotiva, tecniche di psicodramma moreniano e altre forme di attività ispirate alla psicoterapia del trauma ad indirizzo analitico. Piuttosto insolito, per chi si aspettava un contesto formativo tradizionale, il clima che si è da subito creato.

Il gruppo in più occasioni è stato reso vero protagonista del corso, favorendo l’emersione di testimonianze dirette che hanno fatto crescere la circolazione emotiva all’interno del cerchio. In questo caso la disposizione circolare è stata un reale tentativo di contenere esperienze personali e riflessione dei partecipati e sopratutto di dare spazio ai diversi vissuti emotivi rispetto ad un tema così complesso.

Le competenze emotive e relazionali degli operatori sono state presentate come  requisiti fondamentali per comprendere, sostenere, e trattare minori vittime di violenza e abuso.La comunicazione del malessere dei bambini infatti inizia spesso dall’orecchio di chi ascolta e dall’occhio di chi guarda (dalla posizione emotiva dell’operatore, dal suo atteggiamento empatico) piuttosto che dalla bocca di chi parla”. Per questo affinché il fenomeno della violenza possa essere adeguatamente riconosciuto e trattato in ogni contesto sociale o sanitario che sia, è importante sviluppare la capacità di ascolto attivo e empatico degli operatori, dall’insegnante della scuola d’infanzia all’educatore professionale, dallo psicoterapeuta al medico. Non è sufficiente però la formazione degli operatori, mancano spesso politiche efficaci di contrasto, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione.

Il fenomeno della violenza sui minori fa ancora troppa fatica ad emergere. Incontra purtroppo ancora oggi troppe resistenze in una cultura per molti versi intrisa di “negazionismo”. Dopo una prima emersione – negli anni ’80 del secolo scorso – rischia non a caso di tornare per molti aspetti nel silenzio e nel dimenticatoio, nel quale è rimasto per secoli. “La sua emersione fa troppa paura, chiama in causa profonde, diffuse e radicate responsabilità della comunità adulta, certamente di molti uomini, di tutti i partiti e di tutte le fedi, di tutte le classi e le professioni, ma anche – in misura certamente più ridotta – di molte donne”.

I dati presentati dal formatore hanno fatto emergere un fenomeno di dimensioni sconcertanti che è bene tenere a mente. Riportiamo di seguito i dati di una ricerca retrospettiva compiuta dall’Istituto degli Innocenti su un campione di 2200 donne dal titolo Percorsi di vita: dall’infanzia all’età adulta. Lo scopo dell’indagine era quello di valutare l’incidenza dell’abuso sessuale e del maltrattamento in età minorile nella popolazione femminile adulta in età compresa dai 19 ai 60 anni.

I dati raccolti hanno permesso di stimare che il 24% della popolazione italiana femminile ha fatto esperienza di almeno una forma di abuso sessuale associata o meno a maltrattamenti prima del compimento dei diciotto anni, mentre il 49,6% ha vissuto almeno una qualche forma lieve, media o grave di maltrattamento in età minore all’interno della famiglia. Il 26,4% delle donne invece non riferisce alcuna esperienza di abuso e maltrattamento.

Le forme di abuso sessuale considerate nell’indagine sono state (con o senza contatto fisico):

• esibizionismo

• molestie verbali

• esposizione all’esibizione di materiali pedopornografici

• toccamenti e atti di masturbazione

• tentativi di penetrazione

• penetrazione

Il maltrattamento fisico è stato identificato mediante l’indicazione di comportamenti quali:

• punizioni fisiche ricorrenti

• percosse con oggetti, tirate per i capelli o strattoni violenti

• percosse con traumi

Il maltrattamento psicologico è stato identificato con un unico comportamento specifico: critiche o ironie svalutanti.

La trascuratezza materiale:

• non chiamare il dottore o far fare visite mediche di controllo in caso di malattia

• vestiti inadeguati alla stagione, non vigilanza sull’alimentazione

La trascuratezza affettiva:

• non supporto e attenzione alle attività scolastiche del figlio da parte dei genitori

• nessun accompagnamento nella fase dell’addormentamento

• non condivisione di momenti di gioco tra genitore e figlio

• affidamento a persone estranee o molto anziane

La violenza assistita:

• assistere a liti verbali continue tra i genitori

• assistere a liti verbali con aggressioni fisiche tra i genitori

• assistere a comportamenti di aggressione verbale, offese e svalutazioni nei confronti di un familiare

• assistere a molestie sessuali o violenze su altri familiari adulti o minori

Gli episodi di maltrattamento sono stati tutti ricondotti all’ambiente familiare poiché è in questo ambito che i bambini vivono le forme più gravi e croniche di vittimizzazione.

Il dott. Claudio Foti è psicologo, psicoterapeuta, psicodrammatista, fondatore e direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel. Da oltre vent’anni conduce gruppi di psicoterapia ad orientamento analitico con lo psicodramma rivolti a persone con alle spalle esperienze sfavorevoli o traumatiche.

Il Centro Studi Hansel e Gretel si occupa di prevenzione sensibilizzazione e di contrasto alle diverse forme di violenza nei confronti dei bambini, psicoterapia infantile, collaborazioni in contesto psicologico forense e di contrasto alla cultura adultocentrica.

 

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La disciplina interiore del terapeuta

Gli allievi rientrano in classe. Una ventina. Ultimo anno di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Una fase esistenziale di passaggio, non semplice. Professionisti scolari. Genitori figli. I maschietti soffrono una schiacciante minoranza. Riprendono posto senza mostrare la minima fretta. La pausa caffè è uno dei motivi essenziali per cui ci si iscrive a una scuola di specializzazione. Lancio uno sguardo privo di messa a fuoco sulle sagome sedute sulle sedie stile college americano, quelle con la mini-scrivania fissata come una protesi sul bracciolo. – Chi  vuole portare un caso?

Guardano con estremo interesse un punto a caso dello spazio, basta che sia fuori del perimetro della mia figura.
Ricordo benissimo quello che passa per la mente degli allievi in quel momento, perché ci sono passato tantissime volte stando dalla loro parte: dopo che per tre minuti d’orologio nessuno si sarà fatto avanti per portare un caso in supervisione, la probabilità che il docente si scocci, o si senta troppo imbarazzato dal silenzio generale, e scelga proprio te, praticamente costringendoti a parlare di un caso clinico, anche inventandotelo, è legata all’eventualità che incontri il tuo sguardo. Come alle scuole medie e al liceo. Io per esempio, se percepivo che lo sguardo del docente stazionava su di me per più di mezzo secondo, facevo in modo da sembrare impegnatissimo ad annotare una riflessione decisiva per la comunità scientifica. A quel punto il docente giungeva alla conclusione che ero troppo scemo per poter affrontare in modo sensato qualsiasi argomento, figuriamoci un caso clinico. Comunque, l’avevo scampata.

