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La formazione sull’umanizzazione della cura in ambito sociosanitario. L’esperienza pluriennale di corsi in Residenza sanitaria assistenziale per anziani (RSA): una riflessione qualitativa

Che cosa vuol dire umanizzazione della cura? E come poterne parlare a personale come quello della RSA che è già specializzato e con esperienza?

Di Lorenzo Guerra, Andrea Moioli

Pubblicato il 05 Nov. 2021

La nostra definizione di umanizzazione della cura è quella di processo che consiste nel ricondurre al centro dell’intervento la persona, con la propria esperienza di malattia e i propri vissuti.

 

Il contesto normativo e teorico

Ricevuto la prima volta l’incarico di un intervento informativo e formativo sull’umanizzazione delle cure, ci è sembrato subito un terreno scivoloso. Nel 2014 in Regione Lombardia è stato approvato un decreto regionale attinente l’accreditamento delle strutture sociosanitarie del territorio, con nuovi vincoli e responsabilità. All’interno di tale documento si obbligano le realtà interessate a svolgere formazione a tutto il personale di contatto sul tema dell’umanizzazione della cura. Una decisione maturata sia dopo recenti denunce di episodi di maltrattamenti verso gli utenti, sia perché finalmente è diventata legge l’idea che la qualità di un sistema sanitario si misuri anche con la capacità di accogliere i pazienti nella loro interezza, con tutte le loro esigenze psicologiche e sociali e non solo con l’efficienza economica, l’efficacia degli esiti, la disponibilità di innovazioni assistenziali, tecnologiche e terapeutiche. (DGR 2569/2014). Ma che cosa vuol dire umanizzazione della cura? E come poterne parlare al personale che, almeno sulla carta, è già specializzato e con esperienza? Ed anche quando avremo trovato materiale formidabile da fornire, come evitare la sensazione nei corsisti di sentire giudicato il proprio lavoro, oppure di sentire una sfilza di banalità su ciò che è alla base del loro operato quotidiano?

Allora abbiamo rinunciato a questa strada invertendo la rotta di 180 gradi: abbiamo pensato che la cornice vincente fosse quella di non considerare la cura umanizzata o disumanizzata “in sé”, ma che qualsiasi cura può essere umana o meno. Ovviamente un trattamento disumano “in sé” (maltrattante, per esempio) sarebbe già perseguibile a norma di legge e lontano dal tema del corso.

Noi ci stiamo muovendo invece in un’area grigia, più complicata, mutevole e incostante.

Come si fa a misurare se un tocco è fatto in modo umano? E com’è l’igiene quotidiana umanizzata? Si può misurare quanto sono umanizzate le cure? Anche qui avremmo potuto parlare di empatia e magari cercare qualche strumento per aumentarne i livelli. Ancora una volta però la sensazione è stata di non sapere “dove” questi strumenti sarebbero arrivati negli operatori, né se e quanto l’umanizzazione sarebbe stata presente nel personale che avremmo visto in aula.

Che cosa intendiamo con umanizzazione

Abbiamo allora proceduto per gradi.

Per la definizione di “umano” ci siamo chiesti cosa distinguesse una persona da un oggetto: pensieri, emozioni, sentimenti, sensazioni corporee (proprie ed esterne).

Non esaustivo ovviamente, però non è poco ed è sufficiente, secondo noi.

Porre questa domanda in aula ha infatti aiutato molto i partecipanti. Qualsiasi fosse la loro mansione si sono sentiti interrogati come esseri umani e non come funzione, cosa che purtroppo sempre più accade nei contesti lavorativi che frequentano.

Le lavagne mobili si sono rapidamente riempite di molte parole e riflessioni, tutte ascrivibili ad una delle 4 categorie elencate più sopra.

Questa è stata la base per proporre la nostra definizione di “umanizzazione”, che descriviamo come il processo che consiste nel ricondurre al centro dell’intervento la persona, con la propria esperienza di malattia e i propri vissuti.

