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Linus e la strategia di evitamento – Peanuts Nr. 07

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA Nr. 07

 

Linus e la strategia di evitamento

La strategia di evitamento è un tema caro alla psicologia, in particolare agli esperti del settore che si occupano di ansia sociale, disturbi evitanti di personalità, fobie specifiche, attacchi di panico e ansia generalizzata.

Aldilà degli inquadramenti diagnostici, l’evitamento è una strategia che a tutti è capitato di mettere in atto, anche quando non è un tratto distintivo della personalità. L’evitamento non ha solo una connotazione negativa, infatti permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale.

Perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006).

 

 

Peanuts Nr. 07 - Evitamento

Cos’è che cerchiamo di evitare?

Quando temiamo le conseguenze di una decisione, o se non ci sentiamo sufficientemente competenti, o abbiamo il timore di sbagliare, ecco che la soluzione migliore diventa una non-soluzione. Ad esempio, ci chiediamo: “Che cosa succederebbe se non superassi l’esame all’università? O se non riuscissi a portare a termine quel compito come vuole il mio capo-ufficio? O se uscissi con quella persona e non sapessi cosa dire?” Più lo scenario che ci immaginiamo sarà catastrofico, più tenderemo a evitare le tragiche conseguenze che si disegnano nella nostra mente. Il motto di Linus è infatti un vero e proprio mantra per chi utilizza questa strategia come paradossale soluzione: non esiste problema che non possa essere evitato.

Gli effetti collaterali sono però dietro l’angolo. Più evitiamo le situazioni, meno ci sentiremo efficaci, e questo andrà a rinforzare l’idea che non siamo in grado di metterci in gioco. Inoltre, nel momento in cui decidiamo di evitare, l’ansia derivante dal rimuginio tenderà a diminuire, regalandoci un immediato senso di sollievo e facendoci credere che la strategia protettiva è stata efficace, perché ci allontana momentaneamente dallo stato emotivo negativo.

Questa vignetta può essere molto utile per aumentare la consapevolezza su questi meccanismi, che spesso diventano automatici, e per aprire il dialogo verso la ricerca di soluzioni alternative più funzionali.

 

 

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Riferimento bibliografico:

  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (a cura di), Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.

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Memorie di Scienza: nuova edizione del Premio Bassoli: tremila euro per la migliore raccolta di testimonianze orali in ambito scientifico

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E’ uscito il nuovo bando del premio SISSA/INFN dedicato a Romeo Bassoli, inserito nel progetto Memorie di scienza.

Il premio finanzia con 3mila euro il miglior progetto per la raccolta di interviste e testimonianze orali in ambito scientifico. Tema di quest’anno sono le malattie infettive. Romeo Bassoli, scomparso nel 2013, è stato giornalista scientifico, ha collaborato a lungo con il Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA e e ha guidato per 7 anni l’Ufficio Comunicazione INFN. Per presentare la domanda c’è tempo fino al 20 ottobre 2015. Per maggiori informazioni visitate la seguente pagina.

A lungo docente del Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA e responsabile della comunicazione di INFN, giornalista scientifico di razza, Romeo Bassoli è scomparso nell’ottobre 2013. In sua memoria la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) promuovono un premio annuale di 3mila euro per il miglior progetto di interviste e raccolta di testimonianze orali in ambito scientifico. SISSA e INFN contribuiscono in parti uguali (50%) al premio che ogni anno è incentrato su un tema diverso. L’argomento dell’edizione 2015 sono le malattie infettive, in particolare le paure, le percezioni, le idee che le persone hanno delle malattie infettive e i rapporti tra cittadini ed esperti sul modo di affrontarle.

Il concorso è aperto a tutti gli appassionati e a tutte le appassionate di storia e comunicazione della scienza sul territorio nazionale. La scadenza del concorso è il 20 ottobre 2015, i vincitori saranno comunicati a novembre.

Il bando di concorso è disponibile al seguente link. Per informazioni contattare Nico Pitrelli, del Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA: 0403787462, [email protected].

Più in dettaglio…

L’obiettivo del premio è accrescere il valore delle testimonianze orali nella storia e nella comunicazione della scienza, nell’ambito di un progetto più ampio. L’iniziativa, dal titolo Memorie di scienza, è promossa dalla moglie e dai familiari e amici di Romeo Bassoli, e si appoggia all’archivio di storia orale del Circolo Gianni Bosio di Roma, con la partecipazione dell’agenzia di comunicazione della scienza Zadig. Memorie di scienza raccoglie testimonianze orali, racconti e narrazioni delle più diverse figure che vivono il mondo della scienza: ricercatori, tecnici, giornalisti, decisori, persone comunque coinvolte nella progettazione e nello svolgimento della ricerca scientifica e delle sue applicazioni. La raccolta costituirà il fondo di un archivio orale consultabile online in modalità open access. La raccolta prevede sia contributi originali, sia l’individuazione di materiali già esistenti ma di difficile reperimento o comunque di difficile fruizione.

Il corpus di testimonianze è organizzato per temi e filoni narrativi, per facilitare la ricerca e l’accesso ai materiali raccolti, ma anche per privilegiare l’aspetto della narrazione, in una raccolta che vuole avere sia una valenza storica, sia una valenza comunicativa.

Memorie di scienza organizza, almeno una volta all’anno, una giornata dedicata alla presentazione dell’archivio e dei materiali raccolti, oltre a offrire un’occasione di confronto tra chi ha contribuito alla raccolta e gli interessati: storici della scienza, ricercatori, giornalisti, personalità della cultura.

Link utili e Contatti:

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Intervista a Joanne Stubley, responsabile dell’Unità Trauma Adulti presso la Tavistock Clinic

LEGGI L’INTERVISTA IN INGLESE

Joanne Stubley è Supervisore Psichiatra presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica sita presso la Clinica Tavistock di Londra e Responsabile dell’Unità Trauma Adulti presso Tavistock and Portman NHS Foundation Trust (Londra).

Dirige la Sezione Adulti del Tavistock Trauma Service e ha una considerevole esperienza nel lavoro con individui, gruppi e organizzazioni che affrontano questo tema. È direttamente coinvolta nella formazione e nella pratica clinica, con un interesse specifico per iI trauma complesso. Dr. Stubley è membro della Società Psicoanalitica Britannica (BPS) e membro del UK Gruppo Trauma.

1. Come responsabile del Servizio Trauma Adulti presso la Tavistock and Portman NHS Foundation Trust di Londra, potrebbe brevemente descrivere cosa offre il servizio?

Il Servizio Trauma è parte dell’offerta per adulti proposta dalla Tavistock all’interno del sistema sanitario pubblico (NHS). Esso è una piccola unità, nata nel 1986. Inizialmente fondata dalla psicanalista Caroline Garland e principalmente rivolta a pazienti con diagnosi di PTSD. Per queste persone, che soffrivano di singoli episodi traumatici in età adulta, il servizio disponeva di una breve consulenza, 4-6 incontri, sufficiente per alcuni di loro. Per altre persone, dopo la consulenza iniziale, era possibile essere inseriti in un generico servizio per iniziare una psicoterapia, con interventi individuali o di gruppo. Gli incontri potevano durare da un’ora e un quarto a un’ora e mezza, oltre i soliti 50 minuti, per dare alle persone il tempo di esprimere la loro sofferenza durante l’incontro, prima del successivo stabilito circa 15 giorni dopo.
Negli anni, abbiamo incrementato l’offerta del servizio. Attualmente esso dispone di un Approccio Psicoanalitico al trauma accanto a interventi TF-CBT (Trauma Focused Cognitive Behavioural Therapy) e EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, di cui siamo in fase di formazione): in tal modo disponiamo di una diversificata opportunità terapeutica, per indirizzare al trattamento di traumi singoli, complessi o dello sviluppo.

2. Rispetto al profilo dei pazienti che afferiscono al servizio, quali sono le età, il background, le diagnosi più frequenti?

Questa popolazione può includere rifugiati e persone che necessitano di asilo politico, vittime di violenze domestiche o abusi sessuali, etc.. Il trattamento è ad oggi rivolto principalmente a traumatizzazioni croniche, sebbene ci occupiamo anche di individui con singoli episodi traumatici in età adulta. L’unità dispone di un ottimo collegamento con i servizi per adolescenti, per adulti e con altri servizi all’interno del sistema sanitario.

3. Quali tipi di trattamento offrite? Individuali o di gruppo? Che modelli terapeutici sono adottati?

La mia idea è che per lavorare con pazienti traumatizzati noi abbiamo bisogno di un trattamento flessibile, quindi seguire più di un modello di intervento può essere efficace. Tutti coloro che lavorano nell’Unità Trauma hanno un percorso formativo psicoanalitico: il principale riferimento teorico per noi. Inizialmente, infatti, ai pazienti offriamo una consulenza psicoanalitica, ma successivamente decidiamo il tipo di intervento quindi anche un trattamento TF-CBT è disponibile. È importante la flessibilità fra gli approcci d’intervento terapeutico.

Allo stesso modo, ritengo che molti pazienti necessitino di un adattamento al protocollo di intervento scelto per quanto riguarda i fattori psicosociali, che possono interferire nel trattamento. Così, molto spesso, ci occupiamo anche di cercare una sistemazione abitativa, un sostegno economico, una formazione scolastica e/o professionale, un lavoro, una soluzione alle pratiche burocratiche per i rifugiati e coloro che cercano asilo politico.

La questione della flessibilità: ogni paziente segue un intervento individuale e come tutti i pazienti ha ricevuto un’iniziale consulenza psicoanalitica. Da qui, possiamo offrire interventi TF-CBT, EMDR o diverse opzioni psicoanalitiche. Esse possono consistere in terapie di gruppo (1-2v/sett), occasionalmente un percorso intensivo (3v/sett), ma la maggior parte dei pazienti segue ciò che noi chiamiamo ‘un trattamento intermittente’(ha cioè una frequenza di meno di una volta a settimana). In questo modo è offerta la possibilità di gestire il tempo, per lo sviluppo di una relazione; alcuni pazienti frequentano ogni 2 settimane, alcuni ogni 3 o 4 settimane. Noi possiamo negoziare, in modo da disporre di una flessibilità che permetta di osservare ciò di cui hanno bisogno. Infatti, dopo un certo periodo di tempo il trattamento potrebbe evolvere in modo diverso.

Può dire qualcosa rispetto al termine del trattamento? Noi non abbiamo una definizione formale dal dipartimento, rispetto a quando terminare un trattamento. Noi utilizziamo i nostri incontri regolari (un trauma meeting 1v/15 giorni e un incontro di intervisione 1v/mese) per riflettere sul progresso dei pazienti. Ogni tanto la domanda è se il paziente è pronto o no a muoversi verso un altro intervento terapeutico. Noi, inoltre, cerchiamo di creare collegamenti tra organizzazioni esterne al servizio sanitario (es. organizzazioni di volontariato). Il termine del trattamento è una questione difficile, poichè questi tipi di pazienti spesso hanno bisogno di un percorso a lungo termine, ai fini della costruzione di una relazione.

Può dire qualcosa rispetto ai fondi? La Tavistock ha contratti con commitenti locali. Noi siamo pagati in blocco (il lavoro sul trauma è parte di tale blocco). Noi non siamo pagati a singolo paziente, ma per il lavoro psicoterapeutico generale che offriamo.

4. Come è organizzato il team, in termini di professionalità presenti e numero di operatori nel servizio?

Tutto il lavoro dello staff è part-time, presso il Trauma Unit, e il resto del tempo è dedicato ad altre responsabilità nel servizio sanitario. Ci sono 4 senior: io, Joanne Stubley (Psichiatra), dirigo l’Unità Trauma e anche una Unità Generica nel Dipartimento; Linda Young (Psicologo) dirige un team nel Dipartimento per Adolescenti; Maxine Dennis (Psicologo) dirige la Terapia di Gruppo nel Dipartimento per Adulti; Birgit Kleeberg (Medico) conduce l’Unità Fitzjohn. Noi disponiamo di esperti diversi in campi differenti. Disponiamo anche di un Patient Advice and Liaison (PALS), un ufficiale che frequenta il servizio trauma per aiutare i pazienti nelle difficoltà pratiche. Noi non abbiamo un numero definito di pazienti nè di personale sanitario.

5. Cosa prevedi per il futuro del servizio che conduci?

La mia preoccupazione sul futuro è relativa allo sforzo da mettere in campo, con le risorse che arrivano principalmente dalla Tavistock, in relazione ai problemi (n.d. tagli dei fondi) presenti nel servizio pubblico. C’è anche un problema esterno: un servizio pubblico psichiatrico frammentario, che rende difficile per i pazienti ricevere un supporto in rete. Inoltre, sono da tenere in considerazione le politiche sulla salute, che impattano questa tipologia di pazienti (es. fattori sociali).

 

L’intervista con Joanne Stubley ha evidenziato il valore della flessibilità nell’utilizzo di modelli teorici, ai fini dell’organizzazione di un piano di lavoro con pazienti che soffrono di traumi complessi, nella pratica clinica. Inoltre, mi ha permesso di riflettere sulla necessità di organizzare servizi simili al Trauma Unit, al fine di facilitare e rendere più efficace il lavoro dei colleghi in dipartimenti di salute pubblica differenti. Integrazione e flessibilità teorica risultano quindi le parole chiave per descrivere un’efficiente pratica, con effetti diretti sulla salute della comunità!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Fondamenti per l’interpretazione del MMPI-2 e del MMPI-A – Recensione

 

Un viaggio di 450 pagine in quindici capitoli che affronta gli aspetti più importanti legati alla somministrazione, allo scoring e all’interpretazione dello strumento per l’assessment psicologico più usato al mondo. Un testo tanto valido quanto utile attraverso cui s’impara a conoscere e apprezzare lo strumento.

Fondamenti per l’interpretazione del MMPI-2 e del MMPI-A pubblicato da James N. Butcher e Carolyn L. Williams è una guida preziosa all’uso del Minnesota Multiphasic Personality Inventory. La sua pubblicazione ha costituito una testimonianza concreta del decennale progetto di ricerca rivolto alla sua ristandardizzazione.

Un viaggio di 450 pagine in quindici capitoli che affronta gli aspetti più importanti legati alla somministrazione, allo scoring e all’interpretazione dello strumento per l’assessment psicologico più usato al mondo. Un testo tanto valido quanto utile attraverso cui s’impara a conoscere e apprezzare lo strumento.

Gli autori forniscono un’illustrazione pulita e coerente che parte dagli albori della sua nascita nel servizio psichiatrico del Minnesota e non trascura le difficoltà della sua costruzione e applicabilità, per poi introdurre una riflessione sul suo diffusissimo impiego, in medicina generale, nelle scuole, in ambito di selezione, per ricerche di tipo psichiatrico e psicologico.

Era davvero necessario un passo di adeguamento al futuro, si pensi al campione normativo di contadini bianchi di ceto medio del Minnesota su cui era stato costruito, alla nosologia krapeliana e agli item datati, che conservasse tuttavia la sua originalità. L’impegno di un comitato di esperti come Butcher, W. Grant Dahlstrom, Johnn R. Graham e Auke hanno reso questo progresso possibile, attraverso l’introduzione di nuove scale rispondenti a nuovi problemi e utilizzando punti T uniformi che potessero essere equivalenti ai valori percentili delle scale.

