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Scelta del partner: differenze culturali?

FLASH NEWS

Trovarsi una moglie o un marito è una questione assai diffusa; controversi sono però i criteri che ci portano a scegliere per uno o un altro esemplare di uomo o donna. La psicologia si è occupata dei fattori desiderabili nella selezione del partner amoroso.

Scrive una ventenne di Shanghai per descrivere il suo partner ideale: “Un uomo che abbia un corpo sano, che possa sopportare il mio carattere, che abbia amore e pietà filiale verso gli anziani della mia famiglia; che ami i miei genitori. Che abbia senso di responsabilità e sappia come prendersi cura della famiglia. Che abbia un buon reddito e una casa di proprietà.”

Trovarsi una moglie o un marito è una questione assai diffusa; controversi sono però i criteri che ci portano a scegliere per uno o un altro esemplare di uomo o donna. La psicologia si è occupata dei fattori desiderabili nella selezione del partner amoroso.

Ad esempio le teorie delle strategie sessuali supportano l’ipotesi del vantaggio evolutivo per la prole tale per cui i maschi sarebbero valutati per l’accesso alle risorse, lo status sociale e la ricchezza, mentre le femmine per la loro buona salute, giovane età e buon aspetto fisico in quanto segnali di fertilità (Buss & Schmitt, 1993). Se però ci spostiamo dall’Occidente alla Cina i criteri di selezione del partner per maschi e femmine sono universali o si differenziano a seconda della cultura? Che cosa conta per gli uomini e le donne cinesi nel momento in cui scelgono con chi accasarsi?

Secondo diverse ricerche che si sono occupate del tema (Toro-Morn & Sprecher, 2003; Zhang & Kline, 2009) i soggetti delle culture individualistiche (ad esempio gli USA) porrebbero maggiore enfasi sul concetto di amore romantico e sui tratti individuali che promuovono nella coppia la vicinanza emotiva. D’altro canto, nelle culture collettivistiche (ad esempio la Cina), dove l’armonia interpersonale del gruppo famigliare allargato è fondamentale, si darebbe la priorità alla continuità dei valori della famiglia d’origine e dunque alla conformità alle aspettative sociali-familiari in termini di selezione del proprio compagno per la vita.

Rispetto a questi studi– che spesso hanno considerato generazioni precedenti – le cose oggi forse assumono nuovi significati in considerazione del cambiamento delle culture di per sé, in cui nonostante la radicazione del confucianesimo la Cina non è più solo la Cina tradizionale.

Uno studio recente (dati raccolti nell’anno 2013) (Chen, Austin, Miller, & Piercy, 2015) ha confrontato giovani adulti (età media 25 anni) cinesi e americani di orientamento eterosessuale, rispettivamente residenti in grandi aree metropolitane della Cina e degli USA.  In particolare è stato utilizzato un elenco di 21 aggettivi rispetto ai quali i soggetti dovevano esprimersi mediante scale Likert con l’aggiunta di una domanda aperta (“ Quali altri criteri sono importanti per scegliere il tuo partner ideale?”).

Dalle analisi sono emerse interessanti differenze culturali. I soggetti cinesi riferiscono i seguenti criteri preferibili nella scelta del partner in misura maggiore rispetto agli americani:
“con buone origini familiari”
“brava casalinga”
“ricco”
“con buono stipendio”
“di un elevato status sociale”
“potente”
“che goda di uno stato di buona salute”
“che dimostri elevata pietà filiale” (xiao shun) che consiste nell’obbedire e onorare i propri genitori e nel comportarsi in modo da non disonorare il nome della famiglia d’origine (Ho, 1994). Tale costrutto è totalmente assente negli americani.

Le differenze di genere riguardo questi criteri più scelti dai cinesi sono le seguenti. Sono le donne cinesi che rispetto agli uomini hanno aspettative più elevate riguardo la ricchezza e lo status sociale; mentre è il sottogruppo maschile che maggiormente riporta le doti casalinghe tra i criteri fondamentali.

Ecco invece le caratteristiche più scelte dagli americani rispetto ai cinesi:
“onesto e affidabile”
“con un buon senso dell’humor”
“intelligente”
“avvincente, emozionante”
“con un buon livello di istruzione”
“fisicamente affascinante”
“spirituale e religioso/a”
“buona compatibilità religiosa ed etnico-culturale”

Le differenze di genere tra gli americani seguono questo andamento: le donne più degli uomini valutano l’onestà e l’affidabilità e il senso dello humor; anche le donne americane considerano status sociale e ricchezza come criteri importanti rispetto agli uomini americani, ma in misura minore rispetto ai cinesi.

Dunque i giovani di cultura cinese- in particolare le donne- sarebbero più esigenti riguardo lo status sociale, il successo e la ricchezza. Questo risultato può essere spiegato facendo riferimento alle teorie delle strategie sessuali che vedono le donne preferire i fattori legati alle risorse materiali del partner. E’ interessante però notare che in letteratura il successo personale e l’autoaffermazione sono variabili associate alle culture individualiste (Anolli, 2004): e in questa ricerca sono proprio questi fattori dell’individualismo “occidentale” a essere molto considerati dai cinesi, pure in modo più ampio rispetto agli americani.

I giovani cinesi mantengono parimenti un saldo attaccamento ai propri valori culturali tradizionali considerando fondamentali le origini familiari del partner nonché l’inclinazione ad onorare, rispettare e prendersi cura dei propri genitori (pietà filiale). La dimostrazione naif e lampante è che frequentemente si incontrano in Cina giovani sposi che vivono insieme ai suoceri. In tal senso i valori della cultura collettivistica, tra cui il mantenimento dell’armonia sociale e la ricerca del consenso nel proprio gruppo allargato influenzano la scelta del partner e allo stesso tempo vengono preservati. In ultima analisi, emerge il concetto di sé interdipendente o “we-self”: il soggetto non si sente separato e distinto dal proprio gruppo ma parte integrante di esso.

Gli americani invece avrebbero aspettative maggiori riguardo diversi tratti della personalità individuale, il fascino e la spiritualità. Caratteristiche che rimandano al concetto del sé indipendente tipico delle culture individualiste: il sé come entità autonoma dotata di una serie di caratteristiche e attributi specifici e indipendenti dall’altro (Anolli, 2004). Ciò non significa che i cinesi non citino aggettivi relativi all’aspetto fisico, alla personalità (ad esempio risposte freuqnti sono “che abbia un buon carattere”), ma certamente lo fanno in modo non esclusivo, meno dettagliato e granulare, come se considerassero non solo l’individuo ma in eguale misura anche il suo contesto di riferimento.

La compatibilità etnico-culturale e religiosa nella scelta del partner – più significativa per gli americani – pesa in funzione dei differenti background storico-sociale dei due paesi: se gli USA sono famosi per la loro ampia varietà etnica, in Cina il 91,51% degli individui appartengono alla etnia Han [National Bureau of Statistics of China, 2011].

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BIBLIOGRAFIA:

Snoopy, la delusione amorosa e il cibo come auto-medicazione – Peanuts Nr. 6

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA Nr.6

Al termine di una relazione è spesso inevitabile sentirsi profondamente tristi. La perdita della persona che un tempo abbiamo amato, o che ancora amiamo ma con un sentimento non corrisposto, può portare con sé un profondo senso di smarrimento, sconforto e di incertezza nei confronti dell’immediato futuro.

Peanuts Nr. 6 - Delusione amorosa

Ritornare alla condizione di single determina la necessità di una riorganizzazione mentale, emotiva e spesso anche logistica, le certezze della vita quotidiana vengono a mancare per lasciare spazio alla novità, al rinnovo e al cambiamento. Per alcune persone questo passaggio può essere molto faticoso, soprattutto se è accompagnato da sentimenti di incertezza rispetto alle proprie capacità di ricostruirsi una vita indipendente.

E’ facile infatti, per alcune persone, cadere in trappole mentali come: “Non ce la farò mai da solo”, “Nessun altro mi amerà” “Non valgo nulla”.

Nella vignetta Snoopy esprime i suoi pensieri negativi attraverso la colpa e l’auto-commiserazione. In questo stato mentale, le abitudini alimentari possono risentirne, attraverso la privazione del cibo o l’ipercompensazione. In questo caso, per Snoopy il cibo assume una valenza di auto-medicazione.

La vignetta mostra, in modo ironico, le conseguenze a medio e a lungo termine di questo illusorio metodo auto-curativo. L’aumento della quantità di cibo e la scelta di alimenti ad alto contenuto calorico, può infatti comportare non solo rischi per la salute, ma anche un’ ulteriore diminuzione del tono dell’umore, innescando un circolo vizioso di tristezza – ricorso al cibo – aumento della tristezza – aumento del cibo.

L’influenza della condotta alimentare sul tono dell’umore è stata confermata da una recente ricerca dell’University College London e pubblicata sul British Journal of Psychiatry (Akbaraly et al., 2009).

 

Lo studio ha analizzato gli effetti dell’alimentazione nel suo insieme e non dei singoli nutrienti, mettendo in evidenza come il rischio dell’effetto depressivo non dipenda da alimenti particolari, ma dallo stile alimentare predominante. La ricerca ha concluso che le persone che prediligono un’alimentazione ricca di grassi e dessert hanno un rischio del 60% superiore di soffrire di depressione rispetto a chi privilegia frutta, pesce e verdura.

La striscia può quindi essere molto utile per affrontare questo tema delicato, perché mostra le conseguenze di una modalità illusoria di gestire la situazione di crisi e apre il dialogo verso la ricerca di modi più utili, costruttivi e innovativi per riappropriarsi del proprio tempo e per ricostruirsi una nuova immagine di sé, con una disposizione mentale positiva verso il cambiamento.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Guardate l’alba, ballate senza vergogna, siate felici! I compiti per le vacanze

Cesare Catà, professore del liceo di Scienze Umane di Fermo (Marche), ha compiuto una piccola rivoluzione all’interno del contesto scolastico con l’assegnazione dei compiti per le vacanze estive 2015, tra i quali sono contemplati: fare una passeggiata sulla riva del mare in solitudine, guardare l’alba almeno una volta, ballare senza vergogna, cercare situazioni di arricchimento con nuovi amici…

Il professore è riuscito in poche righe a capovolgere il tradizionale sistema di insegnamento, per lasciare spazio allo sviluppo di un nuovo modo di guardare gli allievi e il ruolo educativo della scuola stessa.