Questa definizione poggia su tre pilastri teorici: è processuale, impermanente e relazionale.

Processuale nel senso etimologico di “muoversi in avanti” (pro-cedere). Indichiamo così il senso dell’insieme di azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo e mantenerlo nel tempo. Abbandoniamo l’idea che ci sia qualcosa di preciso e definito da fare una volta per tutti per essere operatori umanizzati.

Impermanente perché uno stato mentale è transitorio. Questo costrutto permette all’operatore di riferirsi ad un tratto più “maneggiabile”. La persona prova ad auto-osservarsi e modificare il proprio stato, notando come sia fisiologicamente mutevole, sgravandosi così da un senso di giudizio più o meno esplicito. Si tratta infatti di “ri-condurre al centro dell’intervento” perché assumiamo come dato di fatto (gli attacamentologi e i clinici lo hanno ampiamente dimostrato e spiegato) che non è possibile, e probabilmente nemmeno auspicabile, rimanere sintonizzati con l’altro per tutto il tempo della relazione, nemmeno nella relazione madre-bambino più sicura, figuriamoci fra anziano, operatore e minutaggio. In Regione Lombardia per ogni anziano inserito in una residenza sanitaria assistenziale (RSA), da normativa regionale, vengono prescritti mediamente 901 minuti di assistenza settimanali comprensivi di personale assistenziale, medico, infermieristico, animativo e fisioterapico. In questi anni i nuovi ingressi stanno evidenziando un carico sanitario sempre più grande facendo aumentare le ore di intervento di personale medico e infermieristico con una netta riduzione del personale assistenziale che si ritrova a svolgere le stesse mansioni (igiene quotidiana, assistenza all’alimentazione, idratazione…) con meno tempo a disposizione. 901 minuti in definitiva sono 15 ore. 15 ore di assistenza su un complessivo di 168 ore settimanali disponibili…meno del 9% di attenzione settimanale!

Relazionale perché considerare l’Altro come umano significa considerarne sensazioni, emozioni, pensieri in relazione e provare a sintonizzarsi con essi; altrimenti è solo una speculazione metacognitiva, magari corretta, ma non relazionale.

Questi tre pilastri dunque sorreggono la cornice entro cui muoversi, fatta di un continuo riassestarsi fra sintonizzazione emotiva, auto-osservazione e pratica.

Per questo pensiamo non esista consiglio valido per tutti gli operatori.

Anzi, pensiamo che questa modalità abbia insito il pericolo di scivolare verso la disumanizzazione del nostro intervento formativo, portandoci a non considerare le specificità della persona che ci ascolta, considerandolo un operatore e non una persona con il proprio vissuto lavorativo e personale.

Che cosa intendiamo con disumanizzazione

Anche questa definizione ha le stesse difficoltà della precedente, dunque c’è sembrata una buona idea partire dalla definizione di umanizzazione mettendo un segno meno davanti.

Quali sono quindi i segnali che indicano che l’assetto umanizzato ed umanizzante si è perso o si è indebolito? Anche qui abbiamo pensato con semplicità. Succede quando smettiamo di considerare una persona come portatrice di specifici stati mentali preferendo considerarla un oggetto che, come abbiamo provato a definire, non ne ha.

Quando l’operatore tende a riferirsi ad una persona come per esempio “un posto letto”, “un Alzheimer” o “un aggressivo”. Quando cioè la complessità che è stata descritta riccamente nella lavagna mobile si contrae in un unico termine: giudicante o affettuoso che sia, il problema è la contrazione di un’intera persona in una sola parola.

Talvolta può portare a trascuratezza, altre volte a cicli interpersonali disfunzionali, altre volte può essere innocuo. Ma è sempre una riduzione, questo è il problema.

Un ospite “da sistemare” o “tranquillo” mentre due operatori chiacchierano fra loro, è un esempio di cure magari tecnicamente impeccabili ma scivolate nella disumanizzazione: perché in quell’istante l’esperienza dell’anziano curato non è al centro dell’intervento degli operatori né viene considerato l’effetto del proprio agito.

