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I Frenemies: gli amici-nemici che fanno male alla nostra salute

Chi sono i frenemies? Con questo termine, dato dall’unione dei termini “friend” (amico) e “enemy” (nemico), si indica quella categoria di amici-nemici con cui si instaurano rapporti ambivalenti e inaffidabili, e per questo motivo fonte di stress emotivo dovuto al contrasto tra diversi sentimenti come ansia e tensione. Questo network può provocare nervosismo e danni alla salute e al benessere psicologico. Come risolvere questo dilemma? Aprendosi al confronto e al dialogo

 

You are always dealing with a set of competing interests. The problem is how to neutralise those stresses to allow the group to remain coherent through time. So you need to be prepared to butter up your allies, which will also include your frenemies. You are tolerating them in order to manage them better.

Anti-social network: Health risks of love-hate friendsConsigliato dalla Redazione

Around half of our acquaintances may be “€œfrenemies€” – and they could have a surprising impact on your psychology and physical well-being, says David Robson. (…)

Tratto da: BBC Future

 

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Insieme anche per la ricerca: dieci studi di psicologia, tra i più affascinanti pubblicati, condotti da marito e moglie

L’articolo che vi consigliamo espone una lista di dieci studi di carattere psicologico, tra i più interessanti studi pubblicati, pensati e portati avanti da coppie di marito e moglie appartenenti allo stesso team di ricerca. Tra moglie e marito, dunque, non metterci il dito…ma una ipotesi da verificare sì! 

 

 

The detective work of science can be ridiculously addictive. Connecting with a non-scientist who doesn’t understand this thrill can be tricky, let alone the practical problem of finding time for a loving commitment when you’re married to your work. No wonder that some of psychology’s most successful research teams are made of husband and wife pairings. Here we celebrate these partnerships, providing a digest of 10 great studies by psychology’s power couples.

Le dieci ricerche in psicologia, tra le più affascinanti pubblicate, condotte da marito e moglie Consigliato dalla Redazione

Marito e moglie nello stesso team di ricerca e gli studi diventano tra i più interessanti mai pubblicati. (…)

 

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Prevenzione dei suicidi su Facebook, un nuovo servizio

Facebook ha da poco avviato una nuova iniziativa per la prevenzione dei suicidi, per adesso attiva solamente negli Stati Uniti e poi più avanti, nel caso si dimostrasse efficace, da estendere gradualmente agli altri paesi. 

Il funzionamento  è semplice: se un utente vede nel suo feed di notizie un aggiornamento di stato particolarmente preoccupante, potrà segnalarlo a Facebook in modo che il servizio di prevenzione possa valutarlo e decidere se contattare l’autore del post.

In caso di intervento, l’autore del post vedrebbe comparire un messaggio di questo tipo:

[blockquote style=”1″]Ciao, un tuo amico pensa che tu stia attraversando un momento difficile e ci ha chiesto di dare un’occhiata al tuo recente aggiornamento di stato[/blockquote]

Nel caso l’utente scelga di proseguire nell’interazione si propongono 2 azioni:

[blockquote style=”1″]Cosa vuoi fare? Sei importante per noi, per questo vogliamo offrirti aiuto se ne hai bisogno. Non sei solo – Contattiamo molte persone ogni mese per questo motivo. Cosa vuoi fare? [/blockquote]

Prevenzione suicidio facebook

 

Il comunicato stampa di Facebook riguardo al progetto di prevenzione dei suicidi:

[blockquote style=”1″]Keeping you safe is our most important responsibility on Facebook. Today, at our fifth Compassion Research Day, we announced updated tools that provide more resources, advice and support to people who may be struggling with suicidal thoughts and their concerned friends and family members. We worked with mental health organizations Forefront, Now Matters Now, the National Suicide Prevention Lifeline, Save.org and others on these updates, in addition to consulting with people who had lived experience with self-injury or suicide. One of the first things these organizations discussed with us was how much connecting with people who care can help those in distress. If someone on Facebook sees a direct threat of suicide, we ask that they contact their local emergency services immediately. We also ask them to report any troubling content to us. We have teams working around the world, 24/7, who review any report that comes in. They prioritize the most serious reports, like self-injury, and send help and resources to those in distress. For those who may need help we have significantly expanded the support and resources that are available to them the next time they log on to Facebook after we review a report of something they’ve posted. Besides encouraging them to connect with a mental health expert at the National Suicide Prevention Lifeline, we now also give them the option of reaching out to a friend, and provide tips and advice on how they can work through these feelings. All of these resources were created in conjunction with our clinical and academic partners. We’re also providing new resources and support to the person who flagged the troubling post, including options for them to call or message their distressed friend letting them know they care, or reaching out to another friend or a trained professional at a suicide hotline for support. These updates will roll out to everyone who uses Facebook in the U.S. over the next couple of months. We’re also working to improve our tools for those outside the U.S.[/blockquote]

(Facebook Safety Blog post, 25 Febbraio 2015)

 

VIDEO:

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L’eclissi della speranza. Riflessioni sul suicidio e sul lutto di chi rimane (2024) di Ghinassi e Milanese – Recensione
Il libro L'eclissi della speranza (2024) affronta il tema del suicidio e fornisce strumenti utili per affrontare il dolore in seguito alla perdita di una persona cara
La necessità di linee guida specifiche dedicate ai survivors
Attualmente mancano linee guida per il trattamento delle manifestazioni cliniche dei survivors, questo lascia un vuoto nei protocolli di supporto psicologico
Il suicidio in carcere
La scarsa attenzione alla salute mentale sembra comportare in ambito penitenziario un ampio numero di casi di suicidio in carcere
Suicidio la three step theory
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La Three Step Theory offre alcuni punti fermi per distinguere tra soggetti con ideazione suicidaria e chi arriva a compiere il suicidio.
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Una buca da cui cerchiamo di uscire scavando: la triade cognitiva di Beck

Considerando che l’esistenza, prima o poi, ci espone a delle avversità, diventa centrale un quesito: cosa rende stabile e cronica una visione del mondo che si attiva innanzi alle difficoltà?

Il mondo è un’ entità a noi avversa. Magari è un’affermazione pessimista ed esagerata. Tuttavia difficilmente si può negare che l’esistenza presenti avversità e dolore nel corso di una vita. Esistono molteplici occasioni in cui tali avversità possono farci pensare di essere incapaci, che il destino è ingiusto e che il futuro è oscuro. Questo sistema di convinzioni su noi stessi e sul mondo rappresenta la famosa triade cognitiva di Beck (1976).

Più la nostra tendenza a leggere le avversità in questa prospettiva è stabile e rigida, più siamo vulnerabili a fare esperienza di episodi depressivi. Ma considerando che l’esistenza, prima o poi, ci espone ad avversità diventa centrale un quesito: cosa rende stabile e cronica questa visione del mondo che si attiva innanzi alle difficoltà?

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La teoria metacognitiva propone che una visione negativa di sé, del mondo e del futuro non sia appresa come una rappresentazione monolitica nella memoria. D’altronde, persone che vivono episodi di depressione hanno conosciuto e conosceranno dopo momenti di serenità in cui la visione di sé e del mondo è più luminosa.

La teoria metacognitiva ritiene che la responsabilità vada cercata nel modo in cui le persone si approcciano ai problemi, cercando una soluzione attraverso una forma di eccessiva analisi astratta che viene chiamata ruminazione.

Ruminare significa continuare a chiedersi il perché delle cose negative che capitano lungo l’esistenza. Questa attività mentale è sostenuta dalla convinzione che scoprendo il perché delle cose, saremmo più capaci di gestirle, trovare sollievo ed evitarle in futuro. Spesso non si tiene presente il costo di questa strategia analitica: l’umore resta triste, la nostra mente è continuamente carica di contenuti tristi, siamo affatticati dal dispendio energetico che richiede, non abbiamo risorse per lasciarci distrarre da stimoli positivi, spesso non arriviamo a una comprensione definitiva (perché forse una definitiva non sempre esiste).

Insomma, se siamo fermi ad analizzare i perché l’unico dato certo è che siamo fermi. Bloccati a un crocevia doloroso della nostra esistenza rivolti indietro alla strada che abbiamo percorso. Oppure, per citare una famosa metafora, fermi in una buca da cui cerchiamo di uscire scavando. La buca diventa più profonda e più larga e con essa si rafforza l’idea di essere impotenti innanzi a un mondo avverso. Diventa stabile la famosa triade cognitiva.