Nel tempo l’attenzione riservata alla sua applicabilità, non poteva che crescere fino a rendere possibile la produzione di diverse tipologie quali, carta e matita con copertina morbida e rigida, adatta dove non ci sono supporti, su audiocassetta per coloro che hanno problemi di vista, lettura o impedimenti fisici, computerizzata che riduce il tempo di compilazione.

Il volume si propone come valido e prezioso ausilio per il clinico che intende utilizzare questo inventario con diverse raccomandazioni rivolte alla sua somministrazione, scoring e interpretazione. Si consiglia un setting controllato, un atteggiamento serio e il rispetto della riservatezza. Con gli adolescenti si sostiene l’importanza di verificare che siano collaborativi, abbiano compreso il testo e l’ampia disponibilità di tempo, di fornire intervalli e rinforzi.

Il passo successivo che corrisponde all’elaborazione del test può essere compiuto ricorrendo a griglie trasparenti applicate sul test, o preferendo la modalità computerizzata.

Le norme di questo questionario si basano su una trasformazione lineare di punti T con media 50 e deviazione standard 10, indicati in punti T uniformi. L’intervallo clinico è definito da un punto T uguale o superiore a 65 che corrisponde al 92° percentile per le 8 scale cliniche e per le scale di contenuto.

Per la valutazione della validità del protocollo l’attenzione deve ricadere sulle misure di validità. Più precisamente ciò che il soggetto è o vorrebbe farci credere è affrontato dagli autori attraverso una rassegna completa e attenta delle scale di validità Lie, Frequency, Superlative, Correction.

La prima fornisce informazioni sulla tendenza del soggetto a difendersi dal test, pertanto quando il punto T ha un’elevazione uguale o superiore a 65, il profilo non è più valido, la presentazione del soggetto appare come troppo virtuosa. Viceversa la seconda invalida il profilo quando si eleva a 110 e suggerisce che il soggetto sta esagerando i propri problemi. La scala S indaga se il soggetto si sta presentando sotto una luce eccessivamente positiva, quando il punteggio è uguale o superiore a 65 e per finire la scala K informa il clinico se il soggetto sta tentando di negare i propri problemi.

Terminata questa prima fase è importante valutare i punteggi del soggetto nelle scale cliniche, esse misurano rispettivamente l’ipocondria, la depressione, il disturbo di conversione, la deviazione psicopatica, la mascolinità e femminilità, la paranoia, la psicoastenia, la schizofrenia e l’ipomania.

La scala della mascolinità e femminilità e la scala dell’introversione sociale forniscono informazioni rilevanti sia nel caso di elevazione, sia di punteggio molto basso. La prima fu costruita per identificare la tendenza verso interessi femminili e maschili, ed è influenzata dallo stato socio-economico e culturale, punteggi estremi (70 o superiori) possono riferirsi a persone insicure nel ruolo maschile o femminile, punteggi estremamente bassi, informano su dubbi circa la loro mascolinità e femminilità e sull’abilità intellettuale limitata. Nella seconda gli alti punteggi valutano l’introversione sociale e i bassi l’estroversione sociale.

Ognuna di queste scale è costituita da sottogruppi di item raggruppati per contenuto che formano le scale Harris Lingoes che forniscono informazioni aggiuntive sull’elevazione riscontrabile in ciascuna scala.

Oltre che all’interpretazione scala per scala si può ricorrere all’interpretazione per codici, essa si riferisce ai punteggi più elevati delle scale cliniche collocate in ordine secondo la loro elevazione. È possibile riscontrare un codice a una sola punta, a due punte, due scale cliniche hanno un punteggio uguale o superiore a 65, a tre punte e quello a quattro punte che è piuttosto raro. Nel testo si dedica un ampio spazio ai più comuni codici riscontrati nei setting clinici e alla loro importanza per la diagnosi.

Un altro importante contributo alla comprensione dell’elevazione delle scale cliniche è offerto dalle scale di contenuto, che forniscono informazioni sulla personalità e su ciò che il soggetto riconosce di provare. Le prime sei scale, ANX (ansia), FRS (Paure), OBS (Ossessioni), DEP (Depressione), HEA (preoccupazioni per la salute), BIZ (ideazione bizzarra) misurano sintomi, preoccupazioni e percezioni particolari provate dalla persona. Le successive quattro scale, ANG (rabbia), CIN (cinismo), ASP (comportamenti antisociali) e TPA (tipo A) rilevano la capacità di controllare il comportamento e l’espressione delle emozioni. Un ulteriore gruppo di scale supplementari raccoglie informazioni su disturbi da abuso di alcol, droghe, disagio coniugale e ostilità.

Per procedere alla stesura di un profilo mediante una relazione gli autori raccomandano di interrogarsi sull’atteggiamento di risposta al test, i sintomi, e così via in modo da costruire un quadro coerente della personalità del soggetto e della necessità di un trattamento.

La seconda sezione del test conduce il lettore alla conoscenza del MMPI costruito appositamente per gli adolescenti. Ancora una volta una descrizione onesta di potenzialità e limiti della sua introduzione e diffusione. Il MMPI-A nasce per studiare la predisposizione giovanile alla delinquenza. La prima ricerca in tale ambito è da attribuire a Dora Capwell, in seguito a questa fu condotto un imponente studio su 15.300 scolari provenienti dal Minnesota, che dimostrò la validità dello strumento. Dalla somministrazione del MMPI e MMPI-A emersero importanti differenze tra adulti e adolescenti. Gli adolescenti per esempio manifestano un tipo di risposta più emotivo, inoltre prediligono il divertimento rispetto alle attività intellettuali. La validità di un profilo può essere indagata ricorrendo a sei misure raggruppabili in due categorie, che si riferiscono all’atteggiamento difensivo e stile di risposta e allo stile di risposta esagerato e a caso. Come per il MMPI per adulti si procede a valutare le scale di base, di contenuto e supplementari.

Un merito particolare deve essere riconosciuto alle qualità di questo testo, per indicarne alcune, una ricca raccolta d’informazioni, tabelle di rapida lettura e il riferimento a casi clinici, che lo rendono un indispensabile strumento per il clinico interessato a indagare problematiche e comportamenti disadattavi, compiere previsioni e individuare caratteristiche strutturali della personalità attraverso il questionario autodescrittivo più conosciuto al mondo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Quando le esperienze traumatiche non colpiscono solo il paziente: il trauma vicario nel terapeuta

Michela Grandori – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  San Benedetto del Tronto

I professionisti che lavorano con pazienti traumatizzati in maniera aperta, impegnata ed empatica e che sentono la responsabilità o l’impegno di aiutare queste persone, sono più vulnerabili a sviluppare un trauma vicario. Ciò significa che saranno trasformati dalla loro attività dato che lavorare sul trauma può essere sì molto importante e gratificante, ma allo stesso tempo anche molto difficile e doloroso.

Infatti non è facile mantenere un atteggiamento di neutralità terapeutica quando un paziente espone le sue memorie traumatiche. Questi racconti suscitano emozioni molto forti non solo nel paziente ma anche nel terapeuta. Il rapporto empatico con le persone traumatizzate può causare un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo. Ascoltando i dettagli delle esperienze traumatiche che vengono riportate dal paziente in seduta, il terapeuta diventa testimone della realtà traumatica del paziente e questa esposizione può portare ad una trasformazione all’interno del suo funzionamento psicologico. Queste modificazioni negli schemi cognitivi del terapeuta possono avere effetti negativi sulla sua vita personale e professionale (Blair et al., 1996; McCann et al., 1990).

Una prima concettualizzazione di questo fenomeno si è avuta con l’introduzione del termine Traumatizzazione Vicaria, intesa come un cambiamento in negativo degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze in colui che svolge una professione d’aiuto, che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche dei pazienti. In tal senso è opportuno ritenere che la traumatizzazione vicaria nel terapeuta non derivi necessariamente dall’evento in sé ma dalla relazione di aiuto con un individuo che sta soffrendo a causa di quell’evento (McCann et al., 1990). Il costrutto è stato successivamente esteso fino a comprendere sintomatologie di tipo post-traumatico ed è stato indicato da Figley come Stress Traumatico Secondario, ovvero l’insieme di reazioni comportamentali ed emotive alla conoscenza di eventi traumatici sperimentati da altri o in seguito all’aiuto o al tentativo di aiuto a persone traumatizzate.

Se si esclude il fatto che in questa particolare condizione l’esposizione all’evento traumatico è indiretta, la tipologia di sintomi che ne consegue è la stessa riscontrabile in un quadro clinico di disturbo da stress post-traumatico: pensieri intrusivi, evitamento, aumento dell’arousal e, più in generale, una compromissione del funzionamento dell’individuo (Figley, 1995; Jenkins et al., 2002). Lo stesso Figley propone successivamente il costrutto di Compassion Fatigue che principalmente descrive i sentimenti di profonda partecipazione e comprensione per qualcuno colpito da sofferenza, accompagnati da un forte desiderio di alleviare la sofferenza stessa o eliminarne la causa (Figley, 1995).


Sebbene ci siano alcune differenze in termini di origine teorica del costrutto, i concetti Traumatizzazione Vicaria, Stress Traumatico Secondario e Compassion Fatigue possono essere considerati largamente sovrapponibili. La Compassion Fatigue può, pertanto, essere considerata un rischio professionale a pieno titolo. In questo senso Figley propone che la risposta all’esposizione a un evento traumatico si inserisca in un continuum che va da un estremo positivo, di soddisfazione lavorativa (Compassion Satisfaction) a un estremo negativo, di logoramento (Compassion Fatigue). L’autore delinea inoltre un modello causale per cui lo sviluppo della Compassion Fatigue è influenzato sia dalle strategie di coping sia da fattori contestuali come un’esposizione prolungata all’evento traumatico (Craig et al., 2010; Figley, 2002; Sprang et al., 2007).

Al quadro finora descritto si affianca il rischio di sviluppare una sindrome da Burnout, intesa come una combinazione di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e senso di ridotta efficienza nello svolgimento della propria professione, caratterizzata da cinismo, distress psicologico, insoddisfazione, difficoltà nel funzionamento interpersonale, ottundimento emotivo e conseguenze fisiologiche (Maslach, 1982). I fattori centrali determinanti il Burnout sembrerebbero essere la percezione del carico di lavoro, la pressione temporale e gli stressor riferiti alla relazione con l’utenza: tra questi si evidenzia, in particolare, il contrasto tra la richiesta di inibire le proprie emozioni sul lavoro (allo scopo di mantenere un buon livello di performance) e quella di mostrare empatia per il fatto di avere un ruolo da caregiver (Craig et al., 2010; Maslach et al., 2001).

Il Burnout e la Compassion Fatigue si distinguono su alcune dimensioni principali:

  • Il Burnout viene descritto come il risultato di uno stress psicologico generale dovuto al lavoro con pazienti difficili; il professionista ha la sensazione di essere sovraccaricato dal lavoro e le eventuali problematiche del paziente sono secondarie a tale sovraccarico. Invece la Compassion Fatigue è vista come una reazione specifica e diretta dovuta all’esposizione al materiale traumatico presentato dal paziente.
  • La Compassion Fatigue è improvvisa ed acuta e può emergere anche come il risultato di una singola esposizione ad un incidente critico. La sindrome da Burnout, invece, corrisponde ad un graduale e progressivo consumarsi del professionista che si sente sopraffatto dal proprio lavoro e incapace di promuovere un cambiamento positivo.
  • La Compassion Fatigue si verifica solamente tra coloro che lavorano con persone che hanno vissuto eventi traumatici, mentre il Burnout può presentarsi in persone che svolgono qualunque tipo di professione.

Nonostante queste differenze, il Burnout e la Compassion Fatigue condividono caratteristiche simili. Entrambi possono provocare sintomi fisici, emotivi e comportamentali, problemi lavorativi ed interpersonali. Inoltre, entrambi sono responsabili di una diminuzione di preoccupazione e di stima per il paziente, fattore che può determinare un calo nella qualità della cura del paziente stesso (Craig et al., 2010; Sprang et al., 2007).

E’ utile distinguere tre circostanze diverse in cui un terapeuta che lavora con pazienti traumatizzati può sviluppare un trauma vicario ed entrare in uno stato di stress e paralisi:

  • I terapeuti che non hanno mai vissuto personalmente un evento traumatico possono farsi sconvolgere da ciò che emerge nel corso del trattamento di persone con PTSD. Possono sviluppare, quindi, sintomi traumatici secondari sotto forma di incubi, senso di colpa, senso di impotenza, fantasie di salvezza o comportamento evitante/ottundimento. Ciò può creare un circolo vizioso in cui più il terapeuta diventa sintomatico, disadattivo e inefficace, più si immerge a fondo nel suo lavoro. Quando ciò avviene, il terapeuta tenderà a non rendersi conto della gravità del suo problema e a non cercare la supervisione e l’aiuto dei colleghi.
  • Il terapeuta può sviluppare un’autentica reazione di controtransfert in cui il materiale del paziente risveglia ricordi intrusivi di esperienze traumatiche vissute in passato dal terapeuta. Poiché l’esposizione a un evento traumatico non è un evento raro, e di certo gli psicoterapeuti non ne sono più esenti di altri, terapeuti e supervisori dovrebbero essere pronti a riconoscere ed affrontare queste reazioni di controtransfert.
  • Anche i terapeuti sono esposti alle esperienze traumatiche per cui cercano di aiutare gli altri. Per esempio, possono aver vissuto lo stesso disastro naturale (come un terremoto o un’alluvione) di un loro paziente. In queste circostanze, il terapeuta deve fare un debriefing o una terapia per i suoi sintomi post-traumatici prima di poter pensare di aiutare altre persone (Blair et al., 1996).

Il concetto di Traumatizzazione Vicaria è stato concettualizzato da McCann e Pearlman nell’ambito della Teoria Costruttivista dello Sviluppo del Sé (Constructivist Self Development Theory – CSDT). La CSDT cerca di integrare le teorie psicoanalitiche (della Psicologia del Sé e delle Relazioni Oggettuali) con le teorie cognitive della Social Cognition, allo scopo di creare una cornice dinamica per comprendere le esperienze dei sopravvissuti ad eventi traumatici e di chi si prende cura di loro (McCann et al., 1990; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

La premessa di questa teoria riguarda il fatto che ciascun individuo costruisce la propria realtà mediante percezioni e schemi cognitivi che facilitano la comprensione delle esperienze che accadono nella propria vita. La teoria sostiene che, nel momento in cui il terapeuta prende in carico pazienti traumatizzati e si espone alle loro memorie traumatiche, avvengono dei cambiamenti nei suoi schemi cognitivi e nei sistemi di credenze e questo può essere considerato il risultato di un adattamento cognitivo. Gli stili di adattamento individuali sono considerati come l’esito dell’interazione tra la personalità del terapeuta e gli aspetti salienti dell’evento traumatico, tutto ciò nel contesto delle variabili sociali e culturali che fanno da sfondo alle risposte e alle azioni psicologiche (Saakvitne et al., 1996; Smith et al., 2007).