 

Di seguito l’elenco dei 15 compiti per l’estate:

  1. Al mattino, qualche volta, andate a camminare sulla riva del mare in totale solitudine: guardate come vi si riflette il sole e, pensando alle cose che più amate nella vita, sentitevi felici.
  2. Cercate di usare tutti i nuovi termini imparati insieme quest’anno: più cose potete dire, più cose potete pensare; e più cose potete pensare, più siete liberi
  3. Leggete, quanto più potete. Ma non perché dovete. Leggete perché l’estate vi ispira avventure e sogni, e leggendo vi sentite simili a rondini in volo. Leggete perché è la migliore forma di rivolta che avete (per consigli di lettura, chiedere a me).
  4. Evitate tutte le cose, le situazioni e le persone che vi rendono negativi o vuoti: cercate situazioni stimolanti e la compagnia di amici che vi arricchiscono, vi comprendono e vi apprezzano per quello che siete.
  5. Se vi sentite tristi o spaventati, non vi preoccupate: l’estate, come tutte le cose meravigliose, mette in subbuglio l’anima. Provate a scrivere un diario per raccontare il vostro stato (a settembre, se vi va, ne leggeremo insieme)
  6. Ballate. Senza vergogna. In pista sotto cassa, o in camera vostra. L’estate è una danza, ed è sciocco non farne parte.
  7. Almeno una volta, andate a vedere l’alba. Restate in silenzio e respirate. Chiudete gli occhi, grati.
  8. Fate molto sport.
  9. Se trovate una persona che vi incanta, diteglielo con tutte la sincerità e la grazia di cui siete capaci. Non importa se lui/lei capirà o meno. Se non lo farà, lui/lei non era il vostro destino; altrimenti, l’estate 2015 sarà la volta dorata sotto cui camminare insieme (se questa va male, tornate al punto 8).
  10. Riguardate gli appunti delle nostre lezioni: per ogni autore e ogni concetto fatevi domande e rapportatele a quello che vi succede.
  11. Siate allegri come il sole, indomabili come il mare.
  12. Non dite parolacce, e siate sempre educatissimi e gentili.
  13. Guardate film dai dialoghi struggenti (possibilmente in lingua inglese) per migliorare la vostra competenza linguistica e la vostra capacità di sognare. Non lasciate che il film finisca con i titoli di coda. Rivivetelo mentre vivete la vostra estate.
  14. Nella luce sfavillante o nelle notti calde, sognate come dovrà e potrà essere la vostra vita: nell’estate cercate la forza per non arrendervi mai, e fate di tutto per perseguire quel sogno.
  15. Fate i bravi.

 

I compiti del professore mirano alla crescita di aspetti affettivi, relazionali e motivazionali che spesso vengono trascurati nell’impostazione didattica tradizionale, ma che sono fondamentali per uno sviluppo psicologico sano degli allievi e per vivere l’esperienza scolastica in modo costruttivo.

Inoltre, e’ ragionevole pensare al risvolto positivo sull’aggancio relazionale con gli studenti, i quali probabilmente affronteranno l’inizio del nuovo anno scolastico con il sorriso, accompagnati dal loro insegnante e maestro di vita.

 

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Immolarsi per la ricerca sì…ma fino a un certo punto!

Alcune ricerche in psicologia sono venute alla ribalta soprattutto per le prove e i compiti non proprio usuali e non affatto piacevoli ai quali i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti. 

La maggior parte dei lettori, avendo studiato psicologia o psichiatria o, in caso contrario, mostrando comunque un certo interesse verso le scienze psicologiche e le neuroscienze, avrà avuto a che fare col mondo della ricerca scientifica.

Sia che i ricercatori siate voi (o per lo meno lo siete stati ai tempi della tesi sperimentale quando disperati cercavate di reclutare soggetti anche dal salumiere), sia che invece abbiate mai fatto parte di un campione di ricerca (magari eravate lì tranquilli dal salumiere a far la spesa!), avrete avuto modo di osservare, a grandi linee, cosa significa essere uno di quegli individui che prendono parte a una ricerca: per lo meno viene chiesto di compilare questionari, spesso a risposta chiusa, altre volte a risposta aperta o di svolgere compiti di concentrazione, memoria, calcolo, ecc. (a parte ovviamente gli studi che si avvalgono di risonanze magnetiche e altri strumenti di misurazione fisiologica e neuronale; con questo però non si vuole sminuire alcun tipo di ricerca, spero sia chiara l’impronta ironica dell’articolo). Dunque si tratta di essere sottoposti a compiti a volte semplici, alle volte un pò più difficili, ma comunque decisamente accettabili per i partecipanti.

Stessa lieta sorte non è però toccata ai soggetti di alcuni studi, venuti alla ribalta soprattutto per le prove e i compiti non proprio usuali e non affatto piacevoli ai quali i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti.

Un esempio: quale sarebbe stata la vostra reazione se un ricercatore, con l’intento di studiare il disgusto, vi avesse chiesto di odorare il pannolino sporco di un bebè? D’accordo, numerose mamme penserebbero Sono abituata, che ci vorrà mai?!, ma cosa penserebbero invece se dei neuroscienziati, mossi dalla voglia di scoprire i circuiti cerebrali coinvolti nella paura, le sottoponessero a una PET mentre un bel serpente di 1, 5 metri si stringe attorno al loro corpo?

L’articolo che vi consigliamo di leggere elenca le dieci ricerche in psicologia che più hanno messo a dura prova i soggetti e ce n’è di tutti i tipi: dalle prove più dolorose alle prove più hot! Non vi anticipo altro, buona lettura!

 

It was all in the name of science, to better understand the darker, less pleasant aspects of being human. We salute the men and women who volunteered their minds and bodies to take part. Their pain is our gain. It’s important to note that in line with international ethical protocols, any psychology studies from the modern era would have required participant informed consent, with careful debriefing upon study completion (…) Now, let’s get this Digest tour underway

Immolarsi per la ricerca sì…ma fino a un certo punto!Consigliato dalla Redazione

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Alcune ricerche in psicologia sono venute alla ribalta soprattutto per le prove e i compiti non proprio usuali e non affatto piacevoli ai quali i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti. (…)

 

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L’impulsività – Introduzione alla Psicologia nr. 18

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA Nr. 18

 

 

L’impulso, o l’impulsività, rappresenta la voglia irrefrenabile di eseguire un’azione incontrollabile, involontaria, incontenibile.

 

Si tratta di mettere in atto una risposta repentina in reazione a uno stimolo proveniente dall’ambiente esterno tramite un agito comportamentale.

Non sempre è un gesto negativo, infatti, le persone che manifestano un tratto impulsivo sono brillanti, veloci nelle decisioni, adottano comportamenti alternativi, sono dinamici e plastici, scattanti, originali e creativi, sono spontanei e molto spesso intuitivi, si adattano ai cambiamenti e sono flessibili alle situazioni della vita.

Vista in questi termine, vorremmo tutti essere impulsivi!

Ovviamente esiste il rovescio della medaglia: l’impulsività può causare numerosi inconvenienti non solo relazionali, ma anche personali. La cosa importante è non superare il limite, ovvero quel sottile confine che separa il patologico dal normale. L’impulsività è anche un comportamento funzionale se manifestato al momento giusto, ma se fosse l’unica modalità attuabile in tutte le situazioni quotidiane, allora sarebbe disadattiva.

Agire d’impulso, dunque, significa rispondere malamente senza pensare minimante alle possibili conseguenze, guidare ad alta velocità in città senza considerare i rischi, lanciare un oggetto senza valutare se fosse dannoso per qualcuno, etc.

Chiaramente, se agire d’impulso diventasse la norma, allora potrebbe essere auspicabile imparare a gestirlo. Gestire l’impulso significa valutare sempre le conseguenze di un proprio gesto impulsivo, modificando di conseguenza il proprio comportamento. Una possibile strategia potrebbe essere differire i propri scopi, ad esempio contando fino a 10 prima di parlare, oppure bere un bicchiere d’acqua o pensare a qualcosa di piacevole.

In sostanza, la cosa importante, prima di agire, è trovare qualcosa di utile che permetta di inserire una pausa o di spostare l’attenzione prima di agire. Inoltre, gerarchizzare gli scopi da raggiungere permette di perseguirli senza disperdere inutilmente energie. Infine, ma non meno importante, comunicare la propria emozione prima di agire aiuta a renderla meno carica e a questo punto è possibile scegliere di non agirla, ma di fare qualcosa che possa far star bene.

 

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori. Supereroi fragili: adolescenti e dipendenze – (Parte V)

 

La seconda giornata del convegno: “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori”, inizia con due sessioni mattutine di workshop. Nella prima sessione i partecipanti avevano la possibilità di optare per uno dei tre seguenti workshop:
“Ho tutto sotto controllo: affrontare la dipendenza da cocaina” (con Antonia Cinquegrana, Claudia Passudetti e Mauro Cibin)
“Le dipendenze di fronte alla legge. Sanzioni amministrative, prevenzione della carcerazione, detenzione” (con Fabio Ferrari, Francesco Scopelliti, Felice Nava e Maria Alessandra Giribaldi)
“Supereroi fragili: adolescenti e dipendenze” (con Stefano Vicari, Maria Antonella Costantino e Emanuela Rivela)

Il workshop “Supereroi fragili: adolescenti e dipendenze”, al quale ho partecipato, è stato molto coinvolgente e caratterizzato da una nota di interattività tra relatori ed uditori.

Stefano Vicari (U.O. NPI, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma) ribadisce come l’adolescenza sia un’ età critica per l’abuso di sostanze. Esistono dei fattori di protezione e di rischio per le dipendenze in età adolescenziale. Tra i fattori di protezione ne troviamo di ambientali (famiglia stabile e accogliente, buon uso del tempo libero, buon rendimento scolastico, presenza di regole) e di psicologici (buon insight, strategie di coping adeguate, buon autocontrollo percepito, assenza di disturbi psichiatrici). Tra i fattori di rischio ambientali vi è in generale l’atteggiamento dei pari e dei fratelli e la mancanza di supervisione genitoriale; mentre tra i fattori di rischio psicologici spicca la presenza di disturbi psichiatrici. Vi è infatti un’alta comorbilità tra sostanze e disturbi psichiatrici: l’uso della sostanza può essere antecedente e quindi determinare la comparsa di un disturbo, oppure la sostanza può essere usata come automedicazione dal disturbo. Per questo motivo in questi casi è auspicabile e consigliabile una combinazione di interventi psicosociali e farmacologici, senza prescindere dal trattamento dell’uso di sostanze che dev’essere simultaneo e non sequenziale al trattamento del disturbo psichiatrico.

Successivamente interviene Maria Antonella Costantino (UONPIA, Policlinico di Milano) con una gran mole di dati e di numeri a favore dell’ipotesi che i destinatari degli interventi, soprattutto gli adolescenti, sono un’utenza in rapida trasformazione; i disturbi sono sempre più complessi e ad elevato impatto sociale e quindi richiedono nuove modalità di risposta ai loro bisogni, tanto più da ottimizzare in condizioni di crisi economica. La relatrice denuncia la necessità di nuove modalità di lavoro che siano multidimensionali, con modelli compatibili e cambiamenti di paradigma che riflettano la situazione attuale in continua evoluzione, e che siano conseguenza di un pensiero innovativo centrato sui moltiplicatori di salute piuttosto che sulla patologia in sè.

Per ultima Emanuela Rivela (Servizio Adolescenti, Dip. Dipendenze Torino 2) cerca di fare il punto sul motivo per il quale i ragazzi usano e sulla tipologia di consumo dei giovani. Il consumo può avere infatti svariate funzioni (sperimentale, sociale, ecc.) che vanno indagate a fondo assieme alla frequenza dello stesso. La gravità della dipendenza tuttavia non dipende strettamente dal tipo di sostanza usata, dalla modalità o dalla frequenza, quanto dal significato che il ragazzo dà all’assunzione. La relatrice si sofferma anche sul significato che il rischio ha in adolescenza: in questo caso non deve avere una valenza totalmente negativa ma può essere considerato in positivo come “ricerca di qualcosa” e nell’ottica dello sviluppo della propria identità. Anche Emanuela Rivela denuncia una difficoltà nel trattamento di ragazzi adolescenti in quanto sarebbero necessari dei servizi specialistici per questa fascia d’età, che si adattino ai bisogni dei giovani pazienti e variando le offerte.