Esistono diverse prove empiriche di questo meccanismo. In una recente ricerca che ha confrontato l’attitudine pessimista (la triade cognitiva) e le convinzioni circa la necessità di analizzare le cause degli eventi e delle sensazioni negative ha mostrato come quest’ultime rappresentano il più forte predittore della sintomatologia depressiva (Ylmaz, Gencoz & Wells, 2014).

In sintesi, credere che analizzare le cause delle avversità sia utile per gestirle favorisce una tendenza analitica che a sua volta (qualora eccessiva e incontrollata) può alimentare sia le convinzioni negative su di sé, sul mondo e sul futuro che la depressione.

 

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Ruminazione e perfezionismo nell’alchimia della depressione

 

BIBLIOGRAFIA:

Schiavo d’amore di Somerset Maugham (1915) – Psicologia & Letteratura

Giuseppe Centra

Le sue relazioni tumultuose, l’instabilità delle sue emozioni con tanto di ricorso alla scissione, le sue reazioni di rabbia, terrore e manipolazione all’abbandono e al rifiuto, la sua impulsività e i suoi acting out, la sua promiscuità e non ultimo, la sua auto ed etero-distruttività, non dimentichiamoci l’esperienza della prostituzione, sembrano orientare la donna all’interno di una dimensione borderline di personalità.

Nel romanzo “Schiavo d’amore” (1915) di Somerset Maugham va subito evidenziata la peculiarità, tutta italiana, di storpiare i titoli originali di un’opera. Infatti, il titolo italiano non coglie il richiamo a Spinoza e in particolare alla quarta parte della sua grande opera Etica intitolata appunto “Sulla schiavitù umana” (De servitute humana, o Of human bondage in ingl.) dedicata alla trattazione delle emozioni umane.

Il romanzo di formazione racconta della vita di un uomo con un difetto fisico (un piede equino) dall’infanzia, orfano, fino al raggiungimento dell’abilitazione medica che pone fine a una serie di avvenimenti altalenanti, spostamenti internazionali, incontri drammatici che segnano nell’animo il protagonista. Il libro, ovviamente, non è solo una cronaca della vita del protagonista ma scava in profondità nella mente e nel cuore dei personaggi alla ricerca del senso dell’esistenza il quale, a fine libro, sembra essere trovato al prezzo di una traccia, di una cicatrice che rimarrà indelebile per sempre nell’animo del protagonista.

Il personaggio di cui voglio parlare, però, è una giovane cameriera di nome Mildred, la quale entra in scena solamente a pagina 277 ma sarà destinata a segnare per sempre la vita di Philip, il protagonista: “…aveva i lineamenti regolari e minuti, gli occhi azzurri e la fronte larga e bassa … una gran massa di capelli con frangetta che le ricadeva sulla fronte … le labbra sottili erano pallide e la pelle delicata, di un tenue color verdolino, senza una punta di rossa nemmeno sulle guance…”.

Ciò che appare subito interessante sono le reazioni ambivalenti di Philip; infatti, la donna si mostra fredda e disinteressata al suo tentativo di attaccar bottone, suscitando in lui repulsione e disgusto (forse per lo smacco preso); eppure a partire dalla stessa notte non smette più di pensarla, autocommiserandosi per l’assurdità della situazione. Alla fine, di punto in bianco le chiede di uscire una volta insieme e lei accetta. La serata si rivela abbastanza mediocre e Philip la lascia con il terrore di averla annoiata. Tuttavia, a modo suo, lei gradisce le gentilezze di Philip, il quale si scopre innamorato. Mildred non dà mai l’impressione di accettare la sua corte ma non disprezza tutti i favori, anche economici, che lui le elargisce. Allo stesso tempo ciò fa nascere in Philip un sentimento di disprezzo che si accompagna, però, con un folle desiderio di lei.

Ecco a un certo punto la qualità del loro rapporto (p. 313): “…Non si lasciava (Philip) turbare dalla sua disattenzione, né irritare dalla sua indifferenza … Con uno sforzo diventò affabile e divertente, senza mai andare in collera, senza mai chiedere niente, senza lamenti, senza rimbrotti. Quando lei lo piantava in asso per un altro impegno, l’indomani si presentava con viso sorridente; se lei si scusava, diceva non importa. Non le lasciava mai capire che lo addolorava. Si rendeva conto che la sua sofferenza appassionata l’aveva infastidita, e badava a nascondere qualunque sentimento che potesse riuscire minimamente molesto. Era eroico…”.

Ma proprio quando si sta sciogliendo, Mildred gli rivela di aver accettato la proposta di matrimonio di un giovane che le bazzicava intorno sin da prima che incontrasse Philip. E quella che poteva essere una liberazione, per Philip si rivela una notizia angosciosa considerando la sua passione per lei (p. 333): “…Sotto l’influsso della passione si era sentito animato da un singolare vigore, e la sua mente aveva lavorato con forza inusitata. Era più vivo, c’era nel semplice esistere un’eccitazione, un ardore dell’anima, al cui confronto la vita appariva un po’ grigia. L’infelicità sofferta aveva pur avuto un compenso in quella sensazione di vitalità impetuosa e soverchiante.”. Era ancora innamorato!

Ma un pomeriggio, tornato a casa dall’ospedale trova Mildred che lo aspetta; scoppiando a piangere rivela di essere stata piantata e non avendo altre persone a cui rivolgersi pensò proprio a Philip per chiedere aiuto. Nel giro di pochi giorni la vita di Philip torna a girare intorno a lei, smette di sentirsi con amici e con la donna con cui aveva cominciato una frequentazione e non si spaventa nemmeno davanti alla rivelazione di Mildred di essere rimasta incinta. Pur facendolo con gioia, Philip stava sperperando gran parte della sua rendita per mantenerla. 

In preda all’entusiasmo, Philip decide di far conoscere Mildred a un suo caro amico, Griffiths, collega del corso di medicina Purtroppo Griffiths, donnaiolo di fama, pur promettendo di non fare del male a Philip si invaghisce, ricambiato, di Mildred. Quest’ultima rivela a Philip di aver deciso di andare a vivere con Griffiths in un’altra città. Philip va su tutte le furie e minaccia di non passarle più un soldo (p. 378): “Hai dimenticato che quando eri nei guai ho fatto di tutto, per te? Ho sborsato i soldi per mantenerti fino alla nascita della bambina, ho pagato il dottore e tutto quanto, pago il mantenimento di tua figlia, i tuoi vestiti, pago ogni filo che hai addosso.”. A questo punto è Mildred a rivolgersi a lui con disprezzo (p. 378): “Non mi sei mai piaciuto, fin dal principio, ma tu ti sei attaccato per forza. Ho sempre odiato i tuoi baci. Adesso non mi lascerei toccare da te neanche se morissi di fame.”

Da questo estratto è evidente come Mildred di fronte all’ostacolo che si interpone al suo sogno ha uno sbalzo repentino: da persona grata e riconoscente nei confronti di Philip, a una svalutazione primitiva che le fa provare rabbia e disprezzo nei suoi confronti. Si può riconoscere, evidentemente, il meccanismo difensivo della scissione, processo per cui una persona considera se stesso o gli altri come tutti buoni o tutti cattivi, mostrando difficoltà a integrare gli aspetti sia positivi sia negativi in uno stesso individuo (Lingiardi e Madeddu, 2002). Tale difficoltà limita la qualità dei rapporti interpersonali dal momento che semplici gesti possono essere enfatizzati e così, alla mattina una persona può essere un salvatore e, alla sera, lo stesso diviene causa di tutti i mali.
E infatti, Mildred, dopo aver mandato a monte la relazione con l’uomo che voleva sposarla, si getta a capofitto anche nella relazione con Griffiths, il quale però vuole solo un’avventura e la abbandonerà per tornare alla sua vita di scapolo.

La drammaticità della personalità della donna emerge con tutta la sua forza proprio dopo la conclusione di questa avventura, infatti, diversi mesi dopo, mentre Philip passeggia per Piccadilly Circus, la riconosce mentre passeggia facendo la spola da un punto a un altro della piazza. Philip capisce immediatamente, anche dagli abiti indossati, che Mildred si è data alla prostituzione. L’uomo a questo punto, tra l’attrazione e il disgusto che gli suscita la vista di quella donna, si offre comunque di darle una mano e la porta a casa con sé; le offre la possibilità di lavorare per lui come colf e in cambio le offre una stanza al patto che tra di loro non si crei l’intimità di un tempo.

