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Covid-19: sostegno psicologico mirato per operatori sanitari in “prima linea”

L’articolo espone l’importanza di un intervento di sostegno psicologico tempestivo per gli infermieri coinvolti in prima linea nella pandemia da Covid 19

Di Luca Rossi, Alessandro Bonansea, Paola Chiadò, Evelin Ramonda

Pubblicato il 11 Gen. 2023

Aggiornato il 12 Gen. 2023 14:41

Il Journal of Nursing Management (Arcadi et al., 2021) ha recentemente pubblicato uno studio che racconta il vissuto degli infermieri durante la prima ondata della pandemia da Covid-19

 

Riassunto

 L’articolo si propone di esporre l’importanza dell’intervento di sostegno psicologico tempestivo nei confronti degli infermieri che stanno affrontando in prima linea la pandemia da Covid 19. Nello specifico, viene illustrata la modalità di intervento dell’Area Funzionale Psicologia dell’Emergenza della S.C.Psicologia ASL TO3-Regione Piemonte.

Il sostegno psicologico offerto agli infermieri è mirato alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva legata alla difficile gestione del lavoro nei reparti Covid. L’articolo descrive le modalità di trattamento ad indirizzo cognitivo comportamentale volte alla promozione delle abilità di coping e della resilienza, anche attraverso tecniche a mediazione corporea.

Il lavoro clinico svolto ha facilitato il rientro degli infermieri sul posto di lavoro, dopo un periodo di contagio o di forte stress lavoro-correlato alla pandemia contingente, preservandone le competenze ed il senso di efficacia.

Al termine del trattamento, i sanitari hanno riferito una migliore capacità di gestione delle emozioni, una percezione del proprio ruolo e della propria identità maggiormente basata sull’equilibrio tra vita lavorativa e familiare, tra paura del contagio e rispetto delle norme di prevenzione.

Abstract

The article aims to explain the importance of early psychological support to nurses who are facing the Covid 19 pandemic. In particular, the modality of intervention of the Functional Area Emergency Psychology of the S.C.Psychology ASL TO3-Piedmont Region is illustrated.

The psychological support offered to the nurses is aimed at reducing the anxiety and depressive symptoms linked to the difficult management of work in Covid departments. The article describes the modalities of cognitive behavioral treatment aimed at the promotion of coping skills and resilience, also through body mediation techniques.

The clinical work carried out has facilitated the return of nurses to the workplace, after a period of contagion or severe work-related stress to the contingent pandemic, preserving their skills and sense of effectiveness.

At the end of the treatment, health professionals reported a better ability to manage emotions, a perception of their role and identity more based on the balance between work and family life, between fear of infection and compliance with prevention standards.

Introduzione

Durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, la presa in carico integrale del paziente, il suo inserimento e accompagnamento all’interno di un percorso terapeutico sono stati gli obiettivi principali dell’assistenza, in cui hanno giocato un ruolo importante tutte le diverse figure dei professionisti sanitari.

Tutto questo, come sappiamo, è avvenuto in un contesto di incertezza generale, di paura, di urgenza e di aspettative, connotate dalla fantasia della popolazione, che viveva la percezione di essere in pericolo di vita, sperando di essere “salvati” dal personale sanitario.

In questo scenario, la figura sanitaria dell’infermiere è stata centrale, sia nei casi gravi ed urgenti, sia nei casi long term, così come nella prevenzione e nel conseguente evitamento di spreco di risorse pubbliche. L’infermiere, figura fondamentale nel rapporto quotidiano con il malato, ha quindi costituito un riferimento importantissimo nell’aderenza alle terapie da parte dei pazienti e nella sostenibilità del sistema di cura.

Da quando è cominciata l’emergenza sanitaria da Covid-19, i professionisti sanitari si sono impegnati in prima linea a fronteggiare l’epidemia nei vari setting del Servizio Sanitario: si sono esposti al rischio di infezione e a un sovraccarico emotivo; soprattutto in una situazione iniziale in cui vi era carenza di adeguati dispositivi di protezione individuale, hanno sostenuto turni di lavoro pressanti e la fatica fisica, hanno affrontato il lavoro di cura in un contesto di riduzione delle risorse umane e talvolta di precarietà organizzativa.

