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Psicoterapia e Salute Mentale: incontro con il Prof. Saggino a EXPO

 

AGI) – Pescara, 16 giu. – “E’ la psicoterapia una scienza? E’ anche una scienza utile per la societa’?”: e’ questo il titolo della relazione che il prof. Aristide Saggino, Ordinario di Psicometria presso l’Universita’ di Chieti-Pescara, terra’ il prossimo venerdi’ 19 giugno a Milano nei saloni dell’esposizione universale 2015. L’intervento del prof.
  Saggino, che e’ anche presidente nazionale dell’Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva (Aiamc) sara’ inquadrato nella Tavola rotonda “Verso una psicoterapia evidence based” del Convegno “Il futuro della salute mentale” organizzato proprio da Expo…

Expo: il prof. Saggino (Aiamc) al convegno sulla salute mentaleConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
(AGI) – Pescara, 16 giu. – “E’ la psicoterapia una scienza? E’ anche una scienza utile per la societa’?”: e’ questo il titolo della relazione che il prof. Aristide Saggino, Ordinario di Psicometria presso l’Universita’ di Chieti-Pescara, terra’ il prossimo venerdi’ 19 giugno a Milano nei saloni dell’esposizione universale 2015. L’intervento del prof. Saggino, che e’ anche presidente nazionale dell’Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva (Aiamc) sara’ inquadrato nella Tavola rotonda “Verso una psicoterapia evidence based” del Convegno “Il futuro della salute mentale” organizzato proprio da Expo. La relazione del docente dell’ateneo abruzzese (…)

Tratto da: AGI.it

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Il controverso caso dell’esperimento carcerario di Stanford

Quello di Stanford è uno degli esperimenti che tutti gli addetti agli psicolavori hanno studiato nel corso dell’Università, è uno dei più conosciuti nell’ambito della psicologia sociale, e in sintesi si proponeva di indagare il comportamento delle persone sulla base del proprio gruppo di appartenenza. I risultati dell’esperimento furono drammatici.

Quello di Stanford è uno degli esperimenti che tutti gli addetti agli psicolavori hanno studiato nel corso dell’Università, oltre ad avere avuto una buona risonanza nell’ambito non accademico, ispirando diversi film tra cui The Experiment di Scheuring del 2010.

L’esperimento è uno dei più conosciuti nell’ambito della psicologia sociale, e in sintesi si proponeva di indagare il comportamento delle persone sulla base del proprio gruppo di appartenenza.

La procedura ha previsto l’assegnazione casuale di 24 studenti metà al ruolo di guardia e metà al ruolo di carcerato. In seguito, tutti i ragazzi furono inseriti in una prigione artificiale collocata nell’Università di Stanford, seguendo in modo preciso le procedure adottate nelle prigioni del Texas sia la per quanto riguarda la costruzione dello stabile che le pratiche di arresto. Le guardie non ricevettero alcuno specifico addestramento e furono istruite a fare tutto ciò che ritenevano fosse utile a far osservare le regole, mentre i detenuti furono informati delle condizioni che li aspettavano in termini di umiliazione e violazione della privacy.

I risultati dell’esperimento furono drammatici e nonostante la durata prevista fosse di due settimane, portarono all’interruzione prematura dopo soli 6 giorni a causa del forte impatto psicologico che la situazione ebbe sugli studenti: in pochissimi giorni le guardie divennero sadiche e maltrattanti e i prigionieri mostrarono evidenti segnali di stress e depressione.

Se nell’immediato questi esiti furono interpretati come una riprova del forte impatto della categoria di appartenenza sulla condotta dei singoli, recentemente sono state sollevate diverse critiche alle procedure seguite e alla pertinenza delle inferenze proposte.

In particolare, nonostante le conclusioni tratte riguardino quello che succede quando le persone si identificano in una categoria di appartenenza nella vita di tutti i giorni, il contesto dell’esperimento non era rappresentativo della quotidianità, ma era altamente influenzato dall’elevato livello di brutalità e depersonalizzazione indotta.

In secondo luogo, le umiliazioni protratte dalle guardie nel periodo di carcere sono state probabilmente legittimate dal modo brutale in cui i carcerati sono stati arrestati. In questo senso, ci può essere stato un tacito consenso o addirittura un incoraggiamento implicito a utilizzare sui carcerati procedure violente e spietate, che hanno appunto portato alla conclusione anticipata della procedura.

Ancora, i critici delle procedure notano come le guardie non fossero in realtà del tutto autonome nei loro comportamenti e nella loro linea di condotta, dal momento che erano presenti dei supervisori (uno dei quali rappresentato dallo stesso Zimbardo, artefice dell’esperimento): è possibile che anche in questo caso la tacita accettazione dei comportamenti violenti da parte dei supervisori abbia funzionato come approvazione, portando a perpetuare le violenze e le umiliazioni.

Inoltre, una delle guardie ha dichiarato di aver volontariamente calcato la mano, impersonando un ruolo sadico e violento, come era solito fare nella sua attività di attore di teatro, parlando della capacità di assumere un’altra identità prima di iniziare a recitare; inoltre, ha dichiarato:

stavo svolgendo un piccolo esperimento personale all’interno dell’esperimento di Stanford, testando quanto potessi forzare la mano e quanto tempo avrebbero impiegato gli altri prima di dirmi di smettere.

Ancora, l’arruolamento dei partecipanti è avvenuta attraverso un annuncio che proponeva di partecipare a uno studio psicologico sulla vita carceraria, e questo potrebbe aver selezionato i partecipanti in una determinata direzione. In uno studio del 2007, Carnahan e McFarland hanno indagato meglio questo aspetto, pubblicando due diversi annunci: mentre uno riportava le esatte parole originali dell’esperimento di Stanford, il secondo ometteva la specifica sulla vita carceraria: gli autori hanno confermato come, una volta sottoposti a test psicometrici, i soggetti che avevano risposto al primo annuncio ottenessero punteggi significativamente più elevati in aggressività, autoritarismo, narcisismo, dominanza sociale e punteggi significativamente inferiori in altruismo e empatia rispetto a quelli che avevano risposto al secondo, confermando l’ipotesi di una particolare selezione di persone anche nell’esperimento di Zimbardo.

Infine, la portata dei comportamenti violenti sembra essere stata sopravvalutata, dando maggiore attenzione a quelle guardie che avevano sviluppato comportamenti sadici e tralasciando che due terzi delle guardie (come traspare da un report scritto al tempo da Zimbardo stesso) non avevano sviluppato comportamenti tirannici.

In conclusione, ci sono alcune questioni controverse che hanno bisogno di maggiore chiarezza, anche alla luce del grande impatto che l’esperimento di Stanford ha avuto sull’opinione pubblica.

Il Prof. Philip Zimbardo, primo autore dell’esperimento originale e responsabile delle procedure, sarà ospite della Sigmund Freud University domenica 11 luglio e terrà due talk in lingua inglese dal titolo My journey from Evil to Heroism e The secret power of Time in our lives.

Tutte le informazioni relative all’evento sono disponibili a questo link

Zimbardo SFU 2015

 

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AstroSamantha, lo spazio come ce lo immaginiamo e il desiderio di esplorazione

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 14/06/2015 

 

Lo spazio infinito è il luogo ignoto dell’uomo moderno, l’ambiente che ancora ispira il nostro desiderio di esplorazione. Desiderio che ci abita fin dall’infanzia e che trova la sua base proprio nella sicurezza che avvertiamo nel legame di attaccamento con le figure che ci amano e che ci accudiscono. Da qui parte il bisogno di uscire dalla tana, esplorare e comprendere.

In un’epoca in cui il mondo è ormai tutto esplorato, in cui nulla più si nasconde dietro l’orizzonte ignoto del mare, rimane il lancio nello spazio. I racconti di fantascienza sostituiscono le avventure dei pirati e dei marinai. Sognare di andare sulla luna invece che desiderare di aprire il solito baretto ai Caraibi. La tecnologia romantica e immaginaria dei viaggi spaziali si fonde con la letteratura del viaggio in astronave. Da Verne in poi, una strana nuova letteratura ha preferito lanciare i propri personaggi in alto e nel vuoto invece che sulla superficie delle acque.

Il ritorno di Samantha Cristoforetti, ingegnere, aviatrice e astronauta italiana, dà fiato all’immaginario fantascientifico italiano. Questa donna parla non solo inglese, ma anche tedesco, francese e perfino il russo, utilizzato nelle comunicazioni con il cosmodromo di Bajkonur. Come sappiamo, Samantha ha appena ottenuto il record europeo e il record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo: 200 giorni nelle missioni ISS Expedition Futura 42 e 43. E questi nomi e queste cifre già ci suggeriscono mondi e avventure.

Cosa sa e cosa immagina un bambino di queste avventure spaziali? Riesce a rappresentarle in una sua cosmologia infantile ma credibile? Oppure non ha un’idea chiara di tutto questo? I bambini occidentali hanno una conoscenza precoce dalla forma sferica della terra, del concetto di spazio vuoto e della possibilità di esplorarlo nelle tre dimensioni. Tuttavia molto dipende anche dal modo con cui facciamo le domande. Una conversazione troppo aperta finisce per far saltare fuori concezioni più primitive, compresa la convinzione che sia possibile arrivare al limite della terra e cascare fuori (Vosnoiadu, Skopeliti e Ikospentaki, 2004). Una guida più stretta invece fornisce risposte più logiche.

I bambini indiani a loro volta integrano la cosmologia folk con le informazioni scientifiche: la terra è piatta e sostenuta da entità misteriose, ma al tempo stesso ruota intorno al sole (Samarapungavan, Vosnoiadu e Brewer, 1996).

Allo stesso incrocio tra concezione scientifica e cosmologia folk probabilmente si incontrano i pensieri dei bambini e quelli della letteratura fantascientifica. In quell’incrocio nel quale Verne inseriva anche la vecchia concezione della terra cava e dove oggi potremmo porre gli effetti delle scie degli aerei. La terra cava a sua volta richiamava il mito della caverna di Platone, mentre queste famigerate scie e i loro terribili effetti sulla nostra salute non possono non suggerire alla mente i dardi di Apollo che diffondeva la peste sugli uomini, e in particolare sui guerrieri achei durante l’assedio di Troia. Samantha è invece Ulisse che torna sulla terra e in Italia, dove tanti Penelope di sesso maschile la attendono fedeli.

La partecipazione dell’Italia alla costruzione dell’immaginario fantascientifico è stata finora scarsa. Come del resto anche la partecipazione ai viaggi di avventura oceanici, sul tipo di Robinson Crusoe o dell’Isola del Tesoro. Cresciuti nel Cosmo Mediterraneo, che un tempo esauriva in sé l’Ecumene, ovvero il mondo conosciuto, e nel quale si svolgevano i viaggi esplorativi degni di essere raccontati, da Ulisse a Enea fino ad arrivare a Erodoto e Strabone, ci siamo trovati un giorno incastrati in un microcosmo escluso dalla grandi rotte. Il Mediterraneo, il grande mare di mezzo tra le terre conosciute, si riduceva a uno stagno periferico nel quale rimanevamo ingusciati.

Oppure no, stiamo esagerando. Con Colombo, Vespucci e Caboto siamo stati tra i primi a sfidare l’Oceano, e con Marco Polo siamo arrivati via terra fino al lontano oriente. Ora con Samantha abbiamo una donna che esplora lo spazio e torna, portandoci sia conoscenza scientifica (Samantha in orbita ha condotto esperimenti scientifici sulla fisiologia umana e la stampa 3D in assenza di peso) che l’immaginazione fantascientifica del terzo millennio. Che sia di buon auspicio per l’Italia, non destinata a cascare in giù oltre il bordo della Terra.

 

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La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) è più efficace della terapia interpersonale nel trattamento dei disturbi alimentari

La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) è più efficace della terapia interpersonale nel trattamento dei disturbi alimentari

Massimiliano Sartirana (1) e Riccardo Dalle Grave (2)

1 Psicologo, psicoterapeuta, dottore di ricerca in scienze mediche generali e scienze dei servizi.
2 Medico, psicoterapeuta, specialista in scienza dell’alimentazione ed endocrinologia.


 

I dati dello studio indicano che la CBT-E è un trattamento potente per i pazienti ambulatoriali non marcatamente sottopeso affetti da disturbi dell’alimentazione e che l’IPT rimane un’alternativa alla CBT-E, ma la sua risposta è meno pronunciata e più lenta.

Studi controllati eseguiti in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America hanno evidenziato che la terapia interpersonale (IPT) alla fine del trattamento è meno efficace rispetto alla terapia cognitivo comportamentale per la bulimia nervosa (CBT-BN), ma a distanza di un anno ottiene i medesimi risultati (1-2). La IPT non è mai stata però testata in un campione allargato trasdiagnostico di pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione e non è stata confrontata con la più recente versione di CBT “migliorata” (CBT-E; E = “enhanced”). La CBT-E è derivata dalla CBT-BN, ma è stata ideata per essere più efficace e adatta per curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione (approccio transdiagnostico) affrontando, con un approccio individualizzato e flessibile, i meccanismi cognitivo comportamentali comuni di mantenimento della psicopatologia condivisa ed evolvente dei disturbi dell’alimentazione (non la diagnosi DSM) (3-4).

Uno studio eseguito presso il Center of Research on Eating Disorders dell’Università di Oxford e recentemente pubblicato su Behaviour Research and Therapy (5), si è posto due obiettivi principali: confrontare la CBT-E con l’IPT; valutare se l’efficacia della CBT-E, verificata nell’originale e ampio trial randomizzato e controllato pubblicato nel 2009 ed eseguito in pazienti con bulimia nervosa e disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati non sottopeso, può essere replicata quando è reclutato un equivalente campione di pazienti e la CBT-E è stata somministrata allo stesso modo.

Il disegno dello studio è stato quello di un trial randomizzato e controllato eseguito in un campione transdiagnostico di pazienti con disturbo dell’alimentazione e con indice di massa corporea (IMC) >17,5 e <40,0. I pazienti eleggibili sono stati randomizzati alla CBT-E o all’IPT, due trattamenti che prevedono 20 sedute da eseguirsi in 20 settimane.

La valutazione dell’efficacia dei trattamenti è stata misurata con l’Eating Disorder Examination Interview (EDE.16.0D) e l’Eating Disorder Examination-Questionnaire (EDE-Q), per valutare la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, il Clinical Impairment Assessment (CIA), per valutare il danno psicosociale derivante dal disturbo dell’alimentazione, la SCID-DSM-IV (Intervista Clinica Strutturata) e il Beck Depression Inventory (BDI), per valutare la comorbidità psichiatrica e la depressione clinica coesistente, rispettivamente. Le valutazioni sono state eseguite all’inizio, alla fine del trattamento e a 20, 40 e 60 settimane di follow-up da valutatori che erano all’oscuro della condizione di trattamento del partecipante e non erano coinvolti nel trattamento.