La personalità del protagonista può meglio essere compresa analizzando la sua storia. La difficoltà a lasciarsi dietro una donna causa di atroci sofferenze non può essere giustificata solo con l’amore, ma è un invito a interrogarci anche sul suo funzionamento mentale: Philip non ha mai conosciuto suo padre e ha perso sua madre a 9 anni, viene cresciuto da una coppia di zii che non ha avuto figli propri. Lo zio in particolare, curato di un piccolo villaggio, ha una morale rigida che contribuisce alla formazione di un massiccio Super Io in Philip, il quale si proibisce bisogni e desideri al fine di percorrere la strada per lui già tracciata. Il modello genitoriale imposto dagli zii, basato su una ridotta espressività ed elevato controllo nel quale tutto è affrontato razionalmente mentre è represso ogni tentativo di vivere le proprie emozioni e i propri sentimenti potrebbero aver fatto maturare, in Philp, dei tratti dipendenti. Il protagonista, nella sua infanzia, non ha soddisfatto quel naturale bisogno di sana dipendenza affettiva da un caregiver e quando si scopre innamorato è incapace di gestire le giuste distanze nel rapporto. A conferma di ciò, vi sarebbero le reazioni di sottomissione e adesività che caratterizzano le personalità dipendenti (Gabbard, 2007) e di cui Philip fa ampiamente esperienza durante tutto il romanzo.
Tutta la difficoltà di una personalità dipendente a staccarsi dall’oggetto spicca quando Philip decide di aiutare Mildred togliendola dalla strada. Riflette che ormai qualcosa si è rotto, che tutte le lacrime versate, le sofferenze patite e le umiliazioni subite lo hanno logorato dentro e non riesce più a guardare Mildred con gli occhi di prima. Eppure decide di accoglierla in casa! E il tornare a vivere con lei non può non farci pensare a qualcosa di perverso nel suo funzionamento mentale.

L’acme del romanzo si raggiunge una notte quando Mildred decide di aspettare sveglia Philip, il quale aveva dedicato una serata ai vecchi amici. Al suo rientro, Mildred si mostra amorevole e premurosa, d’altronde le due esperienze di abbandono vissute l’avevano spinta a riflettere che accasarsi con Philip, sempre pronto a tutto per lei, era l’unica soluzione per garantire un futuro a lei e a sua figlia. Decide di giocarsi la sua carta migliore o forse la sua grande debolezza: la libido, la sua voluttuosità che drammaticamente l’aveva spinta a inseguire e a bruciare le sue precedenti relazioni.

Prova a sedurlo, ad accarezzarlo e baciarlo ma i sentimenti di Philip nei suoi confronti sono oramai consumati e vuoti e così la scansa, scatenando l’accanita reazione della donna (p. 490): “…Di te non mi è mai importato niente, nemmeno per un momento, ti prendevo in giro, sempre, mi annoiavi … e ti odiavo, non ti avrei mai permesso di toccarmi se non era per i soldi, e mi veniva la nausea quando dovevo lasciare che mi baciassi. Ridevamo di te, io e Griffiths, ridevamo di com’eri babbeo. Babbeo! Babbeo! … Storpio!”. L’indomani, come di consueto, Philip va in ospedale ma al suo ritorno trova la casa devastata, ogni cosa è distrutta e nulla è risparmiato, in compenso Mildred scompare.

Un’ultima riflessione va fatta sul personaggio di Mildred. Le sue relazioni tumultuose, l’instabilità delle sue emozioni con tanto di ricorso alla scissione, le sue reazioni di rabbia, terrore e manipolazione all’abbandono e al rifiuto, la sua impulsività e i suoi acting out, la sua promiscuità e non ultimo, la sua auto ed etero-distruttività, non dimentichiamoci l’esperienza della prostituzione, sembrano orientare la donna all’interno di una dimensione borderline di personalità.

Il disturbo borderline di personalità, infatti, si caratterizza per una marcata volubilità nel campo delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e degli affetti, oltre a intensi vissuti abbandonici e spiccata impulsività (Lingiardi e Gazzillo, 2014). Come dice Kernberg (1984), sono persone che soffrono e che fanno soffrire: ne sa qualcosa il protagonista di Schiavo d’amore!

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Maugham S. W., (1915). Schiavo d’amore. Adelphi: Milano 2013. 
  • Gabbard G. O., (2005). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina: Milano 2007. 
  • Kernberg O. F., (1984). Disturbi gravi della personalità. Bollati Boringhieri: Torino 1987. 
  • Lingiardi, V. et Gazzillo, F., (2014). La personalità e i suoi disturbi. Raffaello Cortina: Milano. 
  • Lingiardi V. et Madeddu F., (2002). I meccanismi di difesa. Raffaello Cortina: Milano.
  • Spinoza B., (1677). Etica. Armando Editore: Roma 2008.

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Il nostro umore influenza il modo in cui elaboriamo le informazioni

FLASH NEWS

Anche le emozioni influenzano il nostro modo di pensare, e non solo il contrario. Secondo un nuovo studio siamo più propensi a elaborare le informazioni in modo analitico se siamo di cattivo umore.

A livello clinico è noto che un processamento analitico può essere un fattore di mantenimento dei sintomi depressivi. E in particolare secondo un nuovo studio l’umore di un individuo può influenzare il modo in cui percepisce ed elabora le informazioni provenienti dai media, in altre parole la pubblicità.

Quindi un tono dell’umore negativo favorirebbe un processamento analitico, mentre un tono dell’umore positivo porterebbe con più facilità a un processamento olistico.

Cosa si intende per olistico e analitico? Se parliamo di stili di processamento, gli analitici si focalizzano per gran parte su singoli e specifici elementi considerandoli isolati rispetto al loro contesto; viceversa, gli olistici  generalmente  elaborano complessivamente l’insieme degli stimoli proposti nel loro contesto come un tutt’uno.

I risultati dei due studi pubblicati su Journal of Advertising dimostrano che i soggetti che processano le informazioni a livello analitico hanno punteggi minori nel riconoscimento degli stimoli (impegnati in un setting multitasking) rispetto agli individui con stile olistico. Inoltre, vi sarebbero anche effetti a livello mnestico con una maggiore prestazione in termini di recupero mnestico di stimoli pubblicitari da parte degli individui con propensione all’elaborazione olistica.

 

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Il pensiero analitico e la fede religiosa

 

BIBLIOGRAFIA:

Servizio di Psicologia del Territorio: proposta di Legge Popolare

Regione Veneto – Comunicato stampa N° 370 del 25/02/2015

 

PROPOSTA DI LEGGE POPOLARE PER ISTITUIRE SERVIZIO DI PSICOLOGIA DEL TERRITORIO. BENDINELLI: “INIZIATIVA CHE SOSTENIAMO CON CONVINZIONE PER I BENEFICI CHE ASSICURA AI CITTADINI”

[blockquote style=”1″]E’ una proposta che proviene da chi conosce più da vicino le problematiche e i malesseri delle nostre comunità e che meglio di chiunque altro è in grado di interpretare i bisogni dei nostri cittadini. Per questo è una iniziativa che ha il nostro convinto sostegno e che io mi faccio carico di seguire personalmente nel suo iter di approvazione[/blockquote]

Con queste parole l’assessore regionale alle politiche sociali, Davide Bendinelli, ha salutato oggi a palazzo Balbi, sede della Giunta veneta, i promotori della proposta di legge di iniziativa popolare che prevede l’istituzione del servizio di psicologia del territorio nel Veneto.

 

Sono tre i consigli comunali che hanno approvato, con proprie deliberazioni, la proposta elaborata dall’Ordine regionale degli psicologi: in primis quello di Zevio, in provincia di Verona, il cui sindaco, Diego Ruzza, è anche componente dell’Ordine, e successivamente quelli di Casier, in provincia di Treviso e San Martino di Lupari in provincia di Padova.

 

“Confidiamo che in tempi ragionevoli, nella prossima legislatura, questa legge venga approvata – ha detto il sindaco Ruzza – e che possa essere presto operativo nei territori un servizio in grado di dare risposte in tempi rapidi ai sempre più evidenti e diffusi problemi di natura psicofisica delle persone. Colmeremmo così un vuoto che viene percepito innanzi tutto dalla stessa cittadinanza e daremmo risposta a un fenomeno amplificatosi notevolmente in questi ultimi anni per effetto della crisi economica, che è causa di gravi disagi sociali che spesso, come purtroppo testimoniano le cronache, sfocia in veri e propri drammi”.

 

Ruzza ha specificato che lo “Psicologo del Territorio” non si occuperà solo di interventi sul disagio, ma sarà soprattutto un supporto in tema di prevenzione e di sviluppo del benessere: “Ci piace pensare – ha detto – che questa figura sia una vera e propria sentinella della salute psicofisica nel territorio”.

