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Le parole della malattia. L’ascolto empatico nella relazione medico-paziente

La medicina narrativa, attraverso lo sviluppo di un ascolto empatico, consente di individuare e gestire la sofferenza del paziente

Di Astrid Giordano

Pubblicato il 22 Giu. 2021

Aggiornato il 25 Giu. 2021 11:28

La comunicazione medico-paziente diviene sempre narrazione e il focus sulla storia del paziente, al di là della storia clinica, è quello di una disciplina relativamente nuova nello scenario medico che è la Medicina Narrativa.

 

La malattia ha bisogno di essere raccontata. È subito pronta per diventare racconto, quasi fosse lì ad aspettare il momento giusto per farsi parola. Un paziente che racconta la propria malattia traccia sempre un confine tra un prima e un dopo, raccontando di un tempo in cui tutto era diverso.

La malattia, infatti, comporta sempre una perdita; la perdita di quello che si era, di ciò che si poteva fare, di ciò che si poteva ancora vivere. Ed è spesso da qui che un paziente inizia il suo racconto: da quello che era prima, da quali erano i suoi sogni e i suoi progetti. Come se dovesse proteggere la propria identità, quell’identità che la malattia gli sta portando via e dovesse garantirgli un posto nella memoria, sua e di chi ascolta.

Non c’è paziente che non abbia qualcosa da raccontare se lasciato libero di farlo, ma non sempre questo accade. Quello che il paziente spesso vive, nell’incontro con il medico, è un dettagliato interrogatorio sui suoi sintomi, sul loro esordio, la loro durata e l’intensità; un meticoloso viaggio fatto di domande incalzanti nella dimensione del corpo, delle sue percezioni o, più esattamente, del suo dolore. Ma ciò che il paziente vuole raccontare va ben oltre. Nella narrazione della sua malattia, il paziente ci racconta non solo i sintomi ma soprattutto delle sue tristezze, delle paure e delle nostalgie, della solitudine e delle speranze infrante; ci racconta dell’umanità lacerata dal dolore (Borgna, 2017). La condizione necessaria per accogliere e comprendere tutto questo è l’ascolto e “per ascoltare occorre tacere” (Borgna, 2017, pg 12) ma tacere implica il sapere aspettare il fluire del discorso altrui in una condizione di piena attenzione su colui che parla, un silenzio anche interiore, l’assenza di pensieri che interferiscono, lo spazio della mente libero per accogliere l’Altro e il suo racconto.

Uno studio condotto in un ambulatorio di Medicina generale (Beckman, Frankel, 1984) ha rivelato che il tempo in cui un paziente riesce a parlare senza essere interrotto dal medico era di circa 18 secondi e che solamente in una piccola percentuale di casi, il 23%, il paziente riusciva a completare l’argomento che aveva iniziato. Nel restante 69% delle visite oggetto dello studio, il paziente è stato interrotto dal medico che ha indirizzato il colloquio verso una specifica problematica. Questi dati ci sembrano sconcertanti alla luce di altri studi che hanno invece messo in evidenza come l’essere ascoltato e il potersi esprimere con parole proprie e in termini di emozioni e sentimenti incrementa la soddisfazione del paziente rispetto alla visita medica, aumenta la percezione delle competenze del medico e favorisce la compliance terapeutica (Buckman, 1992).

Un protocollo per la comunicazione medico-paziente

Il Prof. Robert Buckman, oncologo candese, ha descritto una serie di elementi fondamentali del colloquio medico che garantiscono al paziente la sensazione di essere accolto e ascoltato:

  • Prepararsi all’ascolto
  • Fare domande
  • Ascoltare attivamente e favorire il racconto
  • Dimostrare di comprendere
  • Rispondere in modo adeguato

Tali elementi sono stati descritti dall’autore nell’ambito della comunicazione della cattiva notizia ma possono essere considerati validi in senso più generale nella comunicazione medico-paziente.

Il primo elemento descritto fa riferimento alla preparazione del setting, inteso come luogo e cornice che delimita la relazione medico-paziente, nonché il contesto fisico in cui si svolgerà il colloquio; è importante ad esempio presentarsi al paziente, rivolgersi con il “lei”, preparare la stanza affinché ci sia silenzio e gli spazi adatti per conversare nel rispetto di una giusta distanza. Tutto questo rimane valido anche qualora il colloquio si svolga nella stanza del paziente.