Anche questo workshop si conclude con un’interessante discussione durante la quale si evince che il pubblico si trova fortemente in accordo con quanto esposto dai tre relatori.

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Addolorata Carretta

Sta prendendo sempre più piede, in svariati ambiti di lavoro, il fenomeno del burnout, esaurire fino all’ultimo le nostre energie.

[blockquote style=”1″]Quando la vita rovescia la nostra barca; alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo “resalio”. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilenza, deriva da qui .[/blockquote]

Si apre così il primo capitolo del libro “Resisto, dunque sono” di Pietro Trabucchi. Un libro che, ad ogni singola riga mi ha parlato, che utilizza il mondo dello sport come metafora della vita, e mi ha motivato a scrivere ad una moltitudine di colleghi, che come me, praticano uno sport estremo: lavorare nell’ambito socio sanitario , in particolare in comunità alloggio di tipo riabilitativo.

Sta prendendo sempre più piede, in svariati ambiti di lavoro, il fenomeno del burnout , esaurire fino all’ultimo le nostre energie.

Essendo un tecnico della riabilitazione psichiatrica non ho la presunzione di dichiarare che solo il mio lavoro sia difficile ma in questi anni di lavoro ho potuto toccare con mano quanto questo campo ti svuoti e ti inondi di un mondo che la comunità con le sue dinamiche , inevitabilmente, ti riversa.

Allenare la nostra resilienza significa dunque porsi continuamente una domanda di fronte agli accadimenti della vita: “Cosa c’è di buono in quello che sta succedendo?“, ovvero “Qual è il miglior significato che posso attribuire a quanto sta accadendo?“

Le nostre reazioni di fronte ad eventi negativi, non dipendono direttamente dagli eventi, ma dalla nostra valutazione di essi : questo processo è alla base della nostra valutazione cognitiva e ristrutturazione del pensiero per fare in modo che il nostro comportamento sia più funzionale, più adattivo alla situazione che stiamo vivendo.

Riscontreremmo meno certificati di malattie o ferie impreviste, vivremmo la pausa dal lavoro come momento di distacco piacevole e non più stressante, senza vivere il giorno prima di ricominciare con l’angoscia di tornare dietro quella scrivania. Credo che stati mentali positivi possono produrre un aumento dell’efficienza della risposta immunitaria e diminuire la compresenza di patologie somatizzanti.

 

Il decalogo contro il burnout

Sarebbe auspicabile immaginare una sorta di tavola dei dieci comandamenti per accrescere la resilienza per l’operatore di comunità come ben ci illustra il libro di Pietro Trabucchi:

1. Abbassa le tue aspettative : una valutazione cognitiva più vicina al reale;
1. Dividi l’obiettivo da raggiungere in tanti altri piccoli step e non sovraccaricherai la mente;
1. Impegnati : accetta la fatica, non si può sempre vincere facile;
2. Permettiti di sbagliare: l’errore genera nuove opportunità, nuove strategie di intervento sul paziente;
3. Rispettate i vostri ruoli: lavoriamo in equipe e ci possiamo permettere di dividerci le responsabilità;
4. Rivestiti di “medaglie di ghiaccio”: ogni successo è temporaneo e non conta misurarsi con il collega ma l’impegno che ci hai messo;
5. Abbi senso dell’umorismo: ironizza su alcune dinamiche, l’humor ti consente di verbalizzare sentimenti che se repressi sono distruttivi;
6. Non vi sono situazioni disperate ma solo coloro che disperano di potercela fare;
7. Imparare ad ascoltare i segnali d’allarme del tuo corpo e prendi una pausa;
8. Ultimo ma non meno importante è mantenere vivo l’entusiasmo: ricorda che senza entusiasmo non si è mai compiuto nulla di grande.

Per concludere riporto le parole di Cristian Zorzi, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Torino nel 2006:[blockquote style=”1″] La capacità di resistere allo stress, superare gli ostacoli pur restando sempre motivati: questa è la resilienza. È interessante il fatto che si possa allenare e potenziare e insegnare alle nuove generazioni. È il mio augurio. Credo che oggi nel nostro mondo ci sia bisogno di molta resilienza.[/blockquote]

 

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BIBLIOGRAFIA:

Condividere le emozioni positive: per farsi nuove amicizie!

FLASH NEWS

L’espressione e la comunicazione di emozioni positive, ma non di quelle negative, predice in modo statisticamente significativo la successiva vicinanza relazionale tra due soggetti che non si conoscono ancora.

Se volete farvi una nuova amicizia, semplicemente sorridete. Questo mite e banale consiglio naif trova riscontro in un recente studio, pubblicato sulla rivista Motivation and Emotion, in cui si sottolinea che le persone avrebbero una maggiore inclinazione verso le emozioni positive (rispetto a quelle negative) nel momento della formazione di nuovi legami. D’altro canto in psicologia è risaputo che le emozioni svolgono anche la funzione di creare, mantenere o modificare le relazioni.

I ricercatori hanno condotto due studi per verificare il ruolo delle emozioni positive nelle relazioni interpersonali.
Oltre a un esperimento che ha esaminato la consapevolezza delle emozioni positive nel partner di coppia, è interessante lo studio in cui si è verificato il ruolo delle emozioni positive nella formazione di un nuovo legame con uno sconosciuto. 91 donne sono state assegnate a diverse condizioni sperimentali: guardare filmati elicitanti emozioni positive vs. negative e in compagnia di un amico vs. di uno sconosciuto. I risultati indicano che le persone tendono a percepirsi relazionalmente più vicine al loro partner “sconosciuto” nel momento in cui quest’ultimo esprime emozioni positive.

Quindi, l’espressione e la comunicazione di emozioni positive, ma non di quelle negative, predice in modo statisticamente significativo la successiva vicinanza relazionale tra due soggetti che non si conoscono ancora.

Inoltre, la ricerca riporta che in tali situazioni di nuove conoscenze le persone generalmente esprimono le emozioni positive attraverso il cosiddetto sorriso Duchenne: una particolare configurazione dell’espressione facciale che coinvolge non solo il movimento dei muscoli della bocca ma di quelli oculari e che viene anche definita sorriso sincero.

Allo stesso tempo gli esseri umani sarebbero ben allenati a riconoscere velocemente il sorriso sincero dal sorriso finto (sorriso non- Duchenne) nell’interazione con i propri consimili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Attualità in tema di trattamento psicoterapico delle psicosi

Carmela Mento, Amelia Rizzo

Una pietra miliare su cui la comunità scientifica sembra aver raggiunto un pacifico accordo superando vecchie rivalità è l’importanza dell’approccio integrato, che prevede cioè il trattamento farmacologico, la terapia individuale e la terapia familiare.

La psicosi schizofrenica, come sappiamo, ha un tasso di incidenza nella popolazione di circa 1 – 1,5 casi su 1000 abitanti. Spesso, per la gravità dei sintomi con cui si manifesta, rappresenta per i clinici una vera e propria sfida.
In questo senso l’evidence based medicine e gli studi clinici, hanno contribuito ad incrementare una serie di conoscenze da tradurre nella pratica clinica. Ad esempio, negli ultimi decenni si è sottolineata abbondantemente l’importanza dell’identificazione precoce della fase pre-psicotica, in cui l’intervento tempestivo costituisce un fattore fondamentale nel decorso della patologia agendo efficacemente sulla riduzione dello sviluppo di sintomi positivi, sui sintomi negativi e sul funzionamento globale (Ruhrmann, Shultze Lutter e Klosterkotter, 2007).

Un’altra pietra miliare su cui la comunità scientifica sembra aver raggiunto un pacifico accordo superando vecchie rivalità è l’importanza dell’approccio integrato, che prevede cioè il trattamento farmacologico, la terapia individuale e la terapia familiare.

Nel 2008 sono stati pubblicati i primi risultati di un’indagine sul territorio nazionale (il progetto SIEP DIRECT’S) coordinata dal gruppo di ricerca di Lora, Semisa e Ruggeri, Università di Verona, e promosso dalla Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica allo scopo di verificare l’effettiva applicazione delle conoscenze scientifiche nei protocolli di cura dei pazienti schizofrenici.
Questo gruppo di ricercatori ha raccolto dati su 19 Dipartimenti di Salute Mentale rispetto a 41 parametri. Sarebbe interessante elencarli tutti, ma per rispondere al quesito in particolare sull’identificazione precoce e l’approccio integrato ci basta sapere che:
dei pazienti che si presentano ai Servizi di Salute Mentale ai primi segni di psicosi il 50% riceve cure inappropriate, il 28% riceve cure generiche, il 22% riceve le cure indicate dalle linee guida NICE (National Institute for Clinical Excellence), e solo il 16% viene preso in carico da personale ad hoc.

Le linee guida NICE prevedono infatti paramentri specifici quali:
(1) il monitoraggio dello stato di salute fisica del paziente (esami di medicina generale) – dal 26 al 50% sono monitorati per pressione arteriosa e glicemia, meno del 10% per colesterolo ed ECG;
(2) protocolli per pazienti multiproblematici (che hanno avuto più ricoveri, abbandonano il trattamento e vivono in condizioni di disagio sociale) – più del 50% riceve un piano specifico di assistenza sociale;
ma anche
(3) interventi psicologici individuali;
(4) attività rivolta alla famiglia;
(5) trattamenti farmacologici;
(6) schizofrenia resistente al cambiamento;
(7) il lavoro.

In particolare, come psicologi clinici, abbiamo voluto approfondire il peso degli interventi psicoterapici nel trattamento della psicosi osservando, grazie agli autori dell’indagine, che i pazienti che ricevono cure psicoterapiche nel nostro territorio sono ancora pochi. Il 60% dei centri infatti ha dichiarato che i pazienti non vengono trattati con psicoterapie individuali, mentre il restante 40% dei centri di Salute Mentale dichiara di trattare meno del 10% dei pazienti con psicoterapie individuali sia a breve termine, ovvero con almeno 3 sedute l’anno o a lungo termine cioè con 10 o più sedute l’anno.

Ci auguriamo che dal momento dell’indagine i dati siano cambiati, anche perchè negli ultimi cinque anni, gli strumenti a disposizione degli operatori di salute mentale come Psichiatri e Psicologi si sono moltiplicati, offrendo un più ampio ventaglio di possibilità di intervento.
Dagli studi più recenti infatti sono state dimostrate le evidenze di efficacia di trattamenti psicoterapici individuali di diversi orientamenti e che agiscono a differenti livelli, di cui faremo una breve carrellata, citandone i più rappresentativi.

Un primo cluster di studi riguarda la psicoterapia focalizzata sul benessere.
Uno study protocol pubblicato nel 2014 da Schrank, ad esempio, ha dimostrato sperimentalmente l’efficacia della WELLFOCUS – POSITIVE PSYCHOTHERAPY. La Psicoterapia positiva, già proposta da Seligman nel 2006, nasceva infatti come trattamento per la depressione e si è sviluppata dall’osservazione clinica sulla maggiore efficacia dell’incremento di emozioni positive, del coinvolgimento e dell’attribuzione di senso rispetto all’intervento sui sintomi depressivi.