La Traumatizzazione Vicaria causa un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo, coinvolgendo le sue relazioni interpersonali e il suo mondo interno. Questo è ritenuto normale, prevedibile e inevitabile ma, se il terapeuta non lavora con la trasformazione che sta prendendo piede, ciò può avere effetti negativi molto seri su di lui, sia come individuo che come professionista (Pearlman & Saakvitne, 1995).
Secondo la CSDT è possibile individuare diverse componenti del Sé che riflettono le aree in cui si verificano i cambiamenti nel sistema di credenze:

  • Quadro di Riferimento: si riferisce alla struttura dell’individuo che comprende la propria identità, visione del mondo e sistema di credenze e che gli consente di visualizzare e comprendere sé e il mondo. Eventuali rotture nel quadro di riferimento possono creare un senso di disorientamento nel terapeuta e possibili difficoltà nella relazione terapeutica. Ad esempio, nel tentativo di comprendere il dolore del paziente, il terapeuta, parlando dell’evento traumatico, può concludere attribuendo la colpa alla vittima. La rottura del quadro di riferimento potrebbe indurre il terapeuta a non accogliere la possibilità di una vittima incolpevole.
  • Capacità del Sè: si tratta delle capacità interne dell’individuo che permettono di mantenere un costante e coerente senso d’identità e una buona autostima. Queste capacità permettono all’individuo di gestire le proprie emozioni, sostengono le sensazioni positive e permettono di mantenere buone relazioni con gli altri. Eventuali rotture in questa componente possono verificarsi nel momento in cui il terapeuta sperimenta un trauma vicario. Egli può vivere la sensazione di perdere la propria identità e possono verificarsi difficoltà interpersonali e nella gestione delle emozioni negative. Ciò può avere implicazioni serie nel lavoro con i pazienti traumatizzati.
  • Risorse dell’Io: queste consentono agli individui di soddisfare le loro esigenze psicologiche personali e relazionali. Le rotture in questa componente possono determinare l’insorgenza del perfezionismo e un’eccessiva attenzione e dedizione nei confronti del proprio lavoro. Inoltre i terapeuti possono anche sperimentare una certa difficoltà ad essere empatici con i loro pazienti.
  • Esigenze Psicologiche e Schemi Cognitivi: tra le esigenze psicologiche troviamo le esigenze di sicurezza, di fiducia, di stima, d’intimità e di controllo. Queste esigenze si riflettono nella formazione degli schemi cognitivi di sé, degli altri e del mondo e nella loro eventuale modificazione qualora le esigenze stesse non venissero soddisfatte.

Esigenze di Sicurezza: possedere il senso di sicurezza è fondamentale per il benessere dell’individuo. Tali esigenze comprendono i bisogni di protezione, dipendenza, libertà dalla paura e un ambiente stabile, sicuro e strutturato.

  • Schemi Cognitivi: i terapeuti che sviluppano un trauma vicario possono sentire che non vi è alcun rifugio sicuro che li protegga dalle minacce alla propria sicurezza personale. Livelli elevati di timore, vulnerabilità e preoccupazioni possono essere i modi in cui si manifesta questa perturbazione nelle esigenze di sicurezza. I terapeuti possono così diventare eccessivamente cauti nei confronti dei loro figli, sentire un forte bisogno di seguire un corso di autodifesa, installare un sistema di allarme in casa, etc…

Esigenze di Fiducia: queste esigenze riflettono la capacità dell’individuo di fidarsi delle proprie percezioni e credenze e di quelle degli altri. Tutti gli individui hanno una naturale propensione a fidarsi di sé e degli altri.

  • Schemi Cognitivi: l’esposizione ripetuta al materiale traumatico del paziente rende il terapeuta vulnerabile al trauma vicario e scuote la fiducia che egli nutre nei confronti degli altri, del mondo e di sé stesso. Così, ad esempio, se il paziente è stato vittima di un attacco terroristico da parte di un gruppo minoritario, il terapeuta potrebbe diventare sospettoso, in generale, nei confronti di tutti i gruppi di minoranza; oppure il terapeuta potrebbe iniziare ad avere una minore fiducia in sé stesso e a mettere in discussione le proprie capacità di giudizio e di intervenire in modo efficace con il paziente.

Esigenze di Stima: si basano sul valore di sé e dell’altro.

  • Schemi Cognitivi: il terapeuta che sperimenta il trauma vicario potrebbe sentirsi inadeguato e mettere in discussione le proprie capacità di aiutare l’altro. La stima per l’altro, invece, potrebbe essere compromessa quando il terapeuta si trova a dover fare i conti con la capacità delle persone di essere crudeli e del mondo di essere ingiusto.

Bisogni d’Intimità: possono essere definiti come la capacità di sentirsi in contatto con sé stessi e con gli altri.

  • Schemi Cognitivi: eventuali rotture in questa componente possono generare sentimenti di vuoto, difficoltà a godere del tempo libero o un intenso bisogno di riempire il tempo libero e un ritiro dalle relazioni con gli altri. Il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può allontanarsi o, al contrario, diventare sempre più dipendente dalle proprie figure significative.

Esigenze di Controllo: queste esigenze sono relative all’autogestione.

  • Schemi Cognitivi: quando si creano rotture in quest’area, le credenze e i comportamenti risultanti possono essere di impotenza e/o di maggior controllo in altre aree. Queste credenze generano disagio e il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può mettere in discussione la propria capacità di farsi carico della sua vita, di essere l’artefice del suo futuro, esprimere i propri sentimenti e agire liberamente (Pearlman & Mac Ian, 1995; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

Secondo la teoria poc’anzi delineata, il trauma vicario comporta conseguenze nel terapeuta sia a livello personale che professionale. A livello personale il terapeuta può incrementare la propria consapevolezza dei pericoli e della frequenza dei traumi e sentirsi, pertanto, più vulnerabile. Il senso di protezione e quello di sicurezza possono risultare minacciati e il terapeuta può sperimentare un profondo senso di impotenza per non essere riuscito a proteggere il suo paziente dai traumi passati e dalla sofferenza presente. Il terapeuta, inoltre, può essere sopraffatto dalle narrazioni del paziente e provare paura, dolore e sofferenza simili a quelli del suo paziente così come può sentirsi in colpa per non essere stato risparmiato da quegli orrori (Janoff-Bulman, 1992). Questi sentimenti possono suscitare varie reazioni poco appropriate che interferiscono con la terapia. Il terapeuta potrebbe non rispettare i confini terapeutici (ad esempio, dimenticando gli appuntamenti, non rispondendo al telefono o, al contrario, contattando in maniera inopportuna il paziente); potrebbe provare rabbia qualora il paziente non rispondesse alla terapia; potrebbe dubitare delle proprie capacità e conoscenze e smettere di concentrarsi sui punti di forza e sulle risorse del paziente; infine, potrebbe evitare di parlare del trauma o, al contrario, mostrarsi eccessivamente intrusivo nell’esplorazione delle memorie traumatiche del paziente, sondandone ogni specifico dettaglio. Le forti emozioni provate nel corso della terapia potrebbero indurre il terapeuta a compiere tentativi di soccorso e diagnosi errate (Herman, 1992; Trippany et al., 2004).

Va sottolineato che il trauma vicario può avere effetti negativi anche sulle relazioni amicali e familiari del terapeuta il quale può risultare emotivamente meno accessibile. Ciò può portarlo a ritirarsi dalle relazioni amicali, familiari e dalle relazioni con i propri colleghi, oltre a sviluppare un certo cinismo che non apparteneva al proprio carattere. Il terapeuta può andare in burnout e diventare un peso per i colleghi o lasciare il campo di attività prematuramente, sfiduciato e inaridito (Herman, 1992; Saakvitne et al., 1996).

Per affrontare, o meglio, prevenire il trauma vicario la prima cosa da fare può essere limitare il numero di colloqui con pazienti traumatizzati per evitare di sfinirsi a causa del lavoro (Hellman et al., 1987; Trippany et al., 2003).

Inoltre, è essenziale mantenersi in collegamento con i colleghi e avere la disponibilità di una supervisione continua che riduca la sensazione di isolamento e aumenti l’obiettività e l’empatia del terapeuta (Dyregrov et al., 1996; Lyon, 1993; Pearlman et al., 1993). Possedere un’adeguata formazione in psicotraumatologia è di fondamentale importanza in quanto fornisce al terapeuta gli strumenti essenziali per un intervento efficace e può, pertanto, ridurre l’impatto del trauma vicario (Pearlman & Saakvitne, 1995). Importante è anche bilanciare lavoro, svago e riposo, mantenere attiva la propria rete amicale e curare le proprie relazioni familiari, effettuare una dieta adeguata, fare esercizio fisico e dedicarsi ai propri hobby e/o attività creative. Tutto questo, oltre a prevenire il trauma vicario, può aiutare a preservare un solido senso di identità personale (Stamm, 1995; Trippany et al., 2004).

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Nella mente dello Psicoterapeuta (Cortometraggio di animazione)

BIBLIOGRAFIA:

  • Blair D.T., Ramones V.A. (1996). Understanding vicarious traumatization. Journal of Psychosocial Nursing and Mental
  • Craig C.D., Sprang G. (2010). Compassion satisfaction, compassion fatigue, and burnout in a national sample of trauma treatment therapists. Anxiety, Stress, & Coping, Vol. 23:319-339.
  • Dyregrov A., Mitchell J.T. (1996). Work with traumatized children: Psychological effects and coping strategies. Journal of Traumatic Stress, Vol.5:5-17.
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  • Figley C.R. (2002). Compassion fatigue: Psychotherapists’ chronic lack of self care. Psychotherapy in Practice, Vol. 58:1433-1441.
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  • Saakvitne K.W., Pearlman L.A. (1996). Transforming the pain: A workbook on vicarious traumatization. Norton, New York.
  • Smith A.J.M., Kleijn W.C., Trijsburg R.W., Hutschemaekers G.J.M. (2007). How therapists cope with clients’ traumatic experiences. Torture, Vol. 17:203-215.
  • Sprang G., Whitt-Woosley A., Clark J. (2007). Compassion fatigue, burnout and compassion satisfaction: Factors impacting a professional’s quality of life. Journal of Loss and Trauma, Vol. 12:259-280. DOWNLOAD
  • Stamm B.H. (1995). Secondary traumatic stress: Self-care issues for clinicians, researchers and educators. MD: Sidran Press, Lutherville.
  • Trippany R.L., White Kress V.E., Wilcoxon S.A. (2004). Preventing vicarious trauma: What counselors should know when working with trauma survivors. Journal of Counseling & Development, Vol. 82:31-37.
  • Trippany R.L., Wilcoxon S.A., Satcher J.F. (2003). Factors influencing vicarious trauma for therapists of survivors of sexual victimization. Journal of trauma practice, Vol.2:47-60.

Il Gambling & l’happy-ending di una vincita: gli effetti del Temporal Markdown

FLASH NEWS

L’effetto delle esperienze molto recenti gioca un ruolo molto forte nei processi di decision-making: ciò che è appena accaduto può influenzare in modo preponderante quello che sceglieremo di fare nell’immediato futuro.

Questo accade frequentemente nel gambling patologico, in cui l’happy-ending di una vincita è in grado di distorcere ampiamente i pensieri e i comportamenti successivi, anche se tonnellate di esperienze accumulate nel passato suggerirebbero il contrario.

Una ricerca ha coinvolto soggetti sani e ha utilizzato task sperimentali di gambling: ai partecipanti veniva richiesto di accumulare quanti più gettoni possibili mediante una sorta di gioco d’azzardo.

Lo studio ha dimostrato che la stragrande maggioranza di essi ha ceduto alla “fallacia del banchiere”: l’individuo si focalizza sulla possibilità del guadagno immediato a discapito di una rendita più stabile a lungo termine.

Il meccanismo cognitivo che ci sta dietro è definito dai ricercatori “temporal markdown” e consiste in una svalutazione delle esperienze temporalmente precedenti: anche se ancora relativamente recenti le esperienze passate rispetto ad altre avrebbero un peso proporzionalmente minore nei processi di scelta.

Viceversa ciò che è appena stato vissuto godrebbe di un vantaggio enorme nell’influenzare il comportamento futuro, persino a discapito di una storia coerente di informazioni contrarie.

Solo un’esigua parte del campione (9 su 41 soggetti) è stata in grado di mantenere lucidità nel richiamare alla memoria in modo accurato le esperienze pregresse senza sottovalutarle rispetto a quelle recentissime, e attuando comportamenti più razionali.

Studi futuri dovranno rispondere al perché certi individui e non altri sarebbero più accurati nella valutazione cognitiva delle esperienze pregresse quando si tratta di gambling e guadagni economici.

 

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Gambling: credenze metacognitive e comorbidità psichiatrica

BIBLIOGRAFIA:

Interview to Joanne Stubley, Consultant Psychiatrist at the Tavistock Clinic

Joanne Stubley is the Hand of Adult Trauma Unit at the Tavistock and Portman NHS Foundation Trust (London)

Joanne Stubley is a Consultant Psychiatrist in Psychotherapy at the Tavistock Clinic. She leads the Adult Section of Tavistock Trauma Service, and has considerable experience of working with individuals, groups and organisations which have experienced trauma. She is actively involved in teaching and training in this field, with a particular interest in complex trauma. Dr Stubley is a member of the British Psychoanalytic Society (BPS) and member of UK Trauma Group.

1. As Head of The Adult Trauma Unit at the Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, London, could you briefly describe the services offered?

The Adult Trauma Service is part of the Adult services provided from the Tavistock in the NHS Foundation Trust. It is a small unit that has been running since 1986. Initially founded by the psychoanalyst Caroline Garland, and was mainly for people who had a diagnosis of PTSD. For those people, who suffered with a single episode of adult trauma, the service offered a brief consultation, 4-6 sessions: for some people this was enough. Others, after the consultation, would go into the generic service to start a psychotherapy, individual or group treatment. The consultation appointments would last about an hour and a quarter or an half, more than the usual 50 minutes, to give people time to tell the suffering they feel, in the session, and there would generally be two weeks between sessions to help process what happened.
Over the years, we have been increasing what the service offers. Currently, it follows a Psychoanalytic Approach to trauma alongside TF-CBT (Trauma Focused Cognitive Behavioural Therapy) and EMDR Treatment (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, actually we are in the process of training): thus we offer a variety of therapeutic packages to address single episode trauma, complex and developmental trauma.

2. Regarding the profiles of patients moving through the unit, what kind of patients you treat/age/background/usual diagnoses?

This population may include asylum seekers and refugees, victims of domestic violence or childhood sexual abuse, and so on. The nature of the treatment is now on chronic episodes of trauma although we do also see people with single episode adult trauma as well. We have good links with the adolescent and generic departments within the trust.

3. Which kinds of treatments are offered? Individual or group? Which models of treatment are adopted?

My feeling is that working with trauma patients we need to use a treatment that requires flexibility, to use more than one model may be effective. We all are trained in the psychoanalytic model as our primary training. We may initially offer a psychoanalytic consultation but then decide to offer a TF-CBT treatment. It is important to have flexibility in treatment approaches.

In the same way I think that a lot of patients also have to need an adaptation in terms of dealing with psychosocial factors. So quite often we can also look at this: for housing, finances, education and training and work and also for the refugees/asylum seeker the immigration status.

The question of flexibility: each patient has an individualized treatment, but all of those patients have a trauma psychoanalytic base consultation first of all. From there, we may be offer EMDR, TFCBT or a number of psychoanalytic options. This might be once a week individual or group therapy, occasionally an intensive (3/week session), but probably the majority of patients follow what we call ‘an intermittent treatment’ (which is less than once a week). That is a place that offers time for a relationship to develop; some patients come every 2 weeks, some patients every 3 or 4 weeks. We can negotiate, as a sort of flexibility in terms of seeing what they need. After a period of time it might be followed by something else.