Il campione è stato reclutato da pazienti inviati da medici di famiglia e da altri clinici al servizio clinico di Oxfordshire nel Regno Unito. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: l’aver già eseguito un trattamento simile alla CBT-E e IPT (13 soggetti esclusi); la presenza di un disturbo psichiatrico generale coesistente che preclude un trattamento focalizzato sul disturbo dell’alimentazione come, per esempio, la depressione clinica grave, il disturbo bipolare e l’agorafobia grave (16 pazienti esclusi); la presenza di instabilità medica o di gravidanza (13 pazienti esclusi); il non essere disponibili a partecipare al trattamento (13 pazienti esclusi). Prima di entrare nello studio i pazienti hanno sospeso un eventuale trattamento psichiatrico, fatta eccezione del trattamento farmacologico per la depressione clinica che è stato mantenuto durante l’intero trial.

I terapeuti che hanno preso parte allo studio avevano un’esperienza clinica nel trattamento dei pazienti con disturbo dell’alimentazione. Durante lo studio sono stati condotti incontri di supervisione settimanale condotti da Christopher Fairburn e Zafra Cooper. Tutte le sedute del trattamento sono state registrate e ogni settimana alcune sedute a caso sono state scelte e ascoltate dai due supervisori. La qualità della conduzione dei due trattamenti è stata anche valutata da un valutatore indipendente usando l’adattamento di uno strumento sviluppato per il precedente trial che aveva confrontato la CBT-E con l’IPT.

65 partecipanti sono stati assegnati random alle due condizioni di trattamento. Di questi 130, 53 (40,8%) avevano una diagnosi di bulimia nervosa, 8 di disturbo da binge-eating (6,2%) e 69 (53,1%) di disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato.
I punteggi riguardanti le aspettative, l’idoneità e la fedeltà al trattamento sono stati elevati, non diversi tra i due trattamenti e oltre i due terzi delle sedute sono state valutate come eccellenti.
29 partecipanti (22,3%) non hanno completato le 20 sedute di trattamento (bulimia nervosa 32,1%, disturbo da binge-eating  0% e disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato 17,4%).

Alla fine del trattamento, i livelli di psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione e generale sono diminuiti significativamente in entrambi i bracci, ma i cambiamenti sono stati significativamente maggiori nei partecipanti allocati alla CBT-E. La percentuale di partecipanti trattati con la CBT-E che ha raggiunto la remissione, ovvero un punteggio all’EDE globale inferiore a 1,74 (corrispondente al punteggio medio della comunità più una deviazione standard), alla valutazione intent to treat è stata quasi due volte superiore a quella dei partecipanti trattati con l’IPT.  Quasi la metà dei partecipanti trattati con la CBT-E (44,8%, 26/58) non riportava episodi bulimici, vomito autoindotto o uso improprio di lassativi alla fine del trattamento, rispetto a solo il 21,7% (13/60) dei partecipanti trattati con l’IPT.

I cambiamenti osservati sono stati maggiori tra i partecipanti che hanno concluso il trattamento e il tasso di remissione è stato raggiunto in circa 3/4 di partecipanti trattati con la CBT-E rispetto a solo poco più di un terzo in quelli trattati con l’IPT. Al follow-up di 60 settimane il tasso di remissione è rimasto significativamente superiore nei partecipanti trattati con la CBT-E rispetto a quelli trattati con l’IPT (CBT- E 69.4%, IPT 49.0%; p=0.028).
Per quanto riguarda il secondo obiettivo dello studio, il tasso di remissione ottenuto dai partecipanti trattati con la CBT-E è stato simile a quello dello studio del 2009 (6) (67% e 66% alla fine del trattamento e 69% e 63%, rispettivamente).

Commenti

I dati dello studio indicano che la CBT-E è un trattamento potente per i pazienti ambulatoriali non marcatamente sottopeso affetti da disturbi dell’alimentazione e che l’IPT rimane un’alternativa alla CBT-E, ma la sua risposta è meno pronunciata e più lenta. La capacità della CBT di operare rapidamente non è sorprendente, perché è stata ideata per affrontare direttamente la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, mentre l’IPT probabilmente agisce indirettamente sui processi interpersonali nel determinare il cambiamento.

Lo studio è metodologicamente ineccepibile e per questo presenta tre punti di forza. Il primo è che ha reclutato un campione clinicamente rilevante con pochi criteri di esclusione. Il secondo è che il campione trattato è transdiagnostico. Il terzo è che sono state prese tutte le cautele per fare in modo che i due trattamenti fossero ben eseguiti in accordo ai loro protocolli all’interno di un setting ambulatoriale.

Lo studio presenta alcuni limiti. Il primo è che si tratta di uno studio condotto su soggetti adulti con disturbo dell’alimentazione e per questo i suoi risultati non sono generalizzabili a pazienti più giovani. Il secondo è che è stato valutato un campione con IMC compreso tra 17,5 e 40,0 e quindi non si possono generalizzare risultati a soggetti con un IMC diverso da questo. Per ultimo non sono stati riportati risultati sui mediatori o i moderatori della risposta ai due trattamenti. C’è, comunque, da parte del gruppo di Oxford l’intenzione di esaminare la presenza di moderatori di risposta alla CBT-E e all’IPT e di verificare specifiche ipotesi mediazionali rispetto a come operano i due trattamenti.

In conclusione, i risultati dello studio, oltre a dimostrare la maggiore efficacia della CBT-E rispetto all’IPT nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione non marcatamente sottopeso, sottolineano il valore della ricerca in campioni transdiagnostici di partecipanti, come sostenuto dall’iniziativa RDoC (7-8), perché  risultati come quelli ottenuti da questo studio difficilmente possono emergere da ricerche che includono partecipanti con una singola categoria diagnostica.

 

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La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione: Milano, 7 maggio 2015 – Report dall’evento

 

La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione

Università degli Studi di Milano-Bicocca,7 Maggio 2015

con J. Treasure e con G. Lo Coco, C. Mazzeschi, S. Sassaroli

Pochi giorni fa si è tenuto a Milano, presso l’Università degli Studi Bicocca, un evento di grande interesse scientifico per illustrare lo stato dell’arte sulla ricerca nei Disturbi del Comportamento Alimentare.

Particolare rilievo è stato dato agli interventi con familiari e pazienti affetti da tali disturbi. Nel corso della giornata sono intervenuti alcuni dei più grandi esperti in materia di Disturbi del Comportamento Alimentare.

Sandra Sassaroli, direttrice della Scuola di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi, è intervenuta mostrando quali siano le componenti cognitive che caratterizzano chi è affetto da Disturbi Alimentari (DA).

Le variabili principalmente coinvolte nella psicopatologie dei DA sono l’elevato perfezionismo, sotto-componente ‘timore di sbagliare’, e la ridotta autostima, intesa come ‘inadeguatezza’ riferita agli aspetti corporali. Questi pazienti utilizzano il rimuginio e la ruminazione come strategie di gestione delle emozioni problematiche: ansia, tristezza, rabbia.  Sul rimuginio i pazienti possiedono credenze positive e negative, che incidono sulla psicopatologia del DA.

A svolgere un ruolo determinante sembra essere l’incontrollabilità del pensiero e della vita, elemento meta-cognitivo cruciale per il mantenimento del disturbo. Infatti, il monitoraggio del peso, della forma corporea, dell’alimentazione serve per gestire l’incontrollabilità della vita, dal quale deriva una percezione di pseudo-controllo. Un ricerca condotta dal gruppo di Studi Cognitivi ha esaminato il ruolo del perfezionismo nello sviluppo dei DA, mediante modello statistico con criticismo e perfezionismo come predittori ed il DA come variabile dipendente.  È stato, così, dimostrato che il perfezionismo gioca un ruolo di mediatore tra il criticismo ed il disturbo alimentare. Altri fattori predittivi includono la rigidità del pensiero, la bassa autostima, lo stress e la disregolazione emotiva.

La parola è data poi a Janet Treasure, la quale parla del ruolo dei familiari dei pazienti con DA nel suo intervento intitolato Eating is a Family Affair.

Il ruolo dei familiari nei Disturbi del Comportamento Alimentare è fondamentale, tuttavia il modo in cui i familiari cercano di ridurre i sintomi potrebbe inavvertitamente giocare un ruolo nel mantenimento o nella legittimazione del problema (Treasure et al., 2008). Le famiglie hanno quindi bisogno di incrementare le proprie abilità così da poter modificare le proprie credenze.

L’individuo che è affetto da un disturbo alimentare presenta una compromissione di alcune funzioni quali la cognizione sociale, la regolazione emozionale, il processo decisionale, la flessibilità e la pianificazione manifestando comportamenti patologici associati, in particolare l’isolamento, problemi nella gestione delle emozioni negative, l’intolleranza all’incertezza, una rigidità globale e l’incapacità a scegliere strategie per raggiungere scopi generali.

Ai familiari è richiesto di diventare competenti nel fornire un supporto attraverso l’ascolto, sviluppare livelli di regolazione emozionale con un atteggiamento mentale sereno e compassionevole e di acquisire le abilità necessarie a comprendere gli altri, ad essere flessibili, a prendere decisioni e a pianificare tenendo in mente un progetto di vita e specifici valori.

I familiari sono quindi generalmente il supporto principale per i giovani che soffrono di un Disturbo Alimentare ma spesso corrono il rischio di mettere in atto modelli di comportamento non salutari che potrebbero mantenere ed aggravare i comportamenti alimentari patologici. È spesso necessario per i membri della famiglia cambiare alcuni aspetti dei propri schemi di interazione in risposta ai comportamenti alimentari problematici.

I comportamenti di chi è affetto da DA provocano nei familiari e nelle persone loro vicine, un corteo di reazioni istintive quali: rabbia, frustrazione, pianto, ansia o al contrario disinteresse e negazione del problema.

Queste reazioni sono state ben descritte attraverso delle metafore animali, alcune delle quali di seguito illustrate, che Janet Treasure ha elaborato con il suo team.

Il Canguro: troppa emozione e troppo controllo.

Metafora del Canguro - La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione - Report

Il Rinoceronte: troppo logico e poco caloroso.

Metafora del Rinoceronte - La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione - Report

Lo Struzzo: poca emozione e poco controllo.

Metafora dello struzzo - La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione - Report

È stata discussa, infine, un’applicazione clinica recente sulla famiglia di pazienti ospedalizzati: l’ECHO (Expert Carers Helping Others). Si tratta di un programma di auto-aiuto che fornisce ai genitori un manuale e un Dvd che mostrano loro le modalità di supporto e gestione dei figli con Anoressia Nervosa in corso di dimissione, includendo anche dieci sedute telefoniche di training. Ricerche che hanno confrontato l’efficacia del programma ECHO e quella di un trattamento standard Family Based Treatment (FBT) hanno dimostrato che il programma ECHO ottiene: maggiori benefici rispetto ai sintomi alimentari, all’autonomia e alla qualità di vista generale; recupero del peso corporeo più rapido; aumento progressivo del BMI anche dopo la dimissione; riduzione dello stress genitoriale; aumento dell’espressione dell’emotività in famiglia. Un trattamento combinato (ECHO e FBT), invece, si è dimostrato particolarmente efficace per pazienti più gravi, sia per il recupero del peso corporeo sia per ridurre gli atteggiamenti disfunzionali dei genitori.  Risulta, pertanto essenziale il coinvolgimento precoce della famiglia all’interno del trattamento di pazienti con DA.

Interviene dunque Claudia Mazzeschi, parlando di Obesità in età evolutiva e di come questa non sia una entità diagnostica definita, ma sia piuttosto caratterizzata da una eziologia multifattoriale (fattori organici, socio-ambientali, psicologici e psicosociali). Gli interventi di elezione sui pazienti obesi in età evolutiva sono quelli focalizzati su un approccio di tipo Collaborativo che coinvolge il nucleo familiare. I problemi che riguardano il coinvolgimento dei genitori in terapia sono essenzialmente due:

  • tendono a considerare il disturbo alimentare del figlio di natura esclusivamente biomedica;
  • considerano il disturbo alimentare un problema unicamente del figlio.

La dottoressa Mazzeschi ha presentato una ricerca che ha impiegato l’approccio collaborativo in fase di assessment, usando come strumenti di rilevazione questionari sel-report, colloqui, narrazioni e test proiettivi. Ha così evidenziato le caratteristiche delle famiglie di pazienti obesi: ridotto funzionamento familiare globale, bassa alleanza genitoriale, ruolo predittivo del BMI dei genitori, stile di attaccamento insicuro distanziante.

La parola è passata infine a Gianluca Lo Coco che ha esposto il suo intervento relativo a Stili di personalità e Disturbi Alimentari.

Il dottor Lo Coco ha illustrato recenti classificazioni di personalità in pazienti con DA. Wildes & Marcus (2013) ne distinguono tre tipologie: forme multi-impulsive di Bulimia Nervosa (BN), DA con o senza disregolazione emotiva, DA con Disturbo Ossessivo Compulsivo in comorbilità. Thompson-Brenner identifica tre tipologie di personalità nei DA: ipercontrollato, disregolato, ad alto funzionamento. Lo Coco ha presentato tre ricerche sul tema della personalità nei DA che hanno impiegato strumenti di valutazione differenti. Uno studio condotto mediante il Big Five-Questionnaire ha rilevato alti livelli di estroversione, aggressività, impulsività e ridotti livelli di coscienziosità in pazienti con Binge Eating Desorder (BED). Una ricerca che ha impiegato il Millon Clinical Multiaxial Inventory-III (Millon, 2006) ha rilevato personalità passivo-aggressive e depressive in soggetti con Anoressia Nervosa (AN), BN e BED; personalità dipendente in soggetti con BN e BED; tratti auto-aggressivi e con sottomissione interpersonale in soggetti con BED.  Infine, un’analisi condotta con il Depressive Experiences Questionnaire (Blatt, 1976) ha messo in luce maggiori livelli di depressione in pazienti con AN, BN, BED, OBESI rispetto ad un campione di controllo; depressione come fattore predittivo del BED; auto-criticismo come predittore della qualità di vita, della regolazione emotiva e dell’autostima in pazienti con BED.

 

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Report dal Congresso ICED 2015: International Conference on Eating Disorders – Boston, 23-25 Aprile 2015

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Vitiligine & qualità della vita: efficacia della psicoterapia

Annarita Scarola, Laura Grigis, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le difficoltà psicologiche delle persone affette da vitiligine incidono negativamente sul loro benessere psicologico e sulla qualità della vita, ma possono essere risolte attraverso un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

La vitiligine è una dermatosi comune, ad andamento cronico e progressivo, caratterizzata da chiazze cutanee carenti (ipocromia) o prive (acromia) di pigmento melanico; la melanina è la sostanza che fornisce la normale colorazione della pelle. L’assenza di melanina comporta la presenza di chiazze chiare sulla pelle. Queste chiazze, di solito disposte simmetricamente, possono manifestarsi in qualsiasi parte del corpo, a qualunque età e la loro insorgenza è indipendente dal sesso e dal colore della pelle (Menchini, 2011). La distribuzione corporea delle macchie, anche se soggetta ad estrema variabilità individuale, riguarda principalmente le mani, i piedi e il volto (contorno labbra e contorno occhi), gomiti e ginocchia. Esistono inoltre diverse forme di manifestazione anche per quanto riguarda la velocità di diffusione e espansione delle chiazze.