Il tentativo di Schrank è stato quello di valutare se questo tipo di intervento potesse essere altrettanto valido per le psicosi ottenendo che, in un campione di 80 pazienti psicotici, il gruppo sperimentale otteneva alla valutazione finale maggiori livelli di benessere ma anche livelli più elevati di sollievo dai sintomi, emozionalità positiva, forza dell’Io, coerenza e significato.
Brownell (nel 2015) ha trovato inoltre che in un gruppo di 11 settimane, i pazienti psicotici apprendevano ad incrementare le esperienze piacevoli rafforzando i loro punti di forza, focalizzandosi su esperienze come il perdono e la gratitudine.

Un secondo cluster si è concentrata invece sugli aspetti cognitivi e metacognitivi.
Un recente studio (2015) di Mènon e colleghi ha affrontato quei casi di schizofrenia resistente al cambiamento in cui il trattamento farmacologico dimostra purtroppo una scarsa efficacia. L’autore ha sperimentato sia la Cognitive Behavioural Therapy for Psychosis sia il Meta-cognitive Training ottenendo un miglioramento nel funzionamento globale dovuto alla maggiore comprensione da parte del paziente dei meccanismi psicologici legati ai sintomi come deliri ed allucinazioni, attraverso l’incremento di strategie di esame di realtà e valutazione critica delle credenze. Anche Bargenquast (2015) in uno studio su caso singolo, con una psicoterapia individuale durata due anni, ha ottenuto che il miglioramento delle capacità di metacognizione hanno agito su una maggiore coerenza del senso del sé, diminuendo, fra le altre cose, la frequenza dei ricoveri.

Un terzo cluster si è concentrato invece sugli aspetti simbolici e di relazione.
Knafo (2015) sottolinea ad esempio su Psychoanalitic Psychology, come sia importante evitare che il trattamento sia medicalizzato. L’importanza data ai sintomi del paziente ed alla sua realtà di sofferenza sarebbe di per sé un atto terapeutico, nel riconoscimento dello stato emotivo e nella credibilità data alla realtà del soggetto.

Uno dei modelli psicoterapici contenuti in un volume pubblicato recentemente intitolato INNOVATION IN PSYCHOSOCIAL INTERVENTIONS FOR PSYCHOSIS, suggerisce infatti l’importanza di alcuni incontri preparatori alla psicoterapia, per facilitare il coinvolgimento e la motivazione del paziente al trattamento ed espone un modello di trattamento psicoterapico incentrato sulla Compassione. La Compassion Focused Therapy sarebbe infatti uno strumento elettivo nel ridurre i sentimenti di vergogna e la tendenza autocritica che caratterizzano l’esperienza psicotica.

In conclusione, il vantaggio di questi cluster di studi consiste indubbiamente nell’ampliamento delle possibilità terapeutiche del clinico, ma come tale non deve trasformarsi in un’ arma a doppio taglio. L’adesione rigida ad un protocollo o ad un’area esclusiva, sia essa affettiva, cognitiva o simbolica, rischia di incrementare proprio quella scissione su cui si cerca di intervenire.
Il clinico, come tale, è quindi il primo a dover compiere uno sforzo di integrazione, non solo come modello di lavoro (ovvero con l’intervento integrato) ma anche in quanto sano processo psichico.

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BIBLIOGRAFIA:

Più umani degli umani? Il senso della società negli scimpanzé

Tra i ricercatori biologi che hanno dedicato la loro carriera allo studio dei primati non umani vi è Frans de Waal. Leggere i risultati delle sue ricerche, che affrontano soprattutto il tema dei comportamenti sociali, vi lascerà a bocca aperta.

Sul fatto che gorilla e scimpanzé fossero molto simili a noi e avessero comportamenti spesso identici ai nostri, non avevamo dubbi! Eppure venire a conoscenza delle nuove scoperte in campo dell’etologia di questi primati è sempre sorprendente e affascinante.

Tra i ricercatori biologi che hanno dedicato la loro carriera allo studio dei primati non umani vi è Frans de Waal. Leggere i risultati delle sue ricerche, che affrontano soprattutto il tema dei comportamenti sociali, vi lascerà a bocca aperta.

Spesso, nel corso dei convegni, de Waal ama mostrare un vecchio video del 1936 in cui due scimpanzé, rinchiusi in una gabbia, devono tirare insieme una corda per portare una scatola con del cibo nella loro direzione. Ma cosa succede se uno dei due non ha fame o non è abbastanza motivato al compito? Viene subito riportato all’ordine dall’altro scimpanzè e si rimette a lavoro!

Seppur il video risalga a ricerche di quasi un secolo fa, i successivi studi, tra cui quelli di de Waal, non hanno fatto altro che confermare questo spiccato senso di cooperazione e organizzazione sociale tra i primati non umani.

Per esempio: sapevate che esistono delle somiglianze tra la nostra politica e la gerarchia dei primati? anche i maschi alfa hanno bisogno della loro coalizione, spesso formata dai due membri più anziani (e più saggi?) del gruppo. Ancora, si può parlare di conformismo non solo facendo riferimento al gruppo di pari giovani e ribelli in piena crisi adolescenziale, anche le scimmie sono esseri altamente conformisti: difronte a due modi diversi per risolvere lo stesso compito, i primati non umani tenderanno a optare per quello utilizzato dalla loro donna alpha e dal resto del loro gruppo.

E per quanto riguarda invece etica e moralità? de Waal mostra, attraverso un video, le reazioni delle scimmie cappuccino nel corso di uno studio sul senso di equità: come premio dopo aver svolto lo stesso compito, una scimmia cappuccino riceve un chicco d’uva (che le scimmie adorano) mentre l’altra riceve un pezzo di cetriolo (cibo che le scimmie mangiano ma senza esserne ghiotte). Come reagirà la seconda scimmia a tale inequità? Sarà chiaro anche per loro (al contrario di molti esseri umani) il concetto dell’importanza di essere trattati in modo equo e giusto?

Per conoscere i dati e avere maggiori informazioni sulle ricerche di de Waal vi consigliamo la lettura dell’articolo originale, nel frattempo divertitevi e meravigliatevi dinnanzi alla reazione della povera scimmia cappuccino che riceve il pezzo di cetriolo.

 

Now we’re getting very close to the human sense of fairness – he said – If you now ask me is the sense of fairness of a chimp different than the sense of fairness of humans, I really don’t know what the difference is.

Più umani degli umani? Il senso della società negli scimpanzé Consigliato dalla Redazione

Più umani degli umani? Il senso della società negli scimpanzé - Immagine: 83580577
Numerosi studi, tra cui quelli di de Waal, confermano l’esistenza di uno spiccato senso di cooperazione e organizzazione sociale tra i primati non umani. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori. Gioco d’azzardo ma non solo – Report dal convegno (Parte III)

 

L’approccio sociale dei gruppi nasce con il metodo Hudolin e con l’applicazione nell’ambito dell’alcol, per poi essere trasposto a più situazioni di disagio: tabagismo, obesità, gioco d’azzardo, ecc.

Nella prima giornata del convegno: “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori”, al pomeriggio, c’è stata la possibilità di scegliere tra tre diversi workshop:
“Gioco d’azzardo ma non solo: le dipendenze comportamentali” (con Mauro Croce, Valeria Zavan, Paolo Jarre e Miriam Vanzetta)
“Rendere possibile il cambiamento: il Colloquio motivazionale con i clienti difficili” (con Gian Paolo Guelfi e Valerio Quercia)
“Alcol e tabacco, droghe legali: esperienze e strategie” (con Giovanni Aquilino, Antonio Mosti, Giovanni Forza, Federica Tognazzo, Giuliana Dell’Agnolo e Fausto D.P.)

Io ho partecipato al workshop “Gioco d’azzardo ma non solo: le dipendenze comportamentali” ed è questo che vi racconterò.
L’introduzione al workshop è stata di Paolo Jarre (Dipartimento Dipendenze ASL3, Piemonte) che parla di diversi tipi di dipendenze comportamentali e non, elencando numerosi articoli scientifici e diversi spunti tratti dall’attualità, tra i quali uno molto recente, ossia la prima sentenza di non imputabilità per sex addiction che risale al 20/05/2015.

Valeria Zavan (SerT di Novi Ligure), la seconda ad intervenire, non porta questioni scientifiche, pone invece un’attenzione critica verso il concetto di “nuove dipendenze comportamentali”. Le suddette dipendenze attualmente non beneficiano né di letteratura, né di classificazione, tantomeno di diagnosi nosografica. Il rischio pertanto è quello di patologizzare qualcosa che patologico non è. La relatrice è anche critica verso l’idea di “love addiction“, considerata come una nuova dipendenza ma che in effetti si accomuna in tutti gli aspetti al vecchio (risalente al 1987) concetto di codipendenza o dipendenza relazionale. Le caratteristiche della codipendenza, definite nel 1992, sono ad oggi in tutto e per tutto applicabili all’idea di love addiction: prendersi cura dell’altro; escludere il sè, la propria identità e centrare la vita sull’altro; sacrificare le proprie opinioni nella relazione; ecc. In questo senso quindi si può affermare che non vi è definizione condivisa nè accettata di dipendenza affettiva. Per di più, la relatrice sottolinea, quello della codipendenza è un problema trasversale a tutte le dipendenze ed anche per questo motivo tutti i gruppi di auto-mutuo-aiuto la dovrebbero considerare e trattare.

Di gruppi di auto-mutuo-aiuto ne parla più a fondo Miriam Vanzetta (Associazione AMA, Trento). L’approccio sociale dei suddetti gruppi nasce con il metodo Hudolin e con l’applicazione nell’ambito dell’alcol, per poi essere trasposto a più situazioni di disagio: tabagismo, obesità, gioco d’azzardo, ecc. Si tratta di piccole strutture gruppali volontarie, formate da pari, che operano per mutua assistenza. All’interno di questi gruppi chi ha il problema è portatore di risorse e ciò che si auspica è il cambiamento dell’individuo e del suo contesto. Tra gli obiettivi dei gruppi AMA vi è la possibilità di trovare un luogo di ascolto e di condivisione (senza giudizio), di ristabilire le relazioni familiari spesso sgretolate, di accettare le perdite subite e di creare una nuova rete sociale e amicale.

Mauro Croce (ASL VCO, Verbania) pone invece l’accento su com’è cambiato il “giocare” e i suoi scenari negli ultimi anni: se una volta il gioco era lento, rituale, sociale, manuale, visibile, contestualizzato, ad alta soglia d’accesso, complesso, la riscossione era differita, e vi era un periodo di sospensione; oggi i giochi sono veloci, consumistici, di solitudine, tecnologici, invisibili, globali, a bassa soglia d’accesso, estremamente semplici, con riscossione immediata e attivi 24 ore su 24. I giochi di oggi sono quindi più attraenti, più accessibili e per tutti questi motivi hanno più potenzialità d’addiction. Croce ci invita a riflettere anche su come le nuove tecnologie abbiano influenzato l’accessibilità del giocare: pensate a Facebook con Farmville, agli smartphone, alle pubblicità di quiz televisivi semplicissimi, e ai videogiochi dei bambini che hanno le sembianze di scommesse camuffate… e gli esempi non sarebbero finiti qui.