What’s about the ending of the treatment? We don’t have a formal definition of when the treatment ending is required by the department. We use the regular trauma meeting (2/month) and peer groups meeting (1/month) to think about the progress of the patients. Sometimes the question is if this patient is ready or not to move in other treatment. We also try to get links with other external agency (eg. voluntary organizations). This is a difficult question, because these kinds of patients often need a long time, in terms of building the relationship.

What’s about funds? The Tavistock has contracts with local commissioners groups. We are paid in block (the trauma work is a part of that). We are not paid for individual patients, but for the general psychotherapy work that we do.

4. How is your team organised in terms of varying professional roles and size of team?

All the staff work part time and have other responsibilities in the department. There are 4 senior staff: Joanne Stubley (Psychiatrist) leads the Trauma Unit and also a Generic Unit in the Department; Linda Young (Psychologist) leads a team in the Adolescent Department; Maxine Dennis (Psychologist) leads the Group Therapy in the Adult Department, Birgit Kleeberg (Medical) leads the Fitzjohn’s Unit. We have different kinds of expertise in different fields. We have a Patient Advice and Liaison (PALS) officer who attends the trauma service to help patients with practical difficulties. There is not a defined number of patients or personnel staff.

5. What do you envisage for the future of the services you provide?

My concern about the future is that we will continue to struggle with resources in the Tavistock, particularly in relation to wider problem in NHS. There is also the problems externally: a very fragmented NHS psychiatry service which makes it very difficult for patients to get support. Moreover, there are problems with welfare to keep in mind that affect these patients (social factors).

 

The interview with Joanne Stubley has highlighted the value of flexibility in the use of theoretical models in order to organize clinical practice when treating patients with complex trauma. In addition, it allowed me to reflect on the need to organize services such as Trauma Unit to facilitate the work of colleagues in other mental health departments. Integration and flexibility are the key words to describe an efficient practice, which can affect the health of the community!

 

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EMDR con disturbi dissociativi: intervista a Dolores Mosquera – Congresso Nuove Frontiere nella cura del trauma 2015

 

BIBLIOGRAFIA:

Toward a Hope-Centered Psychology: Theory, Assessment, and Interventions – Lezione del Prof. Anthony Scioli a Milano

Toward a Hope-Centered Psychology: Theory, Assessment, and Interventions – A. Scioli

Lunedi 6 luglio dalle 11.00 alle 12.30 nella sede della Sigmund Freud University Milano in Ripa di Porta Ticinese 75/77 è possibile assistere gratuitamente alla lezione in inglese del Prof. Anthony Scioli sul suo modello psicopatologico del’emozione della speranza. La lezione è intitolata “Toward a Hope-Centered Psychology: Theory, Assessment, and Interventions”

Il prof. Anthony Scioli insegna al Keene State College del New Hampshire. Ha studiato la speranza per più di un decennio e ha sviluppato una teoria generale che combina le migliori intuizioni di scienziati, filosofi, poeti e scrittori e li tesse in un unico grande arazzo interdisciplinare.

 

I suoi libri sono:
  • “The Power of Hope” (2010)
  • “Hope in The Age of Anxiety” (2009)
Il suo sito è www.gainhope.com
E’ stato intervistato su State of Mind:
The Psychology of Hope: Interview with Anthony Scioli – APA 2014, Washington DC

 

Sigmund Freud University Milano - Università di Psicologia

Una semplice perizia – Centro di Igiene Mentale – Cim n. 21 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE #21

Una semplice perizia

Per la prima volta dalla sua fondazione, nell’ultimo semestre il CIM di Monticelli aveva dovuto predisporre delle liste di attesa per le crescenti richieste di psicoterapia. Il dottor Irati, assistendo ad un contemporaneo assottigliamento della ricca clientela del suo avviato studio privato, attribuiva il fenomeno alla crisi economica che impediva al ceto medio di permettersi il ricorso al privato.

La dottoressa Daniela Filata, ottimista e come sempre d’accordo con la Mattiacci, lo spiegava con la crescente credibilità del servizio pubblico ed il suo progressivo radicarsi nel territorio, espressione cara ai veterocomunisti e con la fiducia conquistata dei medici di medicina generale che avevano nel CIM un interlocutore presente e autorevole. A parere di Gilda e di Giulio Renzi, stranamente d’accordo, alla sensazione di assedio non corrispondeva un effettivo incremento della clientela e la spiegazione andava cercata nel progressivo impoverimento del servizio pubblico che dappertutto vedeva un calo del personale a favore delle strutture private in nome di una strisciante controriforma psichiatrica che sarebbe approdata a nuovi manicomi privati e servizi di sola emergenza territoriale. Secondo Gilda psicologi e assistenti sociali sarebbero definitivamente scomparsi ed i dipartimenti sarebbero stati finanziati direttamente dalle aziende farmaceutiche. Alla riunione generale settimanale Biagioli, geneticamente democristiano, sostenne che le liste d’attesa dipendevano certamente dal fatto che erano in pochi ma soprattutto che quei pochi erano davvero buoni e riconosciuti tali. Dava sempre ragione a tutti ed a nessuno, non era certo avesse un pensiero suo vero e proprio. A lui interessava soprattutto che ci si rimboccasse le mani di fronte alle liste per accorciarle e che una miniequipe costituita da Brugnoli e la dottoressa Filata esaminasse tutte le richieste per stabilire le priorità. Luisa Tigli, forse a motivo di qualche dissapore nella loro relazione privata, gli fece notare che più invecchiava più smetteva di chiedersi il perché delle cose e si rifugiava in un fare simile ad un affaccendarsi ascopico. Carlo accusò il colpo distraendosi dal dibattito. Si chiedeva se gli rodesse di più la definizione di superficiale o di vecchio. Concluse per la seconda e la mente sfiorò dolorosamente recenti episodi in contesti molto più intimi che aveva messo da parte in attesa di oblio definitivo.

L’attesa media era di un paio di mesi ma la signora Olga Simoni non aveva aspettato neppure un giorno e l’appuntamento venne fissato direttamente col Dr. Biagioli, nonostante fosse fuori zona, neppure residente nel comune di Monticelli.

La spiegazione poteva sembrare dall’esterno assolutamente ovvia. La Simoni era la moglie del sindaco del capoluogo Vontano e la vicedirettrice della Cassa di risparmio (la Ca.Ri.Vo) che tante iniziative riabilitative del CIM aveva sponsorizzato. Biagioli si trovò in imbarazzo a spiegare questa sua decisione autonoma che puzzava di pressioni e raccomandazioni lontano un miglio ai suoi intransigenti operatori mantenendo il segreto sulle vere cause. Il dottor Pace, sostituto procuratore della repubblica di Vontano, che aveva salvato dalla galera Marco Polti, Giulio Renzi, Luigi Cortesi e Giulio Nitti e probabilmente il CIM dalla chiusura a seguito della vicenda di “Villa Santovino” aveva convocato Biagioli in tutta confidenza in un orario serale quando gli uffici della Procura erano deserti.

Neppure lui si fidava dell’utilizzo del telefono ed un incontro in luogo segreto gli sembrava imbarazzante e ridicolo. La notissima e potente signora Olga Simoni era implicata in una vicenda processuale piuttosto oscura dopo che ella stessa aveva sporto denuncia contro la cooperativa “Bau Bau” che gestiva il canile comunale per essere stata morsicata da un cucciolo durante una delle sue consuete visite. Il giudice aveva chiesto una perizia psichiatrica e il dottor Pace si era permesso di suggerire il Dottor Biagioli per la competenza e la riservatezza. Tecnicamente agli arresti domiciliari non essendoci pericolo di fuga né di inquinamento delle prove, aveva ottenuto il permesso di recarsi una volta a settimana presso l’ambulatorio di Monticelli che garantiva un minimo di privacy nonostante sui giornali locali si scatenassero le ipotesi più fantasiose sul perché di un provvedimento cautelare emesso improvvisamente a carico di un soggetto che risultava parte lesa.

Il Corriere lasciava sospettare che dietro ci fosse una manovra del sindaco stesso che, stufo dei continui tradimenti, volesse arrivare a un divorzio con addebito alla moglie in modo da evitare gli alimenti all’avida consorte. Di lei i mezzi di informazione locale con forte vocazione al gossip davano da tempo un’immagine bifronte. Da un lato una donna generosa, dedita al volontariato e animatrice culturale di quel mondo che si estende con ampie sovrapposizioni dalle frange estreme della sinistra fino ai gruppi religiosi più attivi. Dall’altro una ricca borghese scostante e sprezzante con quelli che non considerava al suo livello, ovvero tutti con in prima fila il marito Gustavo tanto da infuriarsi se qualcuno la chiamava Esposito col il cognome di lui che trovava proletario e meridionale.

Biagioli non volle leggere altro per non esserne influenzato. Già erano sufficienti i pregiudizi che aveva verso il mondo radical chic che lo facevano faticare non poco per empatizzare con alcuni pazienti. Andava meglio da quando aveva capito che era un altro modo per avercela con se stesso (era innegabilmente di quel mondo). Quando la incontrò la prima volta capì esattamente il significato dell’ aggettivo “algida” che sin da piccolo aveva rappresentato per lui sono una marca di gelati. Olga aveva 46 anni, l’estrema magrezza ultima propaggine di un disturbo anoressico adolescenziale danneggiava una bellezza nordica che doveva essere stata appariscente. I capelli biondi con un’ acconciatura anni ’60 nascondevano chiazze di alopecia. La gonna del tailleur grigio celava le ossa sporgenti del bacino. Gli occhi grigi, che se davvero sono lo specchio dell’anima ne denotavano l’assenza, guizzavano nervosamente a scannerizzare l’ambiente alla ricerca di possibili pericoli. Era un animale in allarme e Biagioli le permise di acclimatarsi e di marcare il territorio disseminando in tutti gli angoli la cenere della sua Marlboro light ( il vaso del Ficus regalato dalla madre di Clotilde,una conchiglia con la vocazione ad essere confusa con un portacenere e soprattutto il davanzale della finestra dove il vento eliminava le tracce della trasgressione).

Fu lei a decidere quando sedersi nella poltrona di fronte alla scrivania. Certa che lo sguardo di Biagioli ne avrebbe seguito l’armonico movimento per indugiare poi sulle sue famose cosce velate da calze trasparenti ormai fuori moda, accavallò le gambe e iniziò a spiegare la dinamica dell’incidente per cui aveva fatto causa alla cooperativa che gestiva il canile, mostrando tutta la sua indignazione per essere passata da parte lesa a indagata per la morte di un cucciolo di labrador.

Effettivamente quando il cucciolo cui stava tagliando il pelo del collo per una infezione provocata dal collare aveva reagito tentando di aggredirla, si era spaventata terribilmente perdendo il controllo e colpendo l’animale con le forbici adoperate a pugnale. Era vero che non aveva chiamato subito gli inservienti ma solo perché resasi conto che la povera bestiola se fosse sopravvissuta sarebbe rimasta ceca ( gli aveva cavato gli occhi) e paralizzata per il colpo alla colonna, aveva sentito il dovere di porre fine alle sue sofferenze tagliando con precisione chirurgica la carotide sinistra. Le conoscenze mediche le aveva acquisite in un corso per volontari della Croce Rossa che prima aveva frequentato e poi per una decina di anni finanziato con i fondi di beneficenza della Ca. Ri. Vo.

Biagioli voleva farla sentire a suo agio e abbassare la sospettosità. Ritenne inopportuno indagare meglio sull’episodio ( del resto non spettava a lui) e mostrando ammirazione per le sue numerose attività e con quel fare seduttivo che mirava a far sentire l’interlocutore unico le chiese della sua vita. Anche lei era molto esperta nel flirtare ma, si diceva in città, meno brava di Biagioli nel sapersi fermare in tempo. Motivo per cui il sindaco era sulla bocca di tutti e si diceva che se anche avesse avuto solo i voti degli amanti della moglie avrebbe governato per decenni con la maggioranza assoluta. Carlo invece credeva fosse molto più il fumo che l’arrosto ma non aveva intenzione di verificare, gli inciampi con Luisa Tigli sconsigliavano di cimentarsi in terreni sconosciuti. La chiamò Olga mettendo da parte il più formale dottoressa Simoni e ciò diede la stura al tumultuoso racconto della sua drammatica vita.

Il padre l’ingegner Simoni era un imprenditore edile. Tutta la parte nuova di Vontano era stata costruita con guadagni inversamente proporzionali alla qualità strutturale ed estetica delle abitazioni dalla SIMONI s.r.l. L’ingegnere Dario sponsor unico della giunta democristiana che aveva governato Vontano ininterrottamente dal dopoguerra aveva un potere enorme. Biagioli ricordava di essersi sempre chiesto che merito avesse quel bieco palazzinaro perché una via fosse dedicata a “Ginetto Simoni” figlio dell’ingegnere, di cinque anni più grande di Olga, morto a 4 anni e dunque poco prima della nascita di Olga in uno strano incidente domestico. Sbattendo contro lo spigolo di un tavolo si era fracassato il cranio. Questo era il primo episodio ad aver segnato la vita di Olga prima ancora che iniziasse.

Lei era stata messa al mondo in pronta sostituzione di Ginetto in un clima familiare luttuoso, cupo e di reciproche accuse. Già il fatto di essere femmina la rendeva una copia inadeguata a colmare il vuoto lasciato dal geniale e idealizzato fratellino.

La famiglia aveva di fatto cessato di esistere con la morte del bambino.

Dario e la moglie Teresa litigavano furiosamente. Teresa si era rifugiata in una fede quasi delirante, passava la giornata al cimitero ed aveva cominciato a bere di nascosto. Per due volte Olga l’aveva trovata in coma etilico. Toccava a lei badarla. Insomma lei era nata da una famiglia già morta negli affetti. Si chiedeva se fosse stato il padre a mettere incinta di lei la madre tanto li vedeva distanti. Dario si era buttato a capofitto nel lavoro. Come Gaetano Scirea e più o meno nello stesso periodo era in Polonia per ottenere appalti dal governo locale quando un autocarro ubriaco prese troppo larga una curva della superstrada che traversa la Pomerania occidentale nei pressi di Stettino. Faccenda finita.

Teresa convinta che stesse in compagnia di mignotte non tirò fuori i soldi per il rimpatrio della salma e l’ingegnere Simoni che aveva costruito una cappella sontuosa nel cimitero di Vontano giace in una fossa comune nel cimitero cattolico di Danzica.

Olga aveva 10 anni e quanto la madre era odiata e disprezzata ( più volte aveva pregato in cuor suo che morisse ubriaca una buona volta) tanto il padre era amato e ammirato.