Un’allieva seduta in prima fila ha uno scatto improvviso del collo. Si guarda attorno per far vedere agli altri che si sta immolando, e per farsi investire dalla ola invisibile di sollievo e gratitudine che percorre la classe. Inizia a descrivermi il caso con abilità collaudata. Le hanno insegnato un protocollo espositivo per riordinare le sciagure umane nell’opportuna gerarchia. L’emulazione un po’ taroccata dell’anamnesi medica. In un contesto, la psicopatologia, che con la medicina non ha mai avuto alcunché da spartire.

Ascolto con la stessa attenzione che di solito presto alla pubblicità per gli assorbenti interni. Quasi subito, a scuoteremi dal mio imbambolamento è il pensiero che farebbe parte del mio lavoro qui capire perchè mi sono imbambolato. E infatti lo capisco. Non sto vedendo il paziente, nè chi me lo racconta. E quando mi succede questo, la mia coscienza va sempre in stand by. La interrompo più gentilmente che posso. La ringrazio per l’accuratezza della descrizione. Le chiedo se ora possiamo provare a focalizzarci sul motivo che l’ha spinta a portare il caso in supervisione. Il macrorganismo sinciziale della classe si anima con un mormorio che sembra sottolineare che la mia domanda ha una ragione ovvia; anche se manco il macrorganismo sinciziale sa quale sia.

L’allieva tortura i fogli dei suoi appunti senza mettere a fuoco nemmeno una riga. Vorrebbe non essere lì in quel momento; arrivare col pilota automatico alla prossima pausa caffè, magari per commentare coi colleghi quanto io oggi stia rompendo le scatole con le mie domande. Le chiedo se le venga in mente un momento specifico in cui si è sentita in difficoltà col paziente. Ci riflette, mentre cenni leggerissimi di ‘sì, sì, ho capito’ con la testa, come Massimo Troisi nella scena della chiesa in “Non ci resta che piangere”, scandiscono le associazioni mentali. Descrive la scena che fino a quel momento le si era nascosta dietro agli occhi.

– In realtà c’è stato un momento, non nell’ultima seduta, in quella precedente, ma non so se è veramente importante.
Con la faccia le dico ‘è importante’. Con la faccia mi dice ‘ok, se lo dici tu’.

– Mi ha chiesto di prendere un caffè insieme.

Mormorio prolungato di soddisfazione del microrganismo sinciziale. Di quelli che fanno da sottofondo alle sit com americane. Lei ha il viso di chi uno a cui hanno appena cavato un dente. Una miscela strana di rabbia e riconoscenza che mi intenerisce.

– Capisco. Che hai provato?

La risposta è un riflesso patellare verbale.

– Beh, mi sono arrabbiata molto…

Penso che ora mi dirà: ‘…ma ho disciplinato la mia rabbia’.

– …ma ho disciplinato la mia rabbia.

Fermiamoci un attimo. Autori guru come Safran (Safran & Segal, 1990; Safran & Muran, 2000) hanno descritto la disciplina interiore del terapeuta come funzione imprescindibile in casi come questo. Il  terapeuta si arrabbia perchè il paziente l’ha invitata a prendere il caffè? O si irrita perchè il paziente improvvisamente mette il broncio? O si annoia perchè il paziente risponde a monosillabi?

Il terapeuta allora attiva delle procedure interne di regolazione delle proprie emozioni negative evocate dal paziente per evitare che esse lo spingano a compiere interventi nocivi per la relazione e per le sorti della terapia. Se queste procedure hanno successo, esse collocano il terapeuta in una posizione vantaggiosa per operare un intervento efficace. Esplorare la dinamica interna del paziente senza esserne parte. Aiutare il paziente a osservarla da una nuova prospettiva.

Roba fortissima. Potentemente transteoretica. Di più: ateoretica. Maledettamente pratica. Perchè allora quasi sempre gli allievi, anche avanzati (e qualche volta, i terapeuti avanzati) quelle procedure non le eseguono efficacemente (anche se studiano Safran)? Una risposta, un po’ ingenua, abbastanza radicale, io me la sono data. Ma per spiegarla al meglio dobbiamo tornare in classe.

– Sono sicuro che tu l’abbia disciplinata. Ma aiutami a capire meglio. Rabbia legata a cosa? Ci arriviamo insieme dopo venti minuti faticosi. Le servono soprattutto per rassicurarsi sul fatto che io e la classe faremo buon uso di ciò che fa fatica a dire a se stessa:

– Lo ammetto, una parte di me aveva voglia di prendere un caffè con lui. In fondo mi affascina. Ma nello stesso tempo mi sono sentita poco rispettata.

Ci prendiamo il tempo necessario per scendere più in profondità. Nella classe, il silenzio assoluto della totale identificazione con la collega. L’esatto opposto dell’attitudine giudicante. Questo significa esser diventati una bella classe. Fino a quando arriva il momento di dirle, lentamente:

– Sentire che è solo un altro a decidere se abbiamo valore o no?!

La scossa che serve le arriva alla pancia:

– Non lo so decidere da sola, eh!?

Ormai in questa classe un po’ mi conoscono. Alcuni immaginano quale sarà la prossima domanda:

– Dove ti porta questo? Ti viene in mente una scena?

Le viene in mente. E quello che le viene in mente è essenziale per vedere con nitidezza disarmante (vedere, non capire) quanto il paziente non ne sappia niente della storia del terapeuta che ha di fronte (e non sia tenuto a saperne); non sappia niente di quanto, per esempio, possa essere stato periglioso il percorso che ha condotto il suo terapeuta a strutturare un’immagine stabile di sè e del proprio valore. Il paziente lo ha solo invitato a prendere un caffè.

La capacità del terapeuta di comprendere il significato profondo che si cela (e si palesa) in questo invito – in eventi come questo, così densi  di implicazioni per le sorti di una terapia – decade istantaneamente nel momento in cui la mente del terapeuta stesso inizia a impegnare tutte le risorse di cui dispone per attutire un contraccolpo.

Respingere l’onda d’urto della propria vulnerabilità, personale, storicamente fondata, che entra prepotentemente nel campo terapeutico e confonde le acque. Induce nel terapeuta un delirio in miniatura a difesa di un senso un po’ finto di stabilità interiore: ‘Il paziente mi manca di rispetto’. ‘Il paziente non rispetta il confine’. O, per i più sofisticati: ‘Il paziente cerca di controllarmi per reificarmi, così da disincarnarmi, in modo da de-soggettivizzarmi, con l’intento sottile, vitale per la sua economia psichica, di rendermi non esistente e quindi mai potenzialmente abbandonante’.

Intendiamoci, capita spesso che la sofferenza emotiva del terapeuta appaia semplicemente come il precipitato della patologia dell’altro. Che il terapeuta sia chiamato a disciplinare processi interni problematici per lo più innescati dal funzionamento del paziente. La conosciamo, la sensazione ansiosa di “camminare sulle uova”, nel confronto con la diffidenza di un paranoide grave; il pensiero insistente, semi-dissociativo, di spiagge caraibiche, come antidoto alla noia imbarazzata scatenata dai monosillabi di un grave evitante; la voragine in cui precipita l’autostima – e la rabbia che ne consegue – nel confronto col disprezzo del narcisista; la sensazione che Kernberg quanto a bravura terapeutica ci fa un baffo, quando un paziente dipendente ci fa sentire indispensabili.