Statisticamente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la vitiligine colpisce oltre l’1% della popolazione mondiale, senza differenze geografiche, razziali o di sesso. La fascia d’età maggiormente colpita comprende soggetti tra i 20-40 anni e in circa il 13-15% dei casi ha andamento familiare (Ortonne, Mosher, & Fitzpatrick, 1983).

Le cause dell’insorgenza della vitiligine non sono ancora certe, sebbene nel corso degli anni siano state formulate diverse ipotesi (Boissy RE, 2012): la teoria patogenetica convergente è ad oggi quella che raccoglie più consensi e ipotizza la compartecipazione di diversi meccanismi (neurali, biochimici e autoimmuni) che, in presenza di predisposizione genetica e unitamente ad altri fattori ambientali (tra cui condizioni di stress e traumi psicologici), sarebbero responsabili dell’insorgenza di un danno a carico dei melanociti (Ram M, 2007). Tale danno attiverebbe una risposta del sistema immunitario diretta nei confronti di antigeni melanocitari responsabile del perpetuarsi del danno a carico dei melanociti (Nordlund J, 2011).
E’ difficile considerare la vitiligine una vera e propria malattia, perché non ha sintomi fisici dolorosi e l’unico indicatore della presenza della patologia è l’aspetto della pelle.

In realtà però questa malattia ha conseguenze psicologiche su chi ne soffre (Lansdown, Rumsey, Bradbury, Carr, & Partridge, 1997; Thompson & Kent, 2001), perché spesso comporta lo sviluppo di ansia sociale legata al giudizio delle persone: gli occhi di chi guarda esprimono la sorpresa, il disgusto e quasi la paura di trovarsi di fronte ad una persona “con la pelle a macchie” (Ramsey & O’Reagan, 1988). Sono stati inoltre individuati elevati punteggi di ansia di tratto nelle persone affette da vitiligine (Seongmin,Miri, Chang, Seung-Kyung, Sang Ho, 2013) : questo studio ha evidenziato anche che, al contrario di quanto si possa immaginare, l’ansia non è maggiore nei pazienti con depigmentazione in zone esposte come viso e collo.

Un peggioramento della qualità della vita, causato dalla vitiligine, è correlato anche ad una maggiore incidenza della depressione (Lucybeth, Jyoti, Dipesh, 2015).
L’ansia sociale spesso porta chi soffre di vitiligine a isolarsi e ad evitare situazioni sociali in cui può sentirsi giudicato (Salzer & Schallreuter, 1995); in alternativa si ricorre al trucco e all’uso di creme coloranti che garantiscono per un breve periodo la normale colorazione dell’epidermide; altre persone invece iniziano un lungo percorso di ricerca di cure, tentativi di terapie e consultazione di esperti che ha però un inevitabile esito negativo, non esistendo ad oggi una cura efficace per questa malattia.

Gli aspetti psicologici possono anche modificare il decorso della malattia: ad esempio depressione e ansia possono ridurre la compliance ad un eventuale trattamento dermatologico (DiMatteo, Lepper, Croghan, 2000).

Sono state fatte numerose ricerche sul rapporto tra qualità della vita, benessere psicologico e vitiligine. Una ricerca condotta negli Stati Uniti da Thompson, Kent e Smith (2002) evidenzia una migliore qualità della vita per i pazienti che, invece di nascondere il problema o ricorrere all’evitamento delle situazioni sociali, intervengono sulla propria vita impegnandosi nell’accettazione della loro condizione. Questa risulta essere una strategia più faticosa ma più duratura ed efficace, soprattutto se accompagnata dal sostegno sociale e familiare.

Le strategie cognitive disfunzionali più utilizzate da queste persone sono:
– evitamento e dissimulazone;
– ipervigilanza rispetto al pensiero e al comportamento degli altri e pregiudizi interpretativi (Rapee & Heimberg, 1997);
– fare confronti “al ribasso”: confrontarsi con chi ha malattie peggiori della propria.

Mentre quelle positive e funzionali, acquisite grazie ad un adeguato sostegno psicologico sono:
– acquisizione di locus of control esterno: “Non sono io ad avere un problema ma sono gli altri che non comprendono”;
– cercare incoraggiamento e rassicurazione da parte degli altri.

Il sostegno sociale infatti risulta essere un’importantissima risorsa per questi pazienti (Carver e Scheier, 1981).
L’utilità di un intervento psicoterapeutico per i pazienti affetti da vitiligine è stato dimostrato dallo studio di Papadopoulos, Bor e Legg (1999): i partecipanti che hanno ricevuto un’ora di trattamento CBT (cognitive-behavioral therapy) per otto settimane, associato ad alcune tecniche comportamentali per aumentare le competenze sociali, hanno ottenuto miglioramenti della qualità della vita, della percezione del proprio corpo e dell’autostima.
Le difficoltà psicologiche delle persone affette da vitiligine incidono negativamente sul loro benessere psicologico e sulla qualità della vita, ma possono essere risolte attraverso un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

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I ricordi di colpevolezza possono essere volontariamente soppressi

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

Capita a tutti di passare momenti in cui continuiamo a ripensare di aver ferito qualcuno o di esserci comportati in modo inadeguato; le memorie di questi episodi possono indurre sentimenti di colpa e vergogna. E’ possibile sopprimere questo tipo di ricordi, ma quali sono le conseguenze di questo processo di soppressione?

Una nuova ricerca dimostra che le persone in grado di inibire con successo alcuni ricordi incriminanti, riducono l’impatto dei ricordi sui comportamenti automatici con conseguente attività cerebrale simile a quella osservata nei partecipanti “innocenti”.

[blockquote style=”1″]Utilizzando la simulazione di un reato, abbiamo esaminato se le persone possono sopprimere i ricordi colpevoli ed evitarne il rilevamento[/blockquote] spiega il ricercatore Xiaoqing Hu dell’Università del Texas a Austin.[blockquote style=”1″] Il nostro studio indica che la soppressione può essere efficace in un certo modo, ci aiuta a limitare l’influenza di ricordi indesiderati sul nostro comportamento.[/blockquote]

I ricercatori hanno reclutato 78 studenti universitari e li hanno assegnati in modo casuale a uno di tre gruppi. Due dei gruppi, i cosiddetti gruppi “colpevoli”, sono stati incaricati di trovare e rubare un determinato oggetto dalla cassetta postale di un membro della facoltà. L’oggetto era un anello, ma la parola “anello” non è mai stata menzionata nelle istruzioni. Questo per garantire che i ricordi legati all’anello risultassero dal ricordo del crimine reale commesso e non delle istruzioni date. A un terzo gruppo, il gruppo “innocente”, è stato detto di andare nella stessa area e semplicemente scrivere le loro iniziali su un pezzo di cartoncino.

Ad un gruppo di studenti colpevoli è stato detto che non avrebbero dovuto permettere alla propria mente di ripescare nessuna informazione riguardo al furto durante il test delle informazioni nascoste (concealed-informaton test, CIT) cioè, essi sono stati incaricati di reprimere la memoria. Agli altri studenti colpevoli e agli studenti innocenti non sono state date istruzioni di soppressione.

I tre gruppi hanno poi completato un CIT, un test che può essere utilizzato per valutare se un individuo ha conoscenze specifiche suggerendo coinvolgimento in un crimine. In ogni prova, ai partecipanti sono stati presentati sia elementi inerenti all’evento accaduto (ad esempio, la parola “anello”) sia uno di sei elementi senza collegamento al reato (ad esempio, “braccialetto”, “collana”, “orologio”, “gemello”, “medaglione”, “portafoglio”), mentre la loro attività cerebrale è stata registrata usando l’elettroencefalografia. I ricercatori sono stati specificamente interessati a guardare il P300, un’onda ERP che indica il ricordo cosciente.

Gli studenti hanno inoltre completato un test di Associazione Implicita Autobiografica (Autobiographical Implicit Association Test, AIAT), in cui dovevano indicare se le dichiarazioni specifiche fossero vere o false. I tempi di risposta sull’AIAT sono pensati in modo da riflettere la forza di una particolare associazione, più é veloce la risposta, più è forte l’associazione, a prescindere da pensieri e sentimenti esplicitamente dichiarati dalla persona.
Come previsto, i ricercatori hanno trovato che i partecipanti colpevoli hanno mostrato risposte P300 significativamente più ampie al bersaglio che agli stimoli irrilevanti, ma solo se non erano state date istruzioni per sopprimere i ricordi del crimine.

Coloro che avevano “soppresso” i ricordi connessi alla criminalità non hanno mostrato alcuna differenza di attività P300 tra i due tipi di stimoli, con dati che erano indistinguibili da quelli dei partecipanti innocenti. Inoltre, i partecipanti a memoria repressa sono risultati anche in minori probabilità colpevoli nell’ associare i ricordi connessi alla criminalità con la verità sull’AIAT.

I risultati suggeriscono che la soppressione della memoria smorza l’attività neurale associata con il recupero dei ricordi e limita anche l’influenza di questi ricordi sulle risposte comportamentali automatiche. I ricercatori stanno progettando di esplorare ulteriormente questo effetto di soppressione della memoria e indagare se potrebbe essere applicato ad altri tipi di memorie personalmente significative.

Anche se i ricordi traumatici possono sembrare un bersaglio ovvio per la soppressione, i ricercatori sottolineano che questi ricordi derivano da eventi emozionali che coinvolgono una forte eccitazione fisiologica e non è chiaro se la soppressione sarebbe efficace nel ridurne l’impatto.

 

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Favorire l’attaccamento sicuro nei bambini: il “Circle of Security”

Dal 18 al 21 Giugno si terrà a Roma il II Training ufficiale del “Circle of Security” (COS, “Cerchio della sicurezza”; Marvin et al., 2002), frutto della collaborazione tra l’Associazione Terapia e Ricerca Età Evolutiva e Adulti – ASTREA e il Circle of Security International.

Il COS è un particolare programma di intervento di parenting basato sulle evidenze scientifiche fornite dalla Teoria dell’Attaccamento. Questo programma di intervento, rivolto a gruppi di genitori, risulta particolarmente indicato per la fascia d’età che copre la prima infanzia – da 0 a 5 anni – ed è stato ideato in modo tale da disporre di due diverse tipologie di intervento: una versione “psicoeducazionale”, in cui sono previsti 10 incontri, e una versione “psicoterapeutica” in cui sono previsti 20 incontri.

Ognuna delle versioni ha un programma strutturato secondo due distinti momenti: l’assessment e l’intervento vero e proprio (Manaresi, 2012; Zeanah et al., 2013). Nella parte iniziale del protocollo è presente una valutazione dei genitori, del bambino e della loro relazione; tale valutazione mira a classificare la tipologia di attaccamento del bambino (Cooper et al., 2005) oltre che a raccogliere informazioni anamnestiche e di tipo diagnostico. Nel programma di valutazione è inserita anche un’intervista semi-strutturata in cui sono stati inseriti elementi tratti dalla Adult Attachment Interview (AAI) (George, Kaplan e Main, 1996) con l’obiettivo di indagare il rapporto che i genitori hanno instaurato con il proprio bambino e l’emotività esperita quando gli stessi si ritrovano in situazioni che attivano il legame di attaccamento. Un aspetto importante di questo approccio, infatti, è l’idea secondo cui i principi basilari della teoria dell’attaccamento, attraverso tecniche di video-feedback, possono essere appresi con facilità e, dunque, “fare da guida” ai genitori nelle interazioni con i propri bambini.

Il protocollo del Circle of Security

Visto il ruolo significativo che i modelli specifici di attaccamento hanno nello sviluppo dei bambini, i ricercatori che si sono occupati di sviluppare il programma di intervento del COS hanno ritenuto necessario l’utilizzo di protocolli basati sulla tipologia di attaccamento rilevata nel bambino (Hoffman et al., 2006) al fine di creare un intervento specifico ed individuale per il soggetto destinatario. In altre parole, attraverso la classificazione dell’attaccamento del bambino (i.e., sicuro, insicuro e disorganizzato) è possibile comprendere ciò che quel bambino ha imparato sull’essere in relazione con il proprio caregiver e, dunque, discernere quali siano le eventuali problematiche su cui focalizzarsi nell’intervento.

Nello specifico, il programma di intervento del COS prevede all’interno del suo protocollo una suddivisione in 8 moduli, ciascuno con i propri obiettivi specifici. Lo svolgimento del protocollo, a seconda della varie fasi e dei vari moduli che devono essere affrontati, può variare in termini di tempo (l’esigenza è quella di trovare un equilibrio tra la necessità di fornire i contenuti del programma e il rispetto dei tempi di apprendimento dei partecipanti al fine di generare una risposta significativa e riflessiva ai contenuti stessi) (Zeanah et al., 2013; Manaresi, 2012).

Nel programma del COS, dunque, è previsto un lavoro prima teorico e poi “pratico” attraverso esercitazioni con supporti video sull’acquisizione di consapevolezza dei processi di regolazione e strutturazione delle dinamiche relazionali (Zeanah et al., 2013).

Quando i genitori hanno appreso e “familiarizzato” con i diversi aspetti teorici presentati vengono a loro proposti video che riproducono momenti di interazione tra genitori e figli e, utilizzando la tecnica dei video-feedback, i genitori sono invitati a descrivere gli avvenimenti del filmati utilizzando, però, gli strumenti di interpretazione forniti dal COS stesso. Vengono dunque invitati a riconoscere l’espressione del legame di attaccamento, il bisogno di esplorazione del bambino e, inoltre, invitati a descrivere e individuare i diversi comportamenti messi in atto dai genitori nel video in base alle nozioni fornite dal programma (ad esempio, le “mani” o la “base sicura”) e cercare di individuare le tecniche più “efficaci” di coping.

Nel programma vengono utilizzati anche video che riguardano la Strange Situation Procedure (SSP; Ainsworth et al., 1978) che sono stati precedentemente registrati durante la fase di valutazione dei partecipanti e che, quindi, li riguardano direttamente (Zeanah et al., 2013); così facendo, si presuppone che i genitori siano portati a operare una rivalutazione sullo stato emotivo e sui modelli operativi interni (MOI; Bowlby, 1969) che vengono rievocati dalle richieste del bambino, anche tramite una riflessione sulla propria storia di attaccamento infantile (Manaresi, 2012).

L’utilizzo dei supporti video prevede, inoltre, dei segmenti estratti dal materiale della valutazione selezionati per ogni diade madre/bambino (o caregiver), utilizzati in momenti diversi del programma con scopi diversi: in una prima parte del lavoro ci si pone l’obiettivo di individuare le risorse disponibili nella diade mentre, in un secondo momento, ci si concentra sui problemi riscontrati e sugli aspetti non funzionali dell’interazione. In una terza parte del lavoro, invece, si punta al rinforzo diretto delle capacità che sono emerse durante il lavoro stesso (Zeanah et al., 2013).