Quella fu la prima occasione in cui Olga sperimentò quello stato d’animo di assoluta indifferenza su cui Biagioli avrebbe incardinato tutta la perizia. Non ricordava i giorni seguenti alla notizia della morte del padre ma era certa di non aver provato alcun dolore. Per la verità, confessò con un inquietante sorrisetto a stento trattenuto, aveva goduto nel trovarsi al centro dell’attenzione delle sue amichette e nel vedere le sue foto sul “Corriere”. Dal vescovo al sindaco tutte le autorità cittadine avevano fatto visita a casa sua. Una mozione del consiglio comunale chiese al capo dello Stato la nomina a “Cavaliere del lavoro” alla memoria per l’uomo caduto per portare all’estero l’operosità del popolo italiano. In città non si parlò d’altro e ciò le procurava un piacere quasi fisico. Le prime fantasie masturbatorie la vedevano a fianco di uomini potenti che dominavano gli altri e che lei manipolava a piacimento con la sua straordinaria creatività sessuale.

L’esordio nella realtà della sessualità fu decisamente più crudo. Per l’occasione dovette rispolverare quella modalità di distacco dalla realtà che ancora riusciva ad attivare a comando. Aveva 13 anni ed il fratello Enrico quasi 23. Dopo la morte del padre privato d’ogni regola e controllo aveva sottomesso la madre per ottenere i soldi per le droghe e il gioco d’azzardo. Ancora oggi Olga ci teneva a precisare che in quella prima volta lui non aveva partecipato.

I creditori gli avevano fatto notare che non era vero non avesse nulla da dare in cambio. Nella villa gelida per l’inverno sul lago di Vontano di un certo Aristide aveva passato 18 ore che era certa fossero le ultime della sua vita. Non credeva sarebbe sopravvissuta alle violenze umilianti. Invece si era ritirata in sé e ce l’aveva fatta ( era stata più fortunata di due ragazze che nello stesso mese rimasero uccise in circostanze analoghe in una villa al Circeo, erano cose che allora succedevano). Ricordava solo il passaggio di tanto in tanto del fratello per accertarsi che non finisse uccisa. Aveva imparato a lasciare il corpo lì e andarsene in un altro mondo dove nulla poteva toccarla. Dopo quell’episodio viveva nel terrore che potesse ripetersi. Aveva scoperto che il fratello teneva nella scrivania una beretta calibro 9 che era appartenuta al padre e sequestrata dalla magistratura dopo la morte di Ginetto. Temette che quello potesse essere stato lo spigolo contro cui il piccolo aveva sbattuto ma allontanò prontamente il pensiero. Un incidente causato da Enrico? Quella stronza della madre o l’adorato padre? Non poteva essere.

Tra i personaggi importanti che frequentavano casa Simoni dopo la scomparsa del padre il più gradito a lei era Gaetano Coretti il cinquantenne presidente della Cassa di risparmio di Vontano. La famiglia comprese rapidamente che le trattative sulle dilazioni per il progressivo rientro dallo scoperto che l’azienda aveva con la banca avevano maggiori possibilità di successo se a condurle privatamente con il dottor Coretti fosse stata proprio Olga.Nonostante con i suoi diciassette anni fosse la più giovane della famiglia aveva argomenti estremamente convincenti.

Fiorina la moglie emiliana del Coretti che aveva sempre tollerato scappatelle occasionali del marito purchè non dirottasse all’esterno le risorse economiche della famiglia si allarmò e con un blitz improvviso negli uffici al secondo piano colse i due amanti in flagrante adulterio. Garantitasi un congruo assegno di mantenimento per sé e i due figli accettò rapidamente il divorzio lasciando libero Gaetano di convolare a seconde nozze con la giovanissima Olga Simoni che a diciannove anni abortì il figlio concepito nel peccato attendendo tempi migliori per ampliare la famiglia.

Entrata come cassiera nella filiale di Borgo al Vontano a soli 23 anni fu nominata dal consiglio di amministrazione vicedirettore della filiale del capoluogo con delega alle attività promozionali, di immagine e benefiche. Bella da sempre e affascinante per il suo stile inconfondibile, figlia del mitico ingegner Simoni, moglie del brillante direttore della Ca.Ri.Vo. e a sua volta vicedirettrice della banca, divenne rapidamente la donna più ammirata e potente della città. Raccontando a Biagioli quel periodo felice Olga scoppiò in singhiozzi e in un pianto a dirotto. Stentava a procedere con la narrazione del periodo infernale della sua vita. Si asciugò con un fazzoletto di stoffa che bizzarramente Biagioli si ostinava ad usare a riprese. In quel periodo l’unica pecca della sua vita era la mancanza di un figlio che non voleva saperne di venire. Vedeva la sua sterilità ( Gaetano aveva avuto due bei figli con Fiorina) come la punizione per l’aborto. La genetica o l’esempio della madre la portarono a cercare consolazione nell’alcol.

Impegnata sin dalla morte del padre in un controllo anoressico del cibo trovò negli aperitivi e negli amari un poderoso alleato. L’alcol divenne praticamente il suo unico alimento. Ad esso fu attribuita la disgrazia. Al termine della gita di pasquetta Gaetano stava svuotando il portabagagli della lancia Thema aziendale e riordinando il materiale da campeggio nell’armadio metallico sul fondo del box. Olga attendeva sulla rampa con il motore acceso che tornasse per affidargli la delicata manovra di accostamento. Tirato il freno a mano era scesa per accendersi una sigaretta. Gaetano non voleva si fumasse in macchina. Olga si strappò due unghie della mano destra e si bruciò il palmo con la sigaretta nel tentativo di trattenere il pesante mezzo che correva in avanti. Secondo il medico legale non si era quasi accorto e non aveva sofferto.

La situazione psichica di Olga era peggiorata ed il consumo di alcol proporzionalmente aumentato. Già allora il giudice Pace si era occupato di lei su sollecitazione del fratello Enrico che non voleva saperne di quella matta della sorella e aveva ordinato un periodo di disintossicazione presso la comunità CEIS di San Elpidio a mare.

Tutti i rapporti con Vontano furono interrotti e la popolazione iniziò a dimenticare questa meravigliosa e disgraziata donna. Biagioli che ascoltava attento era inquietato dalla tendenza di Olga a parlare di sé in terza persona come se fosse un osservatore esterno e distaccato dei fatti che narrava. Anche nei momenti di maggiore espressione emotiva con pianti a singhiozzi o esplosioni di rabbia contro il destino cinico e baro, avvertiva qualcosa di inautentico. Si limitava a fornire il suo ormai zuppo fazzoletto ma sentiva di annoiarsi come di fronte ad un film mal recitato. Dovette cacciare le sue ruminazioni circa la propria progressiva mancanza di empatia e l’opportunità di lasciare questo lavoro e tornare ad ascoltare in attesa di un nuovo colpo di scena che puntualmente arrivava a risvegliare lo spettatore distratto. Un giorno di inizio estate si presentò alla Comunità CEIS di San Elpidio a mare il sindaco di Vontano Gustavo Esposito accompagnato dall’assessore ai servizi sociali che aveva stipulato una convenzione con la comunità per la presa in carico dei numerosi giovani tossicodipendenti. Gustavo Esposito indugiava sulla metà degli anni quaranta in quell’età in cui si è incerti se tentare una resistenza giovanilistica o accelerare il doloroso passaggio e arrendersi alla mezza età.

Gustavo era giunto a Vontano immigrato dalla Puglia per il lavoro di carpentiere del padre ed era in debito con la vita per una adolescenza da emarginato che escludendolo dai salotti bene della provincia e dalle discoteche gli aveva fatto trovare la sua nicchia ecologica nelle fumose stanze del Partito. Nonostante i capelli castano chiari si fossero ritirati in precipitosa fuga sulla cima del cranio lasciandolo quasi calvo non voleva rinunciare a quello che riteneva gli fosse stato sottratto e che il prestigio di sindaco neoeletto facilitava. Diventare sindaco e imparentarsi con la storica famiglia Simoni, per quanto decaduta, gli parve il compimento del suo sogno di affermazione. Avrebbe riscattato le umiliazioni del padre che per quei signori aveva lavorato. Rendeva appetibile la missione la ancora prorompente bellezza di Olga che era certo di poter curare con il suo amore più di quanto non facesse il CEIS. Stava ancora nel periodo di prova per la dimissione definitiva quando il matrimonio fu celebrato proprio dall’assessore ai servizi sociali nella sala comunale delle lance. Anche nel racconto gioioso di quello splendido giorno la dichiarata felicità di Olga non riusciva ad arrivare al cuore di Biagioli. Non c’era niente da fare si stava proprio inaridendo. Pensò per un attimo. Poi tornò a concentrarsi su di lei e su quanto aveva sentito dire in città. I suoi modi scostanti e aristocratici non erano stati per nulla mitigati dalle tante disgrazie vissute, anzi si diceva ne fosse uscita incattivita.

Il ruolo di first Lady poi la rendeva ancora più odiosa. I figli, nonostante il cambio del marito non arrivavano e la gente perfidamente sosteneva che fosse troppo cattiva per farli. In realtà si andavano delineando due diverse personalità. Quella privata capricciosa, volubile, arrogante e insopportabile che trattava i domestici come schiavi mettendoli rapidamente in fuga. Quella pubblica impeccabile, tutta dedita al lavoro in banca e alla promozione di attività culturali e di volontariato che finanziava con la Ca. Ri. Vo.

E cui si dedicava personalmente. Per essere più precisi, quella pubblica, dedita a fare il bene degli altri aveva, a sua volta due declinazioni. Da un lato il volontariato per i più indifesi bambini, malati, anziani. immigrati. Meglio ancora se le categorie si sovrapponevano come bambini malati o addirittura bambini immigrati malati. Dall’altro un’altra categoria che beneficiava della sua generosità erano i maschi dai venti ai cinquanta anni in carenza sessuale. Gli spostamenti della first lady con la sua mercedes cabrio rossa erano piuttosto evidenti ed il sindaco Esposito era piuttosto irritato per la notorietà che andava involontariamente acquisendo per meriti non politici.

Olga non mostrava alcun imbarazzo con Biagioli a narrare le sue numerosissime avventure sessuali e le sue acrobatiche prestazioni. Unica preoccupazione era il frequente richiamo al segreto professionale trattandosi di personaggi noti e ben conosciuti da Biagioli. Carlo nell’ascoltare i resoconti dettagliatissimi si meravigliava di non provare alcun eccitamento sessuale e di non aver mai rimpianto di non aver incontrato Olga in un contesto diverso. Si chiese perché? Come per tutte le altre emozioni non sentiva una reale partecipazione di Olga che sembrava quasi impegnata ad eseguire un compito. Seguendo questa intuizione cercò di indagare meglio. Olga gli confermò di essere praticamente anorgasmica e che al compimento dell’atto, quando il partner veniva lei provava semplicemente un senso di soddisfazione. L’impressione che tutto fosse a posto e avesse fatto il proprio dovere. Il suo obiettivo non era il piacere personale ma la soddisfazione dell’altro che vedeva nella rilassatezza post orgasmica. Con la stessa dedizione si dedicava anche a Gaetano che continuava a sbandierare, tra i sorrisini sarcastici degli amici, il suo matrimonio come il miglior affare della sua vita. Una prima svolta foriera di tutti i successivi drammi avvenne quando volontariato solidale ed erotico si contaminarono. Il primo passo, che ricordava perfettamente, fu quando decise di tranquillizzare il signor Aurelio Vincenti di 73 anni, cui faceva domiciliarmente le notti che non riusciva a prendere sonno per i lancinanti dolori alla schiena da ernia discale tra D6 e D7. Fu un successo clamoroso che comportò non solo un sonno rilassato e profondo ma nei giorni seguenti, con il proseguire del trattamento, un miglioramento delle condizioni generali.

La sua associazione “Compagni nel dolore” assisteva a casa molti anziani, sostituiva nei turni di notte i genitori nel reparto di lungo degenza pediatrica dell’ospedale generale di Vontano e organizzava attività di intrattenimento nella residenza “Controcorrente” per adolescenti problematici. Olga estese il trattamento sperimentato con Aurelio. Andava progressivamente aumentando la competenza tecnica e, ci tenne a sottolineare a Biagioli che con l’utenza solidale non metteva quasi mai in gioco i propri genitali. Col passare del tempo questo tipo di utenza, più bisognosa, soppiantò la prima con grande beneficio per il sindaco meno chiacchierato. Si accorse come l’ orgasmo – terapia aveva una efficacia trasversale rispetto all’età e al sesso.

Bimbe oncologiche di tre anni e vecchie terminali con piaghe da decubito provavano lo stesso sollievo. Appena significativa era forse una maggiore efficacia negli adolescenti maschi di “Controcorrente”. La cabrio rossa la si trovava continuamente parcheggiata nei luoghi di sofferenza della città: l’ospedale generale, la comunità “Controcorrente”, l’RSA “Villa della quiete” e la sede centrale dell’Hospice “Unica Armonia” da dove partivano per le attività domiciliari. Tutto utilissimo per la campagna elettorale di rinnovo del sindaco. Ritrovata la serenità familiare la vita di Olga procedette in questa routine per oltre due anni. Prima di parlare della seconda e decisiva svolta Olga volle rassicurarsi che Biagioli non avesse assunto un atteggiamento critico nei suoi confronti perché sembrava voler dare una accelerata per la conclusione della perizia. In verità Biagioli era sempre più interessato alla vicenda della signora Simoni/Esposito. Chi pressava per una rapida conclusione erano altri. Il giudice Pace che aveva fissato a 120 giorni la prima udienza del processo contro la cooperativa “Bau Bau”. Gli altri operatori che mal tolleravano il tempo dedicato all’elegante fascinosa signora dal loro capo, prima fra tutti Luisa Tigli mossa anche da malcelata gelosia giustificata dalla fama equivoca della first lady.

Rassicurata sull’atteggiamento non giudicante di Carlo, così aveva iniziato a chiamarlo, riprese la narrazione. Il difetto della terapia che Olga praticava era che non portava ad una risoluzione definitiva e dunque andava continuamente ripetuta. In taluni casi addirittura sembrava determinare una certa assuefazione ed andavano aumentate le dosi con crescita insostenibile del lavoro anche considerato che lei era l’unica terapista in circolazione. Colse quasi un segno del destino nel fatto che anche la seconda svolta avvenne grazie al signor Aurelio Vincenti dal quale tutto era iniziato. In una notte in cui era particolarmente tormentato dai dolori alla schiena Olga gli somministrò evidentemente un’ overdose. Alla sesta somministrazione dopo una pausa di mezz’ora dalla precedente avvertì che Aurelio aveva depositato nella sua bocca qualcosa di più del consueto appiccicume. Bastò scuoterlo per rendersi conto che si trattava dell’anima. Il volto di Aurelio si compose in un sorriso rilassato che non lo avrebbe più lasciato. Ecco l’intuizione! La morte dava quella pace risolutiva che l’orgasmo lascia solo intuire fuggevolmente.

Si aggiunga il vantaggio che non necessitano ripetuti trattamenti e quindi anche da sola avrebbe potuto coprire il fabbisogno. Per i piccoli della lungodegenza pediatrica si orientò sull’abbraccio assoluto. Faticoso con i più grandicelli consisteva in una progressiva stretta che esitava in un blocco respiratorio o in una frattura vertebrale. Pensava che il piccolo comunque avrebbe sperimentato un vissuto di affetto avvolgente e protettivo. Più facile per gli anziani era il tradizionale metodo del cuscino. Per non lasciare sempre le stesse tracce talvolta usava il warfarin aggiunto con una siringa alla flebo. Nelle notti invernali particolarmente gelide aveva tentato la finestra spalancata togliendo coperte e lenzuola ma non era immediato e tanto meno certo. Un vecchiaccio con la polmonite si era ripreso in ospedale e rischiava di rivelare tutto se non fosse prontamente intervenuta con il supplemento del cuscino.