Nella proposta di legge vengono individuate più di dieci attività che lo psicologo potrebbe svolgere: dagli interventi sulle fragilità sociali al sostegno familiare, dal supporto alle associazioni sportive all’orientamento per gli adolescenti.

 

Il primo cittadino di San Martino di Lupari, Gerry Boratto, sottolineando a sua volta l’utilità di un servizio di psicologia nei territori, ha evidenziato come i sindaci oggi ricevano tantissime persone che hanno bisogno di parlare e che vivono in una sorta di isolamento non tanto fisico quanto di relazioni. “Emergono in modo sempre più preoccupante – ha spiegato – malesseri subdoli, talvolta persino sconosciuti alle stesse persone che ne sono vittima; ma anche fenomeni sempre più difficili da arginare, come la ludopatia”.

 

Infine, il presidente dell’Ordine degli psicologi del Veneto, Alessandro De Carlo, ha affermato che questa proposta “amplia il concetto di sanità nel Veneto” e ha evidenziato l’importanza di sostenere l’istituzione di questa figura attraverso un percorso condiviso con tutti i soggetti professionali e istituzionali a cui è affidata la cura della salute dei cittadini: “la Regione – ha concluso – si doterà così di uno strumento all’avanguardia per aiutare la cittadinanza a investire nella prevenzione, con importanti benefici, come dimostrato da studi ed esperienze, anche da un punto di vista del risparmio economico”.

 

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L’ipocondria, l’ansia per la propria salute

Sigmund Freud University - Milano - LOGO INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA (05)

 

 

In psicologia clinica, l’ipocondria è caratterizzata dall’ interpretazione erronea di segni e sintomi fisici come segnale di una grave patologia, senza che un’accurata valutazione medica abbia identificato motivi sufficienti per giustificare questi timori.

Chi soffre di ipocondria non ha convinzioni così esagerate da sfociare nel vero e proprio delirio, riconosce spesso che i propri timori sono esagerati e che potrebbe non avere alcuna malattia.

La prima caratteristica psicologica dell’ipocondriaco è la caccia alla malattia.

L’attenzione dell’ipocondriaco è completamente focalizzata a scannerizzare le proprie sensazioni corporee o segni fisici e a produrre dubbi sulla loro origine con il risultato di trovarne. La preoccupazione riguardo la propria salute è costante, tendenzialmente catastrofica e difficile da regolare. La persona fatica a pensare ad altro o a non dare importanza ai propri dubbi di malattia.

La seconda caratteristica psicologica è la ricerca di rassicurazioni.

La persona può consumare tempo in esami medici, verifiche e richieste di opinioni ad altre persone, ricerche su internet dei significati dei sintomi. Questa ricerca di rassicurazioni produce solo un sollievo limitato nel tempo, fino al prossimo dubbio, ancora più grave che può emergere naturalmente nella mente della persona.

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Morire di paura è possibile? a quanto pare si! – Video-

Quando qualcosa ci spaventa il nostro corpo rilascia una scarica di adrenalina che porta a un’accelerazione del battito cardiaco. Quando però un cuore è troppo debole cosa succede? Si può davvero morire di paura? AsapSCIENCE prova a dare una risposta, spiegandoci cos’è la paura attraverso un nuovo divertente video pubblicato on line: 

 

 

But when the scare is especially strong, or the heart especially weak, the person’s heart can become overwhelmed and unable to keep up with the adrenaline-triggered increase in heart rate, which could cause the heart to stop entirely. It’s very rare, however, that this happens in people with healthy hearts, so no need to be scared if you’re in good health.

Morire di paura è possibile? La risposta in un videoConsigliato dalla Redazione

La paura è un’emozione che si accompagna a reazioni corporee molto estreme, può portare anche alla morte? (…)

Tratto da: Science of Us

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Disturbo ossessivo-compulsivo: le strategie mentali inconsapevoli

L’attuazione di certi processi mentali (monitoraggio dei pensieri, rimuginio, ruminazione) possono consumare le risorse mentali e ostacolare l’efficienza delle funzioni attentive, piuttosto che attribuire queste ultime a un deficit strutturale.

Uno degli aspetti che caratterizza il Disturbo Ossessivo-Compulsivo è la tendenza a porre eccessiva attenzione ai propri pensieri intrusivi (ossessioni). Le ossessioni sono pensieri, impulsi o immagini mentali che vengono percepite come sgradevoli o intrusive dalla persona. Questa difficoltà è spesso stata attribuita a un deficit strutturale dell’attenzione e della memoria. Le persone con Disturbo Ossessivo-Compulsivo sarebbero meno capaci di usare la propria attenzione per selezionare stimoli diversi dalle proprie ossessioni ma anche da stimoli ambientali che le richiamano.

Un recente studio (Koch & Exner, 2014) ha mostrato una possibile spiegazione alternativa. La difficoltà di attenzione selettiva potrebbe non essere imputabile a un deficit ma a strategie mentali che i pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo adottano senza rendersene pienamente conto.

Questo avviene perché si tratta di abitudini automatizzate. In particolare la tendenza a prestare molta attenzione ai propri pensieri (cognitive self-consciousness, CSC), il rimuginio e la ruminazione risultano aspetti mentali con un impatto significativo sull’attenzione selettiva e capaci di spiegare la differenza nell’attenzione selettiva tra pazienti con Disturbo Ossessivo-Compulsivo, pazienti depressi e adulti sani.

In sintesi, questi risultati supportano l’assunzione che l’attuazione di certi processi mentali (monitoraggio dei pensieri, rimuginio, ruminazione) possono consumare le risorse mentali e ostacolare l’efficienza delle funzioni attentive, piuttosto che attribuire queste ultime a un deficit strutturale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Obesità: quali sono le comordibità e i trattamenti più diffusi?

Sara Palmieri, Open School Studi Cognitivi

 

Tra i soggetti obesi sono state riscontrate frequenti comorbidità psichiatriche con disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi del comportamento alimentare, disturbi di personalità ed uso di sostanze.

Sovrappeso e obesità sono definiti come un accumulo anomalo o eccessivo di grasso che rappresentano un rischio per la salute. L’Indice di massa corporea (BMI) è un indice di peso-per-altezza comunemente utilizzato per classificare il sovrappeso e l’obesità. Esso è definito come peso di una persona in chilogrammi diviso il quadrato della sua altezza in metri (kg/m2). Un BMI maggiore o uguale a 25 indica sovrappeso, mentre un BMI maggiore o uguale a 30 indica obesità.

Secondo la World Health Organization (WHO) la prevalenza dell’obesità a livello mondiale è quasi raddoppiata tra il 1980 e il 2014. Nel 2014, circa il 13% della popolazione mondiale adulta (11% uomini, 15% di donne) è risultata obesa e il 39% (38% uomini, 40% donne) in sovrappeso. Nell’Unione Europea il sovrappeso colpirebbe il 30-70% degli adulti mentre l’obesità colpirebbe il 10-30% degli adulti.

In Italia, secondo il rapporto Osservasalute 2013, il 35,6% della popolazione adulta è in sovrappeso mentre il 10,4% è obesa.

La prevalenza del sovrappeso e dell’obesità cambia a seconda delle regioni di residenza (le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone obese e in sovrappeso), dell’età (la percentuale di popolazione in eccesso ponderale cresce all’aumentare dell’età per diminuire leggermente dopo i 75 anni) e del genere (l’eccesso ponderale è più diffuso tra gli uomini).
L’obesità risulta associata a un maggior rischio di morbidità e mortalità, peggiore Qualità di Vita (QdV), elevato rischio di malattie cardiovascolari, diabete, alcuni tipi di cancro (ad esempio colon, seno, endometrio), disturbi muscolo scheletrici, come anche a conseguenze sul piano sociale (pregiudizio, discriminazione, problemi occupazionali e relazioni insoddisfacenti) e psicologico (bassa autostima, preoccupazioni eccessive per le forme corporee) (van Hout & van Heck, 2009).

Appare evidente come l’obesità rappresenti un quadro clinico di elevata complessità con significativo impatto a livello individuale e sociale.

Tra i soggetti obesi, soprattutto con obesità grave, sono state riscontrate frequenti comorbidità psichiatriche con disturbi dell’umore (ad esempio disturbo depressivo maggiore e distimia), disturbi d’ansia (ad esempio fobia sociale e disturbo d’ansia generalizzato), disturbi del comportamento alimentare (in particolare binge eating disorder e più in generale comportamento alimentare con diete e controllo rigido alternato a disinibizione e binge eating, iperalimentazione non compulsiva come frequenti spuntini con cibi e bevande caloriche), disturbi di personalità (istrionico, borderline e schizotipico) ed uso di sostanze (Malik, Mitchell, Engel, Crosby, & Wonderlich, 2014; Sarwer, Wadden, & Fabricatore, 2005; van Hout & van Heck, 2009).