La letteratura scientifica (Krämer et al., 2016; Kushal et al., 2018) relativa allo stress lavoro-correlato aveva già ampiamente confermato come il settore sanitario fosse caratterizzato da fattori di rischio psicosociale, strettamente legati alla sicurezza e alla salute degli operatori e all’organizzazione lavorativa: turni, reperibilità, gestione di emergenze e urgenze, carenza di personale, confronto quotidiano con situazioni di estrema sofferenza, potenziale rischio di episodi di aggressione verbale e/o fisica. Tali fattori, in questo momento di emergenza, si sono inevitabilmente amplificati.

I vissuti del personale infermieristico

Il Journal of Nursing Management (Arcadi et al., 2021) ha recentemente pubblicato uno studio che racconta il vissuto degli infermieri durante la prima ondata della pandemia da Covid-19.

È emerso che siano principalmente quattro le tematiche emotive emergenti durante la pandemia: l’incertezza e la paura; l’alterazione nella percezione dello spazio e del tempo; l’attribuzione di un significato diverso al termine “to care”; il cambiamento nei ruoli e nelle relazioni multidisciplinari.

L’incertezza è stata una compagna costante della maggior parte degli infermieri coinvolti, sin dal primo giorno della diffusione del contagio. Questo ha scatenato un enorme disorientamento e mancanza di riferimenti, dettati dalla paura dell’ignoto, non solo riferibile alla mancanza di certezze diagnostiche e di cura, ma anche di tipo epidemiologico, alla paura di poter contagiare i propri familiari. Quest’ultimo aspetto ha spesso condotto alla decisione di isolarsi a garanzia dell’incolumità dei propri familiari.

Durante la prima ondata si sono dovute affrontare moltissime carenze, come ad esempio la mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuali o la disponibilità di risorse di personale estremamente limitata. Tuttavia, nel corso di un’epidemia, anche quando le misure preventive e protettive sono adeguate, il personale sanitario resta comunque esposto a un alto livello di stress psicologico oltre che fisico, aggravato ulteriormente dalla sofferenza per la perdita di pazienti e talvolta di colleghi, alla separazione prolungata dalla famiglia, ai cambiamenti nelle pratiche e nelle procedure di lavoro.

Tutto questo ha inevitabilmente determinato la necessità di fornire un maggiore supporto emotivo agli operatori.

Da alcuni studi (Brooks, 2020; Pierce et al., 2020; WHO, 2020) si rileva che, rispetto ad altre situazioni di emergenza sanitaria, come per esempio le catastrofi naturali, il fattore di rischio maggiore durante la pandemia da Covid-19 è stato proprio l’isolamento sociale, dovuto alle misure di distanziamento, alla quarantena o in alcuni casi alla discriminazione e all’assenza del sostegno familiare a causa del pericolo di contagio. Significativa è stata anche la riduzione del confronto con i colleghi e del rapporto con i pazienti dovuto all’aumento del carico di lavoro. È quindi frequente che emergano emozioni di rabbia, ostilità, frustrazione, senso di impotenza e che si manifestino sintomi depressivi e stati d’ansia con somatizzazioni, insonnia, aumento del consumo di caffeina, alcol e tabacco.

Una metanalisi condotta su 59 articoli (Kisely et al., 2020) e vari studi svolti in Cina sui rischi psicosociali dello stress tra il personale sanitario (Kang et al., 2019) durante le epidemie di SARS ed Ebola, durante la pandemia influenzale A/H1N1 e durante la gestione dell’epidemia Covid-19, hanno rilevato la comparsa di sintomi assimilabili a PTSD (Rossi et al., 2020). In particolare, uno studio trasversale condotto in Cina (Lai, 2020) su 1257 operatori sanitari impegnati nei presidi coinvolti nella gestione di pazienti con Covid-19 ha evidenziato come le donne, il personale infermieristico e coloro che lavorano nelle zone con maggiore concentrazione di casi (e che quindi più coinvolti nell’emergenza) hanno sintomi più intensi. Questo potrebbe essere imputabile al fatto che quando la domanda assistenziale è troppo elevata, non lascia spazio all’elaborazione di una risposta psicologica funzionale o alla formulazione di una richiesta d’aiuto da parte dell’operatore.