Esistono contesti in cui si avverte la necessità di fornire un forte sostegno alle madri nelle esigenze specifiche relative alla cura di se stesse e dei loro bambini. Il COS rappresenta un breve percorso, comportamentale e orientato all’insight, adatto a supportare la genitorialità utilizzando le conoscenza derivate dalla Teoria dell’Attaccamento.

Tale protocollo è radicato nella ricerca empirica sulla psicopatologia dello sviluppo e pone un focus continuo sulla stimolazione della sensibilità genitoriale, sul sostegno alla famiglia e sul cambiamento delle rappresentazioni mentali al fine di promuovere la sicurezza dell’attaccamento nel bambino.

La forza di tale metodo, probabilmente, risulta essere l’utilizzo di interventi e tecniche psicoeducative, cognitivo-comportamentali e psicodinamiche con la stessa finalità. Negli ultimi anni l’interesse verso questo protocollo è cresciuto e, attualmente, sono in corso alcuni studi clinici controllati randomizzati (uno su tutti, quello in corso al Department of Child and Adolescent Psychiatry, Psychotherapy, and Psychosomatics at the University Medical Center of Hamburg condotto da Ramsauer e collaboratori, 2014) che “testeranno” tale intervento anche in ambienti clinici con genitori affetti da differenti disturbi psichici (e.g., depressione post partum).

 

 

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Dott. Walter Sapuppo

Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, AAI Certified Coder. Docente presso le scuole di psicoterapia Cognitivo – Comportamentale “Studi Cognitivi” e “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”. Già Professore a Contratto presso il CDL in “Psicologia Clinica” e Docente al Master di II Livello in “Psicodiagnostica clinica dell’individuo e delle istituzioni” presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Socio Ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR). È autore di pubblicazioni scientifiche su Disturbi Alimentari, Cicli Cognitivo-Interpersonali, “process” terapeutico e psicopatologia correlata ai traumi.

Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia

Smetto quando voglio è un film del 2014 diretto da Sydney Sibilia. Il film oltre ad intercettare una condizione sociale diffusa, il precariato d’eccellenza, mostra molte sfaccettature del mondo della tossicodipendenza.

Pietro Zinni è un ricercatore universitario di 37 anni che viene licenziato dopo i tagli all’Università. Tornato a casa, non ha il coraggio di dire la verità a Giulia, la compagna con cui convive e che (paradossalmente) lavora in una comunità per tossicodipendenti. In compenso, però, ha un’idea: utilizzare un algoritmo per creare una nuova droga, tra quelle non ancora messe al bando dal ministero. La cosa in sé è legale, lo spaccio e il lucro che ne derivano no. Ma fa lo stesso, i tempi sono questi. Pietro recluta così tutti i suoi amici accademici finiti in rovina: due latinisti che lavorano come benzinai, un neurobiologo impegnato come lavapiatti in un ristorante cinese, un economista che sfrutta le sue conoscenze per giocare a poker, un antropologo che cerca di farsi assumere come sfasciacarrozze, un archeologo che assiste gli operai per gli scavi nei centri storici. Queste menti geniali vengono riunite e viene messa su una banda.

Smetto quando voglio, è la tipica espressione che chi lavora con i pazienti tossicodipendenti sente pronunciare e che sottolinea la difficoltà di questi utenti a riconoscere l’uso compulsivo della sostanza stupefacente e i comportamenti a esso associati (ad esempio lo spaccio) come problematici.

Questa banda decide di prendersi una rivincita sul sistema operando per vie non proprio legali. Lo scopo è fare i soldi e vedersi restituita un briciolo di dignità. Le cose poi prendono un’altra piega! Il loro piano è di sintetizzare una nuova droga ancora non catalogata dal Ministero della Salute.

 

È quello che succede oggi con le cosiddette droghe sintetiche. Queste droghe di ultima generazione sono droghe furbe: non perseguibili dalla legge in quanto non presenti come tali nelle tabelle legislative delle corrispondenti leggi che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope. In natura esistono moltissime molecole, di cui spesso gli studiosi della materia sanno poco o nulla, lasciando a chi le commercia un buon margine di tempo prima che vengano effettuate ricerche mediche che ne studiano gli effetti e che possano farle dichiarare illegali.

Gli smart shops propongono lo sballo con prodotti naturali rispetto alle droghe più comunemente utilizzate per tirarsi su. L’effetto stimolante-eccitante che producono è però grave: l’assunzione di queste sostanze, capaci di provocare elevata dipendenza psicofisica, può provocare problematiche psichiatriche di vario tipo correlate a diversi disturbi d’organo (soprattutto renali, cardiaci e respiratori) generalmente aggravati dal contestuale uso di alcolici.

Ma se il piano di Pietro e i suoi complici all’inizio doveva essere un modo per guadagnarci qualcosa, poi le pasticche prodotte avventurosamente hanno un immediato successo nei locali notturni romani. L’idea è più che brillante ed in men che non si dica il giro d’affari diventa enorme, fino ad arrivare all’alta società romana, fatta di conti e numeri telefonici esteri. Le loro vite private mutano così come il loro standard di vita, finché non si imbattono nel malavitoso di turno. Abbagliata dai soldi facili, la banda dei sette punta più in alto, avvicinandosi pericolosamente al giro della corruzione politica e dello spaccio della droga.

Così, se all’inizio si ha la percezione di poter gestire la sostanza, più tardi si è disposti a tutto.

Messi alle strette da un mafioso di quartiere, per procurarsi le sostanze di base rapinano una farmacia, ma vengono arrestati. Pietro si assume tutte le colpe e finisce in carcere, i suoi compagni ritornano alla loro condizione di sottoccupati accettando i lavori più umilianti.

Una commedia italiana che tra battute e scene stravaganti infonde una comicità amara: tutte storie vere che, per quanto paradossali, superano la fantasia.

 

 

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CASO CLINICO: FUNZIONI ED ABILITA’ DI BASE IN UNA PRESUNTA ENCEFALOPATIA MITOCONDRIALE

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior 

Caso clinico: funzioni e abilità di base in una presunta encefalopatia mitocondriale

Autore: Fabiana Giordano

Abstract

Le malattie mitocondriali, note come encefalomiopatie mitocondriali, sono un ampio gruppo di patologie associate a difetti del metabolismo energetico mitocondriale, attribuibili, in particolare, a difetti nella fosforilazione ossidativa (Zeviani e Di Donato, 2004). Tali disordini dipendono da mutazioni che possono intervenire nel genoma mitocondriale e/o in quello nucleare (DiMauro e Shon, 2003). Le malattie mitocondriali presentano notevole variabilità clinica per quanto riguarda l’età d’insorgenza, il tipo di evoluzione e i tessuti coinvolti. Una peculiarità di questo gruppo di patologie, che ne ha reso difficoltoso lo studio nel corso degli anni, è la variabilità delle manifestazioni cliniche; nonostante queste dipendano da un’inadeguata produzione di energia cellulare, la ripercussione a carico degli organi, la velocità di progressione e l’età di insorgenza della malattia variano notevolmente sia da malattia a malattia che da paziente a paziente, anche all’interno di una stessa famiglia. I sistemi più frequentemente interessati sono l’apparato muscolare ed il sistema nervoso centrale e periferico, ma possono essere coinvolti, con variabile gravità di interessamento ed in diverse combinazioni, anche le vie visive ed uditive, il cuore, le ghiandole endocrine. L’obiettivo del presente studio è stato osservare e descrivere le abilità cognitive e le funzioni di base caratterizzanti un quadro di sospetto encefalopatia mitocondriale infantile in un paziente di 3 anni.

Parole chiave: malattie mitocondriali, caso clinico. osservazione, funzioni cognitive, SVFB

Introduzione

In quasi tutte le cellule del corpo ci sono delle piccole centrali dette mitocondri. La teoria vuole che 1,5 miliardi di anni fa, i mitocondri fossero cellule indipendenti, probabilmente dei batteri, e che siano stati inglobati in cellule di organismi superiori che necessitavano di una fonte rapida di energia. Quello che i mitocondri fanno per la cellula è una “rapida produzione di energia”, ATP. I mitocondri sono fra gli organuli più cospicui del citoplasma e sono presenti in quasi tutte le cellule eucariotiche. Essi hanno una struttura particolare, osservabile al microscopio elettronico: ciascun mitocondrio si presenta come un corpuscolo dalla caratteristica forma a fagiolo. I mitocondri sono formati da due membrane concentriche: una esterna, liscia, e una interna, ripiegata a formare varie creste. (DiMauro e Schon, 2003). La membrana interna ospita gli enzimi della catena respiratoria mitocondriale e garantisce una barriera per la diffusione ionica, un fattore cruciale per generare il gradiente protonico necessario a produrre ATP; la membrana esterna permette la diffusione passiva tra citosol e spazio intermembrana di sostanze a basso peso molecolare. I mitocondri svolgono numerose funzioni, come l’ossidazione del piruvato, il ciclo di Krebs, il metabolismo degli aminoacidi, degli acidi grassi, degli steroidi, ma la più importante rimane la generazione di energia sotto forma di ATP (adenosine triphosphate) mediante la fosforilazione ossidativa. La fosforilazione ossidativa è il processo biochimico ad alta efficienza tramite il quale viene prodotto ATP, grazie all’energia progressivamente liberata dagli elettroni lungo la “catena di trasporto degli elettroni”. Questo processo di produzione di ATP è essenziale per il normale funzionamento di tutte le cellule eucariotiche, anche se i mitocondri sono particolarmente numerosi nelle cellule ad elevata richiesta metabolica, come i neuroni e i muscoli scheletrici. Tuttavia, i mitocondri, sono anche coinvolti in molti altri differenti processi, quali le vie di trasduzione del segnale, la differenziazione cellulare, l’apoptosi, il controllo del ciclo cellulare e la crescita delle cellule (DiMauro e Schon, 2003). I mitocondri sono gli unici organelli a possedere un proprio genoma, noto come DNA mitocondriale (mtDNA), ed un proprio macchinario per la sintesi dell’RNA e delle proteine (DiMauro e Schon, 2003). Il DNA mitocondriale umano è una piccola molecola circolare a doppio filamento contenente 37 geni; di questi, 24 sono necessari per la trascrizione del mtDNA (2 RNA ribosomiali e 22 RNA transfer), e 13 codificano le subunità della catena respiratoria. Esso viene ereditato, all’atto della fecondazione, dalla cellula uovo che pertanto partecipa, a differenza dello spermatozoo, alla costituzione del patrimonio mitocondriale dello zigote. Proprio per questo motivo molte delle malattie mitocondriali sono ereditate per via matrilineare. I precursori del genoma mitocondriale sono formati e regolati da una rete di enzimi anabolici e catabolici localizzati sia all’interno dei mitocondri che nel citosol. Un malfunzionamento degli enzimi coinvolti nella sintesi del mtDNA o eventuali sbilanciamenti nei pool nucleotidici, necessari alla sintesi, possono indurre un malfunzionamento nella replicazione e nel mantenimento del DNA e provocare, quindi, delle gravi malattie genetiche (Leanza et al., 2008; Pontarin et al., 2003; DiMauro e Schon, 2008).
Le malattie mitocondriali sono un ampio gruppo di patologie associate a difetti del metabolismo energetico mitocondriale, riconducibili in particolare ad anomalie nella fosforilazione ossidativa OXPHOS (Oxidative phosphorylation) (Zeviani e Di Donato, 2004). Poiché gli organi maggiormente affetti sono il cervello e i muscoli scheletrici, le patologie sono spesso conosciute come encefalomiopatie mitocondriali (DiMauro e Schon, 2003). Tuttavia, tutti i tessuti ad elevata richiesta energetica quali, oltre a cervello e muscolo, cuore, pancreas endocrino, rene, fegato ed epiteli neurosensoriali risultano particolarmente colpiti. Le malattie mitocondriali sono più diffuse di quanto comunemente ritenuto, colpiscono circa 10-15 persone ogni 100.000, al pari delle più note malattie neurologiche: sclerosi laterale amiotrofica e distrofie muscolari (Di Mauro e Schon, 2003). Oltre a ciò, si possono presentare a qualsiasi età: precocemente, in giovane età, nei bambini o in età adulta (Di Mauro e Schon, 2003). A volte, le malattie mitocondriali, sono così gravi da risultare incompatibili con la vita, in altri casi danno solo disturbi lievi o impercettibili. Anche se è noto fino dal 1963 che i mitocondri hanno geni propri racchiusi in molecole circolari presenti in molte copie in ogni mitocondrio, solo alla fine degli anni ottanta sono giunte le prime dimostrazioni di un collegamento tra alcune neuro e miopatie ereditarie e un’alterazione di questo particolare DNA. Queste scoperte sono principalmente opera di Douglas Wallace, direttore del Centro di medicina molecolare della Emory University di Atlanta, e di Salvatore Di Mauro, direttore del Dipartimento di malattie neuromuscolari della Columbia University di New York. Molte malattie mitocondriali sono così nuove che esse non sono ancora state inserite nei libri di testo medici o, in alcuni casi, nella letteratura medica. Conseguentemente, in alcuni casi risulta difficile giungere ad una diagnosi definitiva. Perfino medici che lavorano in centri altamente specializzati che vedono dozzine di casi di malattia
mitocondriale ogni anno sono colpiti dalla grande diversità di segni e sintomi di queste malattie. Le manifestazioni cliniche delle malattie mitocondriali sono estremamente eterogenee, in quanto possono coinvolgere tessuti, singole strutture (come nella Neuropatia ottica ereditaria di Leber, LHON, la prima malattia umana che è stata associata ad una mutazione nel DNA mitocondriale), molteplici organi ed apparati (come miopatie, encefalomiopatie e cardiopatie), o causare complesse sindromi multisistemiche (Zeviani e Di Donato, 2004). Per quanto riguarda le principali manifestazioni cliniche delle malattie mitocondriali, bisogna innanzitutto riferirsi a quelle che coinvolgono il Sistema Nervoso Centrale (SNC) che il Sistema Nervoso Periferico (SNP) o possono coinvolgere ad esempio il cervelletto e/o il tronco cerebrale oppure i nuclei della base. In alcuni malattie mitocondriali è preminente il coinvolgimento della sostanza grigia con un arresto dello sviluppo intellettivo, deterioramento mentale e alterazioni comportamentali frequenti, spesso sono precoci le manifestazioni epilettiche e l’atassia. In alcune forme di malattie mitocondriali il decorso è così lentamente progressivo che il quadro clinico di ritardo psicomotorio appare fisso, “statico”, non evolutivo. Nelle forme ad esordio più tardivo, dal 3°-4° anno di vita fino all’adolescenza, inizialmente possono essere coinvolti alcuni sistemi neuronali ad esempio i tratti cortico-spinali, il cervelletto, i nuclei della base, i nervi periferici con sintomatologia correlata: a) paraplegia spastica progressiva; b) emiplegia; c) atassia cerebellare; d) disturbi del movimento; e) epilessia; f) neuropatia progressiva; g) deterioramento cognitivo, modificazioni comportamentali. In alcuni malattie mitocondriali ad esordio tardivo la prima manifestazione che precede altre anche di molti mesi può essere un deterioramento mentale con progressive difficoltà scolastiche, alterazioni della personalità e del comportamento. I due più frequenti pattern di comportamento sono caratterizzati da irritabilità, agitazione, azioni violente, impulsive e irrazionali o al contrario da uno stato di calma e indifferenza. La presenza di un contemporaneo deterioramento cognitivo con riduzione della memoria, errori di sintassi, scarso orientamento temporo-spaziale fino ad arrivare ad uno stato di demenza devono indirizzare ad una attenta valutazione clinica. L’atassia cerebellare può essere la manifestazione principale in alcuni malattie mitocondriali, ma non è mai un fenomeno isolato ed è variabilmente associata ad atassia sensoriale, segni piramidali, polimioclono, epilessia, deterioramento mentale. Le manifestazioni epilettiche possono essere occasionalmente presenti in tutte le encefalopatie solo in alcune malattie mitocondriali rappresentano una frequente o principale e costante manifestazione. I disturbi del movimento, cioè movimenti anormali involontari quali corea, atetosi, distonia, mioclono non epilettico, tremori, tic, ballismo sono manifestazioni frequenti in età pediatrica, solitamente associati ad alterazioni del tono muscolare e della postura (rigidità, ipocinesia, bradicinesia); talvolta diversi tipi di movimento involontario possono coesistere (es. corea ed atetosi). Cause frequentemente ritenute responsabili di disturbi del movimento sono la sofferenza neonatale ipossico-ischemica (paralisi cerebrale extrapiramidale) o le infezioni, ma deve essere anche considerata la possibilità di una eziologia genetica o genetico-metabolica. Le malattie mitocondriali possono infatti determinare disturbi del movimento. Si riscontrano due principali pattern, spesso dissociati: una rigidità parkinsoniana generalizzata con disartria, disfagia, facies amimica, spasmi dolorosi o invece tremori grossolani posturali e intenzionali.