Il controtransfert patologia-specifico esiste; è un fondamentale marcatore diagnostico; una guida euristica imprescindibile.

Però, mettete tre terapeuti con lo stesso paziente, che so, paranoide. Ciascuno di essi avrà il proprio modo di “camminare sull uova”; per ciascuno di essi percepire quel particolare tipo di ansia avrà come substrato un peculiare, autobiografico, scenario interno, che prende forma dietro la porta della coscienza ogni volta che quell’individuo si imbatte in una seria difficoltà. Magari per il primo sotto quell’ansia ci sarà il timore di percepirsi fallimentare, per il secondo la conferma dell’immagine paventata di sè come irresponsabile, che arreca danno, per il terzo lo spettro di una frammentazione interna. Per ciascuno dei tre, la vera disciplina inizia con l’accesso a quelle percezioni.

Provo allora a dare una risposta, la mia, alla domanda di prima. Perchè quasi sempre gli allievi, anche avanzati – non proprio raramente, i terapeuti avanzati – non eseguono  efficacemente le procedure di disciplina interiore?

Perchè non sono procedure. Non possono essere considerate tecniche. La disciplina interiore va secondo me intesa come un assetto interiore sufficientemete stabile. Uno stadio avanzato dello sviluppo di sè che, già che c’è, può essere utile anche nel mestiere di terapeuta, soprattutto col paziente “difficile”. Una posizione del sè che si basa sostanzialmente sul graduale affinamento della capacità di mettere tra parentesi se stesso. Aver osservato così da vicino le proprie zone di vulnerabilità, essersi allenati ad osservarle ogni giorno, sempre con uno sguardo benevolo, nel momento in cui si attualizzano nelle situazioni, da saper lasciare che si trasformino in un rumore di fondo.

Per cui, quando quelle vulnerabilità invadono il campo terapeutico, non generano più il bisogno urgente della mente di scotomizzarle spostando le ragioni del problema all’esterno. Sapersi dire, per esempio, al cospetto del paziente: ‘In questo momento sono arrabbiato non perchè chi mi sta di fronte sta violando il principio etico del rispetto del mio ruolo e questo non è giusto, ma perchè sento la mia autostima minacciata, e mi sento così perchè quando lui ha messo su quell’espressione sprezzante (o anche se semplicemente mi fa l’affronto di non migliorare) è come se avesse spinto la mia faccia davanti allo specchio e lì ci ho visto, come mi capita spesso da quando avevo tredici anni, che non valgo quanto vorrei’. Impossibile attivare oggi, al cospetto del paziente, il muscolo che produce consapevolezze del genere, se non l’ho allenato lungamente. Quotidianamente. La vera disciplina interiore secondo me è quella che viene messa in atto accidentalmente in psicoterapia.

Quel muscolo, ciascuno lo allena col metodo che preferisce.  Le strade ci sono. Una è quella intellettuale. Filosofi come Cioran (1956; 1973), forse superando Nietzsche, hanno mostrato la potenza creativa di un certo tipo di nichilismo.  Cioran dice che la nostra sostanza si sgretola momento per momento, ma noi dovremmo imparare a fare di questo consumarsi un principio di efficacia, come lo chiama lui. Trarre vantaggio dalla prospettiva di non essere che quel consumarsi lascia intravedere.

Non essere significa mettere l’io tra parentesi, e fare in modo di “vibrare al contatto del vuoto che è in noi”.

Regressione germinativa, la chiama lui, discesa verso le nostre radici. Morire, in un certo senso, per stabilire la nostra vera identità, svelando la nullità del tempo, che finisce per non avere più alcun potere su di noi. In psicoterapia, alcuni autori, che non so se hanno letto Cioran, si avvicinano a qualcosa del genere quando parlano di “autotrascendenza” (Travis & Shear, 2010).

Un’altra via maestra, le arti marziali, praticate con l’insegnante giusto. Un’altra ancora, la Mindfulness. Meglio ancora se ne recuperiamo le autentiche radici spirituali. Una di queste radici è la scuola del Vedanta, per la quale la meditazione non è necessariamente solo il momento in ci sediamo e incrociamo le gambe. Si può meditare ripetutamente, continuamente, in risposta alle situazioni, mentre le viviamo. Come insegna Nisargadatta Maharaj (2001). Secondo lui la mente produce continuamente idee diverse su noi stessi. Cambiamo continuamente la rappresentazione che abbiamo di noi e degli altri. Da un giorno all’altro, da un momento all’altro. L’immagine che abbiamo di noi stessi è la più mutevole di tutti, è la più vulnerabile, alla mercè della prima cosa che capita. Quella particolare frase del partner, perdere il lavoro, un lutto, un insulto, e l’immagine che abbiamo di noi, quel “vizio della mente che chiamiamo persona”, cambia, anche profondamente.

Dice Maharaj che per poter indagare chi siamo veramente dobbiamo prima di tutto osservare continuamente cosa non siamo. E certo non siamo quell’immagine così mutevole. Bisogna diventare semplici testimoni di qualsiasi sensazione, desiderio, emozione (iniziando da quelle problematiche) che transiti davanti al palcoscenico della mente. Osservarlo per un attimo e poi archiviarlo come cosa non corrispondente a sè. Dire di tutto: ‘Io non sono questo’. Prima col pensiero, poi con le emozioni, e poi con le azioni. Sembra una strada che conduce alla spersonalizzazione. È esattamente il contrario.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dallas Buyers Club e l’empowerment individuale – Cinema & Psicologia

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa.

L’Empowerment (inteso come “potere di”) è un punto cardine per la Psicologia di Comunità. Questo è analizzabile ovviamente in diversi contesti, primo fra tutti quello individuale.

Il self-empowerment nasce da una condizione di disempowerment in cui la persona in questione sperimenta l’inefficacia delle proprie azioni e condizioni rispetto ad un particolare evento. Da questa impotenza appresa si passa alla speranza appresa e quindi all’empowerment vero e proprio, cioè quella capacità di scegliere la strategia migliore per affrontare i problemi i cui tre costrutti fondamentali sono essenzialmente 3:

– Controllo (credere nelle proprie capacità)

– Consapevolezza critica (comprendere e analizzare i contesti di vita)

– Partecipazione

Alla visione del film “Dallas Buyers Club” si ritrovano, scena dopo scena gli elementi chiave di questo processo. Portato sul grande schermo nel 2013, con la regia di Jean-Marc Vallèe,, che gli porta la candidatura agli Oscar come miglior montaggio, una sceneggiatura di Craig Borten e Melisa Wallack liberamente ispirata alla storia vera di Ron Woodroof e interpretato da Matthew McConauughey come miglior attore protagonista, il film seppur parlando di un tema molto importante come quello dell’HIV, centra perfettamente il tema del self-Empowerment.