In altri casi la rappresentazione mentale dell’Altro come “oggetto” è tacita e innesca cicli interpersonali problematici. Lo stato di timore e scoraggiamento implicito ma condiviso fra due operatori che entrano nella stanza di un ospite “violento” o “testardo” può costituire esso stesso il trigger per i comportamenti problematici dell’anziano verso gli operatori.

Cosa vuol dire “curare”?

Se è ora chiaro cosa intendiamo per “umanizzazione” e “disumanizzazione”, è altrettanto chiaro cosa si intende per “cura” e “curare”? Sono dieci anni che lavoriamo nelle strutture per anziani ma già notiamo che la popolazione geriatrica sta cambiando. Le famiglie, probabilmente per motivi legati al momento di crisi non del tutto risolto, all’elevato costo delle strutture e alla difficoltà di delegare a terzi le cure, mantengono a casa sempre di più i propri cari, accedendo alle RSA solo quando le persone sono molto anziane o molto compromesse.

In un periodo pandemico come quello che stiamo attraversando, lo stigma sociale verso forme di istituzionalizzazione vissute come “delega alla cura”, spesso con senso di colpa da parte del caregiver, viene amplificato ritenendo i luoghi comunitari di assistenza come ospedali o case di cura, meno sicuri e più a rischio contagio. Questa convinzione è errata e i dati dell’Istituto Superiore di Sanità sul monitoraggio del contagio dimostrano come le misure ad oggi adottate nei luoghi di cura siano efficaci nel contenere la diffusione della malattia.

Quadri complessi di patologie, disturbi comportamentali su base neurologica o persone con disturbi psichiatrici residuali: davanti a quadri di pazienti ad alta intensità assistenziale e disturbi per lo più cronici o degenerativi, cosa vuol dire “curare”? Eliminare la patologia che li affligge? Allietarli per rendere meno pesante questo ultimo tratto di vita?

Chi cura non evita la morte e spesso non può nemmeno prevenirla. Aiuta la persona a vivere la più alta qualità di vita accettabile e, quando non è più possibile, la più alta qualità di morte. Perché nella cronicità, l’appropriatezza della cura sta nel migliorare le condizioni di vita, non semplicemente la salute. Questo si ottiene unicamente migliorando le relazioni che intercorrono tra operatore e paziente. Così nasce la distinzione tra “cura” e “prendersi cura”: quest’ultimo assume la consapevolezza dell’impossibilità di guarire, così da riuscire ad attendere, ad assistere senza intervenire, misurando l’intervento secondo il desiderio e non esclusivamente secondo il bisogno, spesso oggi interpretato più dal familiare che non dall’anziano stesso. Prendersi cura è quindi, nella nostra idea, accompagnare e condividere. Atteggiamenti che anche nell’esperienza portata dagli operatori, rendono il lavoro più facile, meno stressante e meno rischioso.

Come un operatore smette di essere umano?

Avevamo ora bisogno di una spiegazione che aiutasse gli operatori a farsi un’idea di come un operatore smetta di essere umano.

Come descritto sopra, il focus dell’intervento è passato dall’essere sulle caratteristiche della cura che l’operatore pratica, alle caratteristiche delle rappresentazioni mentali che l’operatore ha del paziente residente. Come auspicabile e prevedibile è stato frequente trovare una buona accoglienza su questo approccio e spesso abbiamo trovato personale molto centrato sui bisogni degli ospiti.

Utilizzando la teoria dei sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, 1994) abbiamo ipotizzato che il sistema di accudimento attivato da quello dell’attaccamento nell’anziano aiuti questo processo. Tipicamente però la sollecita attenzione e disponibilità alla sintonizzazione dell’accudimento scompare quando la relazione diventa agonista, lasciando il posto a rapide (e più adattive in senso di lotta per le risorse o la sopravvivenza) letture metacognitive ostili dell’altro: è violento, è testardo… I pazienti considerati difficili sono quelli descritti solo come arrabbiati o aggressivi, che trovano operatori che entrano nella loro stanza con questa rappresentazione mentale di sé-con-l’altro.