Olga concluse la sua rassegna dei metodi con quelli escogitati per l’utenza più difficile, gli adolescenti di “Controcorrente”. Per loro aveva prodotto delle pasticchine di Tanax, procuratogli da un suo ex amante veterinario (probabilmente convinto di por fine all’attuale governo comunale). Alcuni le consumavano direttamente, per altri doveva scioglierle nella birra o imbeverci alcune foglie di cannabis che poi venivano fumate. Queste cose probabilmente erano già a conoscenza dell’autorità giudiziaria e non spettava a Biagioli accertarle. A lui veniva chiesto se la signora Simoni era nel momento in cui le compiva in grado di intendere e di volere e se c’era pericolo di reiterazione dei fatti. Registrò con il permesso di Olga la seduta in cui indagò il vissuto soggettivo della paziente per riportarne il trascritto nella stessa perizia.

Olga ricordava vagamente i singoli episodi. Sembrava raccontasse un sogno sbiadito. Il suo pensiero era concentrato sulla necessità di far cessare la sofferenza. I gesti dopo la prima volta andavano in automatico. Non provava piacere, nè un senso di onnipotenza. Compiuto il lavoro sentiva che tutto era al proprio posto, esattamente come quando faceva sesso. L’unico senso di colpa che conosceva era quello nei confronti dei genitori per non averli esentati dal dolore per la perdita di Ginetto ma era troppo piccola.

La conclusione della perizia di Biagioli sosteneva che nel momento dei fatti la signora Simoni non era in grado di intendere e di volere e dunque non imputabile. Inoltre a suo avviso la consapevolezza che la signora aveva acquisito durante il lavoro di valutazione per la perizia escludevano la probabilità del ripetersi dei fatti e dunque non si ritenevano necessarie misure cautelari. Si consigliava altresì il proseguimento di un lavoro psicoterapeutico al quale si era cercato di motivare l’interessata. Il giorno dopo la sentenza Olga Simoni telefonò a Biagioli per comunicarle la sua imminente partenza per una missione umanitaria in Burkina Faso e, contrariamente a molti politici che lo dichiarano semplicemente, partì davvero. Circa ogni mese arriva al CIM una cartolina che staziona in bacheca fino alla successiva con scritto “tutto bene!”. Anche Gaetano Esposito che non è stato rieletto si è dedicato al volontariato.

 

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Il ruolo del supporto sociale in un gruppo di giovani madri adolescenti

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Il ruolo del supporto sociale in un gruppo di giovani madri adolescenti

Autrice: Erika Leoni (Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’)

Abstract

È documentato che i genitori adolescenti seguono traiettorie di sviluppo differenti rispetto ai loro pari sia prima che dopo la nascita dei loro figli. Questi giovani genitori devono affrontare sfide uniche, come il fronteggiare i compiti evolutivi adolescenziali e le nuove responsabilità connesse alla genitorialità. Non sorprende, ci sono effetti negativi sulla prole che possono essere ricondotti a fattori presenti prima della nascita, così come l’ambiente genitoriale fornito dai giovani genitori. Abbiamo somministrato strumenti riguardanti lo sviluppo di se stessi, la propria percezione nel ruolo genitoriale, la percezione della disponibilità e della soddisfazione relativa al supporto sociale ricevuto e la percezione delle difficoltà emotive comportamentali dei propri figli a 11 madri adolescenti. I risultati hanno confermato che queste madri adolescenti hanno mostrato difficoltà con i loro bambini e più elevati livelli di stress.

English abstract

There is evidence that teenage parents are on different trajectories than other adolescents, before and after the birth of their children. These young parents face unique challenges, such as juggling adolescent developmental tasks with new parenting responsibilities. Not surprisingly, there are negative effects on offspring that can be traced to factors present before the birth as well as the parenting and home environment provided by the young parents. 11 adolescent mothers completed measures of adolescent self-development and motherhood, perceived availability and satisfaction with social support, emotional and behavioral characteristic of their children and mother-child interactions, combining qualitative and quantitative methods. The data confirmed that these adolescent mothers showed difficulty with their infants and higher levels of stress.

 

 

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Irene Rossi

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La ricerca in oggetto è stata condotta su persone anziane che dovevano completare compiti cognitivi mentre pedalavano su una cyclette. Ciò che è stato osservato dai ricercatori è un rilevante miglioramento nella velocità della pedalata senza che ciò andasse a discapito della prestazione ai compiti cognitivi.

Un nuovo e recente studio, pubblicato il 13 Maggio sulla rivista Plos One e condotto all’Università della Florida, sfida l’idea comunemente diffusa che svolgere due attività contemporaneamente ci porti a farle male entrambe.

La ricerca in oggetto è stata condotta su persone anziane che dovevano completare compiti cognitivi mentre pedalavano su una cyclette. Ciò che è stato osservato dai ricercatori è un rilevante miglioramento nella velocità della pedalata senza che ciò andasse a discapito della prestazione ai compiti cognitivi.

La scoperta è stata nella realtà dei fatti una sorpresa per i ricercatori del team. Originariamente l’obiettivo dello studio era quello di stabilire il grado di deficit nelle prestazioni di doppio compito nei pazienti affetti da sindrome di Parkinson, confrontandoli con la prestazione di anziani sani che fungevano da gruppo di controllo. Tutti gli studi condotti sino ad ora e presenti in letteratura mostrano che quando le persone eseguono due compiti contemporaneamente la prestazione peggiora. Tutti noi abbiamo avuto modo di osservare le numerose persone che per strada rallentano la camminata, nel momento in cui estraggono il cellulare dalla tasca.

Durante lo studio 28 pazienti con malattia di Parkinson e 20 anziani in salute hanno dovuto completare 12 compiti cognitivi in due diverse situazioni: mentre erano seduti in una stanza tranquilla e mentre pedalavano. La difficoltà dei compiti che dovevano svolgere andava dalla semplice richiesta di pronunciare la parola “go” nel momento in cui era presentata una stella blu fino al compito più difficile in cui dovevano ripetere una lista sempre più lunga di numeri in ordine inverso rispetto a quello in cui erano stati presentati. Nel frattempo un sistema di rilevazione del movimento registrava la velocità della pedalata.

È stato quindi osservato che la velocità di pedalata dei partecipanti aumentava all’incirca del 25 percento mentre eseguivano semplici compiti cognitivi, con il miglior aumento durante i primi 6 compiti più semplici, mentre poi rallentava man mano che i compiti diventavano più difficili. Nello specifico il compito più difficile riportava i partecipanti alla velocità cui pedalavano prima di iniziare i compiti cognitivi.

La ragione dell’effetto facilitante del multi-tasking probabilmente coinvolge numerosi fattori che dovranno essere approfonditi in futuro, tuttavia il gruppo di ricerca ha ipotizzato come probabile spiegazione l’interazione degli effetti dei meccanismi di arousal cognitivo e fisiologico.
In particolar modo il gruppo di studio suggerisce che dover affrontare due compiti contemporaneamente viene percepito come una situazione altamente sfidante, il che comporta un incremento di arousal nella persona.

La conseguenza a livello cerebrale è un rilascio di dopamina, norepinefrina ed epinefrina che migliorano la velocità e l’efficienza del cervello, in particolare nei lobi frontali. Questi effetti aumentano la disponibilità di risorse cognitive supplementari che facilitano la performance sia nei compiti motori che in quelli cognitivi con effetto di rinforzo reciproco.

Di conseguenza quando l’aumento di risorse attentive dovuto all’attività motoria e cognitiva si incontra con la domanda combinata dei due compiti la performance può essere mantenuta senza alcun costo in entrambi. Il costo per il doppio compito si manifesta solo quando l’arousal addizionale non fornisce risorse sufficienti, viceversa quando la domanda è minore di quella prevista possiamo avere un vantaggio nei due compiti, esattamente come è stato rilevato.

Questo modello è coerente anche con il comportamento osservato nei pazienti con Parkinson, i quali avevano velocità di pedalata globalmente più lenta dei soggetti sani, associata ad un minor incremento di velocità durante i compiti cognitivi semplici. Questo può essere spiegato dal fatto che tale malattia porta a deterioramento degli input dopaminergici ai lobi frontali e alle regioni sottocorticali, cosa che influenza di conseguenza i livelli di norepinefrina ed epinefrina ed interferisce con l’aumento delle risorse cognitive per effetto dei meccanismi di arousal.

I risultati ottenuti dallo studio in oggetto suggeriscono quindi la possibilità di combinare attività cognitive semplici ed attività motoria per massimizzare gli effetti di miglioramento in entrambe.

 

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Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza

Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza
Roma 3-6 Novembre 2015

Relatore: Daniel Le GRANGE, Ph.D., University of California

Direttore scientifico: Dott. Armando COTUGNO

WORKSHOP PROMOSSO DALLA ASL ROMA E

IN COLLABORAZIONE CON L’ ASSOCIAZIONE FENICE LAZIO ONLUS

 

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Depressa da morire: è concepibile l’eutanasia per casi di depressione?

Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo.

Entro la fine dell’estate una ragazza di 24 anni che chiameremo Elena morirà di depressione. In Belgio. Non si parlerà di tentato suicidio perché non ci sarà nulla di tentato, ci sarà anzi un’iniezione letale che le verrà somministrata in una stanza che Elena ha già scelto, così come i funerali e la bara.
Elena ha avuto una brutta storia, una brutta vita, niente di promettente. Come purtroppo se ne sentono diverse. Papà alcolista e violento, genitori separati e assenti, infanzia con i nonni e primi pensieri suicidari a soli 6 anni.

Elena però, intervistata, dice che non se la sente di attribuire le sue difficoltà alla sua storia familiare: secondo lei, semplicemente non ha mai voluto vivere e questo sarebbe successo a prescindere dalle difficoltà in casa. La vita di Elena prosegue poi costellata di ricoveri in diverse cliniche, tutti per depressione, tutti senza buon esito. Al chè, la ragazza inizia a pensare di avere dentro di sé qualcosa di strano, che non le permetterà mai di stare bene, o anche solo di stare meglio: di guarire non se ne parla neanche. Un giorno Elena viene a conoscenza della possibilità di praticare l’eutanasia non solo sui malati terminali, ci pensa e consulta diversi professionisti; dichiara che è stanca di combattere, che combatte quotidianamente da una vita, che questi 24 anni sono stati un’eternità, che è stanca. Tre diversi medici danno il loro parere favorevole a questa proposta e valutano Elena come perfettamente in grado di prendere questa decisione serenamente, come “persona equilibrata”, e secondo le procedure stabilite dalla legge le aprono le porte verso questa ultima decisione.

Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo. Negli anni i criteri della legge sull’eutanasia si sono aggiustati fino a consentire la morte non solo delle persone gravemente malate e in fin di vita, ma anche di quelle che “soffrono in modo insopportabile”.

Il problema è: cosa vuol dire “insopportabile”? La valutazione di “sopportabilità” fatta da una persona depressa è attendibile? D’altro canto, può una persona esterna valutare quanto una situazione emotiva interna a un altro individuo sia sopportabile? Quella di una persona depressa è una scelta libera o è dettata dall’umore?

Sono interrogativi difficili, che da una parte muovono la coscienza civile e morale e dall’altra ci spaventano perché ci fanno sentire la morte davvero molto a portata di mano. Quante volte un paziente depresso ci ha parlato di idee suicidarie o ha addirittura tentato di uccidersi? Quante volte poi abbiamo visto lo stesso paziente stare prima meglio, poi addirittura bene, aiutato dalla psicoterapia, dai farmaci e da un contesto di vita diverso?

E se lo stesso paziente avesse deciso per l’eutanasia proprio nel momento più nero, cosa sarebbe successo? Avrebbe gettato la spugna forse troppo presto, avrebbe seguito la mancanza di speranza e la difficoltà di progettazione che sono tautologicamente parte dello stato depressivo. Forse scegliere l’eutanasia per una persona depressa è frutto della patologia stessa, come per un paziente maniacale avere un senso esagerato di onnipotenza. E questo è un dato.

Poi però ci vengono in mente anche tutti quei pazienti che sono depressi in modo cronico, che nell’ipotesi migliore hanno un periodo di “minore sofferenza”, ma che davvero non possono dire di stare bene. Ecco, questi pazienti ci mettono più in crisi, perché non reagiscono in modo significativo alla terapia, come ai farmaci e a tutti i tentativi che i familiari o chi per loro possono fare. Per loro ha senso gettare la spugna? Soffrono in un modo diverso da come soffre un malato terminale?

Forse la parte che andrebbe maggiormente chiarita è quella che si riferisce alla lucidità della persona gravemente depressa, che ci porterebbe a valutare come attendibili le scelte compiute in uno stato emotivo che di per sé non porta all’attendibilità. Diciamo spesso ai pazienti che la depressione è una specie di occhiale scuro, che ci fa vedere tutto nero, cerchiamo di insegnare ai pazienti a prendere le distanze dalle proprie valutazioni, a non credere troppo ai loro pensieri che sono appunto frutto di una distorsione negativa e pessimista. Nel massimo rispetto della libertà individuale, bisognerebbe forse tenere a mente che anche la decisione di farla finita una volta per tutte, tramite l’eutanasia, è frutto dello stesso sistema di valutazione e decisione, e che gli occhiali neri ancora sono sul naso.

 

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Sillabando: un’app per potenziare la via fonologica della lettura

Sillabando è una nuova app che permette di allenare la capacità di riconoscimento della struttura sillabica delle parole, migliorando così sia la velocità sia la correttezza della lettura.

Si tratta di un tipo di training molto utile soprattutto per i bambini delle prime classi elementari, che stanno imparando a leggere. Inoltre, gli esercizi proposti da questa app possono essere di aiuto anche per i bambini più grandi, per migliorare nella lettura e nell’ortografia. Infine, ma non meno importante, questi esercizi, basati sulla presentazione tachistoscopica degli stimoli, sono adatti anche per pazienti con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA).

La ‘lettura tachistoscopica’ si basa sulla presentazione temporizzata degli elementi, sillabe o parole, per intervalli di tempo definiti e decrescenti, con lo scopo di sviluppare le abilità connesse con la decodifica e ricodifica del testo scritto.

Alla base del funzionamento di questa app, c’è l’idea che tempi elevati di permanenza degli stimoli scritti sullo schermo favoriscano, nella lettura, la ‘via fonologica’, sub-lessicale, in cui l’utente legge lettera per lettera, convertendo i singoli grafemi nei fonemi corrispondenti. La via fonologica si attiva, in genere, nella lettura di non-parole o di parole nuove. Al di sotto di certe soglie di tempo, invece, è possibile utilizzare solamente la ‘via lessicale’ di lettura, in cui l’utente legge gli stimoli a livello globale, attraverso l’attivazione dei lessici e delle conoscenze semantiche. E’ proprio la stimolazione della modalità globale e visiva di lettura l’obiettivo principale degli esercizi proposti da Sillabando. Questa modalità di decodifica degli stimoli scritti tende a strutturarsi autonomamente a partire dalla terza elementare, per poi integrarsi e armonizzarsi con l’altra modalità, quella fonologica. Tuttavia, la modalità visiva rischia di rimanere deficitaria negli anni scolastici successivi.