La storia è quella Ron Woodroof a cui viene diagnosticata l’AIDS nel 1985. Nel film il personaggio di Ron è descritto come un omofobo, rozzo che incarna il perfetto stereotipo texano. Sebbene la veridicità dei fatti nella sceneggiatura sia stata un pò “caricata”, come per il carattere rude di Ron, ed inventata inserendo personaggi che non sono realmente esistiti come la Dr.ssa Saks e l’amico Rayon, passo dopo passo, tono su tono ci descrive perfettamente l’evoluzione della persona e del personaggio.

Ron Woodroof scopre accidentalmente di avere l’AIDS, malattia legata nell’immaginario collettivo degli anni ’80 ad una piccola cerchia di gruppi sociali. Non si capacita dell’accaduto, gli danno 30 giorni di vita e di questi, uno dopo l’altro vede allontanarsi da lui, persone amiche che con atteggiamenti bigotti lo lasciano solo nel suo calvario (chiara condizione di disempowerment).

Incredulo, comincia a documentarsi. Scopre che per poter allungare l’aspettativa di vita dovrebbe assumere un farmaco di nuova sperimentazione, l’AZT, negatogli però, non essendo inserito nella lista dei candidati alla sperimentazione. Non si dà per vinto, riesce a corrompere un portantino che gli fornisce il farmaco di nascosto per un po’. La storia non va avanti a lungo e dopo l’interruzione dell’AZT, Ron si ritrova a combattere con una serie di sintomi che lo stanno portando all’inevitabile fine. Non si arrende, la sua speranza è la sua forza, arriva in Messico e si imbatte in un medico radiato dall’albo che invece di proporgli l’AZT, tossico a parer suo, e che lo sta distruggendo (l’AZT non è infatti il farmaco di prima scelta avendo molte controindicazioni, ma un ottima entrata economica nata da un accordo tra case farmaceutiche e governo contro cui Woodroof combatterà a lungo)  lo cura quindi con un altro farmaco, peptide T.

I trenta giorni sono ormai passati, Ron è ancora vivo (fase di controllo, crede nelle proprie capacità, riacquista fiducia)  e pensa bene di importare la cura alternativa negli Stati Uniti.

Che lo faccia per guadagno, per condivisone o qualsivoglia altro motivo, porta i farmaci e cerca di venderli, ma, la maggioranza dei malati è rinchiusa in quella ristretta cerchia sociale quella degli omosessuali e nulla può con il suo atteggiamento se non dopo l’incontro con Rayon, transgender tossicodipendente, che filtrerà gli incontri e che gli suggerisce poi di fondare un Buyers Club, associazioni parecchio utilizzate all’epoca, i cui membri, grazie alla quota contributiva, possono ricevere, in questo caso, i farmaci alternativi proposti da Woodroof, farmaci che, evidenziando il miglioramento in Ron, sono un ottima alternativa, se non quella di elezione, alla sperimentazione.

Cambia stile di vita, osserva e si prende cura anche delle persone che lo circondano (l’analisi dei contesti di vita, propri della fase di consapevolezza è chiara), che piano piano comincia a conoscere, apprezzare ed aiutare volontariamente, tanto che da questo momento in poi c’è una salita evolutiva del personaggio (arriva quindi alla fase di partecipazione, nel suo caso volontaria, alla sua comunità).

Ron Woodroof costruisce il suo “sé” e si rapporta con il mondo e con il suo gruppo dando un chiaro e meraviglioso risvolto alla sua condizione esistenziale. Si passa quindi dall’individuale al collettivo, da una crescita personale ad un dare libero e volontario alla comunità che risponde e partecipa, basti pensare alla commovente scena in cui, dopo l’irruzione della polizia e l’esproprio dalla sede inziale del club, due associati propongono e cedono  la loro casa come sede del Club e  non per ultima, alla scena finale, in cui nonostante la tesi di Woodroof sui benefici del Peptide T, sia in effetti giudicata positiva personalmente dal giudice, questi,  nell’udienza con l’FDA, non può convalidarlo in termini di legge, così tornando al Club, amareggiato ma non piegato, Ron è accolto da un lungo applauso che corona ed evidenzia come la crescita  sia ormai diventata evidente e la forza e l’apprezzamento di questo personaggio sono maturati con lui e rispecchiati nella sua comunità. Nonostante il countdown inziale, muore dopo sette anni, forse gli anni, nonostante la triste disgrazia, più importanti della sua vita.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il saluto con la stretta di mano: che significato ha?

FLASH NEWS

Perché gli esseri umani si stringono la mano quando si incontrano la prima volta, o in taluni casi per salutarsi?

Al dil là del fatto che a livello cross-culturale esistono differenze radicali riguardo questa pratica sociale (si veda la cultura giapponese in cui è presente l’inchino) una ricerca del Weizmann Institute si avventura nelle ragioni filogenetiche di questo comportamento umano.

Tra queste la spiegazione più plausibile sembra essere la necessità di riconoscere e verificare l’odore dell’altro. Dunque, anche se non ne siamo consapevoli, la stretta di mano sarebbe un comportamento culturalmente appreso e socialmente accettabile avente la funzione – tra le altre – di ridurre lo spazio interpersonale con uno sconosciuto e avendo quindi l’opportunità di utilizzare il nostro olfatto e riconoscerne l’odore e dunque inferire informazioni rilevanti a livello relazionale.

Lo studio dimostra anzitutto che anche una sola stretta di mano è in grado di trasmettere all’interlocutore diversi odori che possono avere la funzione di segnali chimici nelle interazioni tra mammiferi.

Per esplorare il fenomeno interattivo tale per cui l’olfatto diviene un primordiale sistema di segnalazione anche negli umani, gli scienziati hanno filmato 280 individui nei momenti precedenti e successivi alla stretta di mano con uno sperimentatore. Dai risultati è emerso che a seguito della stretta di mano con un interlocutore dello stesso genere i soggetti si ritrovavano – plausibilmente in modo automatico e inconscio- ad annusare per il doppio del tempo la loro mano destra, cioè quella a contatto con l’altro. Similmente, si è riscontrato un aumento del tempo in cui gli individui annusavano la loro mano anche con individui del genere opposto, ma in misura lievemente minore.

Dunque sembrerebbe che gli umani non siano passivamente esposti a segnali chimici che occorrono nelle interazioni ma che in qualche modo assumano un significato comunicativo rilevante. Per indagare la funzione comunicativa della trasmissione di segnali chimici olfattivi i ricercatori hanno svolto una serie di test per escludere la possibilità che l’aumento di tempo trascorso ad annusarsi le mani non fosse semplicemente una risposta allo stress di esperire una situazione non familiare.