L’operatore ha una rappresentazione di sé-con-l’altro basata sulla propria impotenza o aggressività, reagendo al proprio stato interno ancor prima dell’effettiva azione dell’ospite e così talvolta causandola, come una profezia che si auto-avvera. In questo caso quindi al centro dell’intervento dell’operatore sarà la rappresentazione dell’altro come pericoloso e non la sua peculiare esperienza di malattia e sofferenza. Malattia, dolore, morte sono fenomeni ai quali non ci si abitua e che da esseri umani motivati alla sopravvivenza, manteniamo a distanza. Costituiscono però il milieu entro il quale un professionista sanitario opera e che può condurre al burnout, se non supervisionato, abbattendo i livelli di empatia e metacognizione verso l’ospite. Pensiamo però non sia questa la sede per occuparsi di una situazione patologica, preferiamo invece concentrarci sull’andamento che abbiamo notato negli operatori in salute.

L’altro ambito denso di agonismo sono le relazioni fra operatori e parenti dell’anziano. Nei parenti è frequente il senso di colpa, e l’impotenza genera spesso aggressività verso i professionisti che, sentendosi attaccati, generano cicli interpersonali agonisti. In entrambe le parti possono nascere credenze patogene sull’incompetenza ed inadeguatezza dell’altro: l’operatore pensa che il familiare non capisca nulla di anziani e il parente che l’operatore non sappia nulla del proprio familiare.

Affrontando questa comune situazione abbiamo trovato utile porre chiaramente agli operatori questa domanda: “secondo voi, come sta il familiare?”.

Le risposte solitamente hanno permesso di far recuperare ai partecipanti le riflessioni iniziali sulle caratteristiche tipiche dell’operatore umanizzato dotato di pensieri, emozioni e sensazioni e di riprendere la consapevolezza di come lo siano anche i parenti. Recuperare l’assetto empatico ha permesso agli operatori di accedere nuovamente alla propria esperienza di essere familiari di qualcuno che ha avuto bisogno di cure. È stato interessante notare che l’atto di pensare ai familiari come “persone” abbia istantaneamente abbassato il clima di aggressività e impotenza in aula, permettendo una diversa visione del problema, (ri)costruendo una rappresentazione del familiare come persona in difficoltà e non come minaccia.

L’esito è stato di restituire all’operatore sia potere di gestione sia permettergli di rassicurarsi, per tornare libero  di  sintonizzarsi con l’esperienza del parente.

Pensiamo inoltre che sia stato utile spiegare ai corsisti come questo accada per un fisiologico meccanismo di adattamento ad un ambiente percepito come pericoloso o troppo difficile per essere affrontato (distress), da entrambe le parti.

A questo punto invitiamo a una riflessione individuale sulle peculiarità dello stress lavoro correlato nel sociosanitario e considerarlo una probabile (la nostra esperienza ce ne dà certezza, in realtà) fonte di disumanizzazione delle cure.

Aversi in mente

Infine, la domanda che ci siamo posti è stata: che cosa vogliamo che l’operatore si porti a casa da questo percorso? Quali strumenti pratici vogliamo implementi nel corso del tempo?

Per come abbiamo affrontato il problema è evidente che qualsiasi informazione hard sarebbe potuta bastare allo scopo, senza una dimensione pratica.

Il processo di umanizzazione e disumanizzazione è basato su un funzionamento cognitivo influenzato da attivazioni emotive. È su queste che l’operatore deve poter avere un controllo, dunque abbiamo pensato che fosse la pratica esperienziale a poter fornire l’esempio su cui modellare gli strumenti per la pratica quotidiana dell’operatore.

