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La famiglia come luogo di benessere: la psicologia della famiglia nel corso del tempo

La famiglia nel corso del tempo ha subito una serie di trasformazioni. Attualmente la si intende come un luogo depositario del benessere di chi ne fa parte. 

Abstract

La famiglia nel corso del tempo ha subito una serie di trasformazioni. Attualmente la si intende come un luogo depositario del benessere di chi ne fa parte. Perché la famiglia contemporanea possa avere una lunga storia, essa deve amalgamare due esigenze contrastanti dell’essere umano, il bisogno di appartenenza e la libertà individuale.

Keywords: Psicologia della Famiglia, Storia Familiare, Emozioni, Bisogni.

La famiglia emotiva

Che la famiglia nel corso del tempo abbia vissuto una diversità di considerazione è cosa risaputa. La famiglia moderna, la cui nascita, secondo lo storico Ariès (1977), citato in Oliverio Ferraris (2011, pag. 4), è da datarsi all’epoca della rivoluzione industriale, ha come caratteristica il paradigma emotivo, ovvero è connotata dagli aspetti affettivi che contraddistinguono il vissuto familiare. Questa rivoluzione avviene grazie ad una netta demarcazione dall’ideologia precedente, nella quale l’istituzione familiare era intesa come nucleo allargato, costituito dall’insieme dei parenti che sovente formavano una macchina produttiva (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 5).

La famiglia emotiva ha come archetipo fondante la valorizzazione della coppia. In altre parole, marito e moglie hanno un ruolo egemone rispetto al parentado esteso. A livello storico, il momento di maggiore consolidamento di questo teorema familiare è rappresentato dal periodo del Romanticismo, che, nel corso dell’Ottocento, privilegiando l’aspetto emotivo dell’esistenza umana, ha posto alla base della famiglia l’amore fra i coniugi e il benessere mentale che tale condizione comporta (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 6).

La famiglia come strumento di decompressione emotiva

L’incremento dei processi produttivi durante il ventesimo secolo crea delle situazioni di conflittualità fra gli individui, esclusivamente di sesso maschile, che vi partecipano. La famiglia e la casa familiare diventano i luoghi dove si può smaltire questo stress. Ciò presuppone, però, un ruolo femminile legato prevalentemente all’accudimento e al polo affettivo dell’esistenza. Questo paradigma familiare persiste e si rinforza nel corso dell’intero Novecento, trovando giustificazione ideologica nelle tesi funzionaliste di Parsons e coll. (1955) (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 7).

Nella famiglia così strutturata, l’uomo ha il compito di leader strumentale, ossia a lui competono tutti i compiti esterni (produzione di reddito, relazioni con la società) ed è garante, attraverso i processi di socializzazione delle nuove generazioni, del mantenimento dell’ordine sociale (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 8). Al padre, inoltre, spetta, nell’ambito dell’economia affettiva familiare, far sì che fra la madre e i figli ci sia il giusto attaccamento, cioè quello che consente alla prole di emanciparsi dalla famiglia di origine per assumere l’identità di adulto consapevole ed autonomo.

La famiglia contemporanea e la famiglia – storia

Nella famiglia del ventunesimo secolo ritorna a prevalere il polo affettivo – sentimentale. In altre parole, due persone formano una famiglia nel momento in cui sono innamorati. L’amore, quindi, diventa il cemento che unisce e consolida il nucleo familiare. Questo, però, è anche il limite della famiglia contemporanea. Infatti, l’amore unisce e, proprio per questo, soffoca quelli che sono i valori esaltati dalla società odierna, ovverosia la libertà individuale e l’autorealizzazione (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 9).

Alla luce di ciò, il nucleo familiare celebra la sua fine nel momento in cui uno dei due partner tenta di imprigionare l’altro, non permettendo la sua crescita individuale (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 10). Quella che oggi ha più probabilità di durata è la famiglia – storia. Con tale costrutto si intende il nucleo familiare che si crea quando i due coniugi conseguono una forma di equilibrio fra fusione e libertà individuale. Questo consente di costruire un progetto di vita reale e a lunga gittata, il cui paradigma, come afferma Roussel (1989), citato in Oliverio Ferraris (op. cit., pag. 11), è l’abbandono dell’illusione di un partner immaginato per la realtà di un coniuge provato.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Clinica Perinatale per le Professioni Sanitarie e Psicosociali – Recensione

Suddiviso in due volumi, la Psicologia clinica perinatale per le professioni sanitarie e psicosociali si presenta come un testo complesso, articolato e completo, formativo per tutti i professionisti (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, assistenti sanitari, educatori, infermieri) che si occupano di gravidanza, post-partum, genitorialità e della relazione madre – bambino nei primi anni di vita del piccolo.

Il primo volume si intitola Neonato e radici della salute mentale e si suddivide in 2 parti: la prima, intitolata L’assistenza perinatale per la salute mentale, si focalizza sui presupposti teorici della Psicologia Clinica Perinatale, sul periodo delicato per la donna relativo alla gravidanza, al parto e al puerperio, sugli eventuali disturbi d’ansia e dell’umore che possono insorgere in questo specifico periodo di cambiamenti e sulle interazioni madre-bambino a rischio; la seconda parte, invece, si intitola Difficili percorsi della filiazione e della genitorialità e si sofferma su particolari situazioni relative alla genitorialità che possono generare difficoltà a livello psicologico, tra cui l’infertilità, la procreazione medicalmente assistita, la diagnosi ecografica di malformazioni e complicanze fetali e la nascita pretermine.

La trattazione spazia tra argomentazioni di tipo biologico, psicologico e sociale e si sofferma sulla genitorialità sotto tutte le sfaccettature, prendendo in considerazione i cambiamenti che intercorrono nella vita di coppia, nella dimensione sessuale, durante la gestazione, il parto e il puerperio.

Il secondo volume intitolato Genitorialità e origine della mente nel bambino è suddiviso anch’esso in 2 parti: la prima si intitola Sviluppo del bambino e genitorialità e si focalizza sulla genesi dello sviluppo e sull’origine della mente del bambino a seconda delle prime esperienze e delle prime interazioni intercorse con i genitori; la seconda, invece, intitolata Prevenzione e servizi sociali per la tutela della famiglia si arricchisce del contributo di psicologi sociali, assistenti sociali, educatori e giudici onorari del Tribunale dei Minori e si sofferma sui casi di maltrattamenti, abusi, trascuratezza dell’infanzia e sul ruolo svolto dai servizi sociali in termini di prevenzione, intervento, tutela nella fase perinatale e di protezione giuridica del minore e della maternità.

Il primo volume si apre con alcune considerazioni relative alla nascita della Psicologia Clinica Perinatale, la quale costituisce un ambito specifico della Psicologia Clinica ed integra le nozioni della psicologia clinica stessa con quelle derivanti dalle Scienze Ostetriche, dalle Scienze Sociali, dalla Neonatologia, dalla Neuropsichiatria Infantile e dalla Pediatria.

In particolare, il contributo fornito dalle neuroscienze e dall’epigenetica rispetto allo sviluppo della mente dell’individuo ha delle ripercussioni fondamentali anche in ambito psicologico e clinico: il genoma che determina il cervello di un individuo è in costante interazione con l’ambiente di vita e le esperienze relazionali vissute e, dunque, cervello e mente sono in una costante interazione e si influenzano reciprocamente. Possiamo dire che il cervello genera la mente e da questo è generato e che il cervello di ognuno non sarà mai identico a quello di un altro.

La trattazione si sposta in seguito sul periodo di transizione alla genitorialità, sulla nascita cosiddetta psicologica dei genitori e sui processi psichici sottostanti sia la maternità che la paternità. Particolare rilevanza viene data anche agli aspetti psicosomatici della gravidanza e ai timori che la donna può esperire sia durante la gravidanza che il parto (morte del bambino, morte di sé durante il parto, possibili complicanze del parto, possibili malformazioni nel bambino, ecc).

Un argomento particolarmente interessante e ben esposto è quello relativo ai disturbi psichici che possono insorgere nella donna durante la gravidanza e il puerperio (maternity blues, depressione, psicosi puerperale, disturbi d’ansia); nel testo vengono anche esposti i principali strumenti per la diagnosi e come sia possibile una individuazione precoce e una presa in carico delle donne con depressione postnatale attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro multidisciplinare.

La figura paterna è stata in genere poco oggetto di studi e di interesse in ambito clinico. Nel presente volume, invece, anch’essa recupera la sua importanza non solo in qualità di figura genitoriale, ma anche come figura supportiva per la neo-mamma. Inoltre, anche i papà possono essere affetti da depressione e, dunque, nel testo viene descritta la specifica sintomatologia della depressione paterna perinatale e come sia possibile procedere in termini di prevenzione e di trattamento dei disturbi affettivi paterni.

Nella seconda parte del primo volume, ho trovato particolarmente interessante il sottolineare l’importanza di elaborare i vissuti di inadeguatezza, di fallimento, di mancata genitorialità e le possibili difficoltà relazionali nella coppia conseguenti le esperienze di infertilità. Questo presuppone un’integrazione tra la medicina e la psicologia e un sostegno alla coppia che sia di tipo multidisciplinare.

Rispetto al secondo volume, essendo psicologa e collaborando in qualità di educatrice con i servizi sociali della famiglia, ho trovato significativa e degna di nota la seconda parte del volume, in cui non c’è semplicemente un’esposizione di situazioni problematiche legate alla genitorialità e all’infanzia (casi di maltrattamenti, abusi, trascuratezza, diventare genitori in età adolescenziale o in terra straniera) ma vengono anche riportati esperienze e progetti implementati allo scopo di sostenere le mamme in difficoltà o di proteggere i minori vittime di maltrattamenti di varia natura.

Consiglierei la lettura dei 2 volumi a tutti i professionisti che in ambito medico o psicologico si relazionano con donne, o per meglio dire coppie, che vivono l’esperienza della genitorialità.

 

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L’impatto delle differenze di genere sulla condizione autistica

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La più alta prevalenza dell’autismo nei maschi potrebbe essere in parte spiegata dal fatto che le femmine sono dotate di un fattore protettivo, cioè sarebbe necessario un maggior numero di mutazioni genetiche per far si che i disturbi si manifestino nei soggetti femminili.

Come è noto i disturbi dello spettro autistico si caratterizzano per delle differenze di genere che riguardano in primo luogo la diffusione di tali patologie, infatti i maschi presentano un rischio maggiore rispetto alle femmine con un rapporto di circa 4:1.

La più alta prevalenza dell’autismo nei maschi potrebbe essere in parte spiegata dal fatto che le femmine sono dotate di un fattore protettivo, cioè sarebbe necessario un maggior numero di mutazioni genetiche per far si che i disturbi si manifestino nei soggetti femminili, mentre ne basta un numero inferiore per avere lo stesso effetto nei maschi.

In secondo luogo, le differenze di genere riguardano anche la gravità dei sintomi in quanto, se è vero che il genere femminile è colpito meno frequentemente dai disturbi dello spettro autistico, è vero anche che le bambine presentano dei sintomi più gravi rispetto ai maschi: livelli più bassi di QI sia per le capacità verbali sia per quelle non verbali e disfunzioni più severe nelle abilità verbali e comunicative (i maschi rispetto alle femmine presentano un numero maggiore di comportamenti ripetitivi e stereotipati).

L’ipotesi che la presente ricerca ha cercato di verificare riguarda la possibilità che tali differenze di genere non siano in realtà specifiche dell’autismo ma riflettano le differenze di genere che sono comunemente rintracciabili nella popolazione non clinica.

A questo scopo sono stati considerati 1824 bambini più piccoli di 18 mesi divisi in tre gruppi, bambini ad alto rischio con autismo, bambini ad alto rischio senza autismo e bambini a basso rischio. Per tutti e tre i gruppi è stato analizzato l’impatto che le differenze di genere dei soggetti e dei loro fratelli hanno sullo sviluppo a lungo termine di sintomi autistici; l’idea è che se l’effetto delle differenze di genere sulla gravità dei sintomi e sul livello di funzionamento cognitivo non differisce nei tre gruppi esso non può essere considerato specifico delle patologia autistica né tanto meno dello stato di rischio dei soggetti, ma piuttosto deve essere ricondotto alle differenze di genere rintracciabili nella popolazione generale.

I risultati hanno confermato la più alta prevalenza del disturbo autistico tra i soggetti maschi e, come era prevedibile, hanno permesso di osservare anche che i bambini ad alto rischio con autismo si caratterizzano per un più basso livello di funzionamento cognitivo e per una maggiore gravità dei sintomi rispetto ai bambini ad alto rischio senza autismo, che a loro volta però presentano delle prestazioni peggiori se confrontati con i bambini a basso rischio. Tuttavia non c’è nessuna evidenza circa il fatto che i maschi o le femmine del primo gruppo hanno un funzionamento nettamente peggiore rispetto ai maschi o alle femmine degli altri due gruppi.

Ciò va quindi a conferma dell’ ipotesi che lo studio si è preposto di verificare e cioè che le differenze di genere rilevabili nella patologia autistica non siano specifiche del disturbo ma riflettano quelle che sono osservabili anche nella popolazione non clinica.

 

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Ancora su mindfulness e cannocchiale rovesciato

Claudia Perdighe, Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC Roma

 

Rispondo con piacere ad Andrea Bassaninini sul tema mindufness e accettazione e al suo articolo: Mindfulness: stato mentale o funzione della mente? .

Premetto che quanto da me scritto in: Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione? voleva essere uno spunto di riflessione (magari sbagliato) sulla minduflness, non una critica alla mindfulness. Più che altro ho posto domande, non ho offerto risposte. L’intento era provare a riflettere su come e quali componenti producono cambiamento e che tipo di cambiamento in una cornice CBT; quindi non contro, ma pro un uso strategico, specifico della mindfulness (versus Terapie Uniche).

 

Primo punto. Seguendo il suo commento, partirei dal tema decentramento e mindfulness. Bassanini scrive: Ma nell’esperienza della pratica non c’è distanziamento! E poi distanziamento da cosa?

Non entro nel merito della presenza o meno di vissuti di distanziamento o decentramento nell’esperienza soggettiva di mindfulness. Il decentramento, definito come capacità di guardare alle proprie esperienze interne (pensieri, sensazioni, emozioni) come a eventi transitori (che non richiedono una reazione) e non come dati di realtà (Fresco, Moore, et al. 2007), però, mi sembra un aspetto niente affatto alieno alla mindufulness.

Se nella terapia cognitiva di seconda generazione, il decentramento dai contenuti mentali è stato considerato un importante processo di cambiamento, ma solo come facilitatore del vero cambiamento, quello dei contenuti mentali (Hollon e Beck, 1979), nelle terapie di terza generazione il decentramento (e tutti i processi sovrapponibili o che lo favoriscono) diventa scopo e strumento centrale di cambiamento: il cuore di questi interventi non è più la modificazione dei contenuti mentali, ma il cambiamento di atteggiamento verso questi contenuti (Teasdale et al., 2002; Carmody et. al., 2009; Suer e Baer, 2010).

Diversi autori suggeriscono che la pratica mindfulness è un modo per apprendere la capacità di decentramento (Shapiro et al., 2006; Teasdale et al., 2002) e che decentramento e mindfulness siano costrutti altamente sovrapponibili (Carmody e et al., 2009). In questo senso nelle terapie basate sulla mindfulness, il decentramento è promosso in modo diretto e intenzionale.