Una delle regole più importanti è il sedersi: questo trasmette al paziente la disponibilità al dialogo, nonché un rapporto paritario di ascolto reciproco. Anche le domande sono un elemento importante che influenzano l’andamento di un colloquio; si possono utilizzare domande chiuse che rappresentano un modo rapido e efficace per ottenere specifiche informazioni ma non danno al paziente la possibilità di esprimersi liberamente sull’accaduto. Le domande aperte invece danno al paziente la possibilità di rispondere in maniera soggettiva senza necessariamente seguire il ragionamento del medico. Per manifestare ascolto un altro importante strumento è l’attenzione che deve essere naturalmente diretta al paziente e attraverso la quale l’ascolto si trasforma in un passaggio attivo e non passivo.

È importante inoltre non interrompere il paziente mentre sta raccontando, attendere quindi che abbia terminato prima di prendere la parola; incoraggiare il racconto utilizzando il contatto visivo, o richieste di ulteriori spiegazioni; tollerare i momenti di silenzio interpretando anch’essi come una comunicazione di emozioni e sentimenti. Ma oltre all’ascolto, è importante che il medico dimostri anche di comprendere ciò che il paziente racconta ad esempio attraverso le ripetizioni (utilizzando nelle proprie risposte alcune parole utilizzate dal paziente) e le riformulazioni (ripetizione con parole proprie di ciò che ha detto il paziente). Ardis e Marcucci (2013), descrivono con il medesimo scopo, le “tecniche del riflesso” (che non saranno descritte in questa sede in modo esaustivo) ovvero delle microabilità verbali che servono per rimandare al paziente ciò che lui stesso ha comunicato dopo averlo elaborato e riordinato in un modo che possa essergli utile. Una di queste tecniche è la riflessione semplice che consiste nel ripetere l’ultima parola della frase del paziente seguita da una pausa; essa risulta molto utile nelle situazioni di profonda sofferenza espressa da un paziente per rinforzare empaticamente le sue comunicazioni. Un’altra tecnica del riflesso centrata invece sulla comunicazione delle emozioni è la riflessione dei sentimenti che consiste nella ripetizione, da parte del medico, delle emozioni o sentimenti pronunciati a parole dal paziente. In tal modo si stimola quest’ultimo a esprimere i propri vissuti emozionali razionalizzandoli. Allo stesso modo, si possono verbalizzare i sentimenti e le emozioni anche non espressi dei pazienti, deducendoli dalle loro comunicazioni e rendendoli espliciti, favorendone così una maggiore consapevolezza (Ardis e Marcucci, 2013).

Infine, nel protocollo del Prof. Buckman, il medico deve fornire una risposta che sia il più possibile sintonizzata con il racconto del paziente. Ci sono diversi tipi di risposta che possono essere utilizzati in base alla situazione; ciò che è importante è evitare risposte giudicanti, ostili (anche se il paziente ha espresso ostilità o aggressività) o irrealisticamente rassicuranti, prediligendo invece risposte empatiche che spostano l’attenzione e convalidano l’emozione del paziente (“Capisco che per lei sia molto difficile”, “Deve sentirsi molto arrabbiata”) (Buckman, 1992).

La possibilità di esprimere comprensione empatica passa attraverso la capacità del medico di assumere a pieno la prospettiva del paziente, immedesimarsi in modo autentico e vivere come se fosse lui stesso al suo posto, immaginandone quindi i vissuti, le paure, le angosce per poi legittimare verbalmente queste emozioni (Ardis e Marcucci, 2013).