In merito ai trattamenti volti alla riduzione di peso nei casi di obesità grave (BMI ≥ 40), dalla letteratura emerge come vi sia uno scarso effetto a lungo termine dei trattamenti non chirurgici quali diete, modificazioni comportamentali, esercizio fisico e farmacoterapia (Sarwer et al., 2005; van Hout & van Heck, 2009). Sebbene tali trattamenti producano una riduzione iniziale di peso, la quale può influire positivamente sulla salute e lo stato psicosociale dei soggetti con obesità moderata, potrebbero avere risultati meno consistenti nei soggetti con obesità grave.

In questi ultimi il trattamento più diffuso è la chirurgia bariatrica, ossia interventi chirurgici volti alla riduzione ponderale. Fanno parte di tali interventi: interventi di riduzione gastrica (hanno lo scopo di ridurre il volume gastrico e di provocare una sazietà precoce), interventi di malassorbimento (hanno lo scopo di provocare un malassorbimento intestinale riducendo la superficie di assorbimento dell’intestino tenue) ed interventi di lipectomia (interventi demolitivi diretti del tessuto adiposo solitamente riservati a pazienti che hanno subito interventi di restrizione o malassorbimento).

Diversi studi si sono occupati degli effetti post-operatori degli interventi bariatrici. Sebbene la chirurgia bariatrica non intervenga sulle cause dell’obesità grave, produce una significativa diminuzione del peso in eccesso (40-60%), un miglioramento della comorbidità psichiatrica (effetto positivo sull’ andamento e l’esito di alcune condizioni quali disturbo bipolare, schizofrenia, sintomi depressivi), del comportamento alimentare (maggiore senso di controllo del cibo, riduzione delle abbuffate ed emotional eating), del funzionamento sociale (miglioramenti nella soddisfazione coniugale, relazioni sociali, funzionamento sessuale, ambito lavorativo, incremento del supporto sociale), della percezione dell’immagine corporea e della qualità di vita (Sarwer et al., 2005; van Hout, Boekestein, Fortuin, Pelle, & van Heck, 2006; van Hout & van Heck, 2009).

Tuttavia tali miglioramenti, in particolare del comportamento alimentare e il calo ponderale, sembrano concentrarsi nei primi due anni post-operatori per poi diminuire con il passare del tempo. Inoltre, non tutti coloro che si sottopongono ad un intervento di chirurgia bariatrica sperimentano gli stessi cambiamenti e nella stessa entità; per di più alcuni soggetti riportano nel breve termine una sensazione di perdita di controllo sul cibo, frequenti spuntini con cibi calorici, ritorno ai pattern alimentari pre-operatori, emotional eating e aumento dei sintomi psichiatrici (Sarwer et al., 2005; van Hout & van Heck, 2009).

Report dal convegno: La grave obesità:dal corpo alla mente
Report dal convegno: La grave obesità:dal corpo alla mente

 

Alla luce di ciò diversi autori si sono interrogati su quali possano essere i fattori alla base dei diversi outcomes, ma ad oggi la letteratura a riguardo è contrastante.
In merito alla sensazione di perdita di controllo sul cibo uno studio di White e colleghi (2010), su un gruppo di soggetti obesi sottoposti ad intervento bariatrico, ha mostrato come la perdita di controllo sul cibo pre-operatoria non era legata alla diminuzione di peso post-operatoria e al funzionamento psicosociale. Al contrario, la perdita di controllo sul cibo dopo l’intervento era negativamente correlata con la perdita di peso a dodici e ventiquattro mesi dall’ intervento.

Inoltre, il gruppo di pazienti con elevata perdita di controllo sul cibo post-operatoria riportava elevati livelli di sintomi depressivi e disturbi alimentari, e bassi livelli di QdV.
Alcuni studi mostrano come la presenza di una psicopatologia pre-operatoria (disturbi alimentari, di personalità e depressione) sia associata ad una scarsa perdita di peso dopo l’intervento. Altri studi però non rilevano tale dato (Malik et al., 2014).

Kalarchian e colleghi (2008), in uno studio volto a documentare la relazione tra disturbi psichiatrici pre-operatori (diagnosticati attraverso la SCID) ed effetti del bypass gastrico, hanno trovato che la presenza lifetime di un disturbo di Asse I (in particolare disturbi dell’umore e d’ansia) era associata con una scarsa riduzione del BMI a sei mesi dall’intervento. Mentre, la relazione tra una diagnosi attuale di un disturbo di Asse I o II e il cambiamento del BMI a sei mesi dall’intervento di bypass gastrico non era statisticamente significativa.

Un altro fattore coinvolto sarebbe la capacità dei soggetti di modificare il loro comportamento alimentare e lo stile di vita a seguito dell’operazione chirurgica. Una review di van Hout e van Heck (2009) mostra che coloro che non riescono a attuare un regime alimentare rigoroso, praticare esercizio fisico e incrementare le abilità di coping per diminuire gli episodi di emotional eating possono andare incontro ad una precoce interruzione della perdita di peso, a riacquistare peso, a disturbi alimentari, a sintomi psicopatologici e deterioramento della QdV.

Pertanto, la compliance e il successo dell’intervento bariatrico possono essere in parte influenzati da fattori psicologici, sociali, comportamentali e di personalità. Per questo motivo, sarebbe importante identificare quali specifici fattori sono rilevanti per ogni paziente al fine di un suo miglioramento dopo l’intervento.

Ciò implica che l’operazione chirurgica è solo uno degli elementi coinvolti nel trattamento dell’obesità e, al fine di aumentare la compliance ed ottenere un successo post-operatorio, potrebbe essere utile un’adeguata valutazione psicologica e psicopatologica mirata a sviluppare interventi personalizzati.

Infine, sebbene la chirurgia bariatrica non sia controindicata in caso di un disturbo psichiatrico, un adeguato trattamento pre-operatorio e un sostegno psicologico post-operatorio dovrebbero essere forniti al fine di aumentare il successo a lungo termine di queste operazioni e ridurre il rischio di complicanze.

 

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Esperienze sinestetiche in cucina: arriva la Kitchen Theory

FLASH NEWS

Con l’aiuto di buste chiuse da aprire soltanto all’arrivo del piatto, le diverse portate consentono ai commensali di rendersi conto di credenze stereotipate e ancestralmente radicate nelle nostre menti riguardo i cibi nei loro sapori, consistenze e rumori mentre li assaporiamo.

Sono sicura che gli psicologi che vivono il cibo e la cucina come momenti di curiosa esperienza sensoriale avranno pensato spesso al fenomeno della sinestesia. Da quest’anno e fino al mese di giugno 2015 un gruppo di creativi culinari, un team composto da neuroscienziati cognitivi e chef, che ha deciso di chiamarsi Kitchen Theory organizza una serie di esperienze sinestetiche con alla base il cibo! Una sequenza di ben sette portate studiate a tavolino per amplificare i sensi!

La sinestesia è una sorta di fenomeno  di migrazione sensoriale e percettiva tale per cui un suono si trasforma in un colore (dall’udito alla vista) o le parole vengono percepite come sapori. Lo chef Josef Youssef insieme ad alcuni psicologi del Cross Modal Department Oxford University tenta di ricreare esperienze sinestesiche attraverso il cibo in un’ottica di alta cucina sperimentale.

Con l’aiuto di buste chiuse da aprire soltanto all’arrivo del piatto, le diverse portate consentono ai commensali di rendersi conto di credenze stereotipate e ancestralmente radicate nelle nostre menti riguardo i cibi nei loro sapori, consistenze e rumori mentre li assoporiamo.

Cubi sensoriali a tavola e suoni diversificati accompagnano l’esperienza della cena con la finalità di illustrare la relazione tra la percezione dei colori e il gusto, piuttosto che l’effetto del linguaggio e dei suoni sulla percezione visiva del cibo, e ovviamente la relazione tra le sensazioni tattili, gusto e consistenze degli alimenti.

Simpatici anche i nomi delle portate, tra cui per esempio “Believe Nothing of What you Hear”, che mettono in guardia dai nostri preconcetti da degustazione.  

Se vi trovate dalle parti di Londra, potete prenotare questa curiosa cena dal giovedi al sabato presso il Food Incubator, Maida Hill Place.

 

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Consapevolezza corporea: Neglect, Anosognosia e Somatoparafrenia

La mancanza di consapevolezza del proprio deficit, o il disinteresse verso le sue conseguenze, rappresentano un grave ostacolo alla riabilitazione e influenzano sicuramente la qualità della vita sia del paziente che dei suoi familiari.