Il punto, quindi, non è se c’è distanziamento e decentramento dagli stati interni, ma se l’addestramento massiccio al decentramento possa avere, soprattutto se non calibrato sul singolo paziente, anche effetti indesiderati (come guardare dal lato sbagliato del cannocchiale). È una domanda, un dubbio, non una risposta.

 

Secondo punto. Andrea è in disaccordo sulla definizione di accettazione come processo di disinivestimento dagli scopi compromessi o minacciati, che a me sembra quella sottostante alla mindfulness.

Alcune osservazioni:

  • un conto è la descrizione dello stato soggettivo di accettazione, altra cosa è provare a chiedersi se parliamo sempre dello stesso stato mentale quando parliamo di accettazione;
  • in linea con quanto sostenuto in altre sedi (Mancini e Perdighe, 2011), credo che in alcune forme di accettazione il focus sia sulla valutazione dell’esperienza soggettiva, sul problema secondario in termini cognitivisti, e che ci sia il rischio di una rinuncia al cambiamento dello stato del mondo (in coerenza con quanto sostenuto sopra sul decentramento);
  • non ho niente da eccepire sulla definizione di Hayes di accettazione tanto più che, come ho scritto, la rinuncia al cambiamento non è vera per l’ACT, che secondo me ha tra i suoi aspetti qualificanti proprio l’enfasi sui valori (scopi terminali) e sull’impegno fattivo su questi.

 

Terzo punto. Andrea Bassanini scrive Accostare gli stoici e Abhidharma (la psicologia buddhista, per come viene considerato in Occidente) mi lascia un senso di inquietudine e di ingiustizia che provo a trasformare in parole...

Intanto, per solidarietà con gli stoici, mi inquieto anche io! Non volevo offendere mindfulness e Oriente con le mie riflessioni e, comunque, non considero un’offesa l’accostamento a una parte (non omogenea e non riducibile all’indifferenza alle emozioni) cosi importante del pensiero occidentale.

Dire che stoicimo e filosofie orientali sono molto diversi, comunque, non nega possibili similitudini in qualche aspetto. L’accostamento nasceva, poste differenze enormi tra loro e all’interno delle stesse, dal fatto che entrambe hanno il focus dell’accettazione nell’atteggiamento verso la reazione soggettiva a un evento (e, infatti, sono efficacissime sulla riduzione dei problemi secondari).

Quarto punto. Riguardo alla questione Cosa rende la mindfulness terapia?

Il tema che volevo sollevare era proprio: cosa qualifica un intervento come psicoterapia piuttosto che come addestramento a qualcosa che fa bene? La mindfulness nella maggior parte dei casi è applicata da terapeuti, per cui non credo sia esentata dal porsi il problema del razionale dell’intervento. E, infatti, la TCBM (terapia cognitiva basata sulla mindfulness di Teasdeale e coll.), offre un razionale molto chiaro per l’uso della mindfulness nei depressi. Il punto è se il razionale è sempre così chiaro nelle diverse applicazioni. Se e dove la mindfulness si ponesse al di sopra di queste questioni, non capirei più in che senso debbano essere i terapeuti e non maestri e istruttori ad applicarla.

 

Quinto punto. Riguardo allo stato mentale promosso dalla mindfulness

Andrea mi sembra che dica: la mindfulness è soprattutto processo (addestramento a) e non mi occupo, come terapeuta o istruttore mindfulness, di che tipo di stato mentale ne risulti ne dei valori sottostanti.

Le soluzioni che proponiamo alla sofferenza, io credo, contengono sempre inevitabilmente anche aspetti valoriali (oltre che teorie). Non credo sia evitabile.

Magari sbagliando, ma la vera questione che sollevavo è che mi sembra che, se mal applicata, la mindfulness contenga il rischio di inibire il cambiamento e l’investimento su valori o scopi nel potere della persona. A questo proposito, ho sempre trovato curioso il fatto che le pratiche di meditazione, tra cui la mindfulness, vadano tanto per la maggiore tra manager americani (addirittura, parte della formazione in alcune scuole per manager) e in generale tra categorie professionali sottoposte ad altissimi livelli di stress (come testimonia tra i tanti l’articolo su State of Mind di Fiabane e coll.). Sicuramente aiutano a sopportare meglio lo stress, ma il dubbio è: se per sopportare certe condizioni lavorative bisogna imparare a sopportare di più lo stress, quando possibile non sarebbe meglio sottrarsi alla situazione invece che imparare a tollerare meglio il disagio connesso?

 

La mindfulness è un arricchimento per la psicoterapia cognitivo-comportamentale? Vero. È del tutto chiaro come funziona e gli stati mentali implicati? Meno vero.

Se applicata all’interno di un contesto psicoterapico, credo sia legittimo interrogarsi su che stati mentali promuove, magari anche in relazione alle varie forme applicate. Del resto, come suggerisce Hayes, flessibilità è anche non essere troppo fusi con i processi che promuovono la flessibilità.

 

ARTICOLI SULLA MINDFULNESS

 

BIBLIOGRAFIA:

Esperimento sociale della prigione di Stanford: arriva il film

The Stanford Prison Experiment è il titolo del nuovo film basato sul famoso esperimento sociale condotto dall’Università di Psicologia dell’Università di Stanford, in California.

Il film uscirà nelle sale statunitensi il 17 Luglio, mentre non si hanno ancora informazioni circa l’uscita nelle sale italiane.

L’esperimento condotto nel 1971 dal Prof. Philip Zimbardo consisteva nel selezionare dei volontari e assegnarli a due diverse categorie: quella dei secondini e quella dei carcerati; l’obiettivo era quello di osservare quali comportamenti i soggetti partecipanti mettessero in atto rispetto al ruolo che gli era stato assegnato. L’esperimento fu molto discusso e criticato in quanto si riteneva che fosse stato lo stesso Zimbardo a fornire suggerimenti alle guardie su come comportarsi e ad aver generato volontariamente un’escalation nei comportamenti.

Il regista del film è lo statunitense Kyle Patrick Alvarez mentre lo sceneggiatore è Tim Talbott. Nel cast sono presenti gli attori Olivia Thirlby, Ezra Miller e Billy Crudup.

È stato diffuso negli ultimi giorni – e sta girando molto su internet – il trailer di The Stanford Prison Experiment, un film che racconta il controverso esperimento della prigione di Stanford: un esperimento psicologico che nel 1971 ricreò le dinamiche di un carcere, dividendo dei volontari che scelsero di parteciparvi tra carcerati e secondini.

 

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Prof. Philip Zimbardo – My journey from evil to heroism

Il film sull’esperimento della prigione di Stanford – Il PostConsigliato dalla Redazione

Esperimento sociale di Stanford: arriva il film

È stato un famoso (e molto criticato) esperimento psicologico: è uscito il trailer del film che ne racconta la storia. (…)

Tratto da: Il Post

 

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Intervista a Liliana Cavani: un viaggio dall’infanzia all’attualità della regista

L’iniziale riserbo è diventato racconto, un fiume di parole, di ricordi, di antiche sensazioni. Una casa affollata di parenti a Carpi, l’incontro della bambina con la morte, l’amore dei nonni, l’assenza del padre. E poi l’amore della giovane donna per la storia, un amore che diventa riflessione sul Male, sulla rimozione, sulla intolleranza.

 

Non è facile intervistare Liliana Cavani su temi che non siano strettamente legati al suo lavoro di regista. Il suo pudore nel parlare di se stessa è contagioso, sulle prime può apparire una barriera invalicabile. [blockquote style=”1″]Preferisco parlare del mio lavoro. Ma proviamoci. Registra?[/blockquote] Dice con un tono perplesso.

E così ho registrato. Una conversazione lunga un intero pomeriggio nella penombra del suo salotto. L’iniziale riserbo è diventato racconto, un fiume di parole, di ricordi, di antiche sensazioni. Una casa affollata di parenti a Carpi, l’incontro della bambina con la morte, l’amore dei nonni, l’assenza del padre. E poi l’amore della giovane donna per la storia, un amore che diventa riflessione sul Male, sulla rimozione, sulla intolleranza. La banalità della somatizzazione, il piacere della risata, la necessità della solitudine. Il breve viaggio nella psicoterapia e quello più lungo nella fratellanza, concetto che muove il suo lungo percorso nella conoscenza di San Francesco. Infine la ricerca di sé attraverso la storia delle religioni, e soprattutto la convinzione che la speranza sia una virtù indispensabile per la specie umana.

 

-Come era Liliana Cavani bambina? Testarda, paurosa, timida?

Ero molto vivace a scuola. Non stavo mai ferma nel banco, minimo dondolavo una gamba.

-Un ricordo che le è rimasto impresso?

Avevo una maestra in prima elementare che mi lasciava fare. Siccome ero rapida a fare le cose, mi guardava con benevolenza e non mi stava addosso. Aveva circa 60 anni, un giorno è stata male ed è arrivata una supplente, che avrà avuto 30 anni. Io ovviamente ero sempre io, facevo le stesse cose, non stavo mai ferma. Per castigo mi ha fatto stare in piedi e io ho ubbidito, però parlavo un po’. E allora mi ha chiamato, stava alla finestra dove c’erano i termosifoni e si scaldava le mani, improvvisamente mi ha dato un ceffone. Un ceffone imprevisto, non ti fai neanche da parte perché non te lo aspetti. Arriva e basta. È stato il primo e l’unico della mia vita, ma ne ricordo sempre il risuono sulla guancia. Oltretutto non avevo mai visto una cosa del genere, in casa mia nessuno si picchiava, per me era una novità.

– Come reagì?

Sul momento non versai una lacrima. Ma arrivata a casa trovai mia zia Libera, che aveva 8 o 9 anni più di me e che stava giocando con le amiche davanti al portone, e appena la vidi scoppiai a piangere. Neanche mia nonna riusciva a consolarmi, ero disperata. Io sono cresciuta con i nonni e le zie, e siccome non ero una che si lamentava, rimasero un po’ perplesse. Andarono a scuola a lamentarsi ma poi tutto finì lì, perché era una supplente, una persona fuori controllo, e difatti finì a fare la segretaria. Ma il ricordo è rimasto indelebile.

– Questo episodio ha poi influenzato in qualche modo la sua vita?

No, è stato superato. Ma sono sensibile alla violenza, anche se non ricevi un ceffone i violenti sono inaccettabili.

-Dice di essere stata una bimba vivace. Paure ne aveva?

Paure strane. Mi spaventai una sera vedendo dal mio letto sull’armadio un pallone gonfiabile, di quelli colorati a spicchi, improvvisamente sgonfio. Era finito in niente, rimasi interdetta, impaurita. E questo fa il paio con un altro episodio, successo quando ero molto piccola, avrò avuto due, massimo tre anni. Ero in braccio a zia Delfina e una vicina, che si chiamava Ribella, mi mostrò un bambolotto piuttosto grande, io lo toccai pensando fosse un bambino, invece era rigido. Mi fece una grande un’impressione, ho urlato come una pazza. Mai più ho voluto avere bambolotti, ne ho avuti in seguito, ma solo piccini.

-Crescendo ha avuto altre paure?

Abitavamo a Carpi sul corso Vittorio Emanuele, e alla fine c’era il Parco. Nel parco c’era l’ospedale, e nell’ospedale c’era l’obitorio. Come tutti i bambini ero curiosa e vedendo tante persone che andavano in una stanza un giorno le ho seguite, così ho visto il mio primo morto dai piedi.

-Che età aveva?

Avrò avuto circa sei anni. Era estate, sono sicura, perché c’era un parente che col fazzoletto mandava via le mosche. In effetti mi ha fatto un po’ effetto. Non è che non ci dormivo, però rimasi impressionata. Un’altra volta, e avrò avuto 8 anni, seguii un funerale che passava dal parco, ma mi fermai ai margini del cimitero, proprio lì dove aprono le bare che tirano su dal terreno dopo dieci anni. Ho assistito all’apertura di una cassa, c’era una salma ancora abbastanza composta, ma erano solo ossa.

-In famiglia sapevano di queste sue, chiamiamole, esperienze?

Assolutamente no, sapevo che non dovevo andare in giro quindi non dicevo niente. Ma la vista di quella salma sicuramente mi impressionò, la notte dormii tutta coperta, neanche la manina fuori.

-Si è misurata presto col concetto di morte.

Avevo un amichetto che perse la madre quando aveva sette o otto anni. Si chiamava Igea la mamma. Lui forse si chiamava Romolo. L’avevano esposta in casa e c’erano tutte queste persone intorno a lei, e io mi chiedevo ma perché non la svegliano? Perché non si muove? Non capivo il passaggio… era nella bara vestita, ma non parlava, era immobile. Il bambino non domanda, rimane attonito in queste occasioni, poi mette insieme le cose, le assomma. Ecco, probabilmente le ricordo e gliele racconto così, in fila, perché questa cosa della morte mi ha preoccupato quando ero piccola, non capivo l’evento, il seguito, il perché. Allora c’era un distacco fra gli adulti e i bambini molto più grosso di quello che c’è adesso.

-Oggi in genere tutti tengono alla larga i bambini dalla morte.

Sì, ma questa signora abitava al mio piano. Era inevitabile passare, entrare. Mi vedo ancora che guardo un attimo, non posso dimenticare l’impressione che mi fece perché non si muoveva. E poi, sempre su questo piano, c’è un altro episodio che mi è rimasto impresso. Una mattina che uscivo sul corso per andare a giocare al parco vidi tante persone tutte agitate che andavano verso la piazza. E allora io che faccio? Vado anch’io. C’era una folla vicino al castello, vidi dei repubblichini che mandavano indietro la gente. Io, essendo più piccola, riuscii a farmi largo. All’alba avevano ammazzato sedici partigiani, e infatti oggi si chiama piazza dei martiri, e io li vidi. Un gruppo di giovani uomini, gettati l’uno sull’altro a terra, col sangue raggrumato. E i parenti erano tutt’intorno tenuti fermi dai repubblichini. Impedivano di portarseli via, dovevano stare lì al momento, come esempio, come nell’Antigone. Quell’episodio, tutti quei cadaveri, mi tornò in mente quando giravo il film “ I cannibali”, l’avevo cancellata. Ma ora è come se la vedessi, nei minimi dettagli. Eppure non l’avevo mai raccontata a nessuno, neanche in casa mia, evidentemente un meccanismo di rimozione mi aveva fatto dimenticare.  Il passaggio tra il non sapere e la coscienza che c’è la vita e la morte nessuno te lo spiega. Ognuno forse lo apprende così, dagli eventi della vita come lo ho appreso io. Chi vedendo un parente che muore, chi un amico. D’altronde è un’iniziazione, che ti costringe a ragionare, a capire.

-La paura da bambino può incidere sulla crescita.

Mah, a me non ha tolto la vivacità. Ogni bambino prima o poi prende coscienza che ci sono persone che vanno via. Altre paure non ne ricordo, forse del buio come tutti i bambini. Anzi, mia madre mi raccontava delle favole paurose, ed era un po’ un gioco, perché mi piaceva dormire nel letto con lei, e in quei casi a volte ci riuscivo. Il lupo arriva sulle scale, è dietro la porta, ti mangia in un boccone! Nell’urlo l’abbracciavo e la paura si scioglieva.

-Era molto affollata la vostra casa?