Aversi in mente significa percepire sé e gli altri, utenti e colleghi, come attori di un insieme relazionale e non solo come portatori di caratteristiche fisse ed immutabili alla quali reagire nell’unico modo che si conosce, sia esso positivo o negativo.

Siamo convinti che la capacità osservativa e di curiosità verso i fenomeni relazionali e psicologici in cui si è immersi sia una caratteristica di tutti gli esseri umani (Fisher, 2017). La tecnica è quella di provare a sospendere il giudizio, e osservarsi, anche nell’atto di giudicare.

In questo senso gli esercizi di mindfulness si sono dimostrati particolarmente utili. Partendo da piccole osservazioni sul corpo, osservando il proprio respiro o la sensazione dei propri piedi a contatto con il pavimento si è arrivati alla possibilità di osservare anche i propri pensieri. Ad esempio è stato più volte apprezzato l’esercizio di guardarsi fissi negli occhi a coppie ed al contempo osservarsi imbarazzati, ridere, annoiati o infastiditi.

Abbiamo anche notato come mediamente le persone ritenevano impossibile passare 5 minuti di orologio osservando il proprio respiro. Senza che se ne accorgessero lo hanno fatto per 10 o 12 minuti senza problemi, con un senso di contentezza e incredulità una volta scoperto.

Questo tipo di esercizi mindfulness-based hanno fornito la pratica esperienziale per aversi in mente: non essere in balia di pensieri, emozioni proprie ed altrui o di utenti più o meno simpatici o aggressivi.

Come sto ora? Con chi sono i miei pensieri e le mie emozioni in questo istante? Sono le domande che speriamo abbiano acquisito senso e funzione di strumento per gli operatori, aiutandoli nel faticoso, continuo e soddisfacente recupero dell’assetto di cooperazione e cura necessario per fornire cure umanizzate.

I limiti e il non cambiamento

Le difficoltà che abbiamo incontrato in questo percorso formativo sono state principalmente relazionali con gli operatori sanitari che non condividevano il nostro modello.

La contrapposizione è stata con la valutazione dell’appropriatezza tecnica come unica chiave di valutazione della professionalità, mettendo in discussione la possibilità di un modello basato sulla relazione verso l’altro.

La nostra fatica è stata sospendere il nostro giudizio (automaticamente ci sembra impossibile che un operatore non consideri il fattore umano, proprio mentre lavora rivolto a questo obiettivo).

E’ possibile che un operatore non abbia mai avuto nella propria formazione l’occasione di riflettere ed esplorare la dimensione relazionale del proprio lavoro. La sensazione è che non ci siano momenti di formazione specifica nei corsi ASA ed OSS, né che nel corso di Laurea di Scienze Infermieristiche vi siano esami di Psicologia, se non Clinica orientata alla nosografia. Probabilmente vi è più attenzione nei corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia, ma non con un ruolo centrale nella formazione della prassi medica.

Al nostro fastidio abbiamo dovuto ricostruire l’oppositività in termini di essere una difficoltà emotiva, notando il ciclo interpersonale che talvolta può sfociare in palese aggressività, come testimoniano i recenti fatti di cronaca in tema di aggressioni in ambito sanitario. L’atteggiamento oppositivo, o più semplicemente di impermeabilità a un nuovo modello interpretativo, nell’operatore compare nelle descrizioni delle situazioni “impossibili”: noi formatori ci sentivamo nel ciclo interpersonale disfunzionale che veniva messo in atto col paziente e con i familiari: rabbia, frustrazione, chiusura.

La sfida per noi ė stata continuare ad incarnare il modello che proponevamo, cercando di diventare a nostra volta “formatori umanizzati”, trasformando prima nella nostra mente l’operatore chiuso/oppositivo in una persona che non vuole mollare ciò che gli ha permesso fino a lì di lavorare in un ambiente emotivamente duro, per provare a portarlo verso l’idea che il lavoro cooperativo è il miglior assetto per garantirsi la sopravvivenza in un ambiente dove è frequente sentirla minacciata.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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