Giuro su Dio, su quello che vuole, che io non… Uno dovrebbe saper riconoscere il proprio corpo, cos’è e cosa non è suo. Ma questa gamba, questa cosa,” ebbe un altro brivido di ripugnanza “non mi convince, non la sento vera… E poi non mi sembra una parte di me.

Un giovane Oliver Sacks, chiamato urgentemente per un consulto, arriva in una camera di ospedale e trova questo signore, terrorizzato e disgustato, che gli rivolge queste parole. Il paziente afferma di aver trovato nel suo letto una gamba recisa; dopo essersi dato come unica spiegazione plausibile quella di uno stupido scherzo fatto da qualcuno appartenente allo staff dell’ospedale, scocciato, decide di buttarla giù dal letto. Ma insieme alla gamba cade dal letto anche lui. La gamba, infatti, era la sua.

Nel breve resoconto riportato dallo stesso Oliver Sacks nel libro “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” non è riportata la causa del ricovero o gli sviluppi della situazione clinica. Ma è davvero possibile non riconoscere una parte del proprio corpo? Possiamo essere addirittura disgustati dalla nostra gamba o dal nostro braccio?

Il senso di noi stessi, il modo in cui il corpo vede se stesso, è mediato dalla propriocezione. Insieme al sistema visivo e al sistema vestibolare, essa collabora a restituirci il senso del corpo. Da un punto di vista neuroanatomico tale fenomeno integra componenti che vanno dal sistema nervoso periferico alla corteccia cerebrale passando per strutture sottocorticali. La parte sinistra della corteccia somatosensoriale sembra avere un ruolo maggiore per quanto riguarda l’orientamento del corpo, mente quelle destra è più legata a tutti quei fenomeni relativi alla consapevolezza corporea. L’emisfero destro, infatti, sembra avere un ruolo pregnante nell’integrazione somatosensoriale per quanto riguarda gli stimoli dell’emisoma controlaterale ma anche per quelli dell’emisoma ipsilaterale.

La Negligenza Spaziale Unilaterale (NSU) rappresenta una condizione nella quale, in seguito a una lesione cerebrale, il paziente perde la capacità di esplorare l’emicampo visivo controlaterale alla lesione (il neglect è più frequente e più grave con lesioni nell’emisfero destro, di conseguenza l’emicampo “negato” è quello sinistro). Il paziente con neglect personale perde la consapevolezza dell’emisoma controlesionale. I pazienti possono presentare un neglect grave, medio o lieve con maggiore o minore consapevolezza. Nei casi gravi è presente una forte componente di anosognosia (mancanza o scarsa consapevolezza di un deficit motorio o cognitivo, senza che sia necessariamente correlato a un deficit intellettivo) e molto spesso anosodiaforia (ovvero assenza di preoccupazione per la malattia). Naturalmente non si parla di fenomeni “tutto-o-niente” ma il grado di consapevolezza può variare lungo un continuum.

Il termine misoplegia è stato coniato da Critchley e si riferisce alla condizione di odio o disgusto che il paziente prova verso l’arto plegico. Manifestazioni minori di questa condizione possono essere le aggressioni verbali rivolte all’arto, ma comunemente la misoplegia comprende atti fisici rivolti contro l’arto plegico.

La somatoparafrenia, invece, è una forma di asomatognosia che si manifesta come un delirio selettivo verso l’arto plegico o paretico. Nonostante la connotazione delirante non si associa ad altri sintomi o disturbi psichiatrici. E’ un sintomo produttivo spesso associato a neglect extra-personale che fortunatamente risulta essere acuto e fluttuante. Il vissuto esperito dal paziente può essere definito “non-belonging feeling” in quanto egli non riconosce come proprio l’arto plegico che viene solitamente attribuito a un parente, a un familiare, al medico. Tale sintomo compare solo se il paziente viene interrogato quindi il suo tasso di prevalenza può non essere veritiero. Inoltre il paziente persiste nelle sue credenze trovando giustificazioni che vadano a confermare la convinzione di non appartenenza dell’arto che gli viene mostrato o fatto toccare.

La somatoparafrenia si manifesta spesso in associazione con l’eminegligenza spaziale unilaterale, l’emiplegia e l’anosognosia; non è ancora ben chiaro se somatoparafrenia e anosognosia siano dissociabili o meno. In un recente studio Invernizzi et al. (2013) hanno riscontrato, su un campione di 75 pazienti, 5 casi di somatoparafrenia senza anosognosia per l’emiplegia. Da un punto di vista neuroanatomico le aree coinvolte non erano assolutamente sovrapponibili a quelle dei pazienti che presentavano anosognosia per l’emiplegia. Infatti mentre nella somatoparafrenia sembrano essere maggiormente danneggiate aree sottocorticali, i fasci di sostanza bianca e la corteccia orbito-frontale (Feinberg et al., 2010), nell’anosognosia per l’emiplegia sembrano coinvolte aree frontali e pre-frontali. La frequente co-presenza dei due sintomi può essere ricondotta al grado maggiore o minore di sovrapposizione delle aree coinvolte; sicuramente sono più rari i casi in cui vengono per così dire “risparmiati” i lobi frontali.

Un ulteriore studio condotto da Gandola e collaboratori (2012) mostra come, oltre ad essere coinvolte le aree corticali solitamente associate alla NSU (quindi la corteccia fronto-temporo-parietale destra), i pazienti somatoparafrenici mostravano lesioni aggiuntive alla sostanza bianca e ad alcune aree sottocorticali (talamo, gangli della base e amigdala) e ad altre aree corticali come il giro frontale inferiore, il giro post-centrale e l’ippocampo. Il coinvolgimento delle strutture corticali profonde e sottocorticali potrebbe essere correlato al ridotto senso di familiarità che questi pazienti esperiscono verso il proprio arto plegico.

Esperimento della mano di gomma 2 - Immagine di proprietà di: John Russell / Vanderbilt University
Esperimento della mano di gomma. Rubber Hand Illusion

Tuttavia non sembrano ancora chiari i meccanismi funzionali alla base della somatoparafrenia e quali siano i punti in comune e non con l’anosognosia. Inoltre non sono stati ancora approfonditi i motivi per cui la somatoparafrenia è un sintomo così fluttuante: probabilmente entrano in gioco meccanismi di plasticità corticale. Manipolazioni sperimentali, anche di tipo verbale, potrebbero portare ad una maggiore comprensione della condizione e del vissuto del paziente.

La mancanza di consapevolezza del proprio deficit, o il disinteresse verso le sue conseguenze, rappresentano un grave ostacolo alla riabilitazione e influenzano sicuramente la qualità della vita sia del paziente che dei suoi familiari. Proprio per questo motivo è importante conoscere e riconoscere queste situazioni, quindi sviluppare strumenti adeguati per la loro rilevazione; in questo modo sarà possibile intervenire e ricercare le strategie più adeguate al fine di migliorare la condizione del paziente e di chi gli sta vicino.

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BIBLIOGRAFIA:

La Terapia Metacognitiva Interpersonale e le domande stupide

Il senso di direzione e di obiettivo condiviso con il paziente, la possibilità di trasmettere al paziente qual è il vero focus terapeutico, ovvero un modo diverso e non intellettualistico di raccontarsi e di vivere come potrebbe essere nel caso della TMI, oppure – come è già nel caso della MCT – un modo diverso di gestire l’attenzione, danno alla terapia una forte marcia in più e diminuiscono il senso di caoticità insito in tutte le terapie.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) di Dimaggio, Popolo e Salvatore è uno dei modelli cosiddetti di terza ondata che negli ultimi anni stanno cambiando il modo di fare terapia. Ho potuto, durante l’ultimo fine settimana, godermi l’esposizione diretta del modello da parte di uno dei tre autori in persona, Raffaele Popolo. È stato un bel seminario, stimolante e anche divertente (VEDI EVENTO). Sono emerse le differenze tra la TMI e la MCT di Wells, ma anche rispetto alle fasi precedenti di sviluppo della TMI, quando ancora non aveva un nome proprio ed era il prodotto del gruppo coordinato da Antonio Semerari e del Terzo Centro, dove lavoravano Dimaggio e Popolo.