Le risorse del personale infermieristico

Le immagini trasmesse dai media inerenti al lavoro nei reparti e nelle terapie intensive hanno sicuramente reso l’idea della fatica affrontata dagli operatori nei mesi in cui i picchi della diffusione e della gravità dei sintomi del Covid-19 erano più intensi. Attraverso queste immagini vi è stata l’attribuzione da parte della popolazione di una qualità eroica a questa professione.

Il senso di advocacy della professione infermieristica è stato espresso in modo straordinario; infatti, molti infermieri hanno chiesto volontariamente di venire reclutati nei reparti Covid. Il ruolo degli infermieri nell’assistenza ai pazienti durante la pandemia ha fatto emergere la vera essenza della professione infermieristica, fatta di vicinanza, contatto fisico e di relazione con l’assistito, il cui valore più forte è stato sicuramente la costanza, la continuità in ogni fase della malattia.

Un fattore significativo di resilienza è stato la collaborazione tra i membri dell’équipe sanitaria, talvolta già presente e stabilizzata prima della pandemia, in altri casi, costruita ad hoc per far fronte a specifiche situazioni emergenziali.

L’intervento psicologico rivolto agli infermieri nell’ASLTO3

Durante la prima ondata della pandemia, presso la SC.Psicologia-AF.Psicologia dell’Emergenza dell’ASLTO3-Regione Piemonte, è stato messo a punto uno specifico protocollo rivolto a tutta la popolazione del territorio, agli operatori sanitari e nello specifico agli infermieri professionali. In particolare, è stato diffuso un numero di telefono e un indirizzo mail al quale presentare richiesta di supporto. La coordinatrice dell’A.F. Psicologia dell’Emergenza ha effettuato un primo contatto con le persone che richiedevano aiuto, prevedendo l’assegnazione ad un collega psicoterapeuta per l’avvio di un percorso psicologico, ove possibile, entro 48 ore. Particolare attenzione è stata data alla celerità della risposta alle richieste provenienti dal personale sanitario, al fine di contenere fin da subito i vissuti di solitudine e incertezza e di promuovere autoefficacia ed empowerment, fondamentali per poter affrontare nei migliori dei modi l’elevata richiesta in ambito lavorativo.

In base alla richiesta della persona, si sono proposti percorsi di consulenza o di psicoterapia focale. In particolare, gli psicoterapeuti a indirizzo Cognitivo Comportamentale appratenti all’A.F Psicologia dell’Emergenza hanno messo a punto un protocollo di intervento rivolto alla figura dell’infermiere professionale.

L’assessment

La presa in carico prevede un primo colloquio clinico con la funzione di avviare la relazione d’aiuto attraverso l’ascolto empatico, individuando i bisogni che hanno spinto la persona a chiedere supporto e raccogliere informazioni riguardo al disagio alla base della richiesta. Fin da subito è prevista l’esplorazione delle risorse personali fondamentali in tutte le fasi del percorso successivo.

Laddove emergevano sintomi legati al PTSD, veniva somministrato il Clinician Administered PTSD Scale (CAPS), o in alternativa, l’International Trauma Questionnaire (ITQ), entrambi strumenti finalizzati alla valutazione della presenza di sintomi psicopatologici, durata e gravità del quadro clinico. Inoltre, a inizio e fine percorso, veniva proposta la compilazione del Clinical Outcomes in Routine Evaluation-Outcome Measures (Core-OM), per valutare l’efficacia dell’intervento psicologico.