Ultimo ad intervenire è Paolo Jarre (Dipartimento Dipendenze ASL3, Piemonte) che espone il progetto “MenoMApiù” attivo presso il suo Dipartimento. Si tratta di un programma ambulatoriale intensivo per il trattamento degli appetiti innati esagerati. I percorsi all’interno di questo progetto non sono strettamente terapeutici ma puntano a fornire all’individuo delle rotte di apprendimento, una borsa per gli attrezzi per navigare nella vita quotidiana. Gli incontri durano una giornata intera e sono settimanali per dieci settimane consecutive. Sono stati proposti tre moduli: “Dal peso alla misura” (per il Binge Eating Disorder), “Guadagnarsi l’amore” (Sex Addiction) e “Amare senza amore” (Love Addiction, attualmente interrotto). Gli strumenti utilizzati sono il lavoro di gruppo, la CBT breve con i suoi strumenti, le terapie espressive (musicoterapia e arteterapia), l’attività corporea e l’educazione sanitaria.

Il workshop si conclude con l’intervento degli uditori che porta ad un interessante e proficua discussione circa i contenuti e i materiali esposti dai relatori.

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Autostima e stile attributivo: in che modo ci autovalutiamo?

OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il processo mediante cui l’individuo si autovaluta è dovuto anche alle attribuzioni causali. Detto in termini più semplici le persone spesso cercano di spiegarsi un evento collegandolo ad una causa. Sovente si tende ad attribuire un successo raggiunto ad una causa esterna alla persona, quale potrebbe essere la fortuna, oppure ad una causa interna, come ad esempio la tenacia.

[blockquote style=”1″]Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente è un miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo.[/blockquote]
(Albert Einstein)

Il celebre aforisma di Albert Einstein evidenzia il concetto, piuttosto noto, del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, visto da uno dei due punti di vista a seconda del nostro stato d’animo, del nostro umore, della nostra prospettiva personale di vedere le cose, del nostro carattere.
Ricordando anche che il modo personale di percepire gli eventi secondo un’ottica positiva o negativa è in parte influenzato dall’autostima.

Definire il costrutto di autostima non è semplice, in quanto si tratta di un concetto che ha un’ampia storia di elaborazioni teoriche. Una definizione concisa e condivisa in letteratura potrebbe essere la seguente: “Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994).

Tre elementi fondamentali ricorrono costantemente in tutte le definizioni di autostima (Bascelli, 2008):
1. La presenza nell’individuo di un sistema che consente di auto – osservarsi e quindi di auto – conoscersi;
2. L’aspetto valutativo che permette un giudizio generale di se stessi;
3. L’aspetto affettivo che permette di valutare e considerare in modo positivo o negativo gli elementi descrittivi.

Una prima definizione del concetto di autostima si deve a William James (cit. in Bascelli e all, 2008), il quale la concepisce come il risultato scaturente dal confronto tra i successi che l’individuo ottiene realmente e le aspettative in merito ad essi (autostima = successo / aspettative).
Alcuni anni dopo Cooley e Mead espongono il concetto di autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.

Perché infatti l’autostima di una persona non scaturisce esclusivamente da fattori interiori individuali, ma hanno una certa influenza anche i cosiddetti confronti che l’individuo fa, consapevolmente o no, con l’ambiente in cui vive. A costituire il processo di formazione dell’autostima vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.
Il sé reale non è altro che una visione oggettiva delle proprie abilità; detto in termini più semplici corrisponde a ciò che noi realmente siamo.
Il sé ideale altro non corrisponde che a come l’individuo spera e vorrebbe essere. L’autostima scaturisce per cui dai risultati delle nostre esperienze confrontati con le aspettative ideali. Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di noi stessi.
Un esempio a riguardo potrebbe essere quello di una ragazza che vorrebbe essere alta e magra come una modella, quando invece in realtà è bassa e cicciottella. In questa caso la sua autostima sarà presumibilmente bassa.

La presenza di un sé ideale può essere uno stimolo alla crescita, in quanto induce a formulare degli obiettivi da raggiungere, ma può generare insoddisfazioni ed altre emozioni negative se lo si avverte molto distante da quello reale.
Per ridurre questa discrepanza l’individuo può ridimensionare le proprie aspirazioni, e in tal modo avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).

Possedere un’alta autostima è il risultato di una limitata differenza tra il sé reale e il sé ideale. Significa saper riconoscere in maniera realistica di avere sia pregi che difetti, impegnarsi per migliorare le proprie debolezze, apprezzando i propri punti di forza. Tutto ciò enfatizza una maggiore apertura all’ambiente, una maggiore autonomia e una maggiore fiducia nelle proprie capacità.
Le persone con un’alta autostima dimostrano una maggiore perseveranza nel riuscire in un’attività che le appassiona o nel raggiungere un obiettivo a cui tengono e sono invece meno determinate in un ambito in cui hanno investito poco. Si tratta di persone più propense a relativizzare un insuccesso e ad impegnasi in nuove imprese che le aiutano a dimenticare.

Quando la stima di sé è alta l’individuo passa molto frequentemente all’azione, rallegrandosi di fronte a un successo e relativizzando un eventuale fallimento.  Al contrario, una bassa autostima scaturisce da un’elevata differenza tra sé ideale e sé percepito. Questa discrepanza può condurre a una ridotta partecipazione e a uno scarso entusiasmo, che si concretizzano in situazioni di demotivazione in cui predominano disimpegno e disinteresse. Vengono riconosciute esclusivamente le proprie debolezze, mentre vengono trascurati i propri punti di forza. Spesso si tende a evadere anche dalle situazioni più banali per timore di un rifiuto da parte degli altri. Si è più vulnerabili e meno autonomi. Le persone con una bassa autostima si arrendono molto più facilmente quando si tratta di raggiungere un obiettivo, soprattutto se incontrano qualche difficoltà o sentono un parere contrario a ciò che pensano.

Si tratta di persone che faticano ad abbandonare i sentimenti di delusione e di amarezza connessi allo sperimentare un insuccesso. Inoltre, di fronte alle critiche, sono molto sensibili all’intensità e alla durata del disagio provocato. Quando la stima di sé è bassa, l’individuo passa raramente all’ azione, dubitando di fronte ad un proprio successo e sottovalutandosi di fronte ad un fallimento.

Ma quali sono le fonti dell’autostima? O meglio: cosa concorre a far sì che un individuo si valuti positivamente o negativamente?
Come già detto non sono semplici fattori individuali a costituire l’autostima di una persona, bensì ci si autovaluta in merito a tre processi fondamentali:

1. Assegnazione di giudizi da parte altrui, sia direttamente che indirettamente.
Si tratta del cosiddetto “specchio sociale”: mediante le opinioni comunicate da altri significativi noi ci autodefiniamo.
Pare che gli individui alimentino la propria autostima sulla base della fiducia nelle opinioni di chi li giudica favorevolmente.
Una rilevanza evidente le hanno in questo processo anche le valutazioni indirette, ossia la possibilità di imparare a valutare se stessi a seconda del comportamento degli altri nei propri confronti.

2. Confronto sociale: ovvero la persona si valuta confrontandosi con gli altri che la circondano e da questo confronto ne scaturisce una valutazione.
L’esponente principale in merito a ciò è stato Festinger (1954), il quale ha sostenuto che in ogni individuo c’è un’esigenza di valutare azioni e capacità personali e, nel momento in cui i criteri soggettivi di valutazione sono assenti, si tende a valutare se stessi confrontandosi con altri, solitamente soggetti ritenuti simili.

3. Processo di autosservazione: la persona può valutarsi anche autosservandosi e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri. Kelly (1955) considera ogni persona uno “scienziato” che osserva, interpreta e predice ogni comportamento, costruendo così una teoria di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.

Il processo mediante cui l’individuo si autovaluta è dovuto anche alle attribuzioni causali. Detto in termini più semplici le persone spesso cercano di spiegarsi un evento collegandolo ad una causa.
Sovente si tende ad attribuire un successo raggiunto ad una causa esterna alla persona, quale potrebbe essere la fortuna, oppure ad una causa interna, come ad esempio la tenacia.

Weiner, nel 1994, ha affermato che le attribuzioni possono essere distinte in base a tre dimensioni:
Locus of control: ossia se la causa di un successo (o di un fallimento), sia interna o sterna alla persona;
Stabilità: per cui le cause possono essere stabili o instabili nel tempo (per esempio la facilità del compito è stabile, al contrario la fortuna è instabile);
Controllabilità: non tutte le cause possono essere controllate dal soggetto.

Pare che l’attribuzione a cause stabili, controllabili e interne all’individuo abbia, in caso di raggiungimento di un successo, un innalzamento dell’autostima nell’individuo.
Di contro l’attribuzione a cause esterne a sé, instabili e poco controllabili portano ad un calo dell’autostima e della fiducia in se stessi.

Naturalmente avere un’alta stima di sé è piacevole ed aiuta a vivere meglio.
Maslow percepisce l’autostima come uno dei cinque bisogni fondamentali dell’individuo. Per egli il bisogno di autostima deve essere appagato affinché non vengano ostacolati i bisogni più elevati di autorealizzazione.
Pertanto le percezioni di sé sono importanti fonti motivazionali.

Svariate ricerche hanno messo in luce che gli individui tendono a svolgere tutte quelle attività che consentono di avvicinare il più possibile il sé reale al sé ideale. Per esempio, un ragazzo che aspira a diventare un culturista palestrato, sarà motivato in tutta quell’attività fisica che gli consentirà di divenire ciò (Baumeister e all, 2003).
Una discrepanza fra le personali valutazioni del sé reale e del sé ideale si viene a creare quando la persona si valuta e si concepisce meno adeguato rispetto a ciò che vorrebbe essere. In questo caso l’autostima è bassa con conseguenti emozioni associate di tristezza e insoddisfazione. Ciò potrebbe condurre ad uno scarso entusiasmo, che si concretizza in demotivazione e disinteresse.

Beck (1967) mette in luce che proprio la bassa autostima è una caratteristica tipica dei depressi. Essi infatti sperimentano vissuti legati al timore di fallimento, hanno basse aspettative di riuscita che conducono scarsa tenacia e demoralizzazione. Si tratta della visione del cosiddetto “bicchiere mezzo vuoto”.

Alla luce di queste considerazioni si evince quindi che l’autostima è un concetto complesso che viene a formarsi sulla base di varie fonti, sulla base delle quali l’individuo si valuta e si attribuisce un voto. Senza dimenticare che si tratta di un costrutto multidimensionale, nel senso che il soggetto può valutarsi differentemente anche in merito alle situazioni in cui si trova a vivere; per esempio è possibile che un individuo abbia un’alta stima di sé sul luogo del lavoro, dove ciò che egli realmente è si avvicina notevolmente al sé ideale, di contro potrebbe valutarsi negativamente nell’ambito dei rapporti interpersonali, dove magari potrebbe aspirare a volere qualcosa di più rispetto a ciò che egli possiede realmente .

In conclusione appare chiaro che l’autostima si sviluppa tramite un processo individuale ma anche interattivo – relazionale e può essere concettualizzata come uno schema cognitivo – comportamentale che viene appreso man mano che gli individui interagiscono con gli altri e con l’ambiente (Bracken, 2003).

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BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze: il cervello degli adolescenti sovrappeso alla vista del junk food

FLASH NEWS

Uno studio pubblicato su Cerebral Cortex dimostra che spot televisivi che pubblicizzano cibi non salutari (fritti e grassi) sono in grado di attivare esageratamente negli adolescenti in sovrappeso alcune aree cerebrali legate alla ricompensa, al gusto e addirittura parti della corteccia somatosensoriale deputate al controllo della bocca.

L’ipotesi supportata dallo studio dunque suggerisce che i soggetti – in sovrappeso- simulino mentalmente abitudini alimentari non sane.