Rispetto alla fase precedente, la TMI presenta una maggiore enfasi sugli elementi metacognitivi. In particolare, almeno dal mio punto di vista, nella TMI si accentua l’intervento di modifica dei processi di pensiero. Per Dimaggio e i suoi collaboratori, il problema funzionale dei pazienti con disturbo di personalità e/o psicotico (i bersagli clinici preferiti della TMI) è uno stile di pensiero peculiarmente intellettualizzato, astratto, generico e al tempo stesso contorto, in certo senso ideologico e poco capace di descrivere con semplicità i propri stati mentali e –ancor meno- quelli altrui. Questa disfunzione gioca nella TMI lo stesso ruolo che gioca la disfunzione attentiva nella Metacognitive Therapy (MCT) di Wells. E, come accade nella MCT di Wells, il riaddestramento della TMI mira a ricostruire uno stile di pensiero congruo ed emozionalmente regolato.

Non è solo teoria. Dimaggio e collaboratori hanno fatto passi avanti nella capacità di concepire e gestire un protocollo efficiente. Hanno capito l’importanza terapeutica di un modello di funzionamento condiviso con il paziente. Non è ancora chiaro quanto abbiano capito come faccia bene alla terapia condividere in maniera insistente ed esplicita questo modello con il paziente. Mentre nelle spiegazioni di Popolo l’importanza del modello era chiara, negli spezzoni audio di seduta sembrava che il terapista tendesse ad agire in maniera più coperta, alla Fonagy, ovvero guidando delicatamente il paziente verso la costruzione dello stile di pensiero più funzionale ma senza descrivere con chiarezza dove si va a parare. O almeno non subito.

In altre parole, Dimaggio, Popolo e Salvatore danno molta importanza alle cosiddette “domande stupide”, domande che essi oppongono alle elucubrazioni astratte dei loro pazienti incoraggiandoli a essere più concreti e precisi nei loro discorsi, a preferire la descrizione accurata delle situazioni e degli stati mentali piuttosto che offrire generiche spiegazioni intellettualizzanti. Questo si ottiene attraverso domande volutamente semplici e concrete.

Per esempio, di fronte a un paziente paranoico che ammannisce la sua visione ostile e diffidente degli altri, magari espressa nella forma povera, irrigidita e stereotipata di un proverbio come potrebbe essere “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio” oppure ingannevolmente ricca ma al fondo altrettanto misera di logorroiche considerazioni sapienziali sulla miseria umana, il terapista TMI oppone costantemente domande come: “mi può fare un esempio in cui le è capitato di pensare queste cose?” “mi può raccontare una situazione che le ha fatto pensare queste cose che mi ha detto?” “Mi scusi, prima di volermi spiegare il senso di questo episodio, mi dica: quando è avvenuto tutto questo? Che periodo era? Che giorno? Dove di trovava? Chi c’era con lei?” e così via. L’obiettivo non è confutare il paziente, ma accompagnarlo a una visione più complessa degli episodi che vada oltre i suoi stereotipi, incoraggiandolo a produrre narrazioni, racconti, memorie autobiografiche la cui ricchezza emotiva e interpersonale non possa essere ingabbiata in un proverbio popolare o in una visione ideologica del mondo.   

Questa, ripeto, è la parte più interessante. Che andrebbe forse accentuata. Le porzioni del modello dedicate ai cicli interpersonali e alla relazione terapeutica, pur affascinanti, andrebbero a mio parere ridimensionate. In una visione scientificamente economica, riempirsi la testa di modelli interpersonali potrebbe essere controproducente per il terapeuta. In fondo un protocollo è sempre fatto di un’idea clinica semplice cui corrisponde un intervento altrettanto semplice che si può e si deve proporre e riproporre al paziente ripetutamente. Nel caso della TMI, l’intervento caratterizzante è questa idea delle domande “stupide” corroborata dall’ipotesi dello stile di pensiero non ideologico e non giudicante come cura ai processi disfunzionali del border, che tendono al generico razionalizzante.  

Mi chiedo anche se sia proprio necessario somministrare questo intervento al paziente in una forma che mi pare prevalentemente non esplicita. Ovvero senza comunicare chiaramente al paziente che buona parte del suo problema è questo continuo elucubrare astratto (che della scuola di Sassaroli chiameremmo “rimuginare”), elucubrare che va interrotto sostituendolo con uno stile più vicino alla semplicità e all’immediatezza dell’esperienza emotiva.

Forse Dimaggio esercita già questo livello di condivisione esplicita con i suoi pazienti, o forse no. In uno stile di terapia protocollata, immagino che una seduta TMI dovrebbe iniziare sempre con la condivisione forte del modello, del tipo:

[blockquote style=”1″]Finora abbiamo visto che il suo problema è che, in situazioni per lei problematiche, lei si rifugia in uno stile di pensiero che abbiamo chiamato insieme intellettuale e astratto, pieno di spiegazioni, valutazioni e giudizi e povero di racconti e di vita; in questa terapia stiamo apprendendo a raccontare e rivivere le situazioni che la fanno soffrire in maniera meno giudicante e più narrativa. Anche in questa seduta la invito a raccontarmi alcuni episodi della settimana, stando attento al suo stile di pensiero e di racconto, oltre che agli episodi in sé…[/blockquote]

In uno stile più narrativo e rapsodico probabilmente il terapeuta non dà istruzioni, o non le dà sistematicamente e in maniera formalizzata a inizio seduta ma lascia le mosse d’apertura al paziente, riservandosi poi di aggiustare il tiro giocando più di rimessa, insomma reagendo al paziente in uno stile di guida “from behind”.

Un secondo accorgimento che forse differenzia una terapia protocollata da una più libera è la valutazione quantitativa effettuata in ogni seduta o quasi. Sono i famigerati “quindici questionari a seduta somministrati al paziente” che Dimaggio rimprovera a Wells. Non è così, il numero è più basso per fortuna. Fosse così, effettivamente l’accorgimento sarebbe inattuabile, oltre che intollerabilmente sadico e gravoso. In realtà il questionario è uno solo e consta di una decina di domande, domande del resto molto simili tra loro, che ben presto si riducono a due o tre e che occupano nel peggiore dei casi solo gli ultimi cinque minuti di seduta.

Una simile operazione, me ne rendo conto, è molto lontana dalla nostra esperienza di terapisti, non solo in Italia. Anche in UK si tratta di un accorgimento ancora non così diffuso al di fuori dei grandi centri universitari dove si fanno le terapie protocollate. Detto questo nella mia esperienza con l’MCT l’accorgimento, se eseguito bene, con autorevolezza e concisione – ovvero poche domande mirate che concentrano in due tre dati il livello di progresso del paziente- mi è diventato ben presto un alleato prezioso, da che mi era sembrato nei primi tempi un goffo tentativo di quantificazione e una sgradevole interruzione del flusso della conversazione.

Il senso di direzione e di obiettivo condiviso con il paziente, la possibilità di trasmettere al paziente qual è il vero focus terapeutico, ovvero un modo diverso e non intellettualistico di raccontarsi e di vivere come potrebbe essere nel caso della TMI, oppure – come è già nel caso della MCT – un modo diverso di gestire l’attenzione, danno alla terapia una forte marcia in più e diminuiscono il senso di caoticità insito in tutte le terapie.

Comprendo bene la possibile maggiore difficoltà di applicare questi accorgimenti ai pazienti TMI con disturbo di personalità, tendenzialmente meno alleati rispetto a quelli con disturbi emotivi di I asse. Comprendo anche che forse nel caso della TMI una scala di valutazione sarebbe più indicata di un questionarietto, trattandosi di valutare stili di pensiero e non metacredenze. Rimane il dubbio che parte delle difficoltà siano generate non solo da barriere create dal paziente, ma anche da una semplice disabitudine dei terapisti a gestire in maniera meno rapsodica e libera la seduta. Questi dubbi me li chiarirò nel prossimo seminario sulla TMI, stavolta condotto da Dimaggio in persona. Tenetevi in contatto.  

 

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Terapia Metacognitiva Interpersonale di Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Tristezza: a volte basta un sorriso! – Introduzione alla Psicologia nr.04

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (04)

 

 

La tristezza è un’emozione che manifestiamo in seguito a una serie di eventi sfortunati, dall’esito nefasto, rispetto ai quali non riusciamo a individuare nessuna possibile alternativa.

 

Oggi ci imbatteremo in un tortuoso sentiero di montagna, in discesa, che a un certo punto ci porta in una strada priva d’uscita. Cosa fare? Abbiamo perso la strada, non siamo in grado di ritrovarla e lo sconforto non mancherà ad arrivare. Capita nella vita di sentirsi senza nessuna alternativa percorribile al punto che, in alcune occasioni, abbandoniamo la speranza e la voglia di cercare. Chiaramente in quei momenti siamo pervasi da un unico stato d’animo: la tristezza.