Altri organi e apparati

Nell’ambito del cuore, possono essere colpiti sia il tessuto muscolare cardiaco che il sistema di conduzione, con conseguenti alterazioni del ritmo e cardiomiopatie. In alcuni pazienti le malattie cardiache possono essere il primo segno della malattia mitocondriale. Per quanto riguarda il fegato, in alcuni pazienti con difetti della catena respiratoria si può avere un difetto secondario della gluconeogenesi (formazione di glucosio a partire da altre sostanze diverse dai carboidrati. A livello del rene, spesso si può avere perdita di aminoacidi ed elettroliti nelle urine. Nei casi ad esordio infantile si possono verificare aminoaciduria, acidosi tubulare renale o sindrome di Fanconi. Il pancreas, invece, è coinvolto nelle malattie mitocondriali con forme di diabete spesso riscontrabili tardivamente, specie nella sindrome MELAS. Infine l’apparato visivo e quello uditivo. Riguardo al primo, si possono osservare atrofia ottica e retinite pigmentosa. Certo, non tutti i pazienti con questi quadri hanno necessariamente una malattia mitocondriale, ma questa dev’essere sospettata se è presente una familiarità o il coinvolgimento di altri organi. Riguardo al secondo, va detto che in alcuni pazienti è presente un’ipoacusia che inizia come perdita di udito per le alte frequenze, con progressione fino alla sordità totale. Il processo diagnostico ha inizio con l’anamnesi personale e familiare e con l’esame obiettivo neurologico (DiMauro et al 2004). Le “red flags” che inducono a prendere in considerazione una diagnosi di malattia mitocondriale sono bassa statura, ipoacusia neurosensoriale, ptosi palpebrale, oftalmoplegia, neuropatia assonale, diabete mellito, miopatia, cardiomiopatia ipertrofica, emicrania. Queste manifestazioni devono essere ricercate nel paziente e nei familiari (DiMauro et al 2004). Abbiamo già fatto cenno al controllo genetico duale della catena di trasporto degli elettroni. Un’ereditarietà di tipo materno suggerisce mutazioni del mtDNA, mentre una di tipo mendeliano suggerisce alterazioni delle proteine codificate dal nDNA (DiMauro et al 2004). Attualmente, la diagnosi richiede un complesso approccio: misurazioni ematiche del lattato, elettromiografia, risonanza magnetica spettroscopica (MRS), biopsia muscolare con studi istologici e biochimici, e analisi genetiche . La creatina chinasi (CK) ematica, comune marcatore di patologia muscolare, è quasi sempre normale. Un sintomo comune delle malattie mitocondriali è l’intolleranza all’esercizio con algie muscolari, dovuta alla deficitaria produzione di energia nel muscolo scheletrico. Questo porta ad un’aumentata produzione di lattato, deplezione di fosfocreatina (PCr), aumentata generazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS). Per questi motivi, i test da sforzo rimangono uno strumento particolarmente utile nella diagnostica delle MM (Siciliano et al 2007).

Tecniche di imaging

Soggetti con differenti malattie mitocondriali presentano reperti di risonanza magnetica caratteristici. Ad esempio, nella sindrome di Leigh si osserva bilateralmente una iperintensità di segnale nei nuclei della base e nel tronco encefalico. Nella MELAS sono presenti lesioni simili a ictus, soprattutto nel lobo occipitale. Diffuse anomalie di segnale della sostanza bianca centrale sono caratteristiche della sindrome di Kearns-Sayre (KSS), e calcificazioni dei nuclei della base si ritrovano nella KSS e nella MELAS (DiMauro et al 2004; Bianchi et al 2007). La 1H MRS gioca un ruolo nel dimostrare l’alterazione del metabolismo ossidativo nell’encefalo, mostrando l’accumulo del lattato nel SNC (Bianchi et al2007). Ad oggi non esiste una strategia razionale di trattamento nel campo delle malattie mitocondriali. Supplementi vitaminici, agenti farmacologici, modificazioni dietetiche ed esercizio fisico sono stati usati in casi isolati e in piccoli studi clinici, ma l’efficacia di questi interventi rimane incerta. In particolare sono stati utilizzati agenti antiossidanti (CoQ10, idebenone, vitamina C, vitamina E,
menadione), agenti che agiscono sulla lattico acidosi (dicloroacetato e dimetilglicina), agenti che correggono deficit biochimici secondari (carnitina, creatina), cofattori della catena respiratoria (nicotinamide, tiamina, riboflavina, succinato, CoQ10), ormoni (ormone della crescita e corticosteroidi) (Chinnery et al 2006). La maggior parte delle evidenze a favore dell’uso di specifici trattamenti deriva da singoli case reports. Le opzioni terapeutiche sono state globalmente rivisitate da Chinnery et al (2006). Al momento attuale non sembra esserci una chiara evidenza a favore o contro i trattamenti comunemente utilizzati nelle malattie mitocondriali (Chinnery et al 2006). Sono necessari ulteriori studi al fine di chiarire il ruolo dei diversi approcci terapeutici nel trattamento delle malattie mitocondriali.

Il lavoro riporta il caso clinico di una encefalopatia di ndd

Anamnesi familiare Il paziente è unicogenito. Genitori non consanguinei. Non viene riferità familiarità per patologie NPI. Anamnesi fisiologica e di sviluppo Nato da madre primogravida primipara. Gravidanza normodecorsa. Parto distocito alla 40° settimana con applicazione di ventosa e rischio anossico. A causa di distress respiratorio insorto alla nascita, viene ricoverato in terapia intensiava neonatale (TIN) dove effettua ossigenoterapia, antibioticoterapia rx del torace, ecocerebrale (nella norma).
Anamnesi patologica Episodio di bronchiolite al 29° giorno di vita. Un episodio di convulsione in corso di febbre (T 41°C) all’età di 2.4 anni, a causa di una infezione delle alte vie aeree da streptococco; EEG negativo per anomalie parossistiche specifiche. All’età di 13 mesi esegue una visita fisioterapica poiché non presentava la reazione di paracadute, non stava in ginocchio né seguiva alcun passaggio posturale; una prima RM encefalo, eseguita presso Ospedale Federico II di Napoli, mostra “una tenue e diffusa iperintensità del segnale nel nucleo pallido di sx”. All’età di 16 mesi (giugno 2010) durante un ricovero diagnostico il bambino effettua: esami chimico–metabolici (tutti nella norma), genetici (sospetto sindrome di Prader-willi tutti nella norma), strumentali (EEG nella norma) e valutazione di sviluppo (Brunet-Lezine: EC 16mesi, età di sviluppo emersa 16 mesi). A marzo u.s. ripete all’ Ospedale di Salerno RM encefalo che evidenzia: “ aree di alterato segnale, tenue iperintensità a sx nel braccio posteriore della capsula interna, nel nucleo lenticolare, specie nel pallido, nel nucleo posteriore del talamo, in paratrigonale al corno occipitale. A dx si evidenzia area di alterato segnale al braccio posteriore della capsula interna e bilateralmente alla corteccia ippocampale. Tenue iperintensità in sede mesencefalica intorno all’acquedotto di Silvio. In fossa cranica posteriore iperintensità dei peduncoli cerebellari medi e del lemnisco mediale”. Nel sospetto di deficit di GAMT viene ricoverato presso il Policlinico Umberto
I di Roma, per eseguire l’indagine genetica specifica (negativa). In data 24/07 u.s. esegue RM encefalo con spettroscopia c/o O. Stella Maris, che evidenzia una evoluzione del quadro precedente, caratterizzato da una maggiore alterazione del segnale che coinvolge il globo pallido interno di sx, che appare tumefatto, e dalla comparsa di una alterazione di segnale a carico del globo pallido di dx e in sede sottotentoriale, a livello del nucleo dentato di sx e della sostanza bianca perilare cerebellare e perivermiana bilaterale; alla spettroscopia a livello della sostanza grigia interemisferica, in regione pallidare sx e in sede emisferica cerebellare sx, mostra una riduzione di Naa e la presenza di picchi nella frequenza di risonanza del lattato-lipidi. Nel sospetto di un’encefalopatia mitocondriale, il bimbo viene ricoverato presso il Policlinico Umberto I di Roma (sett. 2012). Nell’esame neurologico, qui effettuato, si legge: Quadro di ritardo psicomotorio. Facies lunare, collo tozzo, mani piccole e sottili. Stereotipie a tipo sfregamento delle mani e della dita, handclapping. Trisma. Pupille isocoriche, isocicliche e normoreagenti alla luce. Fissazione ed inseguimento visivo incostanti; non aggancia lo sguardo. Si gira verso la fonte sonora, non sempre se viene chiamato per nome. Restanti nervi cranici indenni per quanto esplorabili. Ipotonia generalizzata ed iperlassità legamentosa. No deficit di forza e trofismo muscolare. Buon controllo del capo e del tronco; reazione di paracadute LL ad AP presenti. Manitiene stazione eretta e deambula autonomamente con base d’appoggio allargata. Passaggi posturale: della posizione supina a quella seduto e da seduto a quella in piedi con sostegno monolaterale. In posizione prona solleva tronco e capo. Laterizzazione :sx. Non è presente gioco funzionale. Non si evoca sorriso sociale. Vocalizza. Durante il ricovero, nel settembre 2012, effettua: -fondo dell’occhio; -analisi GENE FORL1; -esami ematochimici; -esame urine 24H; -urine 24H; -RX esofago-stomaco-duodeno; -biopsia muscolo-cutanea; -consulenza gastroenterologica; -ecografia addome; -consulenza nefrologica; -ecografia vescicale pre e post-minzionale; Nel ricovero successivo marzo 2013, presso la medesima struttura, effettua: -esami ematochimici: tutti i parametri nella norma eccetto: globuli rossi, HGB, RDW, GB, eosinofili; -esame urine; -dosaggio ematico ammonico e lattato: lattato nella norma -dosaggio purine e pirimidine su raccolta di urine e plasma; -calciuria, fosfaturia, creatinuria, glicosuria, sodiuria, potassiuria, cloruria, microalbuminuria e proteinuria sulle urine 24H; -acidi organici urinari. Il bambino di 3anni e 8 mesi giunge alla mia osservazione alla fine di ottobre ’12. Frequenta il Centro di Riabilitazione Psicosomatica di
Castellammare di Stabia dove esegue psicomotricità (3ore/sett) e fisioterapia (3ore/sett). Mi viene data la possibilità di osservare il bambino durante le ore di psicomotricità eseguite dalla Dott.ssa Loredana Todisco. Le condizioni del paziente, se pur molto complesse, hanno consentito un iter diagnostico quasi completo. Gli elementi clinici, ematochimici, strumentali ed orientano verso una possibile diagnosi di encefalopatia mitocondriale “atipica”. Il caso riportato sembra interessante e meritevole di segnalazione, non solo perché richiama l’attenzione su una patologia rara , ma per la particolare modalità di manifestazione clinica determinata dal maggiore coinvolgimento del SNC.

 

 

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E’ una questione di principio! – Le persone cambiano i loro valori morali per trarne profitto?

Laura Pancrazi

FLASH NEWS

Quando qualcuno afferma “Non lo faccio per i soldi, ma è una questione di principio!” è molto probabile che non faccia qualcosa proprio per una questione economica.

Perseguire il proprio successo economico mettendo i propri interessi finanziari avanti a tutto spesso non è possibile perché bisognerebbe passare sui diritti o interessi degli altri, e questo è moralmente inaccettabile! Quindi, a questo punto cosa succede? Succede che le persone cercano non solo di ottenere il massimo guadagno individuale, ma anche di convincere gli altri di essere, moralmente, nel giusto. O almeno questo è quanto affermano gli autori di uno studio pubblicato su Proceedings of the Royal Society B.

Lo studio, intitolato Equity or equality? Moral judgments follow the money, è stato condotto da Peter DeScioli, professore associato di scienze economiche presso la Brock University e coordinatore associato del Center for Behavioral Political Economy, ed del suo gruppo di ricerca. Lo studio qui presentato sottolinea che per i raggiungere i propri scopi si prode spesso in modo inflessibile ed egoistico, infatti le persone aggiusterebbero le loro proprie scelte morali sulla base dei benefici che potrebbero ottenere. 

Per dimostrarlo, i ricercatori del gruppo di DeScioli hanno condotto una ricerca strutturata in questo modo: i partecipanti lavoravano a coppie per trascrivere un paragrafo in cambio di una ricompensa in forma di denaro. Uno dei due partecipanti (Typist) svolgeva la funzione di dattilografo e trascriveva tre paragrafi.

L’altro partecipante (Checker) si occupava di trascrivere un paragrafo scelto casualmente tra quelli scritti dal collega. Se le due trascrizioni corrispondevano esattamente, allora ricevevano una ricompensa in denaro. Al primo partecipante (Typist) era affidato il compito di decidere in che modo dividere la ricompensa ottenuta, potendolo fare in due modi: la ricompensa poteva essere divisa al 50% tra i due partecipanti, secondo il principio di uguaglianza, oppure proporzionalmente al lavoro svolto, spettando allora il 25% al soggetto che aveva trascritto un paragrafo e il restante 75% all’altro soggetto, secondo il principio di giustizia.