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno esaminato le attivazioni cerebrali alla vista di spot pubblicitari di cibo in un gruppo di adolescenti (dai 12-16 anni di età) sovrappeso e in un gruppo di adolescenti normopeso. I risultati hanno mostrato che vi sarebbero attivazioni comuni a entrambi i gruppi (normopeso vs. sovrappeso) alla visione di spot riguardanti il cibo rispetto a spot di altra natura (ad esempio, le regioni cerebrali coinvolte nella regolazione dell’attenzione e della ricompensa). Tuttavia il risultato degno di interesse è nel confronto tra gruppi di soggetti: gli adolescenti in sovrappeso presentano attivazioni maggiori nella corteccia orbito-frontale e nelle regioni associate alla percezione del gusto.

E inoltre, in questo gruppo gli spot pubblicitari di cibo attiverebbero anche la regione somatosensoriale deputata al controllo dei movimenti della bocca.

In altre parole, tali risultati supportano l’ipotesi simulativa secondo cui gli adolescenti in sovrappeso simulano mentalmente abitudini alimentari non salutari in risposta a determinati stimoli visivi. In tal senso se pensiamo che l’alimentazione non salutare comporta sia un desiderio iniziale che un piano motorio mentale per attuare poi effettivamente il comportamento disfunzionale (assumere alimenti dannosi), allora ha senso ipotizzare di lavorare non solo sul desiderio ma anche sulla seconda componente di questo complesso processo.

Studi futuri potrebbero considerare l’intervento su questi meccanismi simulativi disfunzionali in generale nella pianificazione delle diete e nel trattamento dell’obesità.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Atterraggio di emergenza a Torino: sfiorata la tragedia. Il racconto del terapeuta

Volo BlueAir Torino-Catania del 7 giugno. Scoppia una gomma in fase di decollo, atterraggio di emergenza.

Consapevolezza e Felicità per il Terapeuta

Atterraggio di emergenza a Torino - Foto La Stampa

Durante il viaggio di ritorno da Torino, verso Catania, ho vissuto un’esperienza che vorrei, sinteticamente, narrare e commentare in quanto molto attinente al tema del Congresso SITCC e, soprattutto a quanto presentato e discusso nell’ultima plenaria (Felicità e Consapevolezza del Terapeuta). Mentre la seguivo, non sapevo che, da lì a poche ore, avrei vissuto una esperienza importante, in grado di costringermi a riflettere sui temi della plenaria stessa.

 

La dinamica dell’incidente in fase di decollo

I fatti (in estrema sintesi), sono i seguenti. Durante il rullaggio, per il decollo, esplode un pneumatico ed i frammenti schizzano verso l’ala dell’aereo, danneggiandola. Il carrello rientra nel suo alloggiamento, con fragore e vibrazioni. L’aereo non prende quota e continua a girare in tondo sopra Torino.

Sono un appassionato ed esperto di volo, di aerei, di avionica ed un patito di serie tv sul tema, quali indagini ad alta quota. So tutto dei maggiori disastri e, quindi, attuo subito una ricostruzione mentale. Dinamica dell’incidente simile a quella dell’ultimo volo del Concorde. Aeroporto Charles De Gaulle, un pneumatico esplode ed i frammenti colpiscono l’ala; i serbatoi prendono fuoco e… il resto, purtroppo, è ben noto!

 

Allora comincio ad annusare l’aria. Come un cane da caccia, allargo le narici e aspiro molecole con particolare intensità; non avverto alcun odore di bruciato! Bene!

Guardo dal finestrino (lato del botto) e non si vedono fiamme. – Benissimo! – Allora mi dico: –Il nostro problema sarà, dunque, “solo” l’atterraggio di emergenza!- A questo punto, in grave ritardo rispetto agli eventi, il pilota si fa vivo, gracchiando nell’interfono: – Abbiamo avuto un problema tecnico e dobbiamo rientrare a Torino! State calmi è tutto sotto controllo-. –Balle!- Mi dico e ho ragione! Infatti, dopo poco, due imbranatissime hostess si buttano a quattro piedi, in cabina e, carponi, cominciano a cercare qualcosa, sollevando lembi di moquette, sotto i piedi dei viaggiatori che devono spostarsi. Gli altri passeggeri inorridiscono ma io li rassicuro, almeno  quelli vicini a me  (le hostess non spiegano nulla, sono confuse ma non certo felici, per citare Carmen Consoli, mia cantantessa preferita, come me, catanese doc!).

Così tocca a me spiegare che stanno cercando (ma dovrebbero saperlo a colpo sicuro, quindi, mi dico, – Deficit di addestramento, speriamo i piloti siano meglio!-) la botola per l’ispezione del carrello ed eventualmente il martinetto per la discesa a mano del carrello stesso. Ebbene non riescono a trovare la botola e così arriva il secondo pilota, cereo e alterato. Va a colpo sicuro (meno male!) apre la botola e poi se ne torna, correndo, in cabina. Ci dice che atterreremo entro 15 minuti. Ancora balle!

Infatti giriamo intorno per altri 80 minuti, prima di attuare un passaggio radente sulla pista dove vedo schierati tantissimi automezzi dei pompieri e gente in tuta che ci fotografa. Non era per voyeurismo; stavano fotografando quel che restava del carrello per dare al pilota informazioni sull’assetto da tenere all’atterraggio (praticamente caricando la maggior parte dell’impatto sul carrello indenne).

Il punto ora  è che io sapevo e capivo, quindi ero consapevole. Mi rappresentavo l’ipotesi concreta che potevamo morire!

Quando un carrello è danneggiato, può succedere di tutto. Dal collasso dell’ala che striscia sulla pista e prende fuoco al crash della carlinga. La gente a bordo, invece, non sapeva nulla e si limitava ad essere terrorizzata, non riuscendo ad immaginare nulla di preciso, in merito a cosa ci attendesse. Nessuno dell’equipaggio ci diceva niente!

Ecco allora una domanda, in merito, di interesse scientifico: cosa si dovrebbe fare a riguardo? Io credo che sarebbe giusto informare, sottolineando le notevoli possibilità di passarla liscia ma anche i rischi dell’impatto. Infatti io e Wiola siamo stati gli unici ad assumere la corretta posizione anti-crash mentre gli altri (per meglio dire alcune “altre”) se ne restavano con tacchi a spillo ed occhiali inforcati guardandoci sbalordite/i e, alla fine, imitandoci per pura scaramanzia. Se avessimo dovuto abbandonare in fretta l’aereo, i tacchi a spillo vi sembrano una buona opzione?

Fortunatamente l’atterraggio avviene positivamente. Il carrello danneggiato tiene, il contatto col suolo è abbastanza morbido, nessuna scintilla e nessun focolaio di incendio, anche se siamo inseguiti e subito attorniati, sulla pista, dalle autopompe dei pompieri che salgono velocemente a borgo. Pericolo di incendio scongiurato!

 

Brevissime riflessioni sui temi di interesse psicologico:

Consapevolezza: sapevo che potevo morire e questa è un condizione interessante perché ti stimola intense attività di auto-osservazione, metacognizione e ricostruzione narrativa. Sai che c’è? Scopro (ma non è la prima volta che mi accade) di non avere nessuna paura di morire! Sono soddisfatto di quello che ho realizzato e di quanto vissuto. Figlie grandi, un nipote alle elementari, un altro nipote in arrivo; Wiola al mio fianco. Va bene così! Forse mi evito il Parkinson e l’arteriosclerosi!

Scopro, grazie a questa esperienza, che cosa realmente mi fa più paura, e cioè ferite e/o ustioni che mi blocchino a letto con tutte le cose da fare. Allora i miei pensieri automatici (disfunzionali ??) sono: o illeso o morto, preferirei così! Non sono credente e quindi non posso appellarmi a nessun Potere Superiore. Come ricercatore, penso alle statistiche che mi danno almeno un 50% di chances, come alla roulette, quando punti sul rosso. Mi limito alla speranza (basata sul calcolo delle probabilità) e punto tutto sull’uscirne illeso. Quindi siamo al secondo tema.

Speranza: E’ uno sballo! La speranza (da ricercatore, appassionato di computo della probabilità e di “p”) di non lasciarci le penne, sulla base del calcolo statistico (almeno il 50% di probabilità) mi ha sostenuto ed incoraggiato. In fondo era come essere al casinò: il rosso vince, il rosso perde! Bene io punto sul rosso e…

Felicità: In questo caso è stata raggiunta semplicemente col rimettere i piedi a terra, dopo aver temuto di finire al cimitero o in ospedale. Felicità perfetta essere vivi, sentirsi di nuovo proprietari di un futuro da spendere in sogni e progetti, accanto ad una donna meravigliosa, stella dell’Est, che mi ama e che, con coraggio e dignità, ha vissuto con me la stessa esperienza (c’erano persone, uomini e donne, che piangevano con lacrimoni e singhiozzavano!) . Si, questo è stato un momento di felicità, la felicità delle cose normali (essere vivi, in salute, avere conoscenza, soldi – pochi- ma sufficienti) e farsi una risata liberatoria. Still alive, caz…!

Amore: Beh lo so, questo non era il tema dell’ultima tavola rotonda plenaria ma c’era, al Congresso,  un workshop di Francesco Aquilar. L’amore per Wiola e la sua presenza sono stati il mio must. Un uomo vale quanto la donna che le sta accanto, credo! Vederla serena, composta, riservata ma anche lei consapevole (appassionata come me di volo e di viaggi, segue anche lei, indagini ad alta quota), è stato troppo bello e mi ha reso ancora più innamorato ed orgoglioso di Lei!

Condivisione ed amicizia: Sullo stesso volo c’era Michele Spada, neo didatta SITCC e vecchio amico siculo. Questa esperienza ci ha fatto sentire più vicini e solidali. Patire insieme incrementa l’empatia (simpatia, in greco antico, letteralmente; quindi, siamo diventati più simpatici l’uno all’altro!).

Narratizzazione

Dalla notte dei tempi, raccontare i pericoli, affrontati e scampati (certo, se si muore, c’è poco da narratizzare!) è un esercizio che gli uomini amano attuare e che ha dato luogo a lunghe serate di racconti intorno al fuoco, a partire dal paleolitico, confluiti poi nei poemi, come quelli omerici, e, in Sicilia, più recentemente, per esempio, nella chanson de geste, che sono alla base della cultura occidentale, ma, anche, di molte orientali. In fondo, questo schema narrativo è semplice ma perfetto e, soprattutto, molto efficiente. C’è un eroe, un grave pericolo ed una donna (possibilmente dagli occhi azzurri ed i capelli biondi, perché quelle con i capelli scuri e gli occhi verdi, stile Circe, sono maliarde pericolose da scansare e da cui guardarsi! Colleghe escluse, naturalmente! Sto parlando  di miti ed archetipi, non di realtà!). Con questi pochi ingredienti sono state scritte migliaia di storie di successo!

Però, ora parliamo di narrativa in psicoterapia. Narrare quel che si è patito, magari con un po’ di enfasi epica, e valorizzazione del proprio ruolo, aumenta l’autostima, la mastery e mette al riparo dagli esiti post-traumatici negativi.

Così, ma ci è venuto spontaneo, nei due giorni successivi all’incidente, non abbiamo fatto altro, con Wiola, di parlare di quanto successo, di quanto provato, di quanto osservato nei nostri compagni di avventura, di come abbiamo reagito et cetera, per non parlare dei racconti e condivisioni con gli amici, sui social e sulle mailing list!