Per una serie di ragioni ho vissuto in prevalenza con i nonni. In casa c’erano anche due sorelle di mia madre e un fratello. Io ero la più piccola, sì, sono cresciuta in un mondo di adulti. Però siccome mi divertiva studiare, riuscivo a isolarmi facilmente. Mi riesce ancora oggi.

-Ha bisogno della solitudine?

Per il mio lavoro ho bisogno di approfondire, di capire. La solitudine in questi casi mi è utile, l’apprezzo molto. Però non troppa, mi piace anche molto la compagnia, ho sempre avuto molti amici.

-Mai avuto paura della solitudine?

Finora no. Ma non sono mai stata obbligata a stare sola in un posto e magari avere paura. Non mi piacerebbe neanche esserci in un luogo simile, sicuramente non me lo vado a cercare. Mi piace la solitudine quando la scelgo, quando ne ho necessità, cosa che mi accade e allora diventa una solitudine necessaria e anche bella. E’ come l’aria che entra dalle finestre aperte di casa dopo che sono state chiuse. Una solitudine temporanea e scelta fa sempre molto bene, bisognerebbe prescriverla. È equilibrante soprattutto se si amano persone, perché si ha modo di pensarle meglio, più liberamente, di desiderare il loro bene davvero, cosa che non è sempre facile.

-Ha avuto rapporti con la psicanalisi?

Ho fatto due anni di psicoterapia in seguito alla morte di una carissima persona, un’amica di vecchia data cui volevo molto bene. Pensavo di non avere più l’età per l’analisi, era il 2004, però mi andava di ragionarci ma non da sola. Sandra Sassaroli mi ha consigliato una psicanalista molto in gamba, che mi ha aiutato molto, sono riuscita a parlare. Poi dopo un paio di anni ho smesso.

-Come mai?

Un viaggio ha i suoi tempi, almeno quel viaggio lì.

-Prima non era mai stata attirata dalla psicanalisi? Negli anni 80 era difficile incontrare un intellettuale che non fosse in analisi.

Ho scelto un lavoro che mi ha fatto analizzare molte cose, anche dentro di me. Certo che ero  interessata all’analisi, altroché, mi ci sono buttata a pesce, ma col mio lavoro. Agli inizi della mia carriera ho girato documentari, come “Storia del Terzo Reich”, che mi hanno fatto pensare, riflettere, analizzare. Quando sei costretto per lavoro a guardarti minuto per minuto tutto il materiale filmato della seconda guerra mondiale, quando vedi le scene dell’apertura dei lager, il contatto con la realtà è affrontato furiosamente, la guerra ti si presenta nella sua violenza estrema e con la sua assurdità ancora più estrema di ignoranza e di follia. E poi, quando sono andata a fare un documentario nelle università tedesche, a parlare di Hitler venti anni dopo con i ragazzi, mi chiedevano chi era. Ecco, in quei casi non puoi non riflettere e farti delle domande sul problema della rimozione e accusare in cuor tuo coloro che vogliono rimozioni senza un minimo di catarsi, senza un percorso di riflessione, senza tentare di capire che cosa è il Male. Senza capire che sulle colpe non espiate cresce erba velenosa. “Portiere di notte”, il germe del film, proviene da questa esperienza fatta per i documentari.  Di psicanalisi mi sono anche appassionata da ragazza leggendo tutto Thomas Mann, Musil. Mi interessava più quel mondo lì di quello francese, che invece ho indagato più tardi. Molte riflessioni le ho fatte anche quando ho girato Milarepa. Mi interessavo di testi di altre religioni, mi interessava il perché delle religioni, quindi l’analisi e la ricerca di sè attraverso la religione. Il viaggio interiore . La mia è stata una perenne ricerca di capire il senso delle cose fondamentali, compresi la primarietà di certi affetti nelle loro varianti di parentela, di amicizia, di amore.

-Da cosa nasce questa sua curiosità per le religioni?

Sono cresciuta in una famiglia molto laica, direi atea. Mio nonno e mia nonna si sposarono in municipio nel 1917, mio nonno era un socialista anarchico, mia nonna veniva da una famiglia tradizionalmente cattolica che abbandonò per sposarlo. Però non erano mangiapreti, avevano una mentalità tollerante, un’aspirazione profonda per una società giusta e libera. Non c’era odio, era contemplato che l’educazione fosse il frutto di una scelta in libertà con fondamentali di rispetto reciproco per tutti. Anche i cattolici dalle nostre parti sono stati galantuomini, più civili della media. Questo mi ha impedito di essere schierata poi come tanti miei colleghi. E per questo, forse, qualche volta ho incontrato non dico dei nemici, ma non ero appoggiata mai da nessuno.

-Quando si trova di fronte a un nemico, come reagisce?

Ci rimango male. Perché trovo ingiusto l’ostilità quando non c’è una motivazione.

-Ma come reagisce?

Niente, non faccio nulla. Quando soffro ho l’herpes e l’ulcera, che mi sono venuti insieme a 16 anni. Soffrivo più di quanto sapessi il rapporto con mio padre. Somatizzavo come poi ho sempre fatto, come del resto capita a tutti. Non c’è l’anima e il corpo. C’è il corpo che è anche anima .

-Nel suo lavoro, ci saranno momenti in cui sembra che niente funzioni, che tutto vada a rotoli.

Certo, anche per l’ultimo “Francesco”, sembrava non partisse mai.

-Come reagisce, si arrabbia?

Lì c’è poco da incazzarsi, con chi? Sono i poteri di chi ha il denaro. Voglio dire, so benissimo che ci sono tante cose ingiuste che capitano e mi sono capitate, ma spesso non ci puoi fare niente.

-Ma la rabbia lei ogni tanto la prova?

Sì, la provo ma raramente la esprimo. No, non la tiro fuori, mi ammalo. Il mio è un mestiere complesso, non conosco un collega a cui sia sempre andato tutto bene. I registi, ne conosco, sono spesso persone complicate ma al tempo stesso anche ingenue, capaci di soffrire molto ma anche di rallegrarsi presto. Ho sempre provato simpatia per i miei colleghi uomini o donne perché condivido tante loro ansie.

-Sul set, un attore fa i capricci, succede un imprevisto, urla mai?

Urlato no, mai. E perché? Non ricordo di avere litigato con un attore, a parte che cerco di sceglierli giusti, perché mi piace che mi portino anche qualcosa di imprevisto. Ma non ho mai avuto un brutto incontro. Gli attori principali cerco di averli dieci giorni prima, così leggiamo la sceneggiatura, ci conosciamo bene, e soprattutto parliamo della nostra vita. Mi ricordo quando venne Mickey Rourke a Roma dieci giorni prima delle riprese come avevo voluto. Il produttore dapprima non voleva pagare i dieci giorni in più di albergo. Invece è stato importantissimo, deve esserci il tempo di conoscersi. Pensavano che Mickey fosse un mezzo matto, quasi un balordo, invece è la più dolce persona che ho incontrato oltre ad essere l’attore più bravo che ho avuto. L’importante è conoscersi a questo mondo, provare a capirsi. Poi sugli attori ci sono spesso leggende stupide, io ho trovato sempre persone notevoli e umanamente molto ricche.

-Anche nella vita di tutti i giorni non litiga con gli amici?

Discuto, caspita se discuto.

-Non arriva mai a un punto di rottura?

Capita, e mi spiace tanto, se una persona mi fa un grosso torto e soprattutto se è una persona alla quale ho dato molta fiducia. Lì ci rimango di merda, e ingenuamente mi aspetto delle scuse. Se non arrivano resto in silenzio, ma non mollo. La persona deve almeno riconoscere un pochino i suoi torti. Mi è successo per esempio con un collaboratore con cui ho scritto una sceneggiatura su Mozart, ha pubblicato un libro usando il nostro lavoro ma firmandolo da solo. Rimasi malissimo. Evidentemente non lo conoscevo bene. Avrei dovuto sospettare, perché lasciò in malo modo sua moglie. Già uno che lascia la moglie mi fa restare male, ma se la lascia in malo modo diventa quasi infrequentabile.

-Quindi la delusione la fa soffrire?

Sì, se la delusione viene da una persona alla quale ho dato amicizia. Poi è difficile che torni sui miei passi. Cioè ci torno, ma per modo di dire. Finisce la complicità, ma a quel punto me ne frego. Devo dire però che non mi è successo spesso.

-Altri tipi di sofferenza nei rapporti con le persone?

Una fonte di sofferenza è stato mio padre, che praticamente si è disinteressato di me, e questo mi ha fatto male. Ma non mi ha neanche troppo segnata, perché sono cresciuta in una famiglia molto aperta, nel senso che nessuno faceva pesare niente. Nella mentalità dei miei nonni c’era tanta accoglienza, quindi se ne fregavano che mio padre se ne fregasse di me, dopotutto la famiglia ce l’avevo. Non ne parlavano, non ne facevano un dramma.

– Lei non ha il cognome di suo padre.

Non l’ho mai voluto. Si era fatto vivo tardi e io ho voluto a quel punto tenere il cognome della famiglia di mia madre. In seguito quando sono venuta a Roma e lui abitava lì, non si ricreò un clima affettivo. Diventai molto amica di una sua compagna, una pittrice fantastica intelligente e accogliente. Lui fatalmente era amico di persone delle quali poi diventai amica anche io, della Roma intellettuale, però non ho mai sentito il bisogno del suo appoggio, proprio perché non c’era quasi mai stato. Se era per lui (lo disse a mia madre quando facevo il liceo) dovevo trovarmi un marito e imparare a fare le tagliatelle. Eppure si credeva moderno.

-Quindi non le è pesata la mancanza di una figura paterna.

Avevo un nonno e una nonna molto forti, per me il modello di famiglia era quello, non mi mancava qualcosa. Sono cresciuta con molta libertà.

-Spesso quando i padri spariscono, negli anni si rischia di impostare rapporti con la paura dell’abbandono.

Ma io non ero abituata a vedere mio padre, quindi non posso dire di essere stata abbandonata. Non c’era. Abbiamo avuto degli incontri nel corso degli anni. Essendo un architetto mi ha fatto visitare già da ragazzina e a tappeto città come Vienna, Firenze, Roma. Devo riconoscere che è stato il primo a farmi conoscere l’arte con profondità e pazienza; ecco questo è stato un suo merito che gli riconosco.

-Lei è una persona allegra?

Beh, non è che vivo di risate, però amo l’allegria, adoro ridere. L’ultima grande risata me la sono fatta con Francesca Reggiani, che ha fatto di recente uno spettacolo all’Ambra Jovinelli dove ho riso per due ore di seguito. Ma è difficile trovarsi in situazioni che ti fanno ridere.
Difficile anche circondarsi di persone allegre, eppure quanto sono importanti! E devo dire che quasi sempre secondo me le persone tetre sono spesso anche un po’ stupide.

-Vorrebbe circondarsi di persone allegre?

Vorrei, ma poi ci sono persone allegre con cui si fanno grandi risate che nel tempo si rattristano, quella che poi si scopre malata, quella che sposa l’uomo sbagliato. È la vita che ha i suoi pesi. Non trascorro la mia vita con persone lugubri, questo no, ma se ci fosse da ridere di più ci starei. Per esempio io non so fare film comici, però mi piacciono.

-La mia impressione è che lei sia una persona che richiede molto a se stessa.

Non so. Dipende da quale è lo standard della richiesta.

-È sempre stata una diligente?

Beh non scappavo da scuola, ma avevo 8 e non 10 in condotta. Mi piaceva quello che facevo, non soffrivo studiando. Da ragazza mi sono tradotta l’Iliade da sola per passione, poi sono andata all’esame che leggevo il greco come il giornale. I librini con le note mi annoiavano molto così, traducendo verso dopo verso, mi è capitato di fare un viaggio dentro alla guerra di Troia. Lo vedo ancora, mi sono molto divertita.

-Il viaggio è un po’ una costante nel suo lavoro.

Sì, per girare Milarepa sono partita. Allora non si poteva andare in Tibet occupato dai cinesi, quindi prima sono andata in India, poi sono andata a Katmandu, dove allora non andava nessuno. Sono stata via due mesi.

-Quando dicevo viaggio, non intendevo tanto nei luoghi, ma era un termine metaforico di viaggio mentale.

Beh, Francesco per me è un viaggio.

-Aldo Grasso sul Corriere ha scritto che Francesco è l’ossessione della Cavani.

Che vorrà mai dire con ossessione? È un percorso. Perché un solo viaggio in certi posti non è sufficiente. Prendiamo Roma. Se uno ci fa un solo viaggio non la capirà mai. Roma ha strati diversi, vari e profondi. Francesco lo si sta scoprendo solo da qualche tempo, è stato il rivoluzionario più totale. Mentre il comunismo ha vantato l’uguaglianza, lui ha vantato la fratellanza, che è tutta altra cosa, un’altra visione sulla natura del mondo. Non siamo uguali, ma possiamo essere fratelli. Un concetto di una modernità incredibile.
Ci sono tante cose belle e tante tremende nell’individuo. Ignorarle sarebbe da sciocchi, ci sono tutte e due. Eppure l’uomo ha potenzialmente tutto in sé dall’alfa all’omega, intendo l’uomo che pensa che immagina che approfondisce che cerca.

-L’individuo alla fine ci salverà?

Salvarci da che cosa? Forse dalla banalità, dalla volgarità? Dalla morte? Dalla morte no perché la morte non esiste, lo dico seriamente. Ne convengono tutte le religioni. D’accordo con la scienza bisogna ammettere delle trasformazioni sulle quali però siamo ancora troppo ignoranti. Dio è vita comunque. I Vangeli sono un testo serio. E la Speranza è la virtù più civile che ci sia. Se non ci fosse nella specie umana questa virtù i manicomi e le prigioni avrebbero avuto tanti e tanti ospiti di più.

-C’è gente sospettosa, che mai dà la fiducia. Lei non mi sembra fra questi.

Io sono ingenua. Mia madre mi ha sempre detto che lo ero troppo, mi metteva in guardia. Invece avere fiducia non guasta. Certo prendi delusioni, ma io ho incontrato tante persone valide, intelligenti. Se sospetti sempre, se hai paura della delusione, poi non fai mai niente. Mia madre mi dava dell’ingenua perché io vado, faccio, mi butto, provo. Ma l’ingenuità va bene, ti aiuta ad aprire delle porte, a superare ostacoli. Altrimenti, se stai troppo ad analizzare tutto quanto, finisci davvero a perdere tempo e ti impedisci tutto l’imprevisto.

 

 

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Alessitimia: i progressi negli ambiti della teoria, della ricerca e degli strumenti di valutazione

Rossana Piron, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

L’alessitimia deriverebbe da un crollo del processo referenziale, causato da condizioni avverse durante l’infanzia, come traumi o conflitti.

L’alessitimia è un costrutto della personalità complesso e multidimensionale ed è stato associato a diversi disturbi medici e psichiatrici. Fu descritto per la prima volta nel 1948 da Jurgen Ruesch nell’articolo “The infantile personality” (Ruesch, 1948), e successivamente introdotto nella comunità scientifica da Nemiah e Sifneos (1970) nella prima metà degli anni Settanta.

Fino agli anni Ottanta erano stati pubblicati solamente 120 articoli sull’argomento, oggi se ne contano più di 1800, grazie alla diffusione di recenti studi empirici e di nuovi strumenti di valutazione.