L’intero impianto sperimentale e le relative procedure di misurazione sono complesse, dalla misurazione del flusso di aria nasale durante le strette di mano alla manipolazione dell’odore dell’interlocutore: se prevale un profumo commercialmente noto aumenta l’aria inalata a livello nasale durante la stretta di mano; rispetto alla condizione in cui lo sperimentatore emanava odori derivanti da ormoni legati alla sessualità si riscontrava una diminuzione dell’aspirazione nasale.

Se è vero che la stretta di mano è una pratica socialmente appresa che appartiene a specifici format culturali e che è pregna di segnali comunicativi a diversi livelli non verbali, lo studio ne sottolinea comunque l’origine filogenetica ed evolutiva per cui una funzione importante sarebbe proprio il riconoscimento di segnali chimici e olfattivi significativi nella gestione relazionale con i propri consimili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Cancellare i pensieri non voluti può essere controproducente

 

La ricerca dice che nella maggior parte dei casi l’annullamento dei pensieri non funziona, ma comporta un aumento dell’intensità o della ripetitività del pensiero.

Capita con una certa frequenza che i pensieri negativi ed invasivi che vogliamo bloccare ritornano tassativamente alla mente come i peperoni. E se vogliamo portare il paragone fino alla fine, tornano indietro forse proprio perché non digeriti, non masticati, ma inghiottiti per interi come una medicina amara che pensiamo ci curi.

Come mai la nostra mente, di cui spesso ci fidiamo più di qualsiasi altra istanza psichica, è così ribelle da non darci retta quando le chiediamo di sbarazzarci da questi ospiti non desiderati nella nostra testa? Come mai invece di mandarli via li invita più spesso? 

Pensiamo e ripensiamo ad uno sbaglio che abbiamo fatto, ad un problema economico, a qualcosa di cui abbiamo paura. E ci viene spontaneo dirci che quella cosa ce la dobbiamo togliere dalla mente. A voi è mai funzionato?  La ricerca dice che nella maggior parte dei casi l’annullamento dei pensieri non funziona, ma comporta un aumento dell’intensità o della ripetitività del pensiero.

Ci sono varie teorie che spiegano gli effetti paradossali della soppressione dei pensieri:

– l’associazione ai distrattori: durante la soppressione dei pensieri non voluti le persone si distraggono in maniera non focalizzata con stimoli che trovano nei dintorni (il muro, gli oggetti, ecc). Durante questo processo, si creerebbero delle associazioni tra i pensieri “proibiti” e i vari distrattori, per cui successivamente gli stessi stimoli diventano una sorta di promemoria per i pensieri da cui volevamo fuggire;

– il ritorno dei pensieri soppressi potrebbe essere dovuto alla motivazione a portare a termine un compito incompiuto, come spiegato dall’effetto Zeigarnic (nell’esperimento di Zeigarnic, confermato da studi successivi, i pensieri associati ad un compito non terminato rimangono attivi nel sistema cognitivo della persona, tanto che i più predisposti a ricordare un compito dell’esperimento se non lo avevano completato  per via di una interruzione).

– la teoria dei processi ironici di Wegner: sostiene che la soppressione dei pensieri suppone due meccanismi: un processo intenzionale che cerca i pensieri diversi da quelli non desiderati e un processo ironico di monitoraggio inconscio e cerca contenuti mentali che sono opposti all’obiettivo conscio di rimuovere quei pensieri. Più che ironia la possiamo chiamare sarcasmo, anche se alla base di questa vigilanza c’è un compito costruttivo: in primo luogo mi distraggo pensando intenzionalmente a qualcos’altro; in secondo luogo, e qui arriva l’ironia, la mia mente inizia un processo di monitoraggio inconscio per verificare se si sta ancora pensando alla cosa che non dovrei pensare, per verificare se il processo cosciente funziona o no. In altre parole, la parte inconscia allerta la parte conscia del bisogno di rinnovare la distrazione quando la consapevolezza dei pensieri non voluti diventa imminente.

– le metacognizioni: le aspettative, le credenze o i giudizi sulla propria mente possono influenzare l’efficacia della soppressione dei pensieri, come per esempio la credenza che alcuni pensieri sono controllabili e altri no, oppure che alcuni sono difficili da controllare. Queste credenze sono frutto delle esperienze lungo lo sviluppo: così può essere che l’esperienza di successo o di fallimento in alcuni casi possa aver creato una propensione a ripetere quelle esperienze, per poi diventare cognizioni intrusive, come nel caso della depressione, delle ossessioni o delle fobie.

Gli studiosi hanno individuato comunque alcuni fattori che possono influenzare il successo o il fallimento del processo di soppressione dei pensieri: le informazioni con una valenza emozionale sono più difficili da cancellare; è più facile sopprimere un pensiero in condizioni naturali rispetto a condizioni sperimentali in laboratorio; le differenze individuali e la presenza o meno di patologie.

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I nostri pensieri sono influenzati dalle circostanze esterne, anche quando non lo vogliamo

BIBLIOGRAFIA:

  • Wenzlaff, R. M., Wegner, D. M. (2000). Thought Suppression. Annual Revue of Psychology, 51, 59–91.

Falsi Ricordi: potremmo confessare crimini mai compiuti?

Crimini e omicidi irrisolti costituiscono ormai gran parte dei casi di cronaca e le caratteristiche sembrano essere sempre le stesse: tante ipotesi sulla dinamica, numerosi moventi, molti testimoni e lunghi interrogatori da parte di agenti di Polizia fino alla tanto attesa confessione da parte del colpevole. Alle volte però si è assistito a casi in cui c’è chi confessa di aver commesso un omicidio, venendo così condannato, salvo scoprire poi che i colpevoli del reato sono altre persone.

In psicologia della testimonianza si è a lungo dibattuto sul ruolo della memoria e di come questa possa produrre dei falsi ricordi e numerosi sono gli studi che sembrano avvalere, con i loro risultati, questa ipotesi. Nell’articolo che vi consigliamo, oltre a leggere di alcune storiche confessioni di crimini mai compiuti, è esposto il contenuto di un recente articolo scientifico che indaga se sia possibile o meno indurre dei falsi ricordi.

 

We thought we’d have something like a thirty-per-cent success rate, and we ended up having over seventy (…) We only had a handful of people who didn’t believe us. After three debriefing sessions, seventy-six per cent of the students claimed to remember the false emotional event; nearly the same amount – seventy per cent – remembered the fictional crime. 