Il nuovo orizzonte della Medicina Narrativa

Quanto descritto dal Prof. Buckman fa luce sull’importanza del rapporto medico-paziente su cui è ormai da tempo aperto un infuocato dibattito: sebbene infatti, sia oggi quasi un’opinione condivisa che tale rapporto debba avere i connotati della vicinanza emotiva, i progressi scientifici degli ultimi anni sembrano condurre da tutt’altra parte. L’evoluzione scientifica rischia di portare verso una medicina sempre più distaccata dal paziente fino a rendere possibile giungere ad una diagnosi e alla programmazione di un trattamento senza necessità di visitare il paziente. Il rapporto medico-paziente diventa piuttosto un elemento disturbante per l’obiettività della diagnosi (Veronesi, Pappagallo, 2016). Seguendo quest’ottica però si tornerebbe ad un approccio medico del curare centrato esclusivamente sulla malattia. È necessario invece recuperare una prospettiva più umanistica e individualizzata della malattia ma soprattutto della persona portatrice di sofferenza che abbia dunque come oggetto dell’attenzione la persona nella sua interezza, che si prenda cura e non si limiti a curare il sintomo. Questo implica una totale revisione del rapporto tra paziente e medico il quale colloca al centro del suo agire medico i bisogni e le esigenze della persona malata e costruisce interventi e progetti di cura personalizzati per ogni specifico paziente (Pantaleo, 2011). In questa nuova prospettiva il racconto della malattia assume un’importanza fondamentale in quanto strumento che favorisce e alimenta la relazione con il curante. Il paziente che giunge dal medico ha alle spalle già i primi capitoli della storia della sua malattia che contengono le sue percezioni, le interpretazioni di ciò che gli è accaduto, le paure che a tutto questo si associano, dubbi e domande che cercano una risposta. Le sue narrazioni ci racconteranno quindi non solo la sua vita e la sua malattia ma come il malato vede il mondo, legge la realtà, si pone nei confronti degli altri, il linguaggio che usa e il significato che dà alle parole. A questo si aggiunge la sua storia di vita che comprende il proprio concetto di salute e malattia, il modo in cui ha affrontato nella sua vita altre situazioni di sofferenza, le proprie esperienze, conoscenze e convinzioni. Il paziente porta dunque le sue narrazioni; in altre parole, la comunicazione che avviene all’interno della relazione medico-paziente diviene sempre narrazione. Questo focus sulla storia del paziente, al di là della storia clinica, è quello di una disciplina relativamente nuova nello scenario medico che è la Medicina Narrativa. Quest’ultima consente di individuare e gestire la sofferenza del paziente attraverso lo sviluppo di un ascolto empatico; “La medicina narrativa arricchisce le cure attraverso l’attenzione e l’utilizzo anche in senso terapeutico dei racconti dei pazienti, dei medici, degli infermieri e di quanti operano nel sistema sanitario, valorizzando in particolare la prospettiva e la visione della malattia del soggetto e dei suoi familiari” (Virzì A. et al., 2011, pg 10). Ciò che il paziente racconterà di sé stesso attraverso le sue narrazioni, definirà la sua identità che spesso, in condizioni di malattia, viene aggredita e compromessa.

Nei racconti e nelle esperienze del paziente è centrale la dimensione del tempo: il tempo delle attese, il tempo delle domande, della disperazione e forse della rinascita. Tornando all’ascolto quindi, aldilà di ogni buona pratica che il medico possa mettere in atto, esso è possibile solo quando si tengono in considerazione le speranze dei pazienti e il loro tempo. Scrive Borgna “Il momento centrale di ogni relazione, anche di quella terapeutica, è insomma contrassegnato dall’ascolto, e dal rispetto delle attese: delle attese inespresse, (…) delle attese del cuore, ancora più importanti che non quelle della ragione, delle attese che non il linguaggio delle parole, ma quello del corpo vivente, ci sa indicare” (Borgna, 2017, pg 90).

Le parole che curano

Ma dopo il momento dell’ascolto viene il momento delle parole, quelle che comunicano al paziente empatia e accettazione. Ancora Borgna ci insegna, “noi siamo di continuo responsabili delle parole che diciamo, e di quelle che dovremmo dire, e non diciamo, così come siamo responsabili dei nostri gesti mancati, che non siano tenuti presenti nelle loro conseguenze” (Borgna, 2017, pg VIII).

Le parole a volte troppo dure, inumane e violente dei medici lacerano gli individui già afflitti dalla malattia. Parole non scelte, smarrite nei corridoi, sfuggenti. Ma è necessario sceglierle queste parole, compito e dovere di chi cura, scegliere parole che curano, appunto, e non feriscono, che consolano e accolgono anche quando non possono più offrire una soluzione alla malattia.

Una tecnica non molto approfondita nella comunicazione medico-paziente che mette al primo piano la figura del clinico è quella dell’autorivelazione (self-disclosure) ovvero il raccontare una propria esperienza personale al paziente per attribuire una qualità empatica alla comunicazione. Nel mio lavoro di supervisione con l’equipe di un reparto di Riabilitazione, al quale afferiscono pazienti con diverse patologie, spesso croniche, mi è capitato di discutere con il personale sanitario dell’utilità di questa tecnica spesso utilizzata in modo acritico e inconsapevole. È un’esperienza condivisa da molte operatrici, che svelare le proprie esperienze, aumenta la sintonizzazione emotiva con i pazienti e talvolta favorisce l’aderenza ai trattamenti terapeutici. Tuttavia, nell’ascolto di tale esperienza mi sono chiesta quanto l’utilità dell’autorivelazione si trovasse piuttosto nel facilitare al sanitario l’accesso al mondo del paziente e non viceversa. Di chi è quindi il bisogno che muove e alimenta questa spinta alla condivisione? Del paziente o del sanitario? Forse più probabilmente di entrambi. Quello che però è importante sottolineare, in linea con l’argomento di questo articolo, è che sicuramente la condivisione da parte del medico o sanitario, di un proprio vissuto o esperienza simile a quella del paziente abbatte le resistenze e le difese del paziente stesso che sperimenterà una profonda comprensione della propria sofferenza.