Alle origini il costrutto dell’alessitimia fu associato alle malattie psicosomatiche classiche, successivamente anche ad altri quadri psicopatologici come il disturbo post-traumatico da stress, l’uso di sostanze, disturbi alimentari e disturbi di personalità. Per questo motivo è considerato un costrutto transdiagnostico.

 

Le caratteristiche peculiari dell’alessitimia:
– difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguere i sentimenti dall’attivazione fisica di natura emozionale;
– difficoltà nel descrivere agli altri i sentimenti;
– ridotta capacità immaginativa e scarsità di fantasie;
– stile cognitivo orientato all’esterno. 

I progressi relativi alla teoria delle emozioni negli ultimi quindici anni hanno contribuito a una comprensione più ampia dell’alessitimia. Di particolare rilievo è stata la teoria del codice multiplo di Bucci (1997) sull’elaborazione delle emozioni, in linea con le ultime ricerche in ambito delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Secondo questa teoria, le emozioni derivano da processi sub-simbolici (sensazioni viscerali e sensoriali) collegati con l’arousal fisiologico e da elementi simbolici (immagini e parole) che vengono rappresentati nella mente. Il collegamento tra sensazioni somatiche e rappresentazione mentale avverrebbe grazie ad un processo referenziale, che permette ai processi sub-simbolici di tradursi in un concetto logicamente organizzabile e mentalmente rappresentabile.

L’alessitimia deriverebbe da un crollo del processo referenziale, causato da condizioni avverse durante l’infanzia, come traumi o conflitti (Bucci, 2008). La qualità dell’attività referenziale può essere esplorata clinicamente attraverso l’ascolto della narrazione del paziente, la quale tende a evocare immagini e affetti nell’ascoltatore quando l’attività è alta, e a suscitare un senso di monotonia e piattezza emotiva quando l’attività referenziale è bassa.

Contributi di ricerca sull’alessitimia

Superato il campo della medicina psicosomatica, la ricerca si è poi spostata su altri ambiti di interesse, come gli studi evolutivi e l’attaccamento, studi di brain imaging e indagini sulla correlazione tra alessitimia e mentalizzazione. Sembra che l’alessitimia sia associata a stili di attaccamento insicuro, in particolare insicuro-distanziante, ma anche a stili preoccupati e timorosi (Montebarocci et al., 2004; Troisi et al., 2001). L’attaccamento insicuro è stato associato a una ridotta mentalizzazione, intesa come capacità di leggere e comprendere gli stati mentali propri a altrui, inclusi i sentimenti, le credenze e le intenzioni (Fonagy e Target, 1997). Recentemente Fonagy, Bateman e Luyten (2012) hanno evidenziato la stretta correlazione esistente tra mentalizzazione e alessitimia.

Diversi studi in ambito cognitivo e metacognitivo hanno indagato la correlazione tra l’alessitimia e diverse condizioni psicopatologiche, l’abuso di sostanze e tratti di personalità. Sebbene non ci siano studi empirici che dimostrino una relazione diretta tra il costrutto e i disturbi di personalità, è però stato accertato il legame con alcuni tratti della personalità. In uno studio su pazienti ricoverati per alcolismo, l’alessitimia risulta correlata in modo positivo con tratti di personalità evitante, schizoide e antisociale (De Rick, Vanheule, 2007). Più recentemente, uno studio su pazienti ricoverati in una clinica per il trattamento di disturbi di personalità ha evidenziato che un maggior livello di alessitimia era presente in pazienti con elevati tratti di personalità del cluster C del DSM-IV, rispetto a quelli con bassa alessitimia (Nicolò et al., 2011).

Per quanto riguarda la ricerca sperimentale, pare che i livelli del neuropeptide ossitocina abbia un ruolo nel determinare il riconoscimento delle espressioni facciali. Sono state condotte delle ricerche per indagare se il livello di ossitocina possa migliorare la mentalizzazione in soggetti con elevati livelli di alessitimia. Un recente studio sperimentale (Luminet et al., 2011) ha confrontato le prestazioni di soggetti con alti e bassi livelli di alessitimia al Reading the mind in the eyes test: è un test formato da trentasei fotografie di volti con espressioni facciali emotive complesse. Per ogni fotografia, veniva chiesto ai partecipanti di scegliere tra diversi quattro stati emotivi. Dallo studio è emerso che i soggetti con un basso livello di alessitimia avevano buone prestazioni sia con la somministrazione di ossitocina, sia in condizione placebo, mentre i soggetti con alti livelli di alessitimia avevano prestazioni di gran lunga migliori con la somministrazione di ossitocina rispetto al gruppo di controllo. I risultati dello studio quindi evidenziano che l’ossitocina migliorerebbe la capacità di riconoscimento delle emozioni altrui, in particolare di quelle negative.

Strumenti di valutazione dell’alessitimia

Lo strumento maggiormente utilizzato per la valutazione dell’alessitimia su ampia scala è la TAS-20. Si tratta di un questionario di auto-somministrato formato da 20 item e diviso in tre scale fattoriali: difficoltà a identificare i sentimenti, difficoltà a esprimere i sentimenti agli altri e stile cognitivo orientato all’esterno. Manca la valutazione della ridotta capacità di fantasticare e di accedere ad altri processi immaginativi. Trattandosi di un questionario di auto-valutazione, il limite dello strumento sembra essere quello di chiedere una valutazione dei processi mentali a pazienti che per definizione hanno poca consapevolezza e scarsa capacità introspettiva (Lumley et al., 2007).

Al fine di migliorare la qualità della ricerca, il gruppo di Toronto di Bagby e collaboratori (2006) ha sviluppato un nuovo strumento, la Toronto Structured Interview for Alexitymia (TSIA). A differenza degli strumenti self-report, le interviste strutturate permettono al clinico di verificare e di esplorare la qualità della risposta dell’intervistato e di indagare eventuali dubbi sulla loro veridicità (Perry, 1992).

 

L’intervista è formata da 24 item, sei item per ognuna delle quattro dimensioni dell’alessitimia:

DIF (difficulty identifying feeling), difficoltà a identificare i sentimenti (item 1.5.9.13.17.21): riguarda la difficoltà o la confusione nell’identificare emozioni e sentimenti, o nella distinzione tra sentimenti diversi;
DDF (difficulty describing feeling), difficoltà a descrivere i sentimenti agli altri (item 2.6.10.14.18.22): tale difficoltà è valutata esplorando la capacità dell’intervistato di esprimere verbalmente le emozioni e di utilizzare il linguaggio per comunicare i propri sentimenti;
EOT (externally-oriented thinking), stile cognitivo orientato all’esterno (item 3.7.11.15.19.23): gli item valutano lo stile di pensiero dell’intervistato, in particolare se il pensiero è orientato più sugli eventi esterni, persone e luoghi, rispetto alle esperienze interne.
IMP (imaginal processes), processi immaginativi (item 4.8.12.16.20.24): gli item valutano la capacità dell’intervistato di dedicarsi a fantasie o ad altre attività immaginative. Alcuni item riguardano il fantasticare, altri riguardano l’utilizzo dell’immaginazione e il grado di interesse verso queste attività.

Ciascun item viene segnato su una scala a 3 punti, alcuni item fanno riferimento alla frequenza, altri all’intensità. Il punteggio totale varia da 0 a 48, e i punteggi più alti indicano un alto livello di alessitimia. La TSIA è considerata ad oggi lo strumento principe per la valutazione dell’alessitimia, è già stata tradotta in diverse lingue, tra cui l’italiano. La traduzione è stata curata da Caretti (2011) dopo essere stata validata sul piano psicometrico.

Il progresso nella ricerca e lo sviluppo di nuovi strumenti di valutazione hanno permesso di uscire da una visione categoriale del costrutto, per rinforzare gli aspetti dimensionali. Non esiste più la differenza tra pazienti alessitimici e non alessitimici, ma il costrutto è visto come un raggruppamento di caratteristiche cognitive e affettive, che possono accompagnare molti quadri diagnostici con diversa frequenza e intensità.

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BIBLIOGRAFIA:

Nasce Empathy: il programma per aiutare i più giovani ad affrontare ansia, depressione e pensieri suicidi

FLASH NEWS

Peter Silverstone è il creatore di EMPATHY, un programma pilota utilizzato a scuola per favorire la diminuzione di ansia, depressione e suicidi tra i giovani studenti.

Peter Silverstone, docente presso il dipartimento di Psichiatria dell’Università di Alberta, è anche il creatore di EMPHATY (Empowering a Multimodal Pathway Towards Healthy Youth), un programma pilota utilizzato nella scuola Red Deer dal 2013 per favorire la diminuzione di ansia, depressione e suicidi tra i giovani studenti.

La ricerca, pubblicata sull’edizione di Maggio della rivista PLOS ONE, conferma definitivamente l’efficacia di questo programma. Silverstone afferma:

Abbiamo ottenuto un significativo decremento delle tendenze suicide tra i ragazzi. Mettono anche in pratica meno condotte autolesive e ci pensano meno. Sono anche diminuiti gli indicatori di ansia e depressione in tutta la scuola. Questi sono dati importanti.

L’esperienza è iniziata con uno studio pilota che coinvolgeva tutti gli studenti della scuola Red Deer, i quali avevano un’età compresa tra gli 11 e i 18 anni. All’inizio dell’anno scolastico, più di 3.000 studenti sono stati sottoposti ad una batteria di test, al fine di valutarne il grado di benessere mentale e assegnare loro un punteggio sulla scala EMPATHY.

Immediatamente dopo questa prima fase valutativa, è stato effettuato un rapido intervento rivolto al 4% dei giovani che si erano rivelati ad alto rischio suicidario o comunque aventi gravi condotte autolesive. Nel giro di poche ore questi ragazzi avevano potuto partecipare ad un training sulla resilienza, era stata data loro la possibilità di partecipare ad un programma Internet guidato riguardante tematiche salienti, e infine i loro genitori sono stati informati delle problematiche, fornendo loro linee guida su come approcciarsi a tali questioni nel contesto del rapporto con i propri figli. Dopo aver preso parte a questo programma, i ragazzi sono stati valutati nuovamente e, se necessario, indirizzati ad uno specialista.

Inoltre, tutti gli altri studenti hanno potuto beneficiare di un training sulla resilienza della durata di 16 settimane, il cui scopo era quello di migliorare le capacità relazionali dei ragazzi e incrementare la loro tolleranza alle frustrazioni quotidiane in modo tale da ridurre stress e depressione.

I risultati mostrano la riduzione effettiva di depressione e condotte autolesioniste dopo 12 settimane. Il numero di studenti con tendenze suicidarie è diminuito, da 125 a 30. Il livello di depressione degli studenti è sceso del 15%, mentre i punteggi di ansia sono diminuiti dell’11%.

Grazie a questo programma, le capacità di resilienza degli studenti migliorano e questo porta risultati positivi sia nel contesto scolastico che nella vita quotidiana afferma Mark Jones, preside della scuola. Silverstone, entusiasta, dice che questo studio mostra risultati importanti, e non ci sono altre ricerche come questa.

Tuttavia, egli si mostra preoccupato per il futuro del programma EMPATHY. Infatti, erano stati promessi dei fondi da investire in futuro tuttavia, con il cambio di governo, c’è il rischio che tale promessa non sia mantenuta e che il programma, mostratosi così efficace, non possa continuare, impedendo oltretutto di studiarne la portata a lungo termine. Conclude Silverstone

Approcci di questo genere possono ridurre il rischio di depressione o disturbi d’ansia nei ragazzi, nonché permettono di identificare precocemente eventuali problematiche e di intervenire, quale genitore non vorrebbe questo per i propri figli?

 

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BIBLIOGRAFIA:

Compulsory treatment in Anorexia Nervosa: a clinical opinion

Stein Frostad

If the patient refuses to be examined by the general practitioner or the mental health professional the person can be fetched and examined by force.

In Norway compulsory treatment for anorexia nervosa is regulated by Act No 62 of 2 July 1999 (The Mental Health Care Act, in Norwegian called the Psykisk helsevernloven (Phvl)). Amendments implemented in 2007 introduced compulsory observation and compulsory mental health care for patients with severe eating disorders. A general practitioner can refer a patient to a psychiatric unit approved for compulsory mental health care.

Within 24 hours after admission the patient must be reevaluated by a mental health professional responsible for making administrative decisions according to the Act. This person is usually a psychiatrist or an authorized clinical psychologist. If the patient refuses to be examined by the general practitioner or the mental health professional the person can be fetched and examined by force (Section 3-1). A more detailed description of involuntary hospitalization in Norwegian psychiatry is described by Hustoft & al (Hustoft 2013). In order to be considered for compulsory mental health confinement the patient must have delusions or misconceptions comparable to what is seen in psychosis. In addition to this main criterion for compulsory confinement the patient must be in a dangerous medical situation and has refused or is unable to consent to necessary treatment.

Voluntary treatment must have been tried or it is obviously pointless to try (Section 3-3). The unit receiving the patient must be professionally and materially capable of offering the patient satisfactory treatment and care and the unit must be approved for compulsory mental health care. As part of the treatment of a patient with a serious eating disorder, nutrition may be given without the consent of the patient, provided that this is considered to be an absolutely necessary choice of treatment (Section 4-4b). The patient may appeal administrative decisions related to confinement to a supervisory commission while appeals concerning forced feeding are taken care of by the county governor. The supervisory commission is a panel consisting of a judge, two physicians and two laypersons. The patient is entitled to have assistance of a lawyer. Legal aid is free for these patients.

Specialist health care in Norway is organized in four health care regions. During the last 15 years regional units for eating disorders have developed expertise on treatment of the most severely ill patients with eating disorders. In 2003 The Norwegian Directorate of Health established a national clinical network for the regional units. The participants from the regional units meet regularly several times a year. Representatives from the patient organisations are also taking part in the meetings. During the meetings the regional units report to each other about their activity and discuss how patients with severe eating disorders are taken care of in the regions. Several governments have given priority to improvement of care of patients with severe eating disorders.

For more than a decade The Body- and selfesteem programme has been an important tool for educating health care professionals in all regions in Norway. Scientists and clinicians from all over the world have given lectures and workshops. In addition, videoconference supervision delivered by international experts has improved quality of treatment substantially. Most of the patients with eating disorders are treated at child- and adolescent outpatient clinics and district psychiatric centres. It is believed that the education programme reduces the number of patients in need of care at the regional units. In addition, we have the impression that education of a large number health care professionals enhances early diagnosis of severe eating disorders reducing the number of patients in need of compulsory health care.

Most of the compulsory treatment for eating disorders is delivered at the regional units. If the patient needs treatment at a medical department or at an intensive care unit, compulsory treatment can be delivered outside the unit authorized for compulsory treatment. The unit approved for compulsory care must be in charge of the compulsory treatment. In addition, some of the regional units are open, if the patient needs a closed door, the treatment must be delivered at a locked ward authorized for compulsory care. The regional units collaborate with locked ward and with medical departments when necessary. Usually, the patients are able to receive compulsory treatment at an open ward.

Unfortunately, we do not know how many patients who have received compulsory treatment in Norway since 2007. The regional units have developed extensive skills on voluntary treatment and most of the treatment at the regional units is delivered as voluntary treatment. Usually extensive attempts on voluntary treatment will be performed before compulsory treatment is started. However, if it is obvious that voluntary treatment will fail, compulsory treatment can be performed without trying voluntary treatment first. Usually the supervisory commissions will rule against compulsory treatment if voluntary treatment has not been extensively tried by trained professionals.