Remembering a Crime That You Didn?t CommitConsigliato dalla Redazione

A pair of forensic psychologists have created false memories of wrongdoing in law-abiding minds. (…)

Tratto da: The New Yorker

 

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Tutti gli articoli di State of Mind su Psicologia Penitenziaria
Il suicidio in carcere
La scarsa attenzione alla salute mentale sembra comportare in ambito penitenziario un ampio numero di casi di suicidio in carcere
Psicologia penitenziaria
La psicologia penitenziaria promuove lo studio e il trattamento di individui incarcerati o coinvolti nel sistema di giustizia penale
L’individuo nel contesto carcerario: effetti psicologici della detenzione
Dal punto di vista psicologico l’ingresso in carcere è un evento destabilizzante, che modifica gli aspetti emotivi, cognitivi, comportamentali
Disturbi di personalità nella popolazione carceraria
Tratti di personalità nella popolazione carceraria
Uno studio evidenzia la prevalenza dei disturbi di personalità tra i detenuti e l'importanza di interventi mirati per favorire la reintegrazione sociale
Giustizia riparativa e contatto tra vittima e autore di reato
Il contatto tra autori di reato e vittime
Alcuni studi riportano effetti positivi del contatto tra vittima e autore di reato come riduzione del bisogno di vendetta e dei sintomi PTSD nelle vittime
Criminalità, abudo di sostanze e depressione quale relazione
Che relazioni ci sono tra criminalità, uso di sostanze e depressione?
Lo studio di Kim et al. (2019) ha indagato le relazioni che intercorrono tra criminalità, abuso di sostanze e depressione in adolescenza e in età adulta
Detenute in gravidanza: i sintomi depressivi pre e post partum
Sintomi depressivi nelle detenute in gravidanza
Durante la gravidanza e il post-partum i sintomi depressivi sono molto frequenti. Ma cosa ci dicono i dati sulla depressione nelle detenute in gravidanza?
Carcere, isolamento e malattia mentale: un ciclo che si autoalimenta
La malattia mentale e l’isolamento in carcere: un ciclo che si autoalimenta
Spesso la cattiva condotta di persone con malattia mentale in carcere è punita con l'isolamento, ma la malattia stessa sarebbe la causa del comportamento
Processo penale minorile: capacità dell'adolescente di capire la sentenza
La comprensione emotiva e cognitiva negli adolescenti delle risposte dell’autorità giudiziaria nel processo penale minorile
Nel processo penale minorile cosa accade nella mente dell'adolescente quando un Tribunale stabilisce l'irrilevanza del fatto o il perdono giudiziale?
Malattie mentali: dalla deistituzionalizzazione all'incarcerazione
Dai manicomi alle prigioni: quando il cambiamento non è sinonimo di miglioramento
Ad oggi in America, la polizia, e di conseguenza l’incarcerazione, hanno sostituito le cure di emergenza per la salute mentale: come si è arrivati fin qui?
Comunicazione assertiva e ascolto attivo: il contesto penitenziario
L’importanza della comunicazione assertiva e dell’ascolto attivo tra agente di polizia penitenziaria e detenuto
Gli stili comunicativi passivo e aggressivo nel contesto penitenziario hanno effetti negativi sui detenuti, più efficace è invece la comunicazione assertiva
Insonnia in carcere: trattare i disturbi del sonno nei detenuti con la CBT-I
Curare l’insonnia in carcere con la CBT-I
Si stima che il 61.6% dei detenuti in carcere riferisce sintomi di insonnia. La CBT-I può aiutare i detenuti che ne soffrono
Religione, attaccamento a Dio e attaccamento interpersonale tra i detenuti
Religione e Attaccamento a Dio tra i detenuti
La religione era a volte considerata dai detenuti come strumento di adattamento, socializzazione e supporto, alcuni studi ne hanno approfondito il ruolo
Sex offenders e il trattamento nel contesto carcerario: il progetto Conscious
Conscious Project: Systemic Path for the Rights. Il trattamento dei Sex Offenders presso la Casa Circondariale di Cassino (FR)
Il progetto Conscious è stato reinterpretato in termini di trattamento clinico-sanitario dei sex offenders e adattato al contesto carcerario
Carceri: il fenomeno del bullismo e le componenti sociali e fisiche associate
Prigionieri, agenti di custodia e bullismo
Gli autori hanno esplorato gli atteggiamenti nei confronti del bullismo tra detenuti all'interno delle carceri studiandone aspetti fisici e sociali
Suicidio dei giovani nelle carceri: quale legame con la psicopatia
Psicopatia e suicidio nelle carceri giovanili
La frequenza di casi di suicidio tra i giovani nelle carceri ha portato ad indagare il fenomeno per meglio comprenderlo e intervenire adeguatamente
Carcere: la storia dello sviluppo dei penitenziari nella realtà italiana
Il carcere: breve excursus storico e la sua evoluzione in Italia
Nonostante i cambiamenti, il carcere rimane un’istituzione sovraffollata e spesso violenta, che non sembra così assolvere i fini rieducativi prefissati
Carceri e coronavirus: psicoanalisi e sociologia del detenuto - Psicologia
Psicoanalisi e sociologia del detenuto: gestire l’emergenza ai tempi del Coronavirus
In una situazione di pandemia come quella da coronavirus che stiamo vivendo, nelle carceri i vissuti angoscianti dei detenuti vengono amplificati
Carcere e genitorialità il rapporto con i figli tra diritti e limitazioni
La genitorialità incarcerata
La genitorialità in carcere è spesso privata del diritto all’affettività, ma alcuni cambiamenti hanno aperto a una visione diversa e di maggior tutela
Autolesionismo in carcere: possibilità di intervento tramite la PIT
Terapia carceraria: l’uso delle lettere d’addio in psicoterapia nelle donne con condotte di autolesionismo
Uno studio ha indagato l'impatto delle lettere d'addio alla fine di una psicoterapia interpersonale psicodinamica sugli episodi di autolesionismo in carcere
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Ansia in ufficio? Il rischio di essere vittima di mobbing è in agguato!

Le eccessive proeccupazioni, si sa, non sempre si rivelano un buon alleato sul posto di lavoro! Un recente studio ha indagato il rapporto esistente tra l’eccessiva ansia a lavoro e la propensione a diventare facili vittime di mobbing, evidenziando così l’esistenza di un circolo vizioso tra le due: maggiore è l’ansia che si prova in ufficio, più ci si mostra vulnerabili e si diventa bersagli facili per spietati capi o colleghi, cosa questa che non fa che peggiorare la sintomatologia ansiosa.

Interrompere tale circolo vizioso però è possibile… Come? A voi la lettura dell’articolo consigliato!

 

And that oh God, I’m doing it all wrong feeling may leave people vulnerable to workplace bullying, suggests a new study in the journal Anxiety, Stress & Coping, which claims there’s a reciprocal relationship between overactive nerves and victimization in the workplace. Anxiety may make people more vulnerable to workplace bullying, and workplace bullying, in turn, seems to lead to anxiety, argue the researchers, led by Alfredo Rodriguez-Munoz of the University of East Anglia.