La maggior parte di loro ha scelto di prendersi la fetta più larga della torta, come ipotizzato dagli autori dello studio. Non solo: ai partecipanti era richiesto di valutare la bontà del principio di uguaglianza e quello di giustizia. Ovviamente, anche questa scelta si è dimostrata essere egoisticamente interessata, ovvero volta a difendere e giustificare la propria preferenza. Infatti, i partecipanti nel ruolo di Typist giudicavano più onesto il principio di giustizia; invece i soggetti nel ruolo di Checker preferivano, com’era ipotizzabile, il principio di uguaglianza.

Ma non è tutto: i ricercatori avevano chiesto l’opinione dei partecipanti riguardo la correttezza di ciascuna modalità di ripartizione sia prima che dopo l’assegnazione dei ruoli. A quanto pare, in pochi minuti i partecipanti hanno cambiato i propri valori in favore della regola morale, che gli avrebbe garantito di ricevere una maggiore quantità di denaro. Sembra dunque che molto spesso le nostre scelte si basino su presupposti egoistici e interessati.

DeScioli sottolinea come i risultati di questa ricerca siano potenzialmente estensibili a qualsiasi occasione delle nostre vite in cui ci siano delle risorse economiche da spartire, pensiamo, ad esempio, ad una famiglia che si divide un’eredità, colleghi di lavoro che dividono profitti, politici che decidono in che modo spendere le entrate fiscali o capi di stato che si dividono territori. Ognuno farà le scelte che di fatto gli consentiranno di prendersi la fetta più grossa della torta.

Tuttavia, ci rincuora lo studioso, il nostro egoismo ha un limite: in un esperimento successivo, si era riproposta una situazione simile a quella dello studio precedentemente illustrato dividendo però esattamente a metà il lavoro da svolgere, in modo tale da rimuovere ogni pretesto per una suddivisione non equa del denaro. Dunque, ogni partecipante trascriveva solo un paragrafo e, se le due trascrizioni corrispondevano, guadagnavano una ricompensa. In questo caso tutti i partecipanti hanno scelto di dividere equamente il denaro.

In conclusione, secondo DeScioli, le persone cercano non solo di ottenere il massimo guadagno individuale, ma anche di convincere gli altri di essere, moralmente, nel giusto. Però, certo, a tutto c’è un limite, anche al nostro egoismo.

 

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Il sè vulnerabile nella paranoia

Il termine paranoia si riferisce a una forma di pensiero dominata dalla sfiducia o sospetto intenso, irrazionale ma persistente nei confronti delle persone e da una corrispondente tendenza a interpretare le azioni degli altri come volutamente minacciose o degradanti.

Il protagonista de L’Enfer di Claude Chabrol, convinto dell’intenzione della moglie di ingannarlo, umiliarlo, tradirlo, fino ad ucciderla. Un (mio) paziente, che una sera mi chiamò per informarmi di aver trovato un metodo infallibile – girare per casa con una pentola in testa – per contrastare i piani degli extraterrestri decisi ad ucciderlo mediante una progressiva sottrazione dei ricordi.
Cosa hanno in comune?

A parte mio cugino, che ha risposto hanno il complesso di persecuzione, la maggior parte delle persone a cui l’ho chiesto, pur non essendo psichiatri o psicologi, ha risposto sono paranoici.

Il termine paranoia si riferisce a una forma di pensiero dominata dalla sfiducia o sospetto intenso, irrazionale ma persistente nei confronti delle persone e da una corrispondente tendenza a interpretare le azioni degli altri come volutamente minacciose o degradanti. Poiché le persone paranoidi generalmente si aspettano che gli altri siano malevoli o minacciosi, esse sono guardinghe, reticenti e sempre vigili, costantemente alla ricerca di indizi di slealtà nel prossimo. Queste aspettative vengono facilmente confermate: l’ipersensibilità dei paranoidi trasforma le piccole mancanze di riguardo in insulti gravi e anche gli avvenimenti innocui sono erroneamente interpretati come nocivi o vendicativi. Viziosamente, le aspettative di tradimento e di ostilità spesso hanno l’effetto di provocare reazioni del genere negli altri, confermando e giustificando così il sospetto e l’ostilità iniziale del paranoico.

Nel 1903 Freud lesse le memorie di D.P. Schreber, intitolate “Memorie di un malato di nervi”, e questa lettura lo portò a teorizzare che alla base del pensiero paranoide dovesse trovarsi un’omosessualità latente. Secondo Freud le persone possono sviluppare uno stato paranoico nei confronti delle cose che non riescono a tollerare, come la percezione della propria omosessualità, di sentimenti di inferiorità e di amore/odio inaccettabili; oltre a ciò, il delirio offrirebbe anche al soggetto un sistema di sicurezza e sfogo che permette all’Io di sentirsi a proprio agio allorchè ci si trova da soli in mezzo ad altri individui.

Se l’eredità concettuale freudiana sulla paranoia viene accolta nel senso più lato appena descritto, è possibile districarsi dalla diatriba sull’effettività di un nesso stretto, letterale, tra paranoia e omosessualità. Plausibilmente, non sarebbe tanto l’omosessualità in sé a costituire un substrato della paranoia, quanto come essa viene costruita dal sistema di significato del paziente. Al termine della sua terapia, un mio paziente giunse a comprendere quanto i suoi desideri omosessuali fossero motivo di vergogna e substrato di una percezione di sé come inferiore fisicamente, soccombente, rispetto agli altri uomini. Questo è un esempio di ciò che definisco sé vulnerabile.

L’esperienza clinica, associata a una rilettura della psicopatologia classica, consentono di ipotizzare che nei pazienti affetti dalle diverse forme di paranoia vi sia una rappresentazione basica di sè come ontologicamente vulnerabile; un elemento che la schizofrenia paranoide sembra avere in comune con il disturbo delirante a contenuto persecutorio e con il disturbo paranoide di personalità (Salvatore et al., 2005, 2007, 2008; Popolo et al., 2012). Questo sè ontologicamente vulnerabile può consistere nell’esperienza di sè come incapace, nell’interazione con gli altri, di mantenere l’integrità dei confini personali e un senso di sè come differenziato dagli altri (Lysaker & Lysaker, 2008). I confini del sè sarebbero quindi molto rigidi, e ogni violazione percepita di essi viene immediatamente percepita a livello soggettivo come una minaccia all’integrità del sè.

Per comprendere meglio la vulnerabilità del paziente paranoide può essere utile confrontarla con la percezione di sè fragile che caratterizza i soggetti con disturbi d’ansia (Buss, 1980; Fenigstein et al., 1975). Anche il paziente con delirio persecutorio sperimenta stati di ansia, ma la debolezza del sè del paziente ansioso è sensibilmente differente dalla vulnerabilità del paziente paranoide. Nel primo caso, il sè si sente vittima di un evento catastrofico imminente e impossibile da fronteggiare. Nel secondo caso, il sè si percepisce incapace di fronteggiare le aggressioni da parte degli altri individui. In altre parole, il sè non teme eventi catastrofici, nè sente di non poterli fronteggiare; sono gli altri a costituire una potenziale minaccia.

Il sè si sente soggiogato socialmente (si veda Gilbert [2005] per la rilevanza del rango sociale come fattore di sofferenza psicologica). Il soggetto si sente vulnerabile rispetto all’altro, che è rappresentato come dominante o motivato a escludere, sottomettere, umiliare il sè. La condizione più temuta per il sè è quella di subordinazione e inferiorità rispetto all’altro. In uno dei nostri pazienti il delirio persecutorio fu innescato dall’incontro sul posto di lavoro di un gruppo di nuovi colleghi che egli percepiva implicitamente come più forti e più virili di lui (Salvatore et al., 2005). Questo paziente andò incontro a un miglioramento clinico quando la terapia lo aiutò a divenire consapevole del suo senso di vulnerabilità personale e inferiorità fisica.

Questo aspetto può essere ancor meglio compreso se si riprendono alcuni studi classici della psicopatologia della paranoia. Per esempio Janet (1889) considerava l’assetto costituzionale dell’ individuo paranoide come una manifestazione della psicastenia: un sentimento basico di incompletezza della propria persona. Bleuler (1906) pur accordando maggior rilevanza alle reazioni agli eventi di vita rispetto ai fattori costituzionali nell’ insorgenza dei sintomi, ipotizzava che il soggetto paranoide tentasse di tener lontana dalla coscienza la rappresentazione insopportabile della propria insufficienza.

Kretschmer (1918) introdusse il termine di ‘psicosi sensitiva’: quando gli eventi mostrano al soggetto la propria insufficienza sul piano morale, la reazione del soggetto è di rivalsa, con un’esaltazione delle proprie qualità morali a fronte della malevolenza del mondo. Lacan (1932) considerava la paranoia come parte di una più generale economia della personalità, in cui il delirio rappresenterebbe una risposta comprensibile a fronte della sconfitta e della percezione intima di non possedere risorse sufficienti per affrontare le difficoltà del mondo.

A questo proposito, sorprende che il tema dello squilibrio di potere e della sottomissione sia stato indagato dalla letteratura in relazione con le allucinazioni uditive, e solo da poco in relazione con il delirio persecutorio (Freeman & Garety, 2004; Freeman, 2007; Freeman et al., 2005; Gilbert et al., 2005). I soggetti con paranoia possono ricercare una posizione di elevato rango sociale con l’idea che il potere che ne conseguirà potrà consentire loro di controllare il pericolo proveniente dagli altri, una strategia che si rivela per lo più fallimentare, in quanto ottenere un elevato potere sociale non riduce la percezione persecutoria. Questo perchè la rappresentazione basica di sè come vulnerabile è troppo pervasiva e radicata per essere corretta dalla condizione mondana di potere e controllo.

Ipotizzo che il sé vulnerabile costituisca una rappresentazione implicita, non necessariamente oggetto di riflessione cosciente da parte del soggetto. Quando l’esperienza di sé come vulnerabile ha un accesso parziale alla coscienza, il delirio funziona come una sorta di processo attribuzionale distorto in cui la vulnerabilità di fondo viene considerata come il risultato della minaccia esterna. Questa errata attribuzione, tra l’altro, innesca la rabbia e l’ipervigilanza al fine di proteggere i confini del sé.

A conferma di questo assunto stanno i risultati di alcuni studi che suggeriscono che dietro il comportamento aggressivo e vendicativo del paranoico contro il ‘persecutore’ vi siano sentimenti di vulnerabilità e inferiorità (Millon, 1999). Green e colleghi (2006a, 2006b) hanno riscontrato in un gruppo di 70 soggetti con delirio persecutorio che la percezione di minaccia si associava significativamente con sentimenti di inferiorità personale.

E’ ipotizzabile che il delirio persecutorio non solo consenta di dare spiegazione alla vulnerabilità del sè e di porvi così un parziale rimedio (e.g., sconfiggere il nemico o fuggire), ma, una volta attivato, possa anche perpetuare l’esperienza di vulnerabilità. Il delirio potrebbe per esempio facilitare una cristallizzazione della rappresentazione di sè come vulnerabile e dell’altro come dominante, alimentando un arousal negativo, e il richiamo di immagini mentali, memorie episodiche ed emozioni negative. Ciò condurrebbe a sua volta a un rinforzo della rappresentazione della minaccia esterna, con una ulteriore riduzione del margine di confutabilità del delirio.

Secondo Freeman e colleghi (Freeman et al., 2002, 2008) questo senso di vulnerabilità è correlato con fattori di ordine traumatico. Alcune ricerche hanno mostrato tassi elevati di occorrenza di episodi traumatici tra i pazienti con diagnosi di psicosi; così come è accertata la correlazione tra esperienze anomale assimilabili ai sintomi positivi di psicosi ed esperienze traumatiche nella popolazione generale (Butler et al., 1996; Ensink, 1992; Liotti & Gumley, 2008; Morrison et al., 2003). In questo contesto alcuni autori (Bale et al., 2010; Gumley & Schwannauer, 2006) suggeriscono che esperienze negative nel corso dell’evoluzione, in particolare con le figure di attaccamento, caratterizzate per esempio da abuso, negligenza, o rifiuto, possono impedire nel soggetto in crescita lo sviluppo di un’esperienza basica di sicurezza capace di proteggerlo dalla sensazione di vulnerabilità.

Ciò contribuirebbe alla costruzione interna di una rappresentazione del mondo sociale come malevolo e pericoloso. Il senso di vulnerabilità può però essere connesso con una serie dei altri fattori, come lo stigma, l’esperienza di sintomi psicotici floridi, e di una profonda compromissione delle funzioni cognitive necessarie per costruire una percezione di sè come agente attivo nel mondo (Lysaker & Lysaker, 2008; Stanghellini, 2001).

 

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La famiglia Belier. Un film che vi farà star bene – Recensione

 

Nelle sale c’è il film La Famiglia Belier, il cui sottotitolo cita: un film che vi farà star bene. Ed è questa la sensazione che lascia, unita alla semplicità e all’immediatezza dei temi affrontati.

Nelle sale c’è una commedia francese, La Famiglia Belier, il cui sottotitolo cita: un film che vi farà star bene. Ed è questa la sensazione che lascia, unita alla semplicità e all’immediatezza dei temi affrontati: la disabilità come fonte di diversità e integrazione, e l’adolescenza come risorsa di conoscenza e crescita.

La storia è quella di una famiglia di sordomuti in cui la primogenita, Paula, diventa l’interprete privilegiata delle comunicazioni tra la famiglia e il mondo esterno a questa:  i fornitori e i clienti della fattoria di famiglia e il medico di base. Paula diventa così una mediatrice amorevole e accudente fino a che, quasi per caso, si imbatte nella possibilità di riconoscersi in un talento tutto suo: la sua meravigliosa voce.

E per un ironia della vita, proprio ciò che manca ai suoi genitori e a suo fratello, è quello che la renderà promettente per una brillante carriera da cantante. Coltivare questo talento però la porterà inevitabilmente a stravolgere gli equilibri familiari.

E quando uscendo allo scoperto comunica ai genitori la voglia di tentare un provino che la porterebbe a studiare canto a Parigi, lo sconforto della famiglia prende il sopravvento. Se da un lato infatti c’è la paura dei genitori di lasciarla andare e il concretizzarsi della perdita dalla figlia, che amano, che li accudisce e li aiuta, dall’altro c’è un’adolescente alle prese con la sua prima cotta, con la realizzazione di un sogno, alla ricerca di identità e autonomia.

La perspicacia e l’abilità che questa ragazza dimostrata nella gestione pratica della sua famiglia, scivola quasi in un’inversione di ruoli. Ma come in ogni adolescenza che si rispetti (o almeno dovrebbe) si può e si deve spiccare il volo, quello dell’indipendenza e del riconoscimento. L’amore e il bisogno che i genitori riversano su di lei in qualche modo le tarpano le ali: Paula è ingabbiata nell’ambiguità del volersene andare per volare e crescere da un lato, e dall’idea di rimanere nel nido per accudirlo e proteggerlo dall’altra.