Although it is believed that only a small number of patients have been treated with compulsory mental health care since 2007, the amendments describing compulsory mental health care has changed the situation of the most severely ill patients with eating disorders. Before 2007 several patients died in their hospital beds because there was insufficient legal support for starting compulsory mental health care. At present, the most severely ill patients receive compulsory mental health care when voluntary treatment fails. Sometimes compulsory treatment is started very late with numerous somatic complications, while in other patients compulsory treatment is stopped because voluntary treatment has not been tried long enough. On some occasions, the supervisory commissions have terminated compulsory mental health care because the institution was not professionally or materially capable of offering the patient satisfactory treatment.

Establishment of compulsory mental health care might affect the relationship between patient and therapist. Several studies have been unable to demonstrate any worsening of the therapeutic relationship after compulsory treatment (Elzakkers 2014). However, we have several times observed transient decrease in engagement when compulsory treatment is started. In the most intensely ill patients voluntary treatment is often preferable. When the risk of refeeding syndrome is high and the energy intake is low many patients are able to interact successfully with the health care professionals. But when energy intake is increased some patients find it difficult to continue treatment and compulsory mental health care might be necessary. According to a review by Clausen and Jones involuntary treatment is not regarded as a reaction to the severity of the eating disorder symptoms alone, but is usually also a response to the complexity of the patient´s situation (Clausen 2014).

The supervisory commissions play a crucial role. Compulsory mental health care should only be started when it is impossible to perform voluntary treatment. When successful voluntary treatment is possible compulsory treatment should be terminated. However, some patients with recurrent life threatening somatic complications and severe cognitive dysfunction should have the opportunity to be able to benefit from psychotherapy by being allowed to establish a nutritional status compatible with successful psychotherapy. The supervisory commissions interpretation of the legislation and understanding of the importance of nutritional status for the patients ability to make good decisions is of great importance. On a few occasions the control commission repetedly ruled against further compulsory treatment before the patient was able to take care of the disease. However, usually the control commissions allow weight gain to continue till the patient is able to manage the situation.

Sigrid Bjoernelv recently reported data from 11 female patients who had received compulsory treatment at the regional unit in Levanger in Norway before 2013. The patients were aged 16,5 to 26 years and they had BMI between 8,2 and 19,3 at start of treatment. After compulsory treatment they were offered treatment at the regional unit for eating disordersAt follow-up one of the patients had died, six patients had a good outcome and four had an active eating disorder.

Section for Eating Disorders at Department for Psychosomatic Medicine in Bergen is the regional unit for the 1 million inhabitants in Western Norway. Patients aged 16 years or above can be accepted for treatment. Two different voluntary programs are offered. The most intensely ill patients are sometimes unable to benefit from psychotherapy. These patients are offered a structured clinical supportive management with 1-1,5 kg weight gain pr week aiming at establishing normal body weight (The Weight-normalization Programme). If the patient is able to benefit from psychotherapy the patient is offered outpatient cognitive behavior therapy enhanced for eating disorders (CBT-E) as described by Chris Fairburn or inpatient intensive CBT-E as described by Riccardo Dalle Grave.

Approximately 50 patients receive outpatient treatment and 5 patients receive inpatient care. Only a few intensely ill patients have received compulsory treatment. Since 2007 0-3 patients have started compulsory treatment per year. Patients who are unable to benefit from voluntary treatment are assessed, monitored and treated by professionals who are trained and have experience in compulsory mental health care for anorexia nervosa. In Norway the regional units are relatively small with limited number of professionals who are able to perform forced feeding. Usually, the patient does not need forced feeding more than once. But on a few occasions the patient has needed forced feeding repeatedly before normal eating has been established.

The patient who receives compulsory care will be offered transition to the voluntary weight normalization Programme or CBT-E when he or she is able to benefit from psychotherapy. Although several patients have made a successful transition for voluntary weight normalizing programme to CBT-E we have till now not seen patients make a transition from compulsory mental care to successful CBT-E. However, the patients who have received compulsory treatment in Bergen have been very seriously ill and compulsory treatment has improved medical situation substantially. After inpatient treatment they receive outpatient follow-up at Section for Eating Disorders or a district psychiatric centre near their home. For these few patients compulsory care has been most valuable.

 

Stein Frostad MD
Section for Eating Disorders
Department for Psychosomatic Medicine
Haukeland University Hospital
Helse Bergen
Norway

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Stili di vita e benessere psicologico degli adolescenti: uno studio pilota

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Stili di vita e benessere psicologico degli adolescenti: uno studio pilota

Autrice: Chiara Schembari (Università degli Studi di Bologna- Facoltà di Cesena)

Abstract

Carol Ryff sostiene che il benessere si presenta come un processo multidimensionale e dinamico che comprende vari e molteplici aspetti. Le sei dimensioni delle Psychological Well – Being Scales (PWB) di Ryff (autonomia, autoaccettazione, scopo nella vita, crescita personale, controllo ambientale e relazioni positive con gli altri) rilevano importanti aspetti dell’individuo necessari per valutare il benessere psicologico soggettivo. L’ipotesi principale dello studio è che le diseguaglianze a livello socio – economico negli adolescenti possono influenzare il benessere psicologico ed avere un impatto sull’autostima, sulla capacità di controllo dell’ambiente circostante e sull’individuazione di uno scopo nella vita.

English abstract

Carol Ryff argues that well-being is presented as a multidimensional and dynamic process which includes many and varied aspects. The Six Dimensions of Psychological Well – Being Scales (PWB) of Ryff (autonomy, self-acceptance, purpose in life, personal growth, environmental control and positive relations with others) reveal important aspects of the individual needed to assess the psychological well-being subjective. The main hypothesis of the study is that inequalities in socio – economic adolescents may affect the psychological well-being and have an impact on self-esteem, the ability to control the surrounding environment and the identification of a purpose in life.

 

 

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Rendimento scolastico: perché le ragazze vanno meglio dei ragazzi?

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

Secondo un recente rapporto dell’OCSE, pare che tra gli studenti di 15 anni i ragazzi ottengano risultati scolastici inferiori rispetto alle loro coetanee. Il dato non è certamente nuovo, ma una nuova chiave di lettura sull’argomento è stata proposta dal Dr. Andreas Hadjar, professore di sociologia dell’educazione presso la Université Du Luxembourg. 

Secondo un recente rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), pare che tra gli studenti di 15 anni i ragazzi ottengano risultati scolastici inferiori rispetto alle loro coetanee. Il dato non è certamente nuovo, né all’opinione pubblica, né agli ambienti accademici, che hanno cercato in più riprese di spiegare il fenomeno attraverso le più varie prospettive.

Una nuova chiave di lettura sull’argomento è stata proposta dal Dr. Andreas Hadjar, professore di sociologia dell’educazione presso la Université Du Luxembourg. Lo studio da lui condotto, pubblicato sulla rivista Masculinities & Social Change, fa parte di un più ampio progetto di ricerca chiamato Lazy boys, ambitious girls? (2008-2011), frutto della collaborazione tra la Berne School of Teacher Education e l’Università di Berna.

Il lavoro del prof. Hadjar, nello specifico, si è posto l’obiettivo di analizzare i meccanismi sottostanti al minore successo scolastico dei maschi attraverso una prospettiva studentocentrica, focalizzata cioè sul punto di vista e le percezioni degli alunni, ben 872, frequentanti la terza media in 19 scuole diverse del cantone di Berna.

L’ipotesi del professore era che il basso successo scolastico dei ragazzi, misurato attraverso la media dei voti ottenuti a scuola, potesse essere spiegato da alienazione e devianza scolastica e da un’ideologia di genere di tipo patriarcale, fattori valutati attraverso l’utilizzo di questionari e la conduzione di discussioni di gruppo.

Per alienazione scolastica s’intende una condizione caratterizzata da basso attaccamento alla scuola, scarso impegno scolastico e distacco emotivo rispetto agli obiettivi e ai valori accademici. L’attitudine dei pari rispetto alla scuola e gli stili di insegnamento sembrano giocare un ruolo fondamentale a questo proposito. L’alienazione scolastica spesso trascende in devianza scolastica, con comportamenti attivamente diretti ad ostacolare gli insegnanti e a disturbare i compagni.

Per ideologia di genere, infine, si fa riferimento alle credenze individuali circa i ruoli tipici di uomo e donna nell’ambiente domestico e lavorativo. Nella loro formazione gioca un ruolo fondamentale la trasmissione intergenerazionale. Un’ideologia di tipo patriarcale, nello specifico, associa l’idea che ci siano differenze naturali tra uomo e donna ad una visione di ineguaglianza tra i sessi, con l’attribuzione di un ruolo di superiorità all’uomo.

Dai risultati dello studio è emerso che l’alienazione scolastica rappresenta il principale predittore dello scarso rendimento scolastico e, consideratone il più alto livello tra i ragazzi, si mostra anche come la principale causa del gap di genere. Inoltre, è stata osservata un’associazione tra opinioni di tipo patriarcale rispetto ai ruoli di genere e devianza scolastica, a sua volta ricollegabile, specie nei maschi, ad uno scarso successo scolastico.

Questo lavoro non fornisce soltanto una chiave descrittivo-esplicativa dello scarso rendimento scolastico dei ragazzi, ma propone anche ad insegnanti e genitori delle soluzioni operative per farvi fronte. Suggerisce il prof. Hadjar

Nello specifico la presenza di insegnanti autorevoli, che forniscano strutture, controllo e cura, ma che non trascendano in condotte autoritarie, può offrire una decisa opposizione al fenomeno. Allo stesso modo i genitori devono adoperarsi per rendere consapevoli i ragazzi dei ruoli di genere e che imparare a scuola può essere parte sia dell’identità femminile che di quella maschile.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Hadjar, A. (2015). School Alienation, Patriarchal Gender-Role Orientations and the Lower Educational Success of Boys. A Mixed-method Study. Masculinities & Social Change, 4(1), 85-116

Un’epidemia di paura: quando l’eccessiva preoccupazione nasconde più rischi della stessa epidemia

Per comprendere al meglio cosa succede durante i periodi di allarmismo, ci viene incontro la psicologia della percezione, in particolare della percezione del rischio.

Una delle notizie che più è circolata negli ultimi giorni riguarda la presenza, tra immigrati, di alcuni casi di Scabbia. Ciò ha dato il via a un feroce allarmismo spesso alimentato, ahinoi, da posizioni politiche estreme esposte sotto forma di spicciola demagogia. Eppure siamo riusciti a sopravvivere, non molto tempo fa, alla pericolosa diffusione dell’Ebola e, meno recentemente, ai letali rischi di Aviaria, Sars e altri ancora.

Non si può negare dunque che certe notizie abbiano un impatto molto forte sul pubblico: basti pensare che in America è stato coniato il termine Fearbola, proprio per indicare il panico suscitato dalla notizia della diffussione della malattia. D’altra parte, trattasi comunque di rischi per la salute che preferiremmo tener lontani dal nostro vivere quotidiano.

Per comprendere al meglio cosa succede durante questi periodi di allarmismo, ci viene incontro la psicologia della percezione, in particolare della percezione del rischio.

Secondo vari studi, alcuni dei quali svolti proprio in merito alla notizia del rischio Ebola, durante la diffusione delle notizie di possibili epidemie, vengono toccati dei tasti particolarmente sensibili della nostra percezione: ci viene infatti riferito che può essere fatale, invisibile e difficile da proteggere, che l’esposizione è involontaria e che non vi è un chiaro controllo della situazione da parte delle autorità.

In tutto questo un ruolo chiave è svolto dalla nostra amigdala: quella parte del cervello coinvolta sia nell’attivazione della paura che nell’elaborazione della novità. Questo spiegherebbe come mai la paura sia più sentita verso malattie a noi estranee, rispetto a malattie per noi più familiari. Vi siete mai chiesti per quale motivo l’influenza, causa comunque di numerosi decessi, non sia temuta quanto la Sars di turno? In realtà, spiegano gli esperti in psicologia della percezione del rischio, l’effetto ottenuto sugli individui non è lo stesso poichè l’influenza è per questi familiare e conosciuta, così come familiari ci sono tutte quelle persone che hanno avuto l’influenza ma adesso stanno bene.

Quali sono i suggerimenti che gli esperti in psicologia della percezione del rischio ci danno?

Prima di tutto una tempestiva ed onesta comunicazione da parte di una fonte ritenuta credibile dal pubblico: i governi dovrebbero avere il duro compito di spiegare i rischi alla gente e dire cosa va fatto, senza creare allarmismi.

Inoltre, secondo gli esperti, i media dovrebbero diventare un grande alleato nella diffusione di informazioni utili e precise: spiegare in modo preciso e concreto come proteggere la propria salute è un metodo efficace per ridurre l’ansia e lo stress nelle persone preoccupate dalla diffusione di un’epidemia. In questo caso le immagini delle azioni da svolgere per evitare il contagio sono molto potenti: quando si usa la parte più primitiva del cervello, infatti, gli input visivi sono più efficaci degli stimoli di ordine superiore.

Per conoscere gli altri suggerimenti e saperne di più sull’argomento, vi rimando alla lettura dell’articolo consigliato. Prima però vi lascio con una riflessione: mentre aspettiamo che media e governi colgano i consigli degli esperti, cerchiamo di diventare ricercatori attivi di informazioni esatte e fondate. Solo così potremmo evitare il vero pericolo che si sta oggi diffondendo: l’essere vittime di disinformazione o, peggio, di informazioni strategicamente pilotate.

 

Although there were only 10 confirmed U.S. cases — all of them people who had direct, prolonged contact with Ebola patients — parents in Texas, Mississippi and New Jersey pulled children out of school after other students or administrators had chance encounters with Ebola patients or visited West Africa, and a teacher in Maine was put on leave after attending a conference in Dallas where the first U.S. case was discovered. The states of New York, New Jersey and Illinois mandated 21-day quarantines for health workers who had treated Ebola patients in West Africa, and Connecticut reserved the right to quarantine anyone believed to have been exposed to the virus.

Un’epidemia di paura: quando l’eccessiva preoccupazione ha più rischi della stessa epidemia Consigliato dalla Redazione

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Secondo alcuni studi, durante la diffusione delle notizie di possibili epidemie, vengono toccati dei tasti particolarmente sensibili della nostra percezione. (…)

 

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Il mito dell’obesità causata dalla scarsa forza di volontà

Ridurre l’obesità a mancanza di forza di volontà è irrispettoso verso le persone che convivono quotidianamente con le conseguenze fisiche e sociali di questa condizione cronica.

Le ultime tre decadi sono state testimoni di un preoccupante aumento dei casi di obesità negli USA e in altri paesi industrializzati (Hu, 2008). Nonostante molta ricerca abbia dimostrato la natura multifattoriale dell’obesità, e il complicato meccanismo implicato nella regolazione del peso corporeo, questa condizione più che una malattia cronica, è considerata una colpa e fallimento personale. “Con l’impegno e la forza di volontà puoi ottenere i cali di peso e le forme che desideri” è uno slogan che abbiamo sentito più volte come riferimento alla perdita di peso.

La magrezza è associata a grande autocontrollo e forza di volontà mentre vale il contrario per il peso in eccesso. Scarsa forza di volontà, pigrizia, poca cura sé, golosità ecc., sono tra i più comuni stereotipi che ruotano attorno alle persone obese. (Puhl & Brownell; 2003).