Anxious People Are More Likely to Feel Bullied at WorkConsigliato dalla Redazione

And their anxiety could then lead to more bullying. Great! (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Tutti gli articoli di State of Mind su Ansia
Le parole come indicatori della gravità di ansia e depressione
Uno studio recente ha dimostrato che l’uso frequente di parole negative nel linguaggio è associato a sintomi più gravi di ansia e depressione
I pensieri che mantengono il panico
Il disturbo da attacchi di panico è mantenuto da fattori cognitivi come il pensiero catastrofico, l'ipervigilanza e il rimuginio
Salute mentale in Italia: una crisi invisibile
La salute mentale è diventata una sfida sempre più urgente nel 2024, con ansia e depressione in aumento tra giovani e donne in Italia
Doomscrolling, ansia esistenziale e sfiducia verso la società: quando le news catastrofiche diventano pericolose
È possibile che il doomscrolling provochi ansia esistenziale e sfiducia negli altri e nel mondo? Uno studio ha cercato di capire cosa accade
Quando sentiamo che il momento presente ci mancherà: la nostalgia anticipatoria
Le persone possono sentirsi nostalgiche verso il presente? Un recente studio sulla nostalgia anticipatoria ci dà la risposta
È timidezza o disturbo d’ansia sociale?
Il disturbo d'ansia sociale e la timidezza sono concetti spesso usati come sinonimi, ma cosa hanno in comune e quali sono invece le differenze?
Lo stress materno in gravidanza e gli effetti sul comportamento dei bambini nel medio-lungo termine
Secondo una recente meta-analisi elevati livelli di stress durante la gravidanza potrebbero avere un effetto sui bambini in infanzia e adolescenza
Il caldo ti ha dato alla testa?! – Caldo, ansia e salute mentale
Il caldo viene spesso vissuto come una condizione emotivamente spiacevole e stressante. Che impatto ha sull'ansia e sulla salute mentale?
La psicologia della sessualità non convenzionale: pratiche BDSM e stili di attaccamento
Una ricerca suggerisce un legame tra le pratiche BDSM e la sfera psicologica che sembra risiedere negli stili di attaccamento
Quando provare ansia diventa un disturbo psicologico?
Provare una certa quantità di ansia è naturale e utile. Ma come possiamo sapere se siamo di fronte ad un vero e proprio disturbo d'ansia?
Inside Out 2: una nuova avventura nella mente di Riley
Inside Out 2 ci riporta nella mente di Riley, ormai adolescente, che sperimenta le emozioni complesse tipiche di questa delicata fase
Curare i bambini ansiosi con la CBT
I disturbi d'ansia possono insorgere anche in età evolutiva: come è possibile aiutare i bambini a superare l’ansia?
Disturbi d’Ansia
Diamo uno sguardo ai disturbi d'ansia, vediamo consigli pratici per affrontare l'ansia nella vita di tutti i giorni e sfatiamo i falsi miti
L’ansia in un’equazione
Salkovskis propone uno strumento per aiutare le persone a sentirsi meno sopraffatte dall’ansia, si tratta dell’equazione dell’ansia
La gestione dell’ansia nelle relazioni sentimentali
Le coppie possono aiutarsi reciprocamente nei momenti di difficoltà, inclusi i periodi di ansia. Quali dinamiche si instaurano?
“Fuori controllo”. I benefici di tollerare l’incertezza
La sensazione di non sapere cosa accadrà può essere vista come avversa e disorientante e può accompagnarsi all’intolleranza all'incertezza
Il biofeedback: tra parametri fisiologici e consapevolezza corporea
Il biofeedback è un intervento trasversale utile ad alleviare sintomi comuni a molti disturbi e a migliorare il benessere generale
Ansia da batteria scarica e paura di perdersi tutto – Psicologia digitale
Cosa provate quando siete fuori casa e il livello della batteria è 20% o meno? L’ansia da batteria scarica sembra influenzare le nostre abitudini
Fobie specifiche, cosa e quali sono
Le fobie specifiche sono una risposta di paura o ansia per una situazione o un oggetto, in misura sproporzionata rispetto al pericolo reale
L’impatto psicologico di eventi climatici estremi e l’ecoansia
L'impatto negativo del cambiamento climatico sulla salute e sul benessere degli individui è sempre più grave e frequente
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Il disturbo Borderline di Personalità: disregolazione emotiva, discontrollo degli impulsi e instabilità

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (08)

 

 

In psicologia il Disturbo Borderline rientra nei disturbi di personalità che sono caratterizzati da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Coinvolgono diverse sfere di vita e sono caratterizzati da una scarsa consapevolezza, cioè le persone faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Il Disturbo Borderline di Personalità è molto vario ma ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Per quanto riguarda il rapporto con le proprie emozioni il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da una forte instabilità psicologica. Le emozioni sono molto intense, in varie direzioni. All’estremo, l’esperienza psicologica degli stati emotivi può condurre a (1) stati mentali di vuoto o (2) stati mentali di caos emotivo incontrollato.

Le persone con Disturbo Borderline di Personalità temono questi stati e cercano di evitarli e di controllarli, talvolta con strategie controproducenti. La reazione al vuoto o al caos emotivo è disregolata, impulsiva e intensa e può comprendere: azioni impulsive (es. rabbiose), abuso di sostanze, gesti autolesivi. Lo scopo è cercare di sentirsi vivi (in contrapposizione allo stato di vuoto) oppure sentirsi quieti e sicuri (in contrapposizione allo stato di caos) oppure non sentirsi affatto.

Le relazioni interpersonali sono instabili esattamente come il comportamento. In questo senso la sensibilità del Disturbo Borderline di Personalità è concentrato sul riconoscere ed evitare la sensazione di essere rifiutati o abbandonati.

Per questa ragione possono assumere comportamenti dipendenti (mettersi a disposizione dell’altro, dedicarsi a lui o idealizzarlo), sono apprensivi e preoccupati davanti a segnali ambivalenti dell’altro (ogni segno di leggero distacco è una minaccia di abbandono dirompente) e per questo possono risultare anche molto controllanti e talvolta paranoici nella relazione.

Infine possono vivere esperienze di forte rabbia quando l’altro si allontana o possono respingerlo in anticipo con rabbia per evitare di essere poi abbandonati.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale del Disturbo Borderline di Personalità è un percorso lungo, spesso associato a una terapia farmacologica. Molte persone hanno paura di questa diagnosi perché viene associata a gravi disturbi della mente, tuttavia esistono diversi livelli di gravità come in altri disturbi psicologici. Attraverso una buona psicoterapia la persona può ottenere una buona capacità di regolazione dei propri stati mentali e delle relazioni interpersonali, scoprendo le doti della propria sensibilità emotiva.

 

GUARDA: Il Disturbo Borderline di Personalità raccontato in un video

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Il disturbo Borderline di Personalità: una cascata emotiva

Sei creativo? Probabilmente hai poca capacità di ignorare le informazioni inutili

FLASH NEWS

I geni creativi, avendo un filtro sensoriale precoce più debole rispetto ad altri, avrebbero la tendenza a convogliare nei propri processi attentivi un range più ampio e più ricco di aspetti sensoriali relativi a una data esperienza.