Tutti gli esercizi considerano la sillaba, e non la singola lettera, come elemento di base su cui i bambini costruiscono ed esercitano le proprie abilità di lettura. In questo modo, si facilitano alcuni processi cognitivi tipici dell’attività di lettura, come la memorizzazione e associazione dei suoni delle sillabe.

Sillabando fornisce un’ampia gamma di esercizi, oltre ottanta, che si distinguono per livello di difficoltà dello stimolo (ad esempio parole bisillabe o trisillabe) e per tempo di esposizione dello stimolo (in genere decrescente, all’interno dello stesso esercizio). Gli esercizi sono strutturati a partire dall’esposizione dello stimolo (sillaba o parola) che rimane esposto per un tempo limitato e pre-impostato. Successivamente, l’utente dovrà riscrivere lo stimolo appena letto. In questo modo l’applicazione riesce a valutare la correttezza dell’esecuzione e costringe il bambino ad esercitarsi anche nell’analisi fonemica, oltre che nella memorizzazione.

Tutti i risultati degli esercizi svolti sono registrati e sempre consultabili, anche rispetto a training precedenti.
L’applicazione permette anche di settare alcune preferenze, utili per adattare maggiormente gli esercizi alle proprie esigenze. Ad esempio è possibile scegliere la funzione del ‘mascheramento percettivo’, per ridurre l’effetto di persistenza retinica dello stimolo visivo. Oppure è possibile aiutare l’utente a focalizzare l’attenzione sullo stimolo con la funzione ‘puntatore’.

Dopo ogni risposta, compare un’animazione giocosa, come feedback per l’utente. E’ proprio la parte ‘giocosa’ a poter essere migliorata e resa più chiara e, di conseguenza, più efficace.

A livello tecnico, invece, sarebbe interessante la possibilità di creare un profilo ‘tutor’, distinto da quello del bambino, per impostare le giocate e consultare i risultati, soprattutto in un’ottica riabilitativa.

Sillabando rappresenta un’ottima soluzione che, a partire da fondamenti scientifici, sfrutta le potenzialità delle nuove tecnologie per presentare esercizi il più possibile adattabili al tipo di utente e al contesto d’uso.

 

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Le ventisette fasi dell’amore – VIDEO

Tutto accade in un’unica stanza, metafora della vita di coppia: la camera da letto. I corpi semi-nudi dei protagonisti sostituiscono le parole, le immagini appaiono autentiche e con una forte componente evocativa.

In questo cortometraggio il regista Diego Perez mette in scena una storia d’amore e la suddivide  in ventisette fasi.

Tutto accade in un’unica stanza, metafora della vita di coppia: la camera da letto. I corpi semi-nudi dei protagonisti sostituiscono le parole, le immagini appaiono autentiche e con una forte componente evocativa. I dialoghi sono essenziali, mentre le immagini simboleggiano le varie fasi dell’innamoramento, dalla ricerca costante del corpo dell’altro, alla necessità di riconquistare i propri confini. A volte, come accade ai protagonisti del video, questo passaggio può essere molto delicato e talvolta insuperabile.

Riappropriarsi dei propri spazi, sia reali che metaforici, è però un’evoluzione sana per la coppia e per il benessere dei partner, tanto quanto può esserlo la conquista delle lenzuola e della propria porzione di letto. Se quindi possiamo ipotizzare che le prime fasi accomunino tutte le storie d’amore, rimane la speranza che non tutte arrivino fino alla numero 27.

 

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Lo sport che fa bene ad ogni età: bisogni, esigenze e motivazioni connesse all’attività sportiva nelle diverse fasi di crescita

Marta Bugari – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  

Allo sport ci si può avvicinare in qualsiasi momento con esigenze e spinte motivazionali che cambiano in relazione alla tipicità della fascia d’età in cui ci trova, è quindi molto importante che l’ambiente sportivo in cui sono inseriti i giovani atleti sia focalizzato sul rispetto degli stadi di sviluppo.

Perché alcuni atleti sono molto motivati mentre altri non lo sono? Cosa devo fare per motivare gli atleti a impegnarsi sempre al massimo delle loro abilità? Perché questo ragazzo che sarebbe un vero talento s’impegna meno degli altri e sembra svogliato?

La comprensione dei processi motivazionali implicati nella pratica sportiva è senza dubbio uno dei temi che suscita molto interesse tra gli psicologi dello sport. La Psicologia dello Sport studia come la partecipazione allo sport possa accrescere lo sviluppo personale ed il benessere di coloro che praticano le varie forme di attività fisica, sia per piacere personale e sia a livello di élite in attività specifiche. A livello agonistico questa disciplina è focalizzata sui processi psicologici che guidano la prestazione sportiva, i modi attraverso cui può venire stimolato l’apprendimento e l’incremento delle prestazioni, come possono essere efficacemente influenzate le percezioni psicologiche e ottimizzati i risultati di coloro che praticano le diverse forme dell’attività fisica.

Nello sport giovanile il fenomeno dell’abbandono sportivo e lo stile di vita sedentario, sempre più diffusi tra i giovani, sono fenomeni sociali da contrastare e molto spesso, conoscere i motivi che allontanano dallo sport non basta per impostare efficaci programmi di prevenzione dell’abbandono, bisogna individuare le ragioni che favoriscono il coinvolgimento sportivo e mantenerle attive nel tempo. Infatti i programmi sportivi orientati solo all’ottenimento dei risultati e che non tengono in considerazione la complessità della motivazione favoriscono infatti il fenomeno dell’abbandono precoce (Cei,1998).

Nello sport giovanile, il tema della motivazione assume una forte rilevanza perché in particolare nel periodo adolescenziale si gettano basi importanti in vista di una eventuale carriera agonistica futura e quando questa esperienza iniziale è gestita adeguatamente all’età, può aiutare i ragazzi a sviluppare caratteristiche positive di personalità come l’autonomia, la consapevolezza dei limiti personali e la cooperazione (Bordoli, Robazza, 2000). Allo sport ci si può avvicinare in qualsiasi momento con esigenze e spinte motivazionali che cambiano in relazione alla tipicità della fascia d’età in cui ci trova, è quindi molto importante che l’ambiente sportivo in cui sono inseriti i giovani atleti sia focalizzato sul rispetto degli stadi di sviluppo.

Generalmente il bambino piccolo (5-10 anni) si avvicina a uno sport perché vuole giocare, entusiasmarsi, sperimentare il proprio corpo e le abilità acquisite fino a quel momento.

In queste fasi il bambino non è ancora dotato di pensiero astratto, reagisce solo a ciò che è reale, concreto, presente e che appaga subito. Non programma, non fissa obiettivi troppo lontani e coglie soltanto le sollecitazioni del momento.
Non risponde a richieste troppo lontane o ai sentimenti come il senso del dovere o il gusto di imparare. Per loro i bisogni importanti corrispondono al trarre piacere dall’azione sportiva giocando, scaricare le energie attraverso il movimento e saper vivere in gruppo. Da un’analisi condotta da Alberto Cei su fasce di giovani atleti nella pratica del calcio è emerso che ben il 49% dei bambini tra gli 8 e i 10 anni e il 10,3% di quelli tra i 3 e i 5 anni gioca a calcio con continuità. Negli sport di gruppo, come il calcio, ai bambini è richiesto un particolare impegno cognitivo e la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro (Cei, 2005).

Il processo di anticipazione motoria si basa sull’abilità di saper prevedere ciò che il nostro avversario sta per fare e i bambini di 6-7 anni hanno difficoltà ad assumere questo punto di vista. Le ricerche hanno confermato che questa capacità si afferma in maniera completa tra gli 8 e i 10 anni e a questo proposito, una possibile ragione di abbandono sportivo, si presenta nei casi in cui gli allenatori e i genitori si aspettano dai giovani atleti più di quanto gli sia consentito dal loro sviluppo cognitivo. I bambini tra i 6 e i 7 anni, possono sperimentare una notevole frustrazione e sentirsi non apprezzati o poco capiti dagli adulti che richiedono lo svolgimento di compiti superiori alle loro capacità attuali anziché stimolare l’entusiasmo e il piacere che essi traggono dal movimento (Cei, 2005). Si capisce quindi quanto sia importante conoscere cercare e comprendere quali siano i fattori che aiutano i ragazzi ad affrontare un’esperienza sportiva in modo costruttivo e duraturo nel tempo consentendo di ricavarne soddisfazione e divertimento al tempo stesso (Bordoli, Robazza, 2000).

Bloom (1985) ha condotto una ricerca in cui ha studiato per diversi anni come si era sviluppato il talento di un gruppo di 120 atleti di alto livello ed ha evidenziato che nella fase iniziale della loro carriera sportiva ciò che risultava dominante era la componente ludica dell’attività che in tal modo aveva consentito di mantenere livelli di motivazione elevati nello svolgimento dello sport scelto. Questo approccio era stato sostenuto anche dal comportamento degli allenatori che avevano premiato principalmente l’impegno dei bambini piuttosto che i risultati ottenuti (Cei 2005).

Negli anni successivi (11-14 anni) il giovane familiarizza con il pensiero astratto e desidera vedere fin dove può arrivare, può programmare e fissarsi obiettivi a lungo temine e s’impegna nella cooperazione mentre l’adolescente (15-20 anni) può preparare gli stadi più elevati della professionalità e vivere già il ruolo di adulto (Prunelli, 2002).

L’adolescenza è quel periodo di transizione in cui non si è più bambini ne si è ancora adulti e il compito universale dell’adolescente è individuare la sua personalità per preparare il passaggio dalla dipendenza dei genitori all’autonomia.

Durante l’adolescenza, si assiste sul piano cognitivo una forte carica intellettuale sviluppata in senso critico e a un elevato entusiasmo per esperienze molto diverse che, in ambito sportivo, si manifesterà nel soppesare le situazioni e le strategie di gara, le tecniche di allenamento, i rapporti con gli allenatori mentre il bisogno di fare esperienze diverse troverà soddisfazione nella pratica delle varie discipline, individuando allo stesso tempo nuovi percorsi verso obiettivi più precisi (Giovannini, 2002). Lo sport allena all’iniziativa, alla responsabilità, spinge alla socializzazione e alla cooperazione, insegna a pensare, valutare e proporre. Ha rivelato possedere grandi potenzialità educative al pari della famiglia e della scuola ma con il vantaggio di educare col gioco e insegnare divertendosi al punto che oggi si configura come un ambiente di apprendimento alternativo per tanti adolescenti, capace di trasmettere valori e principi che formano e strutturano la personalità.

Come afferma Lidz (1963), dal momento che nell’adolescenza si verifica la scoperta di un’identità individuale collocata esternamente all’ambito familiare, l’approdo a un gruppo sportivo può essere da un lato un mezzo utile per conoscere questa nuova identità grazie anche alla maggiore autonomia di cui si può godere mentre dall’altro essere parte di un gruppo è un momento importante di socializzazione per l’adolescente che suscita sentimenti di accettazione e integrazione importantissimi in un periodo dello sviluppo caratterizzato da dubbi e incertezze sul sé (Giovannini, 2002).

Far parte di un ambiente sportivo favorirà l’adolescente nella realizzazione della socializzazione secondaria: trovandosi a interagire con diverse figure adulte che rappresentano i principali sostituti delle figure genitoriali in un contesto emotivamente più neutro rispetto a quello familiare, entrerà a far parte di un gruppo che consente l’instaurarsi di relazioni che hanno diversi livelli di coinvolgimento e la sperimentazione di nuovi ruoli sociali (leader, gregario ecc..) (Giorgi, Tortorelli, Grifoni, Fiorineschi, 2004). Il gruppo sportivo rappresenta inoltre un contesto in cui la competizione è ammessa, anche se sublimata, favorendo sentimenti di antagonismo nei confronti degli avversari e la coesione all’interno del contesto di appartenenza (Giovannini, 2002).

Sul piano socio-affettivo e relazionale, la figura dell’allenatore assume il ruolo di guida capace di ascoltare, dare consigli valorizzando e apprezzando l’adolescente, convogliando le sue energie, la sua esuberanza e il suo desiderio di cambiare verso obiettivi sportivi nuovi oltre che appaganti (Giovannini, 2002).

L’allenatore inoltre, grazie a un bagaglio formativo ed esperienziale specifico, agisce sulla personalità dell’atleta lasciando spazio alla sua creatività, alle sue iniziative senza determinare alcuna scelta e facendo si che si assuma le sue responsabilità con lo scopo finale di promuovere la crescita dell’atleta nella sua complessità (Prunelli, 2002). Ragazzi e ragazze fanno sport per un insieme abbastanza ampio di ragioni, alcune relative allo sviluppo delle competenze sportive e al piacere di confrontarsi con i coetanei, altre riguardano il bisogno di stare con gli amici e spendere energia attraverso l’azione fisica.

Da alcune ricerche fatte su ragazze e ragazzi di età compresa tra i 12 e i 16 anni è emerso che per le ragazze praticare sport era motivato da alcuni fattori importanti come: divertirsi, imparare nuove abilità, gareggiare, far parte di una squadra e trarre piacere dalle sfide. Per i ragazzi fattori simili sono prioritari ma con una differente ordine gerarchico; il piacere per le sfide, divertirsi, gareggiare e imparare nuove abilità. Un dato particolarmente significativo è che l’elemento più importante da soddisfare per ambedue i sessi sia il miglioramento della propria competenza sportiva cioè il desiderio di diventare molto bravo in uno sport, apprendere qualcosa di specifico attraverso un azione sportiva indipendentemente dei premi o le ricompense ottenute: i giovani scelgono uno sport in quanto vogliono ad esempio imparare a correre, fare canestro, saltare in alto o andare sugli sci (Cei, 1998).

Grazie a una serie di ricerche (Cei, 2005) è stato possibile rilevare i principali fattori motivazionali che emergono da tutte le analisi e che sono comparabili con quelli proposti dalla letteratura internazionale. Essi sono:

  • Acquisizione di status: il desiderio di essere popolare, diventare importante, farsi notare dagli altri, raggiungere i più alti livelli, trarre piacere dalle sfide, gareggiare e fare qualcosa in cui si è bravi, ricevere premi o medaglie. Questa dimensione è costituita per la maggior parte da fattori esterni al soggetto, mentre solo una (trarre piacere dalle sfide) si riferisce a fattori interni al giovane e completamente dipendenti dal suo modo di agire.
  • Forma fisica e abilità: sentirsi in forma, essere fisicamente attivo, acquisire e migliorare le proprie abilità e divertirsi nel fare esercizio. Negli anni precedenti, la forma fisica e l’acquisizione delle abilità non sono percepiti come fattori correlati, mentre a partire dai 14 anni questi giovani atleti acquisiscono consapevolezza su quanto ognuno di questi aspetti siano fortemente collegato l’uno all’altro tanto da costituire un unico fattore motivazionale. Questo faciliterà un maggiore impegno dovuto alla convinzione che la componente fisica partecipa al miglioramento della componente tecnico-tattica.
  • Squadra: il desiderio di far parte di una squadra, lo spirito di squadra, il lavoro di squadra e il desiderio di vincere. Emerge quindi come impegnarsi insieme ad altri coetanei nel raggiungimento di obiettivi agonistici e l’importanza di far parte di un collettivo unito sono gli obiettivi principali per raggiungere la vittoria.
  • Rinforzi estrinseci: il sostegno ricevuto dai genitori, dagli amici, la soddisfazione ricavata dal rapporto con l’allenatore nel sostenere l’attività e il piacere di utilizzare il materiale sportivo. Da questi dati si capisce che non solo i coetanei giocano un ruolo centrale nel sostenere la motivazione ma anche la funzione degli adulti è assolutamente importante. L’ambivalenza del rapporto con gli adulti, evidenziabile nella necessità di mantenere un legame costruttivo e la richiesta di maggior libertà, se ben orientata, può rappresentare un’opportunità di maturazione psicologica estremamente importante.
  • Amici/divertimento: il desiderio di divertirsi, il desiderio di stare con gli amici, di fare nuove amicizie e il desiderio di viaggiare. Sono evidenziati qui gli aspetti più tipicamente affiliativi dell’esperienza sportiva, di socializzazione al di fuori della famiglia e all’interno di un gruppo di coetanei. Questa dimensione non è connessa al raggiungimento di risultati sportivi.
  • Piacere per l’azione: il piacere tratto dall’azione in sé, dal gareggiare e praticare quell’attività sportiva. Questa componente motivazionale deve essere ben considerata dagli allenatori che dovrebbero chiedersi in che misura le sedute di allenamento soddisfano queste specifiche esigenze o se per favorire lo sviluppo tecnico, questi aspetti vengono trascurati.
  • Consumare energia: il bisogno di consumare energia, di entusiasmarsi e scaricare il nervosismo. Questa è una componente motivazionale strettamente collegata a quella precedente e la presenza di due fattori che riguardano la gestione delle sue emozioni (il bisogno di spendere energia e scaricare il nervosismo) tramite l’impegno sportivo, testimonia l’importanza di questi bisogni che devono essere riconosciuti e soddisfatti dagli adulti (genitori, allenatori) con i quali i giovani atleti si trovano ad interagire (Cei, 2005).

Nel gruppo dei più giovani (9-11 anni) è maggiormente dominante la dimensione affiliativa (fare sport con gli amici, incontrarne di nuovi e divertirsi), nelle fasce d’età successive emergono più forti il desiderio di eccitamento e di entusiasmarsi (12-14 anni) mentre solo successivamente (oltre 14 anni) si evidenzia il desiderio di raggiungere e mantenere la migliore forma fisica e la competenza sportiva. In riferimento a quest’ultima fascia d’età è stato riscontrato che i maschi nella loro pratica sportiva attribuiscono un importanza particolare all’Acquisizione di status, al vincere, ricevere premi mentre le femmine danno maggior importanza alla dimensione Amicizia/Divertimento e Forma fisica (Cei 2005).

Le dimensioni Squadra e Amicizia/Divertimento sono molto significative sia negli sport individuali che di gruppo. Da ricerche successive è emerso che nei più giovani l’affiliazione è uno dei fattori più rilevante mentre nelle età successive prevalgono il bisogni di eccitazione e l’acquisizione di competenze sportive.

Queste differenze sono addebitate alla evoluzione psicologica dei giovani che va da una fase in cui è fondamentale imparare a vivere in un gruppo ad un’altra in cui è maggiormente preminente il bisogno di spendere energia attraverso l’azione e di acquisire e migliorare le proprie abilità. Programmi d’allenamento che non tengono in considerazione il bisogno di stare con gli amici e l’esigenza di spendere energia attraverso l’azione fisica e divertirsi fanno si che, crescendo il livello agonistico, allo sport venga associata un’elevata ansia competitiva e scarsa motivazione interna alla pratica sportiva tali da determinare l’insorgenza di risvolti psicologici negativi di notevole peso per l’adolescente. L’esperienza di frequenti insuccessi sportivi uniti ad attribuzioni colpevolizzanti dei risultati negativi, riducono il senso di autoefficacia generando un vissuto di frustrazione caratterizzato da sentimenti aggressivi che possono rivolgersi internamente o verso l’esterno (Giovannini, 2002).

Anche i fattori sociali, come le elevate pressioni ambientali, l’eccessivo carico agonistico e di allenamento, la mancanza di rinforzi appropriati da parte delle figure di riferimento favoriscono l’insorgere di alcuni disturbi psicologici (disturbi d’ansia, del tono dell’umore, del ritmo sonno veglia) che possono confluire nella sindrome di burnout (perdita di interesse per l’attività svolta) o portare al drop-out (abbandono della pratica sportiva), fenomeno sempre più frequente tra gli adolescenti. Conoscere quindi la spinta motivazionale che determina e mantiene il coinvolgimento sportivo degli atleti è molto complesso e i fattori che la determinano devono essere tenuti presenti nei programmi di allenamento giovanile per incentivare i giovani atleti alla pratica sportiva (Giovanini, 2002). Numerosi studi hanno tentato di spiegare la persistenza dello sport e di abbandono in relazione alle caratteristiche psicologiche sottostanti degli sportivi.

E’ ampiamente condivisa l’idea che la motivazione sia una importante variabile che spinge all’iniziativa, verso una direzione con particolare intensità e quindi è un elemento chiave che può non lo solo facilitare la performance ma rendere l’esperienza sportiva più positiva (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010) . Anche se la motivazione è spesso trattata come un costrutto singolare, una riflessione superficiale suggerisce che le persone agiscono mosse da diversi tipi di fattori, con esperienze e conseguenze molto diverse. Ad esempio le persone possono essere motivate perché stimano una attività o perché vi è forte coercizione esterna (Ryan e Deci, 2000). Il confronto tra le persone la cui motivazione è interna e coloro che sono semplicemente mossi da un comando esterno rivela che i primi rispetto agli altri, hanno più interesse, entusiasmo e fiducia nella loro azione e questo a sua volta avrà un importante riscontro sull’azione stessa in quanto permette di realizzare prestazioni migliori, la persistenza e la creatività in esse (Deci & Ryan, 1991; Sheldon, Ryan, Rawsthorne, e Ilardi, 1997) un senso di vitalità (Nix, Ryan, Manly, e Deci, 1999), l’autostima (Deci & Ryan, 1995) e un benessere generale accresciuti (Ryan, Deci, e Grolnick, 1995), (Ryan e Deci, 2000).

Ryan e Deci (1985) hanno elaborato una importante teoria sulla motivazione: La teoria dell’autodeterminazione. Secondo i due autori esistono due principali tipi di motivazione: la motivazione intrinseca e la motivazione estrinseca.

Motivazione intrinseca ed estrinseca non sono indipendenti ma si trovano su un continuum che va dalla assoluta mancanza di motivazione (amotivation) al livello più alto di motivazione intrinseca. Un atleta motivato intrinsecamente deciderà di praticare un’attività sportiva per scelta personale, per il piacere di farlo, per l’appagamento e la soddisfazione che ne deriva senza spinte provenienti dall’esterno. L’atleta si impegnerà liberamente in attività che reputa interessanti e piacevoli, che offrano un’opportunità di apprendimento o di acquisire una competenza. Questa dimensione è caratterizzata da un locus of control interno e gli individui considerano le loro azioni auto -determinate e volitive (Un esempio è l’atleta che gioca a calcio perché prova interesse e soddisfazione nell’imparare nuovi movimenti con la palla) (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010).  Inoltre Vallerand et al. (2001) hanno sostenuto che ci sono tre tipi di motivazione intrinseca nel coinvolgimento sportivo che riguardano la motivazione verso esperienze stimolanti , per acquisire conoscenze e per realizzare le cose.

Gli atleti estrinsecamente motivati nello sport partecipano perché stimano i risultati associati che possono essere ricompense esterne come il riconoscimento pubblico o la lode (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010). Il coinvolgimento sportivo è dovuto a qualche incentivo esterno e lo sport rappresenta un mezzo per ottenere qualcosa che desiderano o evitare qualcosa di sgradito (ad esempio un atleta che partecipa alle Olimpiadi per ottenere una medaglia d’oro o il riconoscimento di uno status elevato). La motivazione estrinseca rappresenta la forma meno autodeterminata e implica forme di regolazione esterna.

Infine l’assenza di motivazione costituisce uno stato psicologico in cui le persone non hanno né un senso di efficacia né un senso di controllo rispetto al conseguimento di un risultato desiderato. Può essere quindi indicativa di un’alta probabilità di abbandono sportivo perché gli atleti non percepiscono una spinta né intrinseca né estrinseca a parteciparvi.

Ryan et al. in uno studio condotto nel 2002 su 281 ginnaste australiane trovarono che le atlete che avevano abbandonato lo sport avevano maturato motivazioni estrinseche nella spinta a partecipare, mentre quelle che avevano perseguito nella pratica del loro sport riferivano motivazioni intrinseche (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010). In un altro lavoro Pelletier e collaboratori (2001), hanno condotto due anni di studio prospettico per valutare la persistenza nel nuoto competitivo in un campione di 360 nuotatori canadesi prevalentemente adolescenti. Lo studio fu effettuato in tre fasi di raccolta dati per 22 mesi. Emerse come la decisione autonoma dei nuotatori di praticare lo sport era positivamente correlata con la motivazione intrinseca e che solo una piccola percentuale di motivazione era influenzata da fattori esterni rinforzanti.

La percezione da parte degli atleti di uno stile autoritario dell’allenatore fu associata con livelli più elevati di mancanza di motivazione e la sensazione di una forte spinta motivazionale proveniente dall’ambiente esterno. Livelli di motivazione intrinseca predissero la partecipazione al nuoto in due fasi di follow-up (10 e 22 mesi dopo) e questa dimensione fu significativa tra gli atleti che mantennero il loro impegno sportivo nel nuoto rispetto a quello che quelli che abbandonarono. (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010). Infine, un confronto significativo tra gli atleti che mantennero il loro impegno sportivo nel nuoto e quelli che abbandonarono, ha rivelato che i primi avevano una maggiore motivazione intrinseca e livelli inferiore di regolazione esterna e di demotivazione.

Alla luce di questi risultati è consigliabile che gli allenatori e i responsabili dell’insegnamento e della formazione con giovani atleti si impegnino nello strutturare programmi di allenamento che consentano di mantenere viva la loro motivazione e alta l’ auto-determinazione degli atleti nella pratica sportiva (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010).

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Creatività & rischio di schizofrenia e disturbo bipolare

Daniela Sonzogni  

FLASH NEWS

I geni legati alla creatività potrebbero aumentare il rischio di sviluppare la schizofrenia e il disturbo bipolare, questo in base a quanto emerge dalle nuove ricerche condotte dal gruppo di Robert Power presso l’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze al King College di Londra.

Anche se la creatività è difficile da definire a fini scientifici, i ricercatori considerano una persona creativa qualcuno che utilizza processi cognitivi che sono diversi dalle modalità di pensiero o espressione prevalente.

Schizofrenia e disturbo bipolare sono disturbi del pensiero e dell’ emozione, il che significa che questi mostrano alterazioni nell’elaborazione cognitiva ed emozionale.

Gli individui creativi sono stati definiti come appartenenti alle società artistiche nazionali di attori, danzatori, musicisti, scrittori. È stato a lungo ipotizzato che la creatività e la psicosi presentassero alcune analogie, con notevoli esempi di artisti come Vincent Van Gogh, che soffrivano di malattie psichiatriche.

Precedenti studi hanno dimostrato che i disturbi psichiatrici, in particolare il disturbo bipolare, tendono ad essere trovati nelle stesse famiglie in cui sono comuni le professioni creative. Tuttavia fin ora non era stato possibile individuare se questo era semplicemente dovuto a fattori ambientali condivisi e status socio-economico.

Lo studio ha testato se i punteggi di rischio poligenici per schizofrenia e disturbo bipolare fossero in grado di prevedere la creatività.
I punteggi più alti sono stati associati a persone appartenenti a una società artistica o una professione creativa, con punteggi a metà strada tra la popolazione in generale e quelli con i disturbi stessi.

Questi risultati avvalorano l’influenza diretta dei fattori genetici sulla creatività, in contrasto con l’effetto di condividere un ambiente con persone che hanno la schizofrenia e il disturbo bipolare.

Power ha spiegato che sapendo che i comportamenti sani, come la creatività, condividono la biologia di malattie psichiatriche si può ottenere una migliore comprensione dei processi di pensiero che portano una persona ad ammalarsi; inoltre i risultati suggeriscono che le persone creative possono avere una predisposizione genetica verso il pensare in modo diverso che se, combinato con altri fattori biologici o ambientali nocivi, potrebbe portare alla malattia mentale.

 

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Il rapporto tra creatività ed emozioni

BIBLIOGRAFIA:

  • Power, Steinberg, Bjornsdottir, Rietveld, Abdellaoui, Nivard, Johannesson, Galesloot, Hottenga, Willemsen, Cesarini, Benjamin, Magnusson, Ullén, Tiemeier, Hofman, van Rooij, Walters, Sigurdsson, Thorgeirsson, Ingason, Helgason, Kong, Kiemeney, Koellinger, Boomsma, Gudbjartsson, Stefansson, Stefansson. Polygenic risk scores for schizophrenia and bipolar disorder predict creativity. Nature Neuroscience, 2015

Ma questi giovani d’oggi! E se fossero sbagliati gli insegnamenti degli adulti?- Cinque consigli per i genitori

Abbiamo mai cercato di capire quanto i giovani e il loro sembrare non curanti e poco empatici non sia altro che il risultato di un passaggio scorretto di messaggi e insegnamenti da parte dei più grandi? 

Ogni generazione viene additata, da quelle precedenti, di essere portatrice di scarsi valori e di poco rispetto per gli altri, sembra quasi un ripetersi ciclico della stessa situazione: mia nonna diceva che noi giovani non abbiamo più a cuore i valori e anch’io spesso mi ritrovo, pur non avendo ancora tra le mani ferri e lana, a pensare ma questi ragazzi d’oggi quali ideali perseguono?

Eppure abbiamo mai provato a vedere la situazione da una prospettiva più ampia per cercare di capire quanto il loro sembrare non curanti e poco empatici non sia altro che il risultato di un passaggio scorretto di messaggi e insegnamenti da parte dei più grandi? In effetti è strano e alquanto ambivalente per un bambino o un ragazzo sentirsi dire Devi rispettare gli altri e, mentre è lì che offre questo insegnamento, magari il genitore manda una mail al capo nella quale parla male dei propri colleghi.

Cosa intendo dire con questo? Che in realtà potremmo passare, da adulti corretti e rispettosi quali crediamo di essere, dei messaggi ai nostri figli/cugini/nipoti senza però dar loro un esempio vero e concreto di come ci si comporti con gentilezza nella vita di tutti i giorni.

A conferma di quanto scritto, arriva uno studio di alcuni ricercatori di Harvard, i quali hanno intervistato ragazzi delle scuole medie e superiori.

Gli adulti pensano di dare ai giovani, come uno dei messaggi più importanti, il rispetto degli altri, ma cosa avranno colto davvero i ragazzi dagli insegnamenti dei più grandi?

I ricercatori hanno chiesto ai ragazzi quale sia la cosa più importante per loro tra il raggiungere elevate prestazioni, l’essere felici (sentirsi bene per la maggior parte del tempo) o il prendersi cura degli altri. Quasi l’80% dei ragazzi ha segnato come cosa più importante, l’essere in grado di raggiungere elevati standard e l’essere