L’obesità è vista come responsabilità della persona in quanto è diffusa l’idea che il peso sia sotto il controllo dell’individuo. È vero che l’autocontrollo è un potente strumento umano e che le persone che ne hanno di più sono più propense a riuscire meglio, per esempio nella scuola o nel lavoro, rispetto a chi ne ha meno. La forza di volontà però sembra non avere effetto quando si guarda alla gestione del peso, poiché l’alimentazione, rispetto ad altri comportamenti, è meno influenzata dalla capacità di autocontrollo.

Traci Mann, professoressa di psicologia all’università del Minnesota dedica un capitolo dal titolo “Il mito della forza di volontà” all’interno del suo libro “Secrets from the Eating Lab”. La dottoressa Mann fa riferimento a uno studio del 2009 degli psicologi Malte Friese e Wilhelm Hofmann nel quale dei volontari, dopo avere completato un questionario che misurava la forza di volontà, erano posti in una condizione nella quale dovevano resistere il più possibile a non mangiare delle patatine che venivano poste di fronte a loro.

I ricercatori volevano vedere se i soggetti, che erano risultati avere maggiore forza di volontà nei test, resistevano di più rispetto a chi aveva ottenuto punteggi più bassi. Questo non avvenne evidenziando che la capacità di autocontrollo non determina il resistere a un alimento molto palatabile.

Bisogna pensare all’obesità come a un complesso puzzle, dice Rebecca Puhl, una delle massime autorità nel campo dell’obesità e stigma, dove il comportamento individuale è solo uno dei numerosi pezzi. Prendere in considerazione la sola forza di volontà oscura la natura multifattoriale dell’obesità e i meccanismi biologici, ambientali e psicologici coinvolti.

L’idea della persona obesa come pigra, golosa e incapace di autocontrollo alimenta lo stigma verso questa condizione che può risultare in penalizzazioni nei domini più importanti della vita come lavoro, istruzione, relazioni interpersonali e cure sanitarie. (Puhl & Heuer., 2009).

Ridurre l’obesità a mancanza di forza di volontà è irrispettoso verso le persone che convivono quotidianamente con le conseguenze fisiche e sociali di questa condizione cronica. Sfatare il mito della forza di volontà e considerare l’obesità come una malattia e non come una colpa, come è già stato detto in altri interventi per questa rubrica, è fondamentale nella lotta all’obesità. Perché bisogna combattere l’obesità e non le persone obese. 

 

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Sogno o realtà? La sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie

Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie indica un gruppo particolare di sintomi intimamente associati all’emicrania e all’epilessia, che riguardano distorsioni percettive e che alterano, cioè, le informazioni sensoriali su se stessi e sul mondo circostante.

Angelica Gandolfi – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  Modena

 

Il nome Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie (AIWS: dall’inglese Alice in Wonderland Syndrome) è stato coniato per la prima volta dallo psichiatra britannico John Todd nel 1955 per indicare un gruppo particolare di sintomi intimamente associati all’emicrania e all’epilessia (Todd, 1955) che riguardano distorsioni percettive, che alterano, cioè, le informazioni sensoriali su se stessi e sul mondo circostante.

L’interesse nacque quando Todd notò che alcuni suoi pazienti, che soffrivano di emicrania o di epilessia, avevano vissuto illusioni relative al proprio corpo quali, ad esempio, sentirsi troppo alti o troppo bassi o avere l’impressione che parti corporee mutassero forma o dimensione. I dati clinici erano simili a quelli indicati precedentemente da Lippman (1952) relativi a due pazienti che affermavano di avere avuto la sensazione di diventare piccoli o grandi durante un attacco di emicrania. Tali percezioni sembravano richiamare quelle descritte nel libro Alice’s Adventures in Wonderland, scritto nel 1865 da Charles Lutwidge Dodgson sotto lo pseudonimo Lewis Carroll. La storia narra di Alice, una bambina che, saltando nella tana di un coniglio bianco, entra in un mondo dove vive esperienze fantastiche, tra cui aumentare e diminuire di dimensione. L’ipotesi avanzata da alcuni autori (Todd 1955; Lippman, 1952; Fine, 2013) è che lo scrittore, soffrendo egli stesso di emicrania, si sia ispirato alle sue personali sensazioni per ideare tale vicenda.

Nel corso del tempo l’interesse per la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie è cresciuto notevolmente. Sono stati svolti molti studi che hanno cercato di definirne le cause e le forme di manifestazione. Il problema è, infatti, che i sintomi possono facilmente essere scambiati per quelli di alcuni disturbi psicotici. Alcuni autori (Lippman, 1952; Todd, 1955) hanno notato che molti pazienti erano reticenti a spiegare ciò che provavano per vergogna e per paura di non essere creduti e che, molto spesso, nasceva in loro il dubbio di essere pazzi. Dare un nome a questa sindrome è di grande utilità per queste persone, in modo che non sviluppino credenze erronee che rischiano di creare sofferenza e che riescano a chiedere aiuto più facilmente.

 

I sintomi della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie

Montastruc et al., in un loro articolo, hanno descritto le varie espressioni della sindrome (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012). Per maggiore chiarezza, i sintomi verranno qui riportati secondo la divisione proposta da Podoll et al. (Podoll, Ebel, Robinson, Nicola, 2002), che li differenziano in due gruppi: sintomi essenziali e sintomi accessori.

I primi sono gli aspetti più tipici dell’AIWS, che emergono più frequentemente, e si riferiscono a percezioni alterate della dimensione o della forma del proprio corpo per intero o di alcune parti di esso. Gli individui possono, ad esempio, sentirsi più alti, più bassi, più magri o più grassi rispetto alla realtà (microsomatognosia e macrosomatognosia). È anche possibile che sia solo un arto, una mano o un piede, perfino la testa a essere visto diverso da come dovrebbe essere (aschematia).

 I secondi, invece, sono sintomi aggiuntivi che, solitamente, accompagnano quelli più comuni. Tra essi troviamo le illusioni visive, per cui si percepiscono le altre persone o gli oggetti più piccoli o più grandi (micropsia e macropsia), più distanti o più vicini (teliopsia e peliopsia) o mutati di posizione (allestesia). Sono possibili anche illusioni nello scorrere del tempo (distorsioni temporali), sensazioni di levitazione e difficoltà a riconoscere i volti (prosopagnosia). Non di rado si aggiungono anche sensazioni soggettive di dissociazione per cui, ad esempio, si ha l’impressione di osservarsi dall’alto (depersonalizzazione) o che ciò che sta avvenendo non sia reale (derealizzazione).

I sintomi sono di solito riconosciuti dai pazienti e, come affermato precedentemente, vissuti spesso come qualcosa di strano e anormale (egodistonia). Questo è un aspetto di differenziazione dagli individui psicotici, che vivono invece le allucinazioni come reali e come parte di se stessi (egosintonia). I sintomi della sindrome si differenziano da quelli psicotici anche per essere, di solito, temporanei e di breve durata e per avere un’origine neurologica chiaramente identificabile (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012).

Non sembra esserci ancora molta chiarezza sulle origini (Liu, Liu, Liu e Liu, 2014) e sui criteri diagnostici (Lanska e Lanska, 2013) della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Dai dati disponibili, è possibile supporre che venga diagnosticata qualora si presentino uno o più sintomi in determinate condizioni: assenza di danni al sistema visivo, anormale flusso di sangue alle aree cerebrali deputate alla percezione visiva (verificabile tramite esami appositi che utilizzano tecniche di neuroimmagine), riconoscimento delle dei sintomi da parte dei pazienti come irreali e di durata temporanea.

Per quanto riguarda l’esordio, invece, molti studi hanno cercato di indagare quali siano le cause che portano allo sviluppo della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. L’idea oggi più diffusa è che, nella maggior parte dei casi, i sintomi siano dovuti a un’anormale eccitazione corticale. Ciò significa che i pazienti hanno percezioni sensoriali, cioè sensazioni date dai cinque sensi, corrette, e che sia la trasmissione elettrica alterata di questi segnali, che avviene nel cervello, a causare le allucinazioni, modificando il normale apporto di sangue alle aree deputate alla formazione delle percezioni (Hamed, 2010). È stato dimostrato (Kitchener, 2004) che tale cambiamento può essere dovuto a differenti quadri clinici.

 

Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie: anamnesi e diagnosi differenziale

Grande importanza assume, quindi, una corretta anamnesi e una precisa diagnosi differenziale del paziente. Questi passaggi permetterebbero innanzitutto di escludere un disturbo psicotico e, in secondo luogo, di identificare la corretta problematica medica, attuale o regressa, che ha portato allo sviluppo dei sintomi. In seguito sono riportati studi che hanno identificato alcune situazioni sanitarie implicate nell’esordio della sindrome. Va specificato, però, che tali disturbi non necessariamente comportano anche alterazioni percettive e che possono presentarsi anche senza causare la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Primo fra tutti, identificato già da Lippmann (1952) e da Todd (1955) è l’emicrania. Todd (1955) parla anche di due pazienti con emicrania associata ad epilessia. Secondo gli autori, in questi casi erano frequenti sintomi di illusioni visive, alterate percezioni del proprio corpo e sensazioni di dissociazione.

Anche alcune malattie virali sembrano essere associate alla Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. Copperman (1977) parla di tre pazienti con il virus Epstein-Barr (un herpesvirus) che presentavano distorsioni nella percezione degli oggetti. Lahat (1999) ha ritrovato queste caratteristiche anche in pazienti con mononucleosi. Studi recenti hanno evidenziato ulteriori associazioni con l’enterovirus Coxsackie B1 e il virus da influenza H1N1 (Wang, Liu, Chen, Chan e Huang, 1996). Losada-Del Pozo et al. (Losada-Del Pozo, Cantarin-Extremera e Garia-Penas, 2011) hanno identificato tra le cause possibili il citomegalovirus e il virus della varicella. Sono state prese in considerazione anche le infezioni batteriche, tra le quali sembra avere un ruolo nella sindrome il batterio Borrelia (Binalsheikh, Griesemer, Wang e Alvarez-Altalef, 2012).

Si ricorda che, anche in questo caso, i fattori elencati non causano necessariamente l’AIWS, è possibile e frequente attraversare le infezioni senza sviluppare sintomi della sindrome. Complicazioni di queste malattie possono portare a infiammazioni focalizzate a livello cerebrale, alterando così la funzionalità e il flusso sanguigno nelle zone colpite. Eventuali alterazioni nella percezione sembrano essere dovute a tali effetti aggiuntivi, nel caso le aree interessate siano quelle deputate a tale funzione (Kuo, Chiu, Shen, Ho e Wu, 1998).

 

La cause della sindrome di Alice

Sono state fatte alcune ipotesi anche riguardanti eventuali cause psichiatriche. Bui et al. (Bui, Chatagner e Schmitt, 2010) descrivono un’associazione tra l’AIWS e i disturbi depressivi. Sembrerebbe possibile, infatti, che i sintomi si manifestino durante un episodio depressivo maggiore. Altri autori (Todd, 1955; Blom, Looijestijn e Goekoop, 2011) hanno indagato le somiglianze con i sintomi psicotici, arrivando a ipotizzare che sia la schizofrenia sia il disturbo schizoaffettivo possano accompagnarsi alla sindrome. Come affermato in precedenza, le differenze tra i sintomi dell’AIWS e i sintomi psicotici sono generalmente il loro riconoscimento, da parte del paziente, come non reali e la durata temporanea (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012). È possibile anche eseguire un esame dell’attività elettrica e sanguigna (fMRI, risonanza magnetica funzionale) nelle aree del cervello percettive, la quale, ricordiamo, risulta anormale in caso di AIWS (Hamed, 2010). Soprattutto in questi casi, è importante un’attenta analisi dei sintomi per inserirli nella giusta categoria. Anche certe sostanze stupefacenti, come ecstasy o cannabis (Losada-Del Pozo, Cantarin-Extremera e Garia-Penas, 2011), possono indurre fenomeni come quelli che si manifestano nell’AIWS.

 

Studi evidenziano che alla base dei sintomi possa esserci perfino l’assunzione di alcuni farmaci. In particolare, Jürgens et al. (Jürgens, Stork e May, 2011) mostrano come la sindrome possa verificarsi per gli effetti secondari dell’anticonvulsivante topirimato, usato proprio nel trattamento dell’emicrania. Tra i prodotti farmaceutici che, a certi dosaggi, scatenano i sintomi dell’AIWS troviamo anche il destrometorfano, impiegato nella cura della tosse (Losada-Del Pozo, Cantarin-Extremera e Garia-Penas, 2011), e l’oseltamivir, utilizzato contro alcuni tipi di influenza (Jefferson, Jones, Doshi e Del Mar, 2009).

 Come affermano Montastruc et al. (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012) nella loro review, il legame tra emicrania e Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie AIWS, legame ipotizzato gli albori da Todd (1955), è quello maggiormente riportato in letteratura ed è la linea principalmente considerata nell’inquadramento della sindrome. Le informazioni ad oggi a disposizione sono supportate da dati derivanti dall’utilizzo di tecniche di stimolazione elettrica transcranica e di neuroimmagine. Hamed (2010), riferendosi proprio a un caso di concomitanza tra emicrania e AIWS, afferma l’implicazione del lobo occipitale e del lobo parietale. Tale dato è confermato dallo studio di Brumm et al. (Brumm, Walenski, Haist, Robbins, Granet e Love, 2011), che per primi hanno registrato l’attività cerebrale, di un paziente con la sindrome, durante un attacco di micropsia. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che permette di descrivere l’attività delle zone corticali in base al rilevamento del flusso sanguigno, gli autori hanno rilevato un’anormale attivazione del lobo occipitale, nelle regioni primaria ed extrastriata delle aree corticali visive, e del lobo parietale. I risultati sono in accordo anche con quanto sostenuto da Cau (1999) sulla possibilità del manifestarsi di alterazioni percettive, come quelle presenti nell’AIWS, in caso di lezioni temporo-occipitali e parieto-ocipite-temporali, sottolineando il ruolo de tali aree nella formazione delle percezioni.

Dati interessanti riguardano il manifestarsi spontaneo dei sintomi della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie nei bambini dai 2 ai 13 anni. Sembrerebbe infatti che non sia così raro incontrare alterazioni nelle percezioni nel periodo infantile, che solitamente rientrano dopo poco tempo. Grant Liu, pediatra del Children’s Hospital di Philadelphia, ha effettuato uno studio volto a indagare l’espressione dei sintomi della sindrome in 48 bambini con tale diagnosi (Liu, Liu, Liu e Liu, 2014). Le illusioni più frequenti riguardavano il vedere gli oggetti più piccoli (micropsia) o più lontani (teliopsia). Il dato curioso, però, è che nel 52% dei casi non sono state individuate cause scatenanti e, nella maggior parte dei soggetti, i sintomi sono regrediti spontaneamente. Rimandando a quanto già accennato precedentemente, è difficile per le famiglie affrontare una situazione simile, per la poca conoscenza e per la vergogna e la paura derivanti dal non sapere cosa stia accadendo. Lo stesso Liu, in un’intervista, ha affermato di aver posto così tanto interesse alla definizione della sindrome per dare una voce ai bambini, una voce ai genitori, per renderli in grado di comprendere ciò che sta accadendo ai loro figli.