Nei colloqui iniziali si è chiesto all’operatore-paziente di ripercorrere i momenti lavorativi e familiari che lo avevano messo maggiormente alla prova, che potevano aver influito sulla normale gestione emotiva quotidiana. Le esperienze riportate si discostavano in modo marcato dai vissuti derivati da tanti anni di lavoro nei vari reparti, anche se gli infermieri presi in carico avevano già precedentemente lavorato in contesti connotati da esperienze emotive molto forti, come il pronto soccorso, i reparti oncologici infantili, le terapie palliative ecc.

Nei colloqui effettuati, è stata trasversale la paura del contagio, legata anche all’utilizzo dei vari dispositivi, oggetto di nuovi protocolli d’uso che nel tempo si sono modificati.

 Nel contesto di pandemia, strategie funzionali prima perseguite con successo, hanno perso di efficacia: i protocolli hanno determinato infatti nuove disposizioni su come i dispositivi dovevano venire indossati e sull’idoneità dei contesti, con particolare attenzione alla gestione dei momenti di pausa, quando l’attenzione dell’operatore anche a causa della stanchezza, tende a venire meno. Spesso la tensione saliva nel cercare un raccordo fra modalità differenti di perseguire quanto indicato dalle varie linee guida.

Tutto ciò ha costituito inevitabilmente una fonte di preoccupazione, perplessità, tensione e rabbia, che andava inevitabilmente a minare la buona cooperazione e il clima emotivo all’interno del gruppo di lavoro.

Il tema del contagio ha condizionato spesso il contesto extra-lavorativo. Episodi di cronaca nazionale riportavano contagi estesi, partiti da soggetti che si recavano in contesti sanitari e, una volta infetti, diffondevano il virus indiscriminatamente. Soprattutto durante la prima ondata, quando si avevano poche e frastagliate informazioni sul virus, era prevalente il vissuto di impotenza e di incertezza.

Essere possibile fonte di contagio di Covid-19 all’interno del proprio ambito familiare, soprattutto se costituito da bambini e anziani, ha influito ulteriormente sullo stato ansioso e sul tono dell’umore degli operatori.

Fase 2: il trattamento

Agli infermieri che hanno richiesto un sostegno psicologico è stato offerto un trattamento focalizzato, costituito da una media di dieci colloqui, mirato alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva legata alla difficile gestione del lavoro nei reparti Covid. Si è lavorato in parallelo sulle strategie di coping e sul tema della resilienza, sottolineando l’esperienza acquisita dal professionista in pregresse situazioni di emergenza, ancorandolo a dati di realtà che restituivano un alto livello di preparazione e professionalità.

Quando emergeva la presenza di importanti traumi pregressi non elaborati, che si riattivavano in modo importante, è stato necessario prevedere percorsi più lunghi per favorire la rielaborazione dei vissuti traumatici.

Durante il trattamento si è dato ampio spazio alle tecniche di ristrutturazione cognitiva, intesa come ridefinizione dei pensieri negativi disfunzionali e alle false credenze relative alla pandemia. Questo ha permesso di riportare l’operatore a un piano di razionalità. L’utilizzo delle linee guida per la gestione dei pazienti positivi al Covid-19, l’attenzione nel seguire le indicazioni fornite dalla Direzione, sono state rilevanti a livello di conoscenza oggettiva e hanno favorito l’acquisizione di buone pratiche per la copertura dal rischio.

È stato importante valorizzare le precedenti esperienze professionali dell’operatore, anche se ciò ha comunque comportato in parallelo una forma di adattamento. La pandemia ha portato gli operatori sanitari a confrontarsi con l’impossibilità di aiutare il paziente in situazioni di grave patologia. Molti infermieri chiamati a lavorare nei reparti Covid-19 avevano già lavorato in passato in reparti ad alta intensità emotiva, con malati terminali o pazienti molto gravi. Ciò che differiva a livello di gestione pratica ed emotiva, secondo quanto riportato nei colloqui effettuati, è stata la repentinità con cui si aggravavano i pazienti infetti: questo ha comportato una difficoltà di gestione della sofferenza fisica ed emotiva del malato, accentuata dall’assenza del familiare, che avrebbe potuto contribuire ad alleviare il senso di paura e di smarrimento del proprio caro.