 

In conclusione, dunque, penso che, quando sei nei guai, avere informazioni, le più accurate possibile, aiuti. Accettare l’ipotesi di poter morire o subire lesioni, durante un evento traumatico e/o, quando meno te lo aspetti, è un importante goal della vita.

Si vis pacem para bellum– dicevano i nostri saggi antenati Romani. Vorrei parafrasare in: Si vis bonam vitam noli mortem timere! Spero che il mio latino regga ancora!

 

Tullio Scrimali

Università di Catania e Scuola ALETEIA, Enna

 

 

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Manipolare la realtà onirica: il fenomeno dei sogni lucidi

Nei sogni lucidi il soggetto che dorme è consapevole di sognare e riesce così a esercitare un controllo mentale sulle azioni e sulle situazioni oniriche.

Quante volte ci siamo trovati in situazioni dalle quali era difficile scappare, o eravamo inseguiti da malintenzionati armati o, ancora, quante volte abbiamo svolto l’esame di maturità senza essere preparati? Ci siamo però poi svegliati e abbiamo pensato Per fortuna era solo un sogno!

Il sogno è un fenomeno psichico legato al sonno, in particolare alla fase REM, caratterizzato da immagini e suoni che per il soggetto sognante sono vissuti come reali.

Capita a volte, infatti, di vivere situazioni oniriche così intensamente che quasi ci è difficile distinguerle dalla realtà e, talvolta, le emozioni provate durante il sogno influenzano l’umore della nostra intera mattinata o giornata. Ci sono persone però che riescono a controllare le loro azioni nei sogni, perché consapevoli di star sognando: questi soggetti sono dunque in grado di poter effettuare qualsiasi azione desiderino nel loro mondo onirico tra cui volare e usare poteri sovrannaturali.

Questo fenomeno viene indicato con la definizione sogni lucidi: quei sogni, dunque, in cui il soggetto che dorme è consapevole di sognare e riesce così a esercitare un controllo mentale sulle azioni e sulle situazioni oniriche.

Vi sono soggetti che ammettono anche di riuscire a combattere i loro problemi d’ansia grazie ad esperienze di sogni lucidi: attraverso la volontaria e controllata esposizione, durante il sogno, a situazioni di vita temute, queste non saranno più fonte di stress nella loro vita reale.

Insomma…se Freud sosteneva che il sogno fosse la realizzazione allucinatoria, durante il sonno, di un desiderio rimasto inappagato durante la vita diurna, i sognatori lucidi sanno molto bene come soddisfare il loro inappagato desiderio!

Come emerge da alcuni studi, gran parte della popolazione dichiara di aver fatto esperienza di sogni lucidi almeno una volta nella vita. Tra i più importanti ricercatori sul tema vi è lo psicofisiologo Stephen LaBerge, il quale ha effettuato studi, non privi di numerose controversie, sulle esperienze di sogni lucidi in appositi laboratori del sonno.

Per saperne di più, soprattutto dal punto di vista di chi vive queste esperienze, vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato, in cui è riportata un’interessante intervista a un sognatore lucido. Chissà potreste scoprirvi dei sognatori lucidi anche voi! 

 

When I’m asleep, I’m aware that I’m dreaming. I find myself flying, running, exploring, or playing in a virtual reality where I have some control over aspects of the scene and setting. This dream leaves impressions that are as strong or even stronger than anything I experience when I’m awake. It’s fascinating and it’s extremely powerful and it’s all in my own mind.

Manipolare la realtà onirica: il fenomeno dei sogni lucidi Consigliato dalla Redazione

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Nei sogni lucidi il soggetto che dorme è consapevole di sognare e riesce così a esercitare un controllo mentale sulle azioni e sulle situazioni oniriche. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Infinite diversità nello spettro autistico – Report dal Congresso

Il 28 e 29 maggio si è svolto presso il collegio internazionale Seraphicum, Roma, un viaggio di andata e ritorno alla scoperta delle persone con disturbi che rientrano nello Spettro Autistico.

Questo viaggio è stato guidato sapientemente da Tony Attwood, psicologo clinico inglese, di scuola cognitivo-comportamentale, che esercita a Brisbane, in Australia. Attwod negli ultimi 30 anni si è specializzato nel trattamento delle persone Asperger e dello Spettro Autistico. In questi due giorni Attwood ha utilizzato un linguaggio semplice e diretto e si è preso cura del suo pubblico fatto di familiari, educatori, psicologi e logopedisti traghettandolo alla scoperta di strategie e modalità di intervento per poter rendere un bambino con autismo un adulto indipendente. Il lavoro di questi giorni ci ha permesso di apprendere diversi strumenti da mettere nella nostra cassetta degli attrezzi per poter supportare i bambini e i ragazzi autistici nel miglioramento delle loro capacità comunicative e delle loro abilità sociali.

Diversi sono gli aneddoti raccontati da Attwood in questi due giorni tra cui il racconto di un ragazzo ormai adolescente che in colloquio dice : “Non si lancia il cane dalla finestra!”….. Frase apparentemente senza senso che per il ragazzo ha oggi il valore di regola e norma da rispettare assolutamente. Ma da dove arriva questa regola? Quello che serve è forse cambiare prospettiva e tutto diventerà più chiaro. New York, grattacielo, appartamento al 5 piano, peluche di animali e un bambino curioso che li prova a lanciare dalla finestra per vedere che cosa accade, e la madre che arriva in cucina proprio mentre sta lanciando il cane di pezza e allora da qui “Non si lancia il cane dalla finestra”, che da frase legata ad un episodio specifico per quel bambino è diventata una regola assoluta di vita, che il ragazzo asperger ripete ad anni di distanza dal fatto accaduto.

Tempi differenti, modalità diverse di espressione delle emozioni, tipo di pensiero che si allontana dagli standard dei normotipici sono tra le peculiarità di chi vive la sindrome di Asperger. Vive perché, come fa notare A. Attwood, non si soffre di sindrome di Asperger, si soffre delle difficoltà che si incontrano nell’essere capiti e accolti dagli altri. Nel quadro che l’americano, ormai di adozione Austrialiana, dipinge la terapia di maggiore successo risulta essere quella cognitivo comportamentale.

Grazie all’approccio tipico della CBT diventa infatti immaginabile e possibile intervenire sugli apprendimenti che costano maggiore fatica a soggetti Asperger. Durante gli anni ’90 la CBT (Cognitive Behaviour Therapy) è stata adattata da Tony Attwwod allo spettro autistico. [blockquote style=”1″]Le terapie cognitive-comportamentali sono disegnate per le persone tipiche e quelli con l’Asperger hanno un cervello collegato in modo diverso, non sbagliato, ma diverso. Queste psicoterapie sono state elaborate per persone tipiche che hanno l’abilità di esplorare, descrivere e analizzare i propri pensieri e sentimenti in modo intuitivo, ma per le persone Asperger non è così facile. Quello di cui c’è bisogno sono psicoterapeuti che realmente comprendano questo diverso modo di pensare e le diverse esperienze di vita e come adattare queste terapie per gli Asperger[/blockquote] in questo modo Attwood spiega come adattare gli intevernti CBT alle persone con caratteristiche Asperger.

Muoversi in contesti sociali, capire le emozioni e leggere i segnali non verbali sono infatti abilità che non si sviluppano in modo innato o grazie ad apprendimenti per esperienza. I soggetti Aspie hanno bisogno di essere istruiti, hanno bisogno che gli sia spiegato come interagire con gli altri. Il cambiamento dei comportamenti istintivi riesce a consentire, a soggetti ad alto funzionamento, un inserimento reale e concreto nelle realtà sociale. Il costo, in termini di fatica vera e propria, rimane però alto. La tentazione di rispondere alla moglie che chiede se è grassa con un: “non sei grassa, sei obesa, il tuo indice di massa corporea supera…..” richiede uno sforzo cognitivo. È necessario ricordarsi che le norme sociali alle volte si scontrano con l’estrema schiettezza ed onestà e richiedono la capacità di prendere in considerazione l’effetto che le nostre parole hanno sugli altri.

E allora partiamo proprio da qui, dalle dieci cose essenziali che un adulto che si relaziona con un bambino che soffre di questo disturbo dovrebbe tenere a mente:

Io sono un bambino
I miei sensi non si sincronizzano
Distingui fra ciò che non voglio fare e non posso fare
Interpreto il linguaggio letteralmente
Fai attenzione a tutti i modi in cui cerco di comunicare
Fammi vedere! Io ho un pensiero visivo
Concentrati su ciò che posso fare, non su ciò che non posso fare
Aiutami nelle relazioni sociali
Identifica che cos’è che innesca le miei crisi
Amami incondizionatamente

Nella prima giornata di lavori Attwood si è soffermato sulle caratteristiche e sulle difficoltà che un soggetto Asperger incontra, in particolare si è soffermato su 8 dimensioni centrali, portando esempi clinici e racconti di vita, che ci hanno permesso davvero di comprenderne il significato e il senso:

La Comprensione sociale

Le Abilità comunicative

La Sensibilità sensoriale

L’ Ansia (come affrontarla? Impariamo insieme le tecniche cognitive, il rilassamento, la mindfulness e a fare attività fisica)

La resistenza al cambiamento

Il Livello di sviluppo cognitivo

Il Profilo di apprendimento

I Disturbi motori

Il taglio dei capelli è sempre stato un evento cruciale. Facevano male! Per cercare di calmarmi i miei genitori dicevano che i capelli sono morti e non avevano sensibilità. Era impossibile per me comunicare che la trazione del cuoio capelluto stava causando il disagio” Stephen Shore
intensamente assorta, con il movimento di una moneta o un coperchio che ruotava non vedevo o sentivo nulla. Le persone intorno a me erano trasparenti e nessun suono si intromettava nella mia compulsione. Era come se fossi sorda”, ecco alcune frasi tratte dall’esperienza clinica di Attwood.

La giornata si è conclusa ragionando sulle difficoltà e sui punti di forza della persona con Asperger nell’intrattenere relazioni sociali, e nel gestire le relazioni amicali. Per fare questo abbiamo visto come e in che modo i soggetti normotipici intrattengono e mantengono le relazioni interpersonali e per ogni blocco di età l’abbiamo confrontato con le modalità delle persone Asperger.

Durante la seconda giornata Tony Atwood ci ha presentato poi il programma e la struttura clinica del suo centro raccontandoci in dettaglio e con strumenti operativi e pratici alcuni dei progetti e dei programmi attualmente attivi, ci ha portato a ragionare sull’area tematica e sui contenuti dei singoli incontri. I temi principali sono: depressione, relazioni amicali e bullismo, affettività e sessualità e gestione dell’ansia.

Durante la mattina c’è stato anche il tempo di ragionare sulla sessualità dei ragazzi Asperger, sui rischi, sul mancato confronto coi pari come strumento protettivo e orientativo rispetto alle scelte, sull’uso della pornografia come “ tutor” e come attività che risponde alla caratteristica di isolamento sociale e di rifugiarsi nell’immaginazione tipica di questi soggetti.