Una famiglia i cui valori arrivano al pubblico in una modalità diretta, fatta di gesti e movenze, di corpi emozionati che se pur in modalità non sonora, trasmettono un repertorio di stati d’animo intenso e deciso. Il ricco ventaglio emotivo che fa da cornice al film permette agli spettatori di mettersi, almeno per qualche minuto, nelle orecchie dei Belier ed è così che la diversità diventa integrazione e fonte di conoscenza.

 

 

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Aggressività proattiva e reattiva & bullismo

Cinzia Borrello OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Quali sono gli obiettivi che muovono i ragazzi nell’interazione con i loro pari? Riscontrato quanto i comportamenti aggressivi siano una delle risposte più frequentemente utilizzate nelle interazioni sociali, ci si è chiesti quali siano i fini che inducono i pre-adolescenti a mettere in atto la condotta aggressiva.

La molteplicità di variabili interindividuali conduce inevitabilmente a prendere in considerazione l’idea che l’aggressività si può distinguere in due tipologie: una reattiva e l’altra proattiva. La tendenza a reagire con la forza nelle situazioni sociali definisce l’aggressività reattiva, mentre l’utilizzo dell’aggressività come strumento per raggiungere i propri obiettivi di affermazione e dominanza nel gruppo delimita l’aggressività proattiva.

Nella letteratura scientifica vi sono state molteplici difficoltà nel tentativo di spiegare e definire l’aggressività, nonostante il senso comune porti ad intendere intuitivamente ciò che è un comportamento aggressivo. Ciò è insito nel fatto che il concetto stesso di aggressività varia a seconda che venga considerato un istinto, una reazione emotiva ad un evento stressante, o una componente comportamentale appresa. La difficoltà nel definire l’aggressività riflette la complessità del fenomeno stesso. Nello sport e nel business il termine aggressività viene facilmente utilizzato anche quando termini quali assertività, entusiasmo, sicurezza, affermazione di se stessi nell’interazione con gli altri risulterebbero più appropriati al contesto (Bushman e Anderson, 2001). In ambito scientifico si definisce l’atto aggressivo come il comportamento che ha un impatto negativo sulle relazioni sociali e il benessere psicologico della persona (Krahé, 2005).

Attualmente tre sono gli aspetti che consentono di definire un atto come aggressivo: l’intento, che rappresenta la volontà di arrecare danno; l’azione, tesa a provocare un danno fisico con o senza aggressività verbale; lo stato emotivo. La complessità nel definire il concetto di aggressività ha spinto molti autori a considerarla come un costrutto multidimensionale (Coie e Dodge, 1998; Dodge, 1991; Dodge e Coige, 1987; Frick, 1998; Pulkkinen, 1996). Ricercatori come Little e al. hanno differenziato tale fenomeno a seconda delle diverse forme, il “what” dell’aggressività: diretta, palese, fisica e verbale, vs. indiretta, relazionale, sociale e materiale. Allo stesso modo l’aggressività è stata distinta per le funzioni, lo scopo, la motivazione che determina l’azione, ciò che viene definito il “why” dell’aggressività caratterizzandola in proattiva, offensiva, e strumentale vs. aggressività reattiva e difensiva (Little, 2003).

Recentemente è stata introdotta la scissione tra aggressività reattiva e aggressività proattiva (Dodge e Coie, 1987; Dodge, 1991; Pulkkined, 1996). Si pensa che l’aggressività reattiva e quella proattiva si differenzino per determinate variabili (Bushman e Anderson, 2001): la rabbia, la motivazione che spinge all’azione, l’intenzionalità, la pianificazione e l’impulsività.

L’aggressività proattiva non richiede alcuna provocazione o rabbia (Smithmyer, 2000). Essa è finalizzata al raggiungimento di un obiettivo diretto ad una persona, con lo scopo di dominarla o intimidirla. L’aggressività diviene la maniera appropriata per raggiungere un particolare obiettivo o fine (Dodge e Coie, 1987). Mossa da comportamenti agiti per ottenere ricompense materiali o psicologiche utili a sé (Dodge, Coie, Lynam 2006), nell’aggressività proattiva interviene la premeditazione, rivelandosi perciò pianificata e calcolata (Bushman e Anderson, 2001).

L’aggressività reattiva viene invece definita come la risposta messa in atto per difendersi da una minaccia, reale o erroneamente percepita (Dodge, Coie, Lynam 2006), come il risultato di una provocazione che comporta scatti d’ira (Dodge, 1991) e come aggressività mossa dallo scopo primario di nuocere l’altro (Bushman e Anderson, 2001). Inoltre, l’aggressività reattiva risulta essere impulsiva e, a differenza dell’altra, non è pianificata (Bushman e Anderson, 2001). Le due forme di aggressività possono concorrere nello stesso individuo, ma possono essere difficilmente individuabili (Dodge, 1991).

Alla base dell’aggressività reattiva e di quella proattiva vi sono differenti correnti teoriche. La radice teorica dell’aggressività reattiva può essere posta nel modello frustrazione-aggressività (Dollard, Doob, Miller, Mowrer e Sears, 1939). L’aggressività proattiva è descritta in termini di apprendimento sociale. Il comportamento aggressivo viene considerato come un comportamento socialmente acquisito e mantenuto (Bandura, 1973).

Prendendo in considerazione aspetti morali, social-cognitivi ed emotivi si riscontrano importanti differenze tra aggressività reattiva e proattiva. I ragazzi proattivamente aggressivi mostrano di prediligere il ricorso all’aggressività per raggiungere obiettivi materiali, non riflettendo sulle conseguenze che il proprio comportamento potrebbe avere sulla vittima: ciò sembrerebbe rimandare non solo ad un bias socio-cognitivo, ma anche ad un deficit nel ragionamento morale (Arsenio et al., 2009). Questi soggetti pur consapevoli delle conseguenze emozionali e materiali, non le prendono in considerazione sul piano morale. I ragazzi con aggressività reattiva, invece, mostrano un deficit di comprensione delle intenzioni altrui (Astor, 1994). Arsenio e at. (2009) dimostrano che l’aspettativa di un’emozione positiva è associata esclusivamente all’aggressività proattiva e non a quella reattiva. Il valore positivo delle conseguenze dei comportamenti aggressivi, associato alla dimensione di aggressività proattiva, è illustrato dalla sua associazione con la leadership e il senso dell’umorismo. Infatti tale comportamento risulta essere tollerato e accettato dal gruppo dei pari, non solo perché fornisce una sorta di regolazione sociale apprezzata dal gruppo, ma anche perché garantisce il potere dei ragazzi, dando loro la possibilità di accesso a risorse desiderabili (Boivin et al., 1995).

Soggetti con aggressività reattiva mostrano un deterioramento delle funzioni esecutive e di elaborazione delle informazioni sociali (Stanford, Greve e Gerstle, 1997), un’inadeguata abilità di problem solving (Dodge et al, 1997) ed un’elevata reattività agli eventi stressanti (Cima et al., 2007); è più frequente che abbiano inoltre genitori controllanti e punitivi (Vitaro et al, 2006), che presentino una storia di abusi (Connor et al, 2004) con episodi di delinquenza tra pari (Fite e Colder, 2007) e comportamenti violenti (Brendgen, Vitaro, Tremblay e Lavoie, 2001). Spesso sono dipendenti da sostanze e manifestano scarso adattamento sociale (Card e Little, 2006). Gli individui aggressivi proattivi, invece, non mostrano aree problematiche nella sfera cognitiva, hanno ricevuto un monitoraggio genitoriale scarso riguardo alle regole di comportamento (Poulin e Boivin, 2000), hanno una storia familiare di violenza e di dipendenza da sostanze (Fite e Colder, 2007), di condotte delinquenziali (Vitaro et al, 2006) spesso associate a violenza fisica (Brendegen et al, 2001).

Inoltre l’aggressività proattiva risulta essere correlata all’uso di strategie coercitive, umorismo, bullismo e bassi livelli di empatia e di comportamenti prosociali (Polman, De Castro, Thomaes, & Van Aken, 2009). Ancora, l’aggressività proattiva è associata a ridotti livelli di reattività emozionale, ad una minor percezione delle emozioni morali (Cima, 2007; Cornell, 1996) e a tratti di personalità callous and unemotional (CU), intesi come mancanza di emozioni prosociali quali rimorso e senso di colpa (Frick, Cornell, Barry, Bodin, e Dane, 2003).
L’aspettativa di ricompensa materiale ed emotiva si pone come base della credenza secondo cui il comportamento aggressivo viene utilizzato come strumento per ottenere risultati e il soddisfacimento dei propri bisogni. Il comportamento strumentale e i deficit morali potrebbero esser ricondotti ad un deficit della capacità empatica (Arsenio, 2006; Arsenio e Lemerise, 2001).

In aggiunta ai precedenti studi, Vitaro et al. (1998) hanno mostrato che l’aggressività proattiva durante la preadolescenza predice condotte delinquenziali nel periodo di metà adolescenza, mentre non risulta lo stesso per soggetti aggressivi reattivi. Pulkkinen (1996) ha affermato che l’aggressività proattiva predispone alla criminalità e all’abuso di sostanze in età adulta.

Riassumendo, l’aggressività reattiva è caratterizzata da impulsività, risposte difensive e ostili a provocazioni e mostra inoltre correlazione con la disregolazione emozionale ed il rifiuto sociale. Questa aggressività è accompagnata da rabbia intensa, che interferisce con vari meccanismi di autocontrollo e di elaborazione delle informazioni (Ripamonti, 2011). L’aggressività proattiva è invece pianificata, orientata all’obiettivo e non è connessa a una provocazione (Coie e Dodge, 1998). Al contrario dell’aggressività reattiva, essa è correlata a maggiore popolarità e abilità comunicative. E’ un’aggressività moderata e controllata dall’aspettativa di ricompense esterne e rinforzata dal comportamento altrui (Ripamonti, 2011).

Crick e Dodge (1996) hanno definito il bullismo come una forma di aggressività proattiva, nella quale sono impiegati degli atti aggressivi per il raggiungimento di scopi personali e orientati alla dominanza nei rapporti interpersonali.

Olweus ha proposto una definizione condivisa in letteratura descrivendo il bullismo in tali termini: “Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni” (Olweus,1996, pp 11-12). L’aggressività verso i coetanei viene quindi definita di comune accordo come tratto distintivo di questi soggetti.

Crick e Dodge (1999) hanno applicato il concetto di aggressività reattiva e proattiva al fenomeno del bullismo, ipotizzando che i bulli esibiscono aggressività proattiva e, in accordo con Kochenderfer e Ladd (1997), riportano che la vittima mostra le caratteristiche dell’aggressività di tipo reattivo.

Se da un lato Crick e Dodge (1999) e Price e Dodge (1989) hanno avanzato l’ipotesi secondo cui i bulli mostrano in particolare un’aggressività proattiva (diretta alla persona); dall’altro, Pellegrini, Bartini e Brooks (1999) e Pulkkinen (1996) hanno affermato che questi soggetti mostrerebbero entrambe le tipologie di aggressività. In accordo con Pulkkinen, recenti studi (Camodeca, Goossens, Meerum Terwogt, e Schuengel, 2002) hanno rinvenuto che i bulli mostrano entrambe le tipologie di aggressività mentre le vittime sono tendenzialmente inclini all’aggressività reattiva. Bulli e vittime presenterebbero un’aggressività reattiva rispondendo entrambi alle provocazioni ed utilizzando la forza per difendere se stessi; mentre soltanto i bulli sarebbero proattivamente aggressivi, usando l’aggressività per tormentare e provocare gli altri (Camodeca, 2005).

I ragazzi con aggressività proattiva sembrano rispondere al modello del bullo abile manipolatore (Sutton, Smith e Swettenham, 1999), ovvero un soggetto portato a considerare in modo machiavellico il comportamento aggressivo come un modo per ottenere benefici personali, quali l’affermazione sociale, la leadership e il controllo dei compagni. Sebbene il comportamento aggressivo del bullo sia socialmente disapprovato, esso non appare maladattivo; il bullo infatti raggiunge in modo efficace i propri obiettivi senza perdere il suo status dominante e la propria popolarità (Sutton et al., 1999). D’altra parte, un recente studio italiano (Caravita, Gini, Caprara, 2009) ha evidenziato come lo status modifica il funzionamento morale in adolescenza. Lo status sociale, inteso come popolarità percepita, sembrerebbe influenzare la relazione tra condotta prepotente e il disimpegno morale. I meccanismi di disimpegno risultano essere associati all’agire aggressivo in adolescenza in particolar modo tra i ragazzi percepiti popolari. Il bullo presenta una scorretta percezione delle regole morali, maggiore disimpegno e minori emozioni morali come il senso di colpa e la vergogna (Caravita e Gini, 2010).

Soggetti che utilizzano in maniera massiccia meccanismi di disimpegno morale, proverebbero minori sentimenti anticipatori di colpa, tenderebbero a ruminare sui danni subiti e sul modo in cui vendicarsi e manifestano minori comportamenti prosociali. Quanto maggiore è il disinvestimento morale, tanto maggiore è la probabilità che il soggetto sia coinvolto in comportamenti aggressivi devianti (Bandura, 1996, Olweus,1996), abuso di alcool e sostanze stupefacenti, e condotte criminali. Inoltre, come precedentemente sottolineato, bulli e soggetti con tratti psicopatici tendono ad avere deficit della componente affettiva dell’empatia. Tratti aggressivi in soggetti con ridotte, se non nulle, capacità empatiche aumenterebbero il rischio di sviluppare un disturbo antisociale di personalità di tipo psicopatico (Fagiani, Ramaglia, 2006).

 

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Disapprendere i bias impliciti durante il sonno è possibile?

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E’ possibile sbarazzarsi di “errori” cognitivi automatici di cui nemmeno siamo consapevoli? I cosiddetti “bias impliciti” consistono in una sorta di pregiudizi e stereotipi che riguardano spesso il genere e l’etnia e di cui potremmo essere affetti anche se non consapevoli.

Uno studio pubblicato su Science si è domandato se durante il sonno sia possibile rafforzare il “dis-apprendimento” di questi bias impliciti che spesso non solo rimangono nella mente ma si traducono in comportamenti stigmatizzanti. Tra questi errori cognitivi inconsapevoli ritroviamo in letteratura l’associazione mentale tra caratteristiche negative e il colore della pelle (scura) oppure tra il genere (femminile) e determinati orientamenti professionali (raramente a ingegnere viene associato il genere femminile).

Vi sarebbero persino training cognitivi finalizzati alla riduzione di questi bias impliciti. Un gruppo di ricercatori della Northwestern University ha voluto approfondire il meccanismo della riattivazione mnestica durante il sonno come motore per potenziare i training finalizzati al disapprendimento di stereotipi e pregiudizi impliciti (che altro non sono se non malsane abitudini cognitive spesso inconsapevoli).

Ecco come funziona il meccanismo della riattivazione mnestica durante il sonno: in una fase di veglia il soggetto impara, ad esempio, a distinguere un certo suono da altri stimoli; durante una successiva fase di sonno vengono presentati stimoli uditivi coerenti con quanto appreso; al risveglio è stato verificato un maggior grado di apprendimento nella distinzione degli stimoli acustici. In questa ricerca, i partecipanti sono stati sottoposti a training cognitivi per la riduzione dei bias razziali e di genere: sullo schermo di un computer venivano presentati volti (femminili o con la pelle scura) associati a parole che descrivevano caratteristiche opposte allo stereotipo implicito (ad esempio il volto femminile era associato alla parola “matematica”). E in concomitanza veniva presentato un suono associato agli stimoli contrastanti lo stereotipo implicito.