In sintesi, è possibile definire la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie come una costellazione di sintomi che portano a distorsioni percettive. Le alterazioni più comuni riguardano il proprio corpo o parte di esso, le quali si accompagnano spesso a illusioni visive, temporali e a sensazioni psicologiche di dissociazione. La sindrome è solitamente causata da altri disturbi, quali l’emicrania, l’epilessia, infezioni virali e batteriche, intossicazione da droghe o farmaci o concorrere insieme a patologie psichiatriche. Un discorso a parte riguarda i bambini, che sembrano poter manifestare i sintomi in maniera spontanea.

 

Ad oggi non esiste un trattamento specifico per la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. La linea seguita dai medici è la cura del fattore che l’ha scatenata.

Gli studi sulla sindrome hanno avuto una grande utilità nella normalizzazione dei sintomi. Come precedentemente spiegato, molti pazienti, non essendo a conoscenza della loro reale condizione, vivevano le distorsioni percettive come qualcosa di non normale, e questo provocava in loro sentimenti di confusione, di vergogna e di paura, che spesso li portava a non parlare delle loro difficoltà e a non chiedere aiuto. Dare nome e forma a quest’insieme di sintomi bizzarri, permette ai soggetti che ne soffrono di riconoscerli per quello che sono e di distaccarli dalla vita reale, proprio come Alice che, alla fine del libro, scopre che la sua avventura fantastica altro non era che un sogno, vivido nella sua mente ma comunque altro dalla realtà.

 

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Le abilità cognitive nell’infanzia predittori delle future capacità di leadership

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Leadership Quarterly pare ora suggerire che le differenze cognitive individuali possano prevedere, già a dieci anni, la probabilità di ricoprire posizioni di comando in ambito professionale.

In letteratura è stata frequentemente evidenziata una relazione piuttosto consistente tra abilità cognitive generali e un ampio ventaglio di outcome di vita, tra cui anche il successo professionale. Abilità cognitive di alto livello come memoria di lavoro, ragionamento e problem solving, per esempio, possono favorire la ricerca di soluzioni valide e creative in risposta a situazioni nuove, complesse o poco definite, quali quelle che spesso caratterizzano l’ambito lavorativo. Le persone che ricoprono un ruolo di comando, in particolare, si misurano quotidianamente con una vasta serie di compiti cognitivamente impegnativi e devono prendere decisioni e pianificare strategie sotto costante pressione temporale.

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Leadership Quarterly pare ora suggerire che le differenze cognitive individuali possano prevedere, già a dieci anni, la probabilità di ricoprire posizioni di comando in ambito professionale. I 17000 partecipanti dell’imponente ricerca, condotta da Michael Daly, Mark Egan e Fionnuala O’Reilly, ricercatori dell’Università di Stirling, sono stati selezionati da due diversi grandi studi longitudinali, il British Cohort Study (BCS) e il National Child Development Study (NCDS).

Le abilità cognitive generali dei bambini reclutati sono state misurate intorno ai 10 anni attraverso, rispettivamente, la British Ability Scale e l’80-item General Ability Test; le capacità di leadership sono state invece periodicamente valutate fino ai 42 e i 50 anni in base all’assunzione e al mantenimento di posizioni professionali manageriali o di coordinamento. Come atteso, i bambini caratterizzati da alti punteggi ai test di intelligenza hanno dimostrato di raggiungere con maggiore frequenza (+12%) posizioni di leadership in ambito lavorativo.

[blockquote style=”1″]Le abilità cognitive generali sembrano formare, sin dall’età infantile, l’architettura cognitiva necessaria per supportare le capacità di leadership e paiono influenzarne profondamente l’andamento nel corso dell’intero ciclo di vita. La relazione tra abilità cognitiva e leadership è certamente correlata, sebbene solo in parte, dal livello di istruzione formale raggiunto.[/blockquote] affermano gli autori.

Lo studio ha inoltre osservato un “leadership gap” tra uomini e donne: a parità di abilità cognitive generali la percentuale di donne che ha raggiunto posizioni manageriali è inferiore di circa il 20% rispetto ai colleghi uomini. Tale differenza di genere ha dimostrato di ridursi soltanto marginalmente passando dalla coorte del 1958, seguita nel British Cohort Study, a quella del 1970, studiata dal National Child Development Study.

[blockquote style=”1″]Potrebbe sembrare poco sorprendente che elevate capacità cognitive generali possano favorire il raggiungimento di alti livelli di leadership in contesti cognitivamente richiestivi come quelli delle moderne organizzazioni.[/blockquote]

Forse davvero sorprendente potrebbe essere la scoperta di un annullamento, visto il trend in riduzione, del gap di genere nelle carriere professionali delle nuove generazioni. Ma per questo bisogna necessariamente attendere (fiduciosi) i risultati di ricerche future.

 

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Sovrastimare le proprie conoscenze: attenzione all’effetto Dunning-Kruger!

 

All’epoca di Twitter e Facebook, in cui le notizie sui più svariati temi circolano in tempo reale, in cui l’informazione è a portata di tutti, possiamo ancora dirci ignoranti su alcuni temi?

Tutti conosciamo la ben celebre frase di Socrate So di non sapere, con la quale il filosofo esprime l’ignoranza come consapevolezza di una conoscenza non definitiva, che funge però da spinta fondamentale verso il desiderio di conoscere.

Ma all’epoca di Twitter e Facebook, in cui le notizie sui più svariati temi circolano in tempo reale, in cui l’informazione è a portata di tutti, possiamo ancora dirci ignoranti su alcuni temi?

In realtà la risposta giusta da dare sarebbe proprio sì, ignorare o non conoscere a fondo un argomento o un concetto è una cosa possibilissima per ciascun essere umano, eppure la quantità di post e di pensieri condivisi su determinate tematiche fa pensare che i following ne sappiano davvero tante!

E così ti ritrovi a scorrere la bacheca di Facebook e a trovare notizie con tanto di riflessioni personali pubblicate dall’amico esperto di pedagogia dell’ età prescolare, quello esperto in etologia dei pesci rossi d’acqua dolce, quello esperto di politica pronto a sfoggiare tutta la sua competenza in tema di costituzione e cittadinanza oppure, opzione frequente e più temuta, c’è l’amico eclettico: quello che sa tutto di tutto, quello con cui getti la spugna ancor prima di iniziare una discussione, pensando che sarebbe l’ideale per la tua salute psicofisica rispondere ai suoi attacchi di saggezza con un Oh! Ma quante cose conosci! Sapessi la metà di ciò che sai tu! 

In psicologia ci si è chiesti cosa succede negli individui che li porta a sovrastimare le proprie conoscenze, si è giunti così alla teorizzazione dell’ Effetto Dunning- Kruger, dal nome dei due studiosi che per primi hanno scoperto e spiegato tale fenomeno.

I due ricercatori hanno sottoposto i soggetti del loro studio a dei test di umorismo, grammatica e logica. Hanno poi selezionato gli individui con punteggi inferiori, punteggio medio reale 12, e hanno chiesto loro di fare una stima dei punteggi ottenuti ai test. I soggetti hanno notevolmente sovrastimato i loro risultati, fino ad ottenere un punteggio medio stimato pari a 62!

Dunning e Kruger hanno spiegato questo effetto alla luce della stessa incompetenza dei soggetti, che non consente loro di padroneggiare quelle strategie metacognitive che permetterebbero una maggiore consapevolezza dei propri limiti.

Sarebbe comunque errato ora sovrastimare la nostra conoscenza sull’effetto Dunning- Kruger e mettere in discussione tutte le notizie che leggiamo: fidarsi delle fonti e conoscere la loro competenza è il primo passo per informarsi in modo corretto.

Adesso però mi sorge un dubbio…sarò stata anch’io troppo convinta di quel che ho scritto e vittima dell’ Effetto Dunning- Kruger? A scanso di equivoci, per informarvi al meglio sul tema, vi rimando all’articolo consigliato!

 

Come fanno i profili di Twitter che seguiamo a mostrarsi sempre così competenti? Si tratti di geofisica, nazionale di calcio, spending review, carte nautiche, procedura penale o diritto costituzionale, di volta in volta la nostra timeline si riempie di profondi conoscitori del settore. Possibile che ci siano così tanti esperti e siano tutti tra i nostri following? No.

Le notizie on-line sono davvero fondate? Attenzione all’effetto Dunning-Kruger!Consigliato dalla Redazione

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All’epoca di Twitter e Facebook, in cui le notizie sui più svariati temi circolano in tempo reale, in cui l’informazione è a portata di tutti, possiamo ancora dirci ignoranti su alcuni temi? (…)

 

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Perchè lasciare tracce? – Tracce del Tradimento Nr. 14

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XIV: Perchè lasciare tracce?

Vogliamo ripeterci: come abbiamo già scritto troppe volte, in questa serie di articoli vogliamo chiederci come mai una persona che tradisce non sia sufficientemente attenta a che il tradimento resti effettivamente tale e dunque segreto.

Caratteristica distintiva del tradimento è proprio l’essere segreto; se vado con un’altra avvisando di ciò il mio partner non ci sono gli estremi del tradimento, manca l’elemento essenziale dell’inganno che sottrae intimità e confidenza alla coppia iniziale.

Sto tradendo finché inganno, perché è in quell’avere una verità dalla quale l’altro è escluso che sta il vero allontanamento tra i due; subito da uno dei due, provocato dall’altro. Nel momento in cui confesso il tradimento stesso finisce, la vicinanza, per quanto dolorosa è ristabilita; la vittima torna ad essere il punto di riferimento, smette di essere l’escluso sia che si ricerchi la sua comprensione, sia che lo si voglia far soffrire esibendo la passione per un altro. Lasciar tracce del proprio tradimento, qualora l’intenzione sia di farle scoprire, vuol dire mettere fine al tradimento stesso, riaprire una comunicazione interrotta, ridare importanza a chi fino a quel momento era trascurato.

La signora Clara era donna raffinata ed integerrima, madre e moglie perfetta, che giunta alla soglia dei quarant’anni poteva dirsi con orgoglio di aver vissuto esclusivamente per la felicità del suo amato Giovanni e dei suoi figli. La prima ad essere sorpresa del suo affetto (all’inizio preferiva chiamarlo così piuttosto che amore o passione) per il più giovane Carlo, architetto che aveva ristrutturato la casa di campagna, fu proprio lei. Terminato il periodo degli ammiccamenti, delle intese sottili, degli sguardi che tanta dolce apprensione provocano nell’animo, i due iniziarono a vedersi con regolarità. Non passò più di una settimana che Clara si rese perfettamente conto che stava, ne più ne meno, seguendo la strada delle sue amiche che ravvivavano la loro noiosa esistenza matrimoniale con un amante. Solo il pensiero di ciò le dava i brividi: per prima cosa lei amava suo marito, in secondo luogo era stata sempre sincera con lui e non aveva nessuna intenzione di iniziare a mentirgli, per ultimo avvertiva chiaramente che i due rapporti, per quanto entrambi profondi e impegnativi, erano altresì del tutto compatibili.

Risolse così di parlare la sera stessa al marito, si sentì immediatamente più sollevata e si mise a fantasticare sulle possibili reazioni del suo amato Giovanni. Giovanni, appunto, fu estremamente comprensivo ed attento (fino al punto da spegnere col telecomando il televisore) mentre lei narrava la sua breve storia e gioiva nel vederla sempre più rasserenata quanto più il racconto procedeva ed il suo animo andava svuotandosi di quel segreto che le procurava un doloroso senso di colpa.

Al termine le disse di apprezzare la sua sincerità, di fidarsi completamente di lei e le fece capire che non voleva in alcun modo che ponesse brusca fine alla sua relazione con Carlo.
Il giorno dopo Clara aspettando che il suo Carlo uscisse dallo studio non stava più nella pelle, non vedeva l’ora di raccontargli il colloquio chiarificatore avuto con il marito, la sua comprensione, la loro reciproca stima, la profondità del loro rapporto. In un remoto angolo del suo animo sentiva di aver tradito Carlo con suo marito la sera prima e voleva che lui lo sapesse.

Passeggiarono sul lungotevere in quell’ora tenerissima che accompagna il tramonto; Clara non smise mai di parlare per due ore e sentì di aver di nuovo messo al posto giusto Carlo. Ora era lui il punto di riferimento, colui con il quale non c’erano segreti.
Purtroppo la sera stessa ritenne opportuno comunicare al marito che aveva detto a Carlo che la sera prima aveva parlato chiaramente con lui della loro relazione. Ora si che poteva sentirsi a posto: sincera fino in fondo.
Erano passate da poco le tre di notte e il notturno era arrivato per la sesta volta sotto le loro persiane socchiuse e tutte e sei le volte era stato udito da Clara che non riusciva a chiudere occhio. Alle tre e tre quarti si risolse ad alzarsi; raggiunse il telefono nel salone e gonfia d’ansia chiamò il numero di Carlo.
Il giovane architetto, impastato dal sonno e ancora inconsapevole dell’ora, fu travolto dalla spiegazione di Clara che non poteva dormire al pensiero che lui non sapesse che lei aveva parlato con il marito del fatto che nel pomeriggio aveva detto a lui che aveva messo al corrente, la sera prima, il marito del loro bellissimo rapporto nascente.
Carlo cercò di tranquillizzarla, la ringrazio per aver pensato a lui (ma qui la sua voce non apparve sincera) e dopo un ultimo bacio alla cornetta cercò di riprendere il sonno bruscamente interrotto.

Stessa sorte toccò alle cinque e venti al povero marito Giovanni che fu svegliato da Clara che proprio non se la sentiva di non dirgli che aveva telefonato in piena notte a Carlo per dirgli che lo aveva messo al corrente del loro incontro pomeridiano in cui aveva detto a Carlo che la sera prima lei aveva parlato chiaramente a lui del nuovo e inaspettato rapporto.
Nei tre mesi successivi la situazione ebbe una svolta perché Carlo si trasferì a Milano per un nuovo lavoro che lo avrebbe impegnato per almeno due anni.

La vita di Clara divenne un inferno. Per lo più dormiva sul treno. Partiva con il rapido delle 23.55 dalla Stazione Termini in una cuccetta di seconda classe ed arrivava a Milano Centrale alle 8.05 dove c’era Carlo ad aspettarla. Dopo un abbraccio lei iniziava la sua lunga spiegazione in cui doveva dirgli cosa aveva detto al marito ripercorrendo ogni volta tutti i passaggi che diventavano sempre più numerosi. Poi, finalmente serena, uscivano dalla cupa stazione, facevano colazione, lei lo accompagnava allo studio dove lo baciava per l’ultima volta alle 9.30 del mattino.

Di nuovo sola faceva un po’ di spesa per la cena, qualche panino e l’acqua minerale per il suo pranzo e poi alle 11.07 il rapido per Roma. Con la metropolitana era a casa alle 18.00 Il marito sospendeva immediatamente di leggere per ascoltare il suo racconto altrimenti non c’era tempo sufficiente per la cena, qualche parola con i figli, una rassettata alla casa e poi via di nuovo accompagnata in auto da Giovanni al rapido delle 23.55 per un’altra notte di treno.