Una nuova ricerca della Northwestern University sembra fornire per la prima volta le evidenze psicofisiologiche per cui la creatività umana sarebbe associata a una ridotta capacità di filtrare e ignorare informazioni sensoriali irrilevanti provenienti dall’ambiente. Lo stesso problema sensoriale si ritrova ad esempio nelle biografie di Kafka e Chechov inteso proprio come difficoltà di escludere dalla propria attenzione e dalla propria mente alcuni stimoli di fatto irrilevanti nei momenti di maggiore creatività.

Secondo la ricerca alcuni individui sarebbero maggiormente influenzati e colpiti dal bombardamento quotidiano di informazioni sensoriali, plausibilmente avendo dei filtri sensoriali e percettivi più deboli rispetto ad altre persone.

I ricercatori hanno studiato uno specifico marker neurale di una forma precoce di attenzione, chiamata “Sensory gating”, identificata da una risposta neurofisilogica di un’area del cervello che avviene  a 50 millisecondi dall’inizio della presentazione di uno stimolo (ERP P50).

Hanno inoltre analizzato la correlazione tra questa specifica risposta neurofisiologica riguardante l’attenzione precoce con due costrutti delle creatività: il pensiero divergente (variabile squisitamente cognitiva misurata attraverso un task di laboratorio in cui si chiede ai soggetti di produrre il maggior numero possibile di risposte a situazioni non comuni, entro un range di tempo) e la produttività creativa in diversi domini (variabile comportamentale misurata attraverso il attraverso Creative Achievement Questionnaire).

Dai dati emerge che maggiori punteggi al test di pensiero divergente correlano con una maggiore risposta neurofisiologica di sensory gating, cioè appunto relativa all’esclusione di informazioni irrilevanti. D’altro canto invece l’effettiva produttività creativo-artistica in diversi domini sarebbe associata in modo statisticamente significativo a un minore segnale di sensory gating, corrispondente dunque a una difficoltà nell’ignorare stimoli non pertinenti.

Una speculazione degli studiosi è che i geni creativi, avendo un filtro sensoriale precoce più debole rispetto ad altri, avrebbero la tendenza a convogliare nei propri processi attentivi un range più ampio e più ricco di aspetti sensoriali relativi a una data esperienza.

Lo studio ancora non ci sa dire se questa caratteristica sia un tratto stabile oppure una modalità stato-dipendente. Ad ogni modo se siete tra coloro a cui più informazioni sensoriali contemporaneamente creano un certo fastidio, facendovi sentire individui anti-multitasking, consolatevi pensando alle parole di Franz Kafka:

[blockquote style=”1″]Ho bisogno di solitudine per la mia scrittura; non come un eremita – che non sarebbe essere sufficiente – ma come un uomo morto[/blockquote]

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La meditazione rende più creativi! – Psicologia

 

BIBLIOGRAFIA:

Tra denaro, negoziazione e analisi comportamentale

Nicola Schirru

Diventa molto intrigante lo sviluppo delle Soft Skills all’interno della negoziazione: è possibile avere maggiori probabilità di successo – quindi di guadagno economico – migliorando le proprie competenze in analisi comportamentale?

Le soft skills possono essere tradotte quali competenze traversali, relazionali, ma anche comportamentali. Conosciute anche come attitudini interpersonali, includono capacità quali quelle comunicative, la risoluzione dei conflitti e la negoziazione, il problem solving creativo, il pensiero strategico, il team building, le abilità che influenzano le vendite.

Nel comprendere gli stati d’animo altrui diventa fondamentale analizzare i segnali non verbali, molto spesso tramite osservazione diretta (e con poco tempo a disposizione). Sviluppare certe capacità permette conseguentemente di notare atteggiamenti congruenti e incongruenti tra il verbale e il non verbale, quindi analizzare la credibilità delle affermazioni.

Diventa perciò molto intrigante lo sviluppo di questi processi all’interno della negoziazione: è possibile avere maggiori probabilità di successo – quindi di guadagno economico – migliorando le proprie competenze in analisi comportamentale?

 Aquino & Becker (2005) suggeriscono che nelle fasi di negoziazione i mentitori possono provare emozioni negative, e che per ridurre quest’ultime vengono sviluppate strategie neutrali, quali la minimizzazione della menzogna (es., dichiarando di aver avuto un comportamento poco congruo per una causa superiore), la denigrazione del bersaglio e la negazione (es., delle proprie responsabilità). La funzione primaria di queste strategie di neutralizzazione è quella di legittimare i propri comportamenti devianti riducendo il disagio intra-psichico.

Una delle emozioni maggiormente associate alla negazione delle bugie è l’angoscia (distress). Il concetto di un sé positivo è tra gli obiettivi umani più forti e persistenti. Le persone raggiungono quest’obiettivo cercando di seguire i propri standard di giusto e sbagliato (in assenza da influenze esterne).

Se questo non avviene la propria autostima é seriamente minacciata. Emozioni come il senso di colpa e la vergogna possono motivare l’utilizzo di almeno un tipo di strategia di neutralizzazione. Il negoziatore potrà ad esempio notare la vergogna, considerata da alcuni studiosi un’emozione universale (es., Izard, 1977; Tracy & Matsumoto, 2008), in segnali non verbali come il coprirsi il volto e/o le dita portate verso le labbra (Argyle, 1999).

Secondo uno studio molto recente (Momm e colleghi, 2015) le persone brave a riconoscere le emozioni altrui guadagnano più soldi, o meglio, come dice il titolo del loro paper, avere un occhio per le emozioni paga.

L’abilità di riconoscere le emozioni altrui attraverso l’analisi scientifica delle espressioni facciali predice indirettamente il reddito annuo di un lavoratore. Le persone con una buona capacità di riconoscere le emozioni sono considerate più socialmente e politicamente abili, rispetto ad altri loro colleghi. Gli si attribuiscono quindi migliori capacità sociali e politiche: in particolare, il loro reddito è significativamente più alto!

Il Laboratorio di Analisi Comportamentale NeuroComScience (NCS) centro di ricerca in cui vengono effettuati studi all’avanguardia sulla comunicazione non verbale, distingue tre fasi pratiche per rilevare le emozioni umane: analisi scientifica delle espressioni facciali, analisi professionale del linguaggio del corpo, analisi vocale (Legiša, 2015). La diffusione e l’utilizzo di tali tecniche all’interno del business inizia a sviluppare dinamiche finanziarie in cui i profitti possono subire un’influenza positiva dovuta alle capacità di applicare il riconoscimento delle emozioni e la valutazione della credibilità (es., avvocati, psicoterapeuti, forze dell’ordine, venditori, selezionatori del personale, ingegneri informatici, giocatori di poker).

Saranno necessari ulteriori studi per dimostrare un’eventuale correlazione positiva tra le competenze comportamentali (alias, soft skills) e guadagni netti superiori di coloro che le possiedono, tuttavia la ricerca dimostra che navigare in questo mondo sociale (e delle organizzazioni) con le sviluppate suddette competenze aiuta certamente ad accrescere l’immagine del proprio successo all’interno del mondo del lavoro (Elfenbein e colleghi, 2007).

 

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Finanza Comportamentale

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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