La gravità dei pazienti, la solitudine nella gestione, gli aggravamenti improvvisi e il carico di lavoro hanno portato spesso ad un cambiamento nella modalità di comunicazione delle diagnosi, che gli operatori hanno vissuto come salto temporale indietro, rispetto ai diritti acquisiti negli anni sulla comunicazione della diagnosi di malattia e dell’acquisizione di quanto disposto dall’articolo 4 del codice deontologico degli infermieri, secondo cui “il tempo di relazione è tempo di cura”.

L’empatia, punto portante del lavoro dell’infermiere, è stata messa quindi a dura prova. Spesso l’operatore descrive la sensazione di sentirsi “svuotato” a fine turno. Stanco a livello fisico per le enormi incombenze a cui è sottoposto, ma ancora più provato dall’impotenza, dall’identificazione vissuta in modo marcato con pazienti in fase terminale, che spesso in poche ore erano deceduti.

L’immagine che rimane in genere più impressa è stata la procedura di trasporto delle salme nelle camere mortuarie che spesso erano stanze improvvisate. La persona di cui avevano avuto cura fino a poche ore prima, si trasforma in un oggetto di possibile trasmissione di contagio, che deve essere il prima possibile reso “innocuo” attraverso procedure di disinfezione delle salme. Tali metodi sono stati molto pesanti da praticare da parte degli operatori, perché vissuti come vilipendio nei confronti del deceduto.

Queste esperienze spesso diventano ricorrenti nei pensieri del personale che ha svolto questi compiti. I colloqui venivano mirati alla ricerca di significato che permettesse all’operatore di poter perseguire questi nuovi mandati, in netta contrapposizione con il tema dell’empatia e del prendersi cura della persona in difficoltà.

Nei colloqui, è emersa spesso la necessità di una ridefinizione del tema dell’empatia. Spesso l’operatore partiva dalla fantasia che fosse di qualcosa di indefinito, sia a livello qualitativo che quantitativo, spesso erroneamente ricondotta solamente a una caratteristica personale o ad una disponibilità innata. Nello specifico, si è cercato di lavorare sul pensiero disfunzionale relativo al concetto di “risorsa inesauribile”, cercando di circostanziarla meglio come “risorsa limitata, soggetta a stanchezza, da distribuire con attenzione e moderazione”; una parte della quale deve essere obbligatoriamente riservata a se stessi e alle relazioni al di fuori del contesto lavorativo. Tale presa di coscienza ha in molti casi permesso all’infermiere di riconoscerne il limite naturale, immodificabile a livello quantitativo, ma controllabile nell’erogazione.

Il senso di colpa relativo al non essere stati sufficientemente empatici con tutti i pazienti seguiti durante il proprio turno viene quindi sostituito da una maggior consapevolezza e senso di controllo da parte del professionista. Questo è stato utile per minimizzare il rischio di esaurire tutte le energie troppo presto e per evitare un progressivo processo di chiusura e distacco nella vita familiare ed amicale, causa di inevitabile bourn out.

Una parte del trattamento psicoterapeutico ha previsto l’utilizzo di tecniche a mediazione corporea. Lo stato di tensione continua in cui hanno vissuto gli infermieri nel periodo della pandemia, ha originato una serie di sintomi neurofisiologici, quali agitazione, insonnia e tachicardia, ma anche stanchezza e dolori muscolari, di difficile gestione sia nelle ore di lavoro con i dispositivi di protezione, sia nelle ore di riposo.

Quando le persone sono esposte ad un evento stressante si ha un’attivazione del sistema nervoso simpatico, che a sua volta determina un aumento della produzione di sostanze in grado di regolare l’espressione dei geni preposti alla produzione di proteine, che determinano infiammazione a livello cellulare. Questi effetti infiammatori della reazione “attacco-fuga” rinforzano temporaneamente l’attività del sistema immunitario.