Dopo due mesi di questa corsa la poverina era sfinita ma contenta di essere sempre sincera e leale con entrambi e di tentare in ogni modo di vivere i due rapporti profondamente e alla pari. La massima gioia la provava tra le stazioni di Firenze e Bologna quando si trovava a metà del viaggio. Il marito capì che era in gioco la salute della moglie alla quale era davvero affezionato e una sera, al termine della sua consueta spiegazione, le disse che pur apprezzando la sua sincerità, il suo cuore non reggeva ulteriormente al racconto di tutti i particolari della sua storia di amore con Carlo e proprio in nome del loro amore le chiedeva di non dirgli più alcunché. Se lei davvero lo amava doveva imbrogliarlo, nascondergli ogni cosa, fingere: solo così non sarebbe morto di crepacuore. Solo per quella sera Clara partì con il rapido delle 23.55. Da allora, sono ormai tre anni, vive, come le sue amiche, un noioso matrimonio e un buon rapporto con Carlo, il suo amante nascosto che ora vive nuovamente a Roma. E questo Giovanni non lo sa.

 

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Nati a perdere (2015) di Giampaolo Salvatore – Anteprima –

Trame interiori di bambini e adolescenti non compresi, invalidati, violati nel senso profondo del valore personale, capri espiatori della vulnerabilità lesiva che è solo di certi adulti.

Una sequenza rapida, implosiva, di personaggi-racconti. Trame interiori di bambini e adolescenti non compresi, invalidati, violati nel senso profondo del valore personale, capri espiatori della vulnerabilità lesiva che è solo di certi adulti.

L’autore, Giampaolo Salvatore, si interroga sulla lotta che questi nati a perdere conducono per adattarsi alla vita.

Nati a perdere non vuole essere semplicemente letto. Si rivolge all’organismo del lettore iniettandogli un rumore sordo. La narrazione si fa strumento di una condivisione corporea dello scenario interno dei personaggi. Perché queste vicende esistono. Prendervi contatto rappresenta il primo passo per comprendere quanto male un adulto inconsapevole può fare a chi dice di amare, e quanto ciascuno di noi, da adulto, possa riscrivere la propria storia.

 

In anteprima per State of Mind, uno dei racconti del volume:

 

Margherita

Ha notato che se fa scorrere forte l’acqua di qualche rubinetto non c’è il rischio di sentire quella voce. Per questo ha preso l’abitudine di lavarsi i denti molte volte al giorno. Fa anche molte docce. Spesso fa scorrere l’acqua e basta. Se è fredda è meglio. E quando l’acqua scorre per un tempo sufficiente dal rubinetto, dopo un po’ diventa veramente fredda, ed è buona anche da bere.

Ha contato quanti secondi ci vogliono per farla diventare fredda. Ne bastano una decina. Però ha notato una strana incongruenza. Quando inizia a farla scorrere, dopo pochissimo, massimo due secondi, l’acqua diventa più fredda, ma poi è come uno che si incammina in una direzione e poi cambia idea. Ritorna indietro. Diventa di nuovo tiepida e rimane così per un’altra manciata di secondi. Dopodiché diventa fredda, ma stavolta per restare fredda con convinzione.

Margherita ha capito che se hai abbastanza esperienza con l’acqua che scorre dal rubinetto, non ti fai ingannare dal primo accenno della volontà dell’acqua di diventare fredda. Sai aspettare. Se hai sete puoi mettere le labbra vicino all’acqua che scorre dal rubinetto e aspettare quella decina di secondi facendotela scivolare sulla lingua, senza inghiottirla. Allora sei testimone di quella finta. Quella falsa transizione che ti illude di poter bere acqua fredda dopo soli due secondi. Se invece sai aspettare puoi osservare l’acqua che scorre mentre cessa di essere un oggetto passivo che viene spinto da qualche congegno idraulico fatto di tubi, e diventare vitale. Quel cambiamento improvviso e definitivo della temperatura, che sembra pure un cambiamento di consistenza – anche se l’acqua non dovrebbe averne di consistenza – che è come se le servisse per dire qualcosa, a quell’acqua.

Qualche volta, specie se non ha sete in quel momento, la guarda scorrere, senza accostare le labbra. Ha imparato ad accorgersi del cambiamento di temperatura anche attraverso la vista. Può starci anche per ore. Cerca di mettere a fuoco un punto preciso all’interno del getto d’acqua e di seguirlo nel suo percorso. Trasforma i suoi occhi in un dispositivo capace di operare un fermo immagine istantaneo, separare un elemento puntiforme dal flusso liquido, rallentarlo. Osservarlo da quando si affaccia dalla bocca del rubinetto; vederlo tirato, strattonato, spinto contro la sua volontà; poi rassegnato e rassicurato dallo scoprirsi simile agli elementi di quel flusso; infine, proprio un attimo prima di esplodere sulla superficie del lavandino, realizzare che non è mai esistito.

Una volta ha provato a chiudere all’improvviso il rubinetto mentre era così concentrata. Giusto per provare quello che sarebbe successo. Era rilassata al punto che ha compiuto quel gesto senza programmarlo. La voce non è ricomparsa subito. Per qualche secondo ha continuato a sentire il suono dell’acqua dal rubinetto, come quando fissi per tanto il fuoco di una candela e poi quando chiudi gli occhi continui a vederla come il negativo di una foto. Poi si è fatta annunciare da una specie di ronzio che ha azzerato i rumori dell’ambiente circostante. Non proprio un ronzio. Più come quando in tv c’è un’interferenza che riempie lo schermo con quel magma di puntini bianchi e neri. O alla radio, pensa Margherita, quando passi da una frequenza all’altra. Ecco. Proprio come alla radio. Proprio come se nella testa ci fosse qualcun altro che sta girando una manopola per risintonizzarsi su qualche frequenza conosciuta.

Margherita immagina questo qualcun altro che gira la manopola nella sua testa, attraversa una serie di interferenze fatte di quel suono discontinuo. Per poi trovare la stazione giusta. Una canzone che gli piace, anche se la trova già iniziata.

«Ti piaceva vero?!»

Margherita pensa che è stranissima questa sensazione di sentire una voce contemporaneamente fuori e dentro la sua testa. È stranissimo sapere esattamente a cosa si riferisca la voce quando le fa questa domanda e rimanerne comunque sorpresa. È stranissimo sapere che non riuscirebbe a rispondere se qualcuno le chiedesse se è una voce maschile o femminile, o se urla o sussurra. Sapere di determinarla e contemporaneamente subirla. Essere soggetto e oggetto della stessa cosa. Ed è stranissimo pensare come tutto questo sia ogni volta diverso, nuovo, e nello stesso tempo appartenga indissolubilmente al suo mondo conosciuto.

«Ti piaceva vero, guardare l’acqua che scorre?!»

Vorrebbe rispondere ma si sentirebbe stupida, perché l’entità senza corpo che genera la voce già conosce la risposta nel momento stesso in cui Margherita la pensa. E lo sa che Margherita lo sa. La voce lo sa che Margherita sta già iniziando ad aver paura. Rimane in silenzio come un bambino che pensa di non essere visto se chiude gli occhi.

«Non puoi scappare, lo sai questo, vero?!»

Hanno spesso punto esclamativo e interrogativo insieme, le frasi che pronuncia.

«Che vuoi che mi freghi di punti esclamativi e interrogativi?!»

Impedirsi di pensare è peggio. Anche pensare di impedirsi di pensare significa pensare.

«Non cercare di distrarti da me, non puoi».

Vorrebbe rispondere «Non sto cercando di distrarmi».

«Ora facciamo i conti, io e te».

La paura le spalanca la bocca: «Su cosa?» 

«Ora facciamo i conti».

«Non ho fatto niente, io».

«Non pensare di riaprire l’acqua. Non la puoi tenere aperta per sempre».

Margherita apre e chiude l’acqua due volte.

«Non riaprire l’acqua, ho detto».

Tiene la mano sul rubinetto dell’acqua fredda e rimane immobile. Fermare il corpo per sottrarle un po’ di forza. Rendere inutile ogni lotta. Ma quando si pietrifica così dimentica sempre che è proprio questo che la fa infuriare di più.

«Sei una troietta, lo sai vero?! Brutta troietta con la faccia da santarella. Pure lui lo ha capito che sei una troietta e fai finta di fare la santarella».

«No!», urla Margherita.

«Nooo?! Lo hai fatto salire quando mamma e papà non c’erano, e secondo te cosa ha pensato lui? Che lo facevi salire per giocare alla play station?».

«Smettila».

«Glielo avevi detto».

«Smettila, ho detto».

«Glielo avevi detto che i tuoi non c’erano, ricordi? Per invitarlo, per fargli capire che andava a colpo sicuro. Che troietta. Ma voi lo vedete quanto è troietta questa?».

Qualcuno bussa alla porta e urla: «Margherita, che fai? Con chi parli?».

«Con nessuno mamma».

«È un’ora che ti sei chiusa in bagno. Non consumare troppa acqua come al solito. Non te lo dico un’altra volta, capito?».

«No, mamma, ora esco subito».

«Diglielo a mammina che quando lei non è in casa tu fai salire i ragazzi, vediamo come la prende. Che dite, volete scommettere che la caccia di casa?».

Una risata, simile a quella che sottolinea le battute delle sit-com americane, che va calando in una specie di mormorio sommesso come se chi sta ridendo di lei ne provasse anche pena, le scoppia dietro le spalle.

«Ora ti faccio cacciare di casa, troietta».

«Smettila, ti prego», sussurra piangendo.

«Ora vi dico una cosa molto piccante».

Risate di approvazione e attesa.

«Questa troietta fa entrare i ragazzi nella sua stanza quando non ci sono i genitori. Ieri per esempio… Margherita? Margheeeriiitaaa? Margheritucciaaa? Come si chiama il ragazzo che è venuto ieri?».

Apre il rubinetto lottando contro i suoi stessi muscoli. Sente un risata che si allontana.

«Stavolta il trucco di far scorrere l’acqua non ti servirà a niente».

«Margherita, adesso hai rotto, chiudi questa cazzo di acqua ed esci subito».

«Subito, subito mamma, scusa».

«Ma che scusa e scusa? Ho appena pagato una bolletta salatissima per colpa delle tue manie. Se ne arriva un’altra così ti giuro che ti faccio fare a pezzi da tuo padre. Non sai fare altro che stare in quel cesso a far scorrere l’acqua».

«Esco subito!», urla piangendo forte.

«Ma che piangi, cretina? Ora chiamo il dottore. Chiamo il dottore. Mi hai rotto, hai capito? Apri questa cazzo di porta. Sono stanca, stanca, stanca. Non ne posso più di te».

«Ora chiudo, non ti preoccupare. Vedi, ho chiuso. Però non ho ancora finito».

«Ti do un minuto».

«Troieeettaaa?! Anche lei lo sa. Non te lo dice ma ti tratta come meriti. Come la troietta che sei».

Si copre le orecchie.

«Lo sai benissimo che non serve a niente coprirsi le orecchie. Sei pure cretina. Ieri lui è salito e hanno mangiato tè e biscotti. Poi a un certo punto le ha chiesto di usare il bagno e… Lo dici tu o lo dico io quello che hai fatto mentre lui era in bagno?».

Margherita respira forte.

«Questa troietta si è messa a origliare dietro la porta. L’orecchio attaccato alla porta. Si è bagnata mentre sentiva lo scroscio che faceva la pipì mentre lui pisciava. Ha immaginato che se faceva tutto quel rumore doveva avercelo bello lungo e grosso».

Risata fragorosa del pubblico della sit-com. Lunghissima. Una di quelle risate che sottolineano le battute decisive, che poco prima di sfumare si associa a un applauso, e anche gli attori vanno in stand-by per attendere che finisca.

«Si è bagnata mentre lo sentiva pisciare. Vi rendete conto? Si è bagnata mentre lo sentiva pisciare. Mentre lo sentiva pisciare. Pisciare. Pisciare. Pisciare. Troietta. Pisciare. Troietta. Pisciare. Pisciareee!».

«Non è vero, smettila».

«Con chi stai parlando? Stai facendo di nuovo la pazza? Ho detto esci da questo bagno, cretina».

«Sì mamma sto uscendo, solo un momento».

«No, non aspetto più, ora vado a chiamarlo e lo faccio venire qui. Giuro che questa volta ti facciamo ricoverare».

«No, ti prego, esco subito».

Sente il suono ritmico delle ciabatte che si allontana.

«Ha ragione la mamma, ci vuole un bel ricovero per calmare i bollenti spiriti. Ti addormentano per bene, così ti svegli con la fica meno calda».

«Smettila, ti prego». Stavolta glielo chiede a voce bassa.

«Ricominciamo. Quando poi è uscito dal bagno, te lo ricordi che è successo?».

Chiude il rubinetto dell’acqua e si guarda allo specchio, e l’immagine che vede ha il viso deformato da uno strano ghigno.

«Lui ha spalancato la porta all’improvviso. Ti ha trovato davanti alla porta con quella faccia da scema. Se n’è accorto che lo avevi spiato».

Fa un cenno impercettibile con la testa per dire sì. Il pubblico ora è ammutolito, concentratissimo.

«Per questo è andato sul sicuro».

Sente le ciabatte che si riavvicinano. Non sa quanto tempo sia passato.

«Margherita, ti avevo avvertito. Il dottore arriva subito. Gli ho già detto che stavolta voglio farti ricoverare. Margherita, mi hai sentito? Che stai facendo, si può sapere?».

«Ti ha abbracciato e lo hai lasciato fare. Lo hai lasciato fare. Sei rimasta ferma. Come se fossi una bambola gonfiabile. Anche quando ti ha aperto la camicetta».

«Lo hai capito che il dottore viene a prenderti per ricoverarti nella sua clinica, brutta cretina?».

«Avevi i capezzoli durissimi, e quando ha iniziato a succhiarteli hai pensato che questo al prete non lo avresti mai confessato».

Un «Ooohhh» corale del pubblico la fa muovere dallo specchio. Apre la porta. La madre, accovacciata contro la porta, cerca di mettersi in piedi più in fretta che può, arrampicandosi sulle sue cosce grasse con movimenti scomposti, gemendo per il dolore alle articolazioni.

«Un vizio di famiglia, spiare dal buco della serratura».

Per un attimo le viene da ridere. Una soluzione di continuità brevissima nell’orrore. Che lo rende ancora più grottesco.

«Cretina, per colpa tua ora mi devo pure far male».

Il pubblico ride per la battuta.

«Quando ti ha sollevato la gonna e ti ha toccato, avevi un solo pensiero. Uno solo. Per questo ti sei bloccata, e il coraggio di scopare non l’hai avuto».

Mormorio di tensione nel pubblico.

«Hai pensato che aveva le mani grandi come quelle di tuo padre».

«Adesso che fai lì impalata?».

«Come quelle di tuo padre».

Margherita stringe i pugni, e si colpisce le tempie. Una, due, tre volte. Ogni volta più forte.

Il pubblico urla: «Basta, basta!».

«Come quelle di tuo padre quando è lui che ti tocca».

«Smettila, pazza di merda».

«E hai capito che se ti piace con lui, vuol dire che ti piace anche con tuo padre».

Il suono del citofono.

Margherita passa di corsa davanti alla madre che urla cose che lei non sente. Invece sente: «Sarai una troietta anche da morta».

Apre la finestra lentamente mentre sente: «Anche da morta, anche da morta».

Si butta, e mentre cade non sa distinguere se è il pubblico o sua madre a gridare: «Nooo!».

 

 

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