Il pomeriggio di venerdì è stato dedicato al trattamento della depressione secondo il protocollo CBT adattato per soggetti Asperger. Come nella giornata precedente molto utili sono stati gli strumenti operativi e gli esempi di casi clinici. Si parte da questa definizione [blockquote style=”1″]la depressione è la sorella gemella dell’ansia, giocano insieme nella mente, raccogliendo energia mentale rubandola alle cose che vogliamo fare e pensare[/blockquote] per passare alla descrizione dei programmi CBT per i bambini e gli adulti con Sindrome di Asperger, che si dividono in più fasi.

La prima fase riguarda l’educazione cognitiva e affettiva, durante la quale i partecipanti imparano a conoscere le emozioni, ed è strutturata in discussioni ed esercizi sulla connessione tra cognizione, sentimento, comportamento, sensazioni fisiche ed il modo in cui ogni individuo concettualizza le emozioni e percepisce le varie situazioni. La fase successiva riguarda la ristrutturazione cognitiva ed include un programma di attività per mettere in pratica le nuove abilità acquisite. La ristrutturazione cognitiva modifica concetti e credenze disfunzionali. I partecipanti vengono incoraggiati a stabilire ed esaminare le prove sia contro che a favore delle proprie emozioni e dei propri pensieri per poi creare una nuova percezione di un evento specifico. Viene fornito un programma di attività con difficoltà crescente che permette ai partecipanti di esercitare le nuove abilità acquisite.

Ma quali sono le ragioni per una persona Asperger di sentirsi triste? Solitudine, essere rifiutati, essere vittima di bullismo, sentirsi sempre in ansia, essere annoiato, troppi cambiamenti nella propria vita, non avere abbastanza strategie per essere di nuovo felice sono solo alcuni dei motivi rintracciati da Attwood. Inoltre fattori come l’isolamento sociale, la mancanza di relazioni amicali significative, la bassa autostima, la difficoltà ad esprimere emozioni e pensieri, la disconnessione tra mente e corpo e la difficoltà a rispondere alla felicità altrui, prolungano lo stato depressivo e ne aumentano l’intensità. Anche in questo caso Attwood ci descrive il programma di esplorazione alla depressione attivo nel suo centro e ce ne spiega le fasi operative.

1. Qualità e abilità: quali sono le caratteristiche positive della persona, quali i punti di forza e di vulnerabilità?
2. Che cos’è la depressione? Dove introduce il concetto di contabilità energetica, facendo ragionare i partecipanti su quali sono le attività che a loro costano in termini di energia e quali attività li ricaricano.
3. Strumenti per combattere la depressione. Quali strumenti è possibile mettere dentro la nostra cassetta degli attrezzi personale? Strumenti di autoconsapevolezza, fisici, di pensiero, di rilassamento e di mindfulness che vengono insegnati ai partecipanti.
4. L’arte come forma espressiva
5. Avere un piano di emergenza: in questa fase i partecipanti ragionano e costruiscono la loro rete di sicurezza, si creano un piano operativo rispetto a cosa fare in caso di estrema difficoltà, quali sono le persone da contattare, cosa posso fare per stare subito meglio?
6. Il tuo futuro: nell’ultima fase si ragiona sugli obiettivi raggiunti, si consolidano gli strumenti della cassetta degli attrezzi e soprattutto si incentivano i contatti tra i partecipanti come rete di auto-supporto reciproco.

Entrambe le giornate si sono concluse con la testimonianza di alcune persone con sindrome di Asperger, che hanno condiviso con il pubblico la loro storia di vita e le loro esperienze, apportando alla conferenza un grande valore aggiunto, sentire la loro storia raccontata, vedere quali passi hanno fatto nell’acquisizione di una teoria della mente complessa, permette di collegare con un filo rosso le due giornate di lavori, quando la teoria si sposa bene con l’applicazione.

 

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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori – Report dal Convegno (Parte II)

 

La seconda sessione plenaria e conclusiva del convegno “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori” si è svolto nel pomeriggio del 23 maggio 2015.

Il primo intervento, di Marina Davoli (Dip. di Epidemiologia del S.S.R. del Lazio, Network Cochrane e Osservatorio Europeo delle Tossicodipendenze di Lisbona E.M.C.D.D.A.), aveva per titolo “Dalle evidence alle politiche sulla droga: può il progetto europeo DECIDE dare un contributo?”. Com’era deducibile dal titolo, la relazione è stata costruita attorno alle evidenze scientifiche nel campo delle dipendenze, partendo dalla letteratura e quindi dalla “storia” di queste evidenze. Marina Davoli si è soffermata sull’importanza di poter (e dover) valutare anche gli inteventi di prevenzione che vengono implementati in tutto il mondo: anche la prevenzione può infatti portare a risultati negativi rispetto all’uso di una determinata sostanza, andando ad aumentare la curiosità dei giovani rispetto alla stessa.

Ad oggi, la maggior parte degli inteventi di prevenzione non vengono valutati. La relazione prosegue toccando anche altre tipologie di studi, come le revisioni sistematiche, gli studi osservazionali e le ricerche che hanno portato alla creazione delle linee guida. Viene poi presentato il progetto europeo DECIDE (Developing and Evaluating Communication Strategies to Support Informed Decisions and Practice Based on Evidence) che ha lo scopo di produrre delle strategie di comunicazione delle evidenze scientifiche di modo che tutti le possano utilizzare per la pratica professionale. Si tratta di uno strumento per i clinici che ha come risultato la creazione di un framework concettuale che rende le informazioni subito accessibili, e, di conseguenza, rende più facile la presa di decisioni circa il trattamento da proporre e da concordare con l’utente, responsabilizzandolo.

Successivamente è intevenuto Salvatore Giancane (SerT di Bologna) che ha raccontato in maniera molto coinvolgente ed interessante i contenuti del suo libro “Eroina, la malattia da oppioidi nell’era digitale”. Giancane ha spiegato come la gran parte dell’eroina che arriva in Italia venga prodotta in Afghanistan, che nel 2014 aveva una superficie pari a 224.000 ettari coltivati ad oppio (dove ci lavora circa il 25% degli afghani). In Afghanistan viene prodotta sia l’eroina che il cloridrato di eroina, ossia l’eroina bianca (da iniezione). Altri paesi coinvolti nella produzione di oppio sono: Messico, Iran e Egitto (precisamente la penisola del Sinai). Data l’ingente produzione di oppio, si assiste oggi ad una riduzione del 50% circa, rispetto agli anni ’90, del prezzo di mercato dell’eroina. Al contempo, ovviamente, si assiste ad un marcato aumento del consumo di eroina, soprattutto negli USA che importano in grandi quantità dal Messico.

In Italia la situazione non è meno preoccupante: l’eroina afghana giunge nel nostro Paese soprattutto attraversando i Balcani (Turchia, Albania) e raggiungendo principalmente l’Italia centrale dove attualmente si riscontrano il maggior numero di fenomeni di overdose. Il consumo di eroina ha subito tuttavia un grosso cambiamento negli anni: se fino a non molti anni fa l’eroina era da iniezione (con l’uso della siringa, che connotava fortemente chi la utilizzava), oggi si inala, e per farlo sono sufficienti un pezzo di carta stagnola, un accendino e un foglio di carta. L’odierna maggior facilità d’uso ha portato, negli abusatori, ad una percezione ridotta del rischio con tutto ciò che ne consegue.

Al momento perciò in Italia sono presenti due filoni di consumatori di eroina: i vecchi eroinomani, iniettori, invecchiati precocemente e che sono in carico ai Servizi da una vita; e i nuovi abusatori, inalatori, che non si recano ai SerT per moltissimi motivi, tra i quali la diminuita percezione del rischio. In quest’ultima categoria rientrano ragazzi italiani ma soprattutto spacciatori magrebini, ormai anch’essi divenuti consumatori. Il relatore conclude denunciando il fatto che il dibattito in Italia circa l’eroina è oscurato e che nella realtà la situazione è molto complessa e in continua evoluzione.

Purtroppo Riccardo de Facci (CNCA) non era presente, a causa di problemi personali, per esporre la sua relazione dal titolo “Tra comunità e servizi territoriali: un sistema che cambia”.

Per concludere il convegno è intervenuto Gian Paolo Guelfi del coordinamento scientifico con una relazione conclusiva e riassuntiva delle due intense giornate trascorse a Trento. E’ stato un convegno molto interessante, ricco di temi e di spunti importanti ed originali, e che è riuscito nel suo scopo principale ossia quello di dimostrare che, anche per quanto riguarda la dipendenza da sostanze, la relazione tra le persone è fondamentale.

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Impatto psicologico della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) sui figli dei pazienti: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Impatto psicologico della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) sui figli dei pazienti: uno studio empirico

Autrice: Francesca Bianco (Università degli Studi di Padova)

Abstract

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (ALS) è una patologia neurodegenerativa rara, che conduce a morte in 3-5 anni dall’esordio. La drammatica reazione psicologica dei caregiver di tali pazienti è stata descritta in letteratura; tuttavia, nessuna indagine empirica è stata attualmente volta ad identificare l’impatto psicologico sui figli in età evolutiva. Il presente studio si prefigge pertanto di gettare luce su tale realtà apparentemente negletta dall’interesse della clinica e della ricerca. Materiali e Metodi: Hanno partecipato allo studio 25 figli, tra i 5 e i 16 anni di età, di un genitore affetto da SLA. Il profilo psicologico è stato valutato con: 1) test di Rorschach secondo il Sistema Comprensivo di Exner; 2) test del Disegno della famiglia (Corman, 1985); 3) Children Depression Inventory (Kovacs, 1977); 4) Youth Self Report (Achenbach, 2001). Ad entrambi i genitori sono stati proposti i seguenti strumenti self-report: 1) Child Behaviour Checklist (Achenbach, 1991). I dati sono stati raccolti in modalità di visita domiciliare e confrontati con le variabili epidemiologie e neurologiche che caratterizzano la fase di malattia del genitore affetto. Risultati e Conclusioni: Nei figli dei pazienti terminali affetti da SLA emerge un profilo di sofferenza psichica caratterizzato da ansia, depressione, bassa autostima, difficoltà nell’adattamento e spunti psicotici. Descrivere il quadro psichico reattivo alla malattia del genitore, che si configura come peculiare rispetto a quelli tipicamente descritti da studi condotti sui figli di pazienti affetti da altre patologie terminali, e di vulnerabilità alla psicopatologia, favorisce lo sviluppo di linee guida di intervento psicologico mirato alla peculiarità della SLA.

English abstract

The specific impact of various neurological illnesses of parents on the psychological well-being of their children, until recently, has remained largely underinvestigated, with the exception of multiple sclerosis (Blackford et al., 1992) and Parkinson’s disease (Morley et al., 2011). The few studies focused on children’s responses to parental neurological illnesses have identified some recurrent non-specific developmental outcomes, such as high levels of depression, anxiety, and low self-esteem. Similar reactive features have been observed in children of a parent at the end-life stage (Yahav et al., 2007; Pakenham et al., 2006; Kalb et al., 2007, Bogosian et al., 2010). In contrast, other authors pointed out the peculiarity of how parental medical conditions may affect the children, in terms of specific researches investigating the psychological impact of a devastating, terminal disease like ALS affecting parents on their children.The aim of our study is twofold: the first objective was to investigate the psychological impact of parental ALS on children’s adaptation, in terms of depressive symptoms, adjustment, and personality structure. The second aim was to investigate the adult attachment, parental sense of competence, and children adjustment as perceived by both parents.

Allegato 1

 

Bianco Manoscritto by State of Mind

 

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