Lo stress psicologico di lunga durata, al contrario, pare incidere sulla persistente espressione dei geni pro-infiammatori, con ricaduta negativa su problemi medici e psichiatrici.

Oggi la Teoria Polivagale di Porges sottolinea che quando il nostro sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, queste possono diventare potenzialmente dannose per la nostra salute, poiché viene a mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso autonomo.

La Teoria Polivagale (Porges, 2013) pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché uno unico e sull’importanza della relazione gerarchica tra loro. Esiste una reazione simpato-adrenergica ventro-vagale, responsabile delle nostre risposte di mobilizzazione (attacco/fuga); ma c’è anche una reazione dorso-vagale, che quando è attivata in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi, consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria e prolungata.

Le tecniche di rilassamento rientrano nella categoria degli interventi psicofisiologici, cioè quegli interventi che prendono in considerazione l’inscindibile interazione tra vissuti mentali e vissuti corporei, cercando integrazione ed equilibrio tra le due componenti.

In particolare, sono stati utilizzati il training autogeno (T.A.) di Schultz e la respirazione lenta.

Il training autogeno consiste nell’apprendimento e nell’allenamento costante di una serie di esercizi di rilassamento di tipo autoindotto. L’obiettivo è insegnare al paziente una modalità alternativa di rispondere ad un determinato stimolo, attraverso l’esposizione progressiva e la conseguente risposta controllata. Una volta appreso, diviene uno strumento che il soggetto può utilizzare in autonomia, in situazioni diverse della vita quotidiana.

La respirazione lenta si rivela particolarmente efficace nel caso di forti emozioni, come ansia o collera. Entrambe sono buone strategie da mettere in pratica senza richiedere particolari setting o attrezzature.

Conclusioni

Introdurre una forma di riflessione di risparmio delle energie emotive, permette di essere maggiormente consapevoli dei propri disagi e di passare da un ruolo di spettatore passivo ad una situazione di maggiore utilizzo delle strategie di coping e self-efficacy.

Il senso di advocacy che ha costituito una grande spinta per gli infermieri a lavorare con determinazione durante la pandemia, non deve essere confuso con l’ignorare il senso di limite personale, che spesso viene letto come freno verso possibili azioni più determinanti. Portare avanti il mandato professionale, rispettando sé stessi, porta al raggiungimento del target professionale ed in parallelo tutela l’operatore.

Spesso gli operatori che hanno richiesto un aiuto psicologico sono giunti al Servizio di psicologia dell’emergenza già provati da periodi prolungati in reparti Covid-19; alcuni sono stati contagiati dal virus con conseguenze fisiche ed emotive in certi casi rilevanti.

La richiesta psicologica riportata è di un periodo di distacco in altri contesti per poter “prendere fiato”. A livello clinico, tenendo anche in considerazione l’importanza della presenza di professionisti preparati in reparti Covid-19, si evince quanto possa essere utile, più che un periodo prolungato di mutua, un rientro in altri contesti, anche riconducibili alla prevenzione dal Covid-19 (vaccinazioni o tamponi) o in ambulatori “puliti”. Infatti, il prolungamento della mutua può in alcuni casi accentuare una percezione di isolamento, una maggior sensazione di vulnerabilità e di inefficacia. Un reinserimento in altri reparti porta spesso progressivamente il professionista a reinstaurare una nuova modalità di svolgere il proprio lavoro, riappropriandosi del proprio ruolo e della propria identità di “operatore efficace”.

È stato quindi facilitato il bisogno dell’operatore di rientrare rapidamente al lavoro, dopo un periodo di contagio o di forte malessere derivato dalla situazione contingente, orientandolo su altri reparti o su altre mansioni, quando possibile, preservandone le competenze ed il senso di efficacia.

Il lavoro sulle strategie di coping, promuovendo la resilienza, con l’ausilio anche di tecniche a mediazione corporea, ha permesso all’operatore di avere un maggiore controllo emotivo e neurofisiologico in situazioni di stress.

Al termine del trattamento la maggior parte degli infermieri presi in carico hanno riferito di essersi riappropriati del proprio ruolo e della propria identità, ristabilendo un buon equilibrio tra empatia e professionalità, tra vita lavorativa e familiare, tra paura del contagio e buona prevenzione, tra senso di isolamento e condivisione di sensazione, riscoprendo i punti di forza dei propri confini\limiti. Hanno riferito di “gestire” meglio le emozioni, recuperando l’idea di poter fronteggiare le nuove ondate di pandemia assieme ad altri colleghi che possono vivere in parallelo disagi, paure e timori, ma con la convinzione di avere un obbiettivo condiviso ed affrontabile.

Alcune indicazioni pratiche tratte dall’analisi della letteratura

Riportiamo alcune indicazioni sulla prevenzione dello stress emotivo degli operatori sanitari legato alla situazione di emergenza da Covid-19.

Indicazioni per le Aziende sanitarie e i Dirigenti delle strutture sanitarie

  • Garantire una buona comunicazione e fornire al personale aggiornamenti precisi e accurati su ciò che sta accadendo. Questo può contribuire a mitigare le preoccupazioni degli operatori legate all’incertezza e far percepire un senso di controllo.
  • Riferire feedback positivi utili a rafforzare il valore e l’importanza del ruolo svolto.
  • Promuovere il lavoro in team. Il Buddy system, per esempio, è un metodo che prevede che due colleghi coinvolti nell’emergenza lavorino affiancati, divenendo responsabili della sicurezza personale l’uno dell’altro e sostenendosi nella reciproca capacità di affrontare circostanze avverse.
  • Facilitare l’accesso ai servizi di supporto psicologico, assicurandosi che il personale sia a conoscenza di come e dove accedervi, incluso il supporto telefonico o altre opzioni di servizio a distanza, se disponibili.

Indicazioni per gli operatori sanitari

  • Organizzare, per quanto possibile, il lavoro, mantenendo un monte ore ragionevole e facendo delle pause. Durante la fase acuta dell’emergenza è fondamentale garantirsi degli spazi di tregua per riposare e riflettere sull’esperienza che si sta vivendo. Gestire lo stress e occuparsi della propria salute mentale è importante per mantenere la salute fisica.
  • Utilizzare strategie individuali di gestione delle difficoltà (coping) rivelatesi efficaci in altri contesti può aiutare a superare anche una situazione completamente nuova e senza precedenti come l’attuale emergenza da COVID-19.
  • Confrontarsi con i colleghi è fondamentale sia per coordinare le attività, sia per condividere la percezione personale e trovare un supporto reciproco, rispettando i diversi modi di reagire alla situazione critica. Esplicitare un riconoscimento professionale nei confronti di un collega può rafforzare la motivazione e moderare lo stress.
  • Cercare di mantenere stili di vita salutari, mangiando e idratandosi a sufficienza e in modo sano per essere in condizioni di affrontare la pressione che inevitabilmente viene accumulata. Ridurre l’assunzione di caffeina, nicotina e alcol.
  • Concedersi sonno e riposo adeguati a ricaricarsi, fare un po’ di esercizio fisico.
  • La pressione, lo stress e i sentimenti associati, possono far emergere sensazioni di impotenza e inadeguatezza verso il proprio lavoro. È importante, quindi, riconoscere ciò che si è effettivamente in grado di fare per aiutare gli altri, valorizzando anche i piccoli risultati positivi; riflettere su ciò che è andato bene e accettare ciò che non è andato secondo le aspettative, riconoscendo i limiti legati alle circostanze. È anche importante stare in contatto con gli stati d’animo personali, essere consapevoli del carico emotivo, imparando a riconoscere sintomi fisici e psicologici secondari allo stress. Prendersi cura di sé e incoraggiare i colleghi a farlo è il modo migliore per continuare a essere disponibili con i pazienti.
  • Rimanere in contatto con gli amici, la famiglia o altre persone di cui ci si fida per parlare e ricevere sostegno, anche a distanza.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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