La tristezza è un’emozione negativa che si sperimenta nel momento in cui perdiamo qualcosa di caro irrimediabilmente. A quel punto possiamo diventare molto tristi e continuiamo a ruminare in maniera autosvalutativa.

La tristezza è un’emozione che manifestiamo in seguito a una serie di eventi sfortunati, dall’esito nefasto, rispetto ai quali non riusciamo a individuare nessuna possibile alternativa. Quindi, quando perdiamo qualcosa a cui teniamo, l’umore precipita e ci critichiamo autosvaluatandoci per non aver saputo affrontare adeguatamente la situazione.

Di conseguenza la postura diventa ricurva, come se fosse di chiusura verso qualsiasi tipo di alternativa possibile, e la mimica facciale assume tratti caratteristici, come fronte corrugata, labbra piegate e sguardo perso nel vuoto.

Esistono agiti comportamentali che spesso accompagnano questa emozione, si tratta di crisi di pianto, catatonia, mancanza di voglia di mangiare e in estrema ratio di vivere. Tutto questo è accompagnato da continue lamentele e recriminazioni sempre rivolte verso se stesso, nella percezione di non aver fatto abbastanza a per questo di non avere alternative.

Una persona triste non ha più mordente sia da un punto di vista relazionale sia sociale, per questo preferisce la solitudine in cui continua a pensare e ripensare a quello che ha perso. L’intensità emotiva varia in base all’importanza data all’oggetto perso.

Quindi, se mi lascia il mio ragazzo/a chiaramente divento molto triste, se perdo il mio iPad, sono triste, ma meno intensamente. In ogni caso è uno stato passeggero, a meno che non si cristallizzi. A quel punto diventa uno stato patologico che può diventare qualcosa di più della tristezza: depressione.

Attenzione, la tristezza non è la depressione. Quest’ultima è una patologia molto più invasiva e quantitativamente più invalidante. Porta ad avere una visione negativa di se stessi, del mondo e degli altri. La depressione è uno stato che può protrarsi e che in alcuni casi sfocia in situazioni funeste. Dalla depressione non si esce con un atto di volontà, ma tramite psicoterapia e terapia farmacologica.

Insomma, essere tristi non significa essere depressi, per questo basta a volte un sorriso, anche forzato, per far migliorare il tono dell’umore. Ricordate cosa diceva Mary Poppins? <<Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, la pillola va giù, la pillola va giù. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, tutto brillerà di più!>>

 

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Il Venerdì della Scuola Cognitiva di Firenze: riparte il ciclo di seminari ad ingresso gratuito

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Ciclo di Seminari

IL VENERDÌ DI SCF

I nostri seminari sono rivolti agli studenti della Facoltà di Psicologia ed ai giovani laureati che vogliano avvicinarsi alla Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale ed iniziare a conoscerne il funzionamento.

I Seminari si svolgono il primo venerdì di ogni mese dalle ore 10.00 alle 12.30 presso la sede SCF in Via delle Porte Nuove, 10 – Firenze.

INGRESSO GRATUITO

6 Marzo ore 10:00

“Terapia cognitiva in Adolescenza”

L’adolescenza è una fase di sviluppo che determina numerosi cambiamenti corporei, cognitivi e affettivi. Data la complessità dei mutamenti, l’adolescenza può configurarsi come una condizione di rischio per lo sviluppo di psicopatologia. Durante il seminario verranno affrontate le principali tappe dello sviluppo cognitivo e metacognitivo che portano alla costruzione dell’identità ed i quadri clinici che più frequentemente si riscontrano in psicoterapia cognitiva.

Dott.ssa Maria Sansone

Psicologa Psicoterapeuta

Centro Cognitivismo Clinico Sezione Infanzia e Adolescenza

 

Prossimi appuntamenti:

Venerdì 3 Aprile ore 10:00 – Il colloquio clinico in Adolescenza: valutazione e diagnosi. Dott.ssa Chiara Limina(Psicologa, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 8 Maggio ore 10:00 – La relazione terapeutica come strumento specifico in terapia cognitiva. Dott.ssa Linda Tarantino (Psichiatra, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 5 Giugno ore 10:00 – Dalla timidezza alla fobia sociale. Dott.ssa Linda Pagnanelli (Psicologa, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 3 Luglio ore 10:00 – Differenze tra CBT e DBT. Dott. Carmelo La Mela (Psichiatra, Psicoterapeuta, didatta SITCC)

Venerdì 4 Settembre ore 10:00 – Trauma e terapia EMDR. Dott. Gian Paolo Mazzoni (Psicologo, Psicoterapeuta, socio SITCC)

Venerdì 2 Ottobre ore 10:00 – L’evoluzione della terapia cognitiva attraverso il trattamento della depressione. Dott. Marco Baldetti (Psicologo, Psicoterapeuta, socio SITCC)

Venerdì 6 Novembre ore 10:00 – Approccio cognitivo nei disturbi di personalità. Dott.ssa Barbara Viviani (Psichiatra, Psicoterapeuta, socia SITCC)

Venerdì 4 Dicembre ore 10:00 – Le emozioni in terapia. Dott.ssa Annalisa Pericoli (Psicologa, Psicoterapeuta, socia SITCC)

 

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Gioco d’azzardo patologico: quando la mente è convinta che vincere sia un gioco

Carlo Buonanno, docente e didatta della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma. www.apc.it

 

L’incrollabile fiducia nella propria esperienza, l’errore fatale di attribuire ad una serie continua di perdite il segnale che al prossimo lancio si vince, la scrupolosa cura nell’esecuzione di rituali e comportamenti superstiziosi, imperativi per una vincita sicura. Tutto nella mente del giocatore.

È di qualche settimana fa la notizia del suicidio di un trentaquattrenne della provincia di Mantova. Giovane padre “malato di videopoker”, vittima della solitudine imposta da una condizione clinica che nei paesi anglosassoni viene definita Gambling Disorder.

Sul sito del Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le stime relative alla grandezza del gioco d’azzardo patologico ci informano su una forbice che varia dall’0,5 al 2,2% della popolazione generale. Un fenomeno che, se consideriamo il picco (1.329.211), interesserebbe una città italiana della grandezza di una metropoli. In altre parole, è come se gli abitanti di Milano si esponessero al rischio quotidiano di dilapidare il proprio patrimonio, in preda all’irresistibile desiderio di puntare denaro e garantirsi un momentaneo ed appagante stato di eccitazione.

Eccitazione e delusione definiscono un’oscillazione che il giocatore d’azzardo conosce bene, ma dalla quale non riesce a difendersi. La trappola risiede nel senso di prestigio, di onnipotenza, oltre che nelle vivide fantasie di vincita che da un certo punto in poi diventano certezza di potersi rifare, irrinunciabile modulatore dell’umore depresso che consegue alle frequenti perdite. Da qui in poi, aumentano la frequenza del gioco e il desiderio di recuperare, ma diminuiscono le possibilità di sottrarsi a questo pericoloso inganno.

Una spirale sulla quale è possibile intervenire grazie a protocolli di psicoterapia cognitivo comportamentale che si basano sulla ristrutturazione di alcuni degli assunti centrali della mente del giocatore. Una di esse è l’illusione del controllo e cioè la granitica credenza di avere il potere di orientare gli eventi, influenzando risultati che rispondono solo (o forse neanche!) al caso. Uno degli effetti ascrivibili all’azione di questo stato mentale è lo sviluppo di strategie ad hoc tese a predire o determinare il risultato del gioco.

È quanto accade nei casinò di tutto il mondo. Giocatori che alla roulette scommettono più soldi se gli si offre la possibilità di lanciare personalmente la pallina, rispetto a quando il destino è nelle mani del croupier. A peggiorare le cose, l’attribuzione circa l’imminenza della vincita, vera e propria sensazione corporea che partecipa all’irresistibilità dell’impulso.

Ed ancora, l’incrollabile fiducia nella propria esperienza, l’errore fatale di attribuire ad una serie continua di perdite il segnale che al prossimo lancio si vince, la scrupolosa cura nell’esecuzione di rituali e comportamenti superstiziosi, imperativi per una vincita sicura. Tutto nella mente del giocatore. Un grumo che esercita il suo inarrestabile potere un attimo prima di decidere. Un attimo prima di scegliere su quale carta puntare, su come lanciare i dadi, su quali squadre scommettere. Su come scommettere. Un attimo prima di non sapere ciò che il giocatore dà quasi per scontato un attimo dopo aver puntato. Che si perde. Dignità e soldi. Affetti. E spesso la vita.

 

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Gioco d’azzardo: i fattori strutturali – Parte I

 

BIBLIOGRAFIA:

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