In seguito, durante una fase di sonno ai soggetti venivano ripresentati i suoni associati- durante la veglia – agli stimoli target del training.

La procedura di riattivazione della memoria attraverso il suono ha prodotto i risultati positivi attesi: è stata dimostrata una maggiore riduzione dei bias cognitivi impliciti legati al genere e all’etnia proprio nella condizione in cui al training durante la veglia è stato integrato il processo di ri-stimolazione mnestica durante il sonno. E i benefici si manterrebbero anche a una settimana di distanza. Gli studiosi però sottolineano che la verifica è stata effettuata utilizzando una sola breve sessione di training e che per produrre effetti a lungo termine nel cambiamento degli stereotipi sociali impliciti servirebbe un programma di apprendimento più esteso.

 

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L’intensità e il tempo della gelosia – Tracce del Tradimento nr. 13

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XIII: L’intensità e il tempo della gelosia

L’intensità della gelosia è direttamente proporzionale alle dimensioni immaginarie della catastrofe della perdita della relazione e dell’amato intollerabile.

Se al solo pensiero il soggetto si sente disperato e senza un futuro, se la sua perdita è segno di sconfitta e fallimento personale, se teme di non potersi mai più innamorare, tutto contribuisce a costruire il dramma della gelosia. Talvolta più che previsioni catastrofiche ben definite il soggetto sperimenta una sorta di buio totale, come se non avesse mai davvero pensato alla possibilità della perdita dell’amato: questo scenario non è rappresentato nella sua mente ed è proprio questa assenza di prospettive a renderlo massimamente minaccioso.

La definizione prima e il ridimensionamento poi del danno temuto sono operazioni fondamentali per uscire dalla sofferenza della gelosia ed è spesso ciò che le persone vicine fanno con chi soffre terribilmente per attenuare il suo dolore. In fondo si tratta di aiutarlo a immaginare in modo concreto la sua vita dopo la perdita dell’amato e di mostrargli come l’esistenza vada avanti e sia ricca di opportunità e come ciò che ha perduto non sia poi così grande.

Durante la malattia di suo marito e anche dopo la sua morte la signora si impediva volontariamente di immaginarsi ancora vitale in questa nuova condizione. Aveva una sorta di pudore a sopravvivere a suo marito, le sembrava sconveniente riprendere una esistenza normale, concedersi di vivere dopo di lui. Si erano sempre detti che loro avrebbero vissuto l’uno per l’altro, l’uno con l’altro ed ora bisognava onorare questo patto. Era ancora una donna in gamba e piena di risorse, interessi e potenzialità ma andare avanti le sembrava un orribile tradimento al suo amato. Essere senza di lui non era una possibilità contemplata, non era dato.

La gelosia non ha un tempo definito: si può essere gelosi nella fase iniziale del rapporto oppure dopo decenni di amabile convivenza. All’inizio della storia lo strappare l’amato al suo amore presente o al desiderio di altri veri e immaginati, aumenta il valore suo e del rapporto nascente. Successivamente parlare dei precedenti partner o dei fantasmi dei passati tradimenti tiene vivo il rapporto in momenti in cui potrebbe essere stanco o annoiato. Tiene viva l’immagine dell’altro come desiderabile. La possibilità della perdita rende nuovamente interessante l’altro che era considerato scontato e ravviva il desiderio. La gelosia può essere un sentimento segreto e non svelato ed essere considerata come una perversione personale, una propria debolezza ma spesso diviene ingrediente fondamentale del rapporto a due: va detta, raccontata, se ne deve parlare, si deve esorcizzare e richiamare continuamente. A volte la gelosia può essere addirittura postuma e forse è ancora peggiore perché non consente soluzioni.

Un’anziana signora richiese una terapia perché dopo una vita piena con la nascita di molti figli e una vita coniugale armonica, aveva avuto la perdita improvvisa del marito. Nel giornale era apparso l’annuncio di una persona a lei sconosciuta, che aveva scritto “ a … con amore”. Dopo il funerale qualche amico le aveva detto che verso la fine della cerimonia era apparsa una donna che era stata qualche attimo ed era andata via. Per la signora la vita era finita, aveva cominciato uno stato ossessivo, torturante, che non la lasciava dormire, e le impediva di vivere. Chiedendo agli amici e tormentando continuamente le persone più vicine al suo uomo, aveva ricostruito la storia. Il marito aveva avuto una storia d’amore segreta e tormentata con una delle donne più belle e conosciute della piccola città del sud in cui vivevano, ma al momento di decidere di rendere pubblica la storia aveva scelto di chiudere e di rimanere con la moglie. Nella ricostruzione del periodo in cui tutto ciò era avvenuto la signora ricordò che in quel tempo smisero per sempre di avere rapporti ( lui lo giustificò come un problema di prostata e di stanchezza) e il marito ebbe una depressione lunga dalla quale in realtà non uscì più. La conoscenza di questa storia la stava ossessionando e diceva: “ non posso fare il lutto di mio marito … perché rimase con me e quanto veramente mi voleva bene … quanto era migliore di me l’altra e quanto più felice starebbe stato con lei … che vita ho avuto a chi sono stata vicino … perché non mi ha mai detto nulla, perché non si è fidato di me … chi era veramente e chi siamo stati noi insieme … che recita è stata … ”

 

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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori. Dove agisce la prevenzione (Parte IV)

 

La discussione finale si è rivelata molto coinvolgente e costruttiva in quanto ha visto contrapporsi i “sostenitori della scientificità e del rigore metodologico nelle prevenzione” ai “sostenitori della bontà della prevenzione a prescindere dalle evidenze (in quanto complesse e di difficile misurazione)” a testimonianza di come il tema sia ad oggi attuale, molto delicato e dibattuto.

L’inizio della seconda giornata del convegno: “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori”, è impostato su due sessioni mattutine di workshop. La seconda sessione offriva ai partecipanti la scelta di uno dei tre workshop di seguito descritti:
“Dove agisce la prevenzione: luoghi e buone pratiche” (con Roberta Molinar, Peter Koler e Gabriella Zanone)
“Cosa significa aiutare i familiari? Testimonianze e pratiche” (con Maurizio Coletti, Roberto Cuni, Caterina e Roberto Dalla Chiara)
“Prassi innovative dal mondo delle comunità terapeutiche” (con Leopoldo Grosso, Egle Demaria, Alessandra Berto e Mario Dondi)

Ho scelto di partecipare al workshop “Dove agisce la prevenzione: luoghi e buone pratiche”, che si è rivelato molto costruttivo sia per i contenuti sia per il dibattito che si è sviluppato nella discussione finale tra pubblico e relatori.

La prima ad intervenire è stata Roberta Molinar (Università del Piemonte Orientale) che ha esposto la sua relazione incentrata sull’importanza di valutare attraverso ricerche scientifiche anche i programmi di prevenzione. La prevenzione infatti, può essere implementata da chiunque, senza restrizioni, e raramente viene valutata, non considerando la possibilità che essa possa anche rivelarsi inefficace oppure dannosa. Tutto ciò avviene in quanto la prevenzione è un fenomeno complesso e multifattoriale, vi sono scarse evidenze scientifiche sulla sua efficacia, vi è mancanza di regolamentazione e di rigore metodologico. Roberta Molinar sottolinea come il concetto di buona pratica non sia sinonimo di intervento efficace e auspica quindi per il futuro una prevenzione basata sulle evidenze scientifiche, da considerare come atto di responsabilità e non come limite all’esercizio della propria libertà professionale.

Di tutt’altro avviso è Peter Koler (Forum Prevenzione, Bolzano) che sostiene che una prevenzione sul territorio funzioni solo se è attivo un lavoro di rete e un centro che si occupi di prevenzione attorno ad esso, come succede in Alto Adige con il Forum Prevenzione di cui è direttore. Koler porta numerosi esempi di buone prassi e progetti in ogni ambito in cui il suo centro lavora (scuola, famiglia, lavoro, internet, strada, sport, comunità, media, aziende, politica, ecc.) e ribadisce che lo scopo della prevenzione non dev’essere l’uso oppure il non-uso della sostanza quanto l’abbassamento dei rischi e la maggior sensibilizzazione, soprattutto dei giovani.

Per ultima interviene Zanone Gabriella (SerT di Genova) che presenta una relazione incentrata e basata sul termine “luoghi”, con numerosi e interessanti riferimenti narrativi. La prevenzione secondo la relatrice dev’essere nella testa di ogni adulto, che deve educare e fornire un luogo sicuro ai ragazzi, dove questi si possano esprimere. La prevenzione è quindi un prerequisito alla relazione: “quando gli adulti rinunciano ad educare, consegnano la vita agli specialisti”. Essa dunque sta nel processo educativo, in quanto non sarà mai possibile implementare una prevenzione per tutto: è importante ricominciare a dare informazioni ai nostri ragazzi, anche semplici, e raccontargli sempre la verità su come stanno realmente le cose, senza mistificazioni.

Come anticipato, la discussione finale si è rivelata molto coinvolgente e costruttiva in quanto ha visto contrapporsi i “sostenitori della scientificità e del rigore metodologico nelle prevenzione” ai “sostenitori della bontà della prevenzione a prescindere dalle evidenze (in quanto complesse e di difficile misurazione)” a testimonianza di come il tema sia ad oggi attuale, molto delicato e dibattuto.

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14 Giugno: Giornata mondiale del donatore di sangue – I fattori che influenzano la motivazione a donare sangue

Dal 2004 il 14 giugno viene festeggiata la Giornata mondiale del donatore di sangue proclamata dalla Organizzazione mondiale della sanità. Questa data è stata scelta in quanto giorno di nascita di Karl Landsteiner, scopritore dei gruppi sanguigni e coscopritore del fattore Rhesus. 

Come ogni comportamento umano, la donazione mette in movimento e dinamizza pensieri, emozioni ed affetti: nel dono del sangue, rispetto al ciclo normale del dare-ricevere-ricambiare (che è l’esperienza di dono maggiormente sperimentata) il sangue non è ricevuto da una persona conosciuta, non è restituito (o lo è in piccola misura) e in ogni caso non lo si dona perché sia contraccambiato. Inoltre, l’atto della donazione del sangue, con le sue implicazioni di realtà (il prelievo), fisiologiche e simboliche (il sangue, cioè la vita che in parte esce da noi) e il contesto in cui avviene, può determinare una dinamica e una complessità di emozioni e pensieri che, in certi casi, travalicano e quasi neutralizzano l’intenzionalità razionale (“dono il sangue per il bene altrui”). Ciò può determinare stati di tensione e, a volte, di ansia o di paura.

Sono diversi gli studi che indagano i fattori che sembrano contribuire all’intenzione a donare sangue (cfr. Aturni, 2009).
Un fattore che potrebbe influire negativamente sulla motivazione è quello che in psicologia sociale viene definito l’effetto Ringelmann: in compiti comuni, dove il contributo del singolo non è identificabile, si alimenta una diffusione di responsabilità che porta ad un minore impegno del singolo nello sforzo collettivo. Questo potrebbe spiegare il pensiero comune del “tanto c’è chi ci pensa” in base al quale ciascun individuo, facendo affidamento sull’impegno degli altri, riduce il proprio sforzo manifestando quella che viene definita pigrizia sociale.

Pilavin e Callero (1991) hanno sottolineato come la conoscenza personale sulla necessità di raccogliere sangue sembra influire sulla scelta di donare: le persone che riferiscono di avere (esse stesse o loro consanguinei) ricevuto sangue sono più propense a diventare donatori rispetto a coloro che non lo hanno mai ricevuto. Ricevere qualcosa, infatti, ci pone all’interno di quella che è stata definita norma di reciprocità (Gouldner, 1960) che ci fa sentire in dovere di restituire, a nostra volta, ciò che abbiamo precedentemente ricevuto.

L’importanza attribuita dalla famiglia alla donazione e le aspettative percepite dagli altri significativi rispetto all’assunzione di quel comportamento, invece, possono essere ricondotte ad alcuni studi (ad esempio gli studi di Lee, Pilivian, e Call Vaughn, 1999) dove si evidenzia come i neo donatori abbiano spesso un famigliare donatore.

Un altro importante fattore individuato sono le norme personali, intese come valori personali che guidano il comportamento. In uno studio (Lee, Pilivian, e Call Vaughn, 1999) si mostra come le norme personali siano predette dalle aspettative percepite degli altri significativi e, a loro volta, siano predittive dell’intenzione a donare. Tuttavia, se questa variabile influenza l’intenzione a donare effettivamente, il continuum di questo impegno nel tempo sembrerebbe essere determinato dall’identità di ruolo e dalle esperienze precedenti (Lee, Piliavin e Call, 1999): con l’aumentare del numero di donazioni effettuate sembra emergere una identità di ruolo che guida i comportamenti, orientando le scelte future verso la volontà di continuare a donare; altre ricerche hanno sottolineato come l’intenzione ad agire un comportamento sia mediata dal ricordo positivo associato a quel comportamento, evidenziando come il ricordo delle emozioni sperimentate durante la donazione di sangue, insieme all’attitudine a donare, sia predittore dell’intenzione a donare ancora (Breckler, e Wiggings 1989; Piliavin, et al. 1982).

Godin e collaboratori (2005) mostrano come sentimenti di obbligo morale e il controllo percepito siano maggiormente predittivi dell’intenzione a donare nei donatori fidelizzati, mentre l’atteggiamento verso la donazione sembra essere il maggior predittore per coloro che non hanno mai donato. Il ricordo delle prime esperienze di donazione, infatti, influenza l’intenzione a donare, specialmente se esiste un contrasto emozionale tra il ricordo dell’ansia sperimentata prima della donazione e le emozioni positive sperimentate dopo la donazione.

Questo contrasto, secondo Piliavin e colleghi (1982), rinforzerebbe il comportamento di donazione incrementando l’intenzione a donare nuovamente.
In Italia, è il CIVIS (coordinamento interassociativo volontari italiani del sangue), fondato a Perugia nel 1995, che riunisce le quattro principali associazioni e federazioni di donatori di sangue volontari operanti sull’intero territorio nazionale: AVIS, FIDAS, Fratres e donatori di sangue della CRI.

Le strutture associative che si occupano di donazione di sangue rivestono un ruolo importante e peculiare che può incidere sull’effettivo mantenimento di questo gesto da parte sia dei neodonatori sia dei donatori fidelizzati. Tuttavia la donazione di sangue, pur essendo un atto personalmente scelto, deriva da una costellazione di variabili personali, familiari ed organizzative che necessitano di essere approfondite e studiate nella loro globalità al fine di arrivare alla creazione di strategie di reclutamento e di fidelizzazione che portino alla soddisfazione totale del bisogno di scorte di sangue.

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BIBLIOGRAFIA:

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