Ma se siamo responsabili delle parole che diciamo dobbiamo essere consapevoli anche delle parole che non si devono dire quando i pazienti chiedono di non sapere, o semplicemente non chiedono e sta a noi comprendere dove si pone il limite di ciò che possiamo e dobbiamo comunicare. Alcuni pazienti riescono a continuare a vivere solo non pensando alla morte, solo continuando come se niente fosse cambiato, come se la malattia non avesse mai segnato quel confine netto con la vita precedente. Altri sono pienamente consapevoli ma temono la forza delle parole, le tengono a distanza perché le parole danno concretezza alla realtà, che allora non potrà più essere negata. Le parole, come in un processo fotografico, sviluppano il negativo della malattia trasformandola in un’immagine nitida e indimenticabile. Altri ancora non nominano la loro malattia e in tal modo non le riconoscono un’identità, – cos’è il nome se non la definizione della precisa identità di un qualcosa o qualcuno?,- non nominandola non le autorizzano un’esistenza; quel “male” rimane un ignoto senza volto e senza nome.

La speranza a qualsiasi costo: il caso del sig. C.

Un paziente affetto da una malattia neurodegenerativa, il sig. C. mi racconta di aver percepito dallo sguardo e dalle osservazioni del medico che quest’ultimo stesse valutando la sua condizione clinica in questi termini: “stava calcolando quanto tempo mi rimane da vivere, non stava valutando me, il mio movimento e la mia malattia, calcolava tra quanto tempo morirò”. Il paziente non vuole mai vedere negli occhi del medico il destino della sua morte, neppure quando su questo vi è la piena consapevolezza. Il paziente ha bisogno di sentire una speranza di vita e di sentire che, al di là di qualunque evidenza scientifica e inconfutabile certezza, il medico non si arrende.

Lo stesso paziente mi racconta di sottoporsi settimanalmente a dei trattamenti sperimentali molto dolorosi e invasivi ma lo fa volentieri, mi spiega, “perché quel medico mi dà la speranza di poter fare qualcosa, mi dà la sensazione di non aver completamente smesso di lottare”. Il sig. C. si consegna nelle mani del medico, consegna il suo corpo alle sue cure e perfino alle sue più svariate sperimentazioni, senza fare domande, senza lamentarsi per il dolore, senza replicare. In cambio, la speranza e la possibilità di trovare nello sguardo di un altro il riflesso della vita e non l’ombra cupa della morte. Perché infondo, cosa ha promesso al sig. C. questo audace medico? Gli ha forse promesso che lo salverà? Gli ha forse garantito che tali difficili cure lo condurranno a guarire la sua terribile malattia? No, gli ha solo concesso il beneficio di una possibilità e ha riposto su di lui parole di speranza anziché uno sguardo di rassegnazione.

 

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Astrid Giordano
Astrid Giordano

Psicologa Psicoterapeuta Psicodinamica

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ardis, S., Marcucci, M. (2013). La comunicazione sanitario-paziente. Aonia Edizioni.
  • Beckaman, H.B., Frankel, R.M. (1984). The effect of physician behavior on the collection of data. Annals of Internal Medicine, 101(5), 692-6.
  • Bert, G. (2007). Medicina Narrativa, Storie e parole nella relazione di cura. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore.
  • Borgna, E. (2017). Le parole che ci salvano. Torino: Giulio Einaudi Editore.
  • Buckman, R. (1992). La comunicazione della diagnosi in caso di malattie gravi. 2003 Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Pantaleo, P. (2011). Al di là delle cure. Interventi complementari e di supporto in oncologia. Milano: Franco Angeli Editore.
  • Veronesi, U., Pappagallo, M. (2016). Ascoltare è la prima cura. Milano: Sperling & Kupfer Editori.
  • Virzì, A., Bianchini, O., Dipasquale, S., Genovese, M., Previti, G., Signorelli, M. S. (2011). Medicina Narrativa: cos'è?, Medicina Narrativa, 1, 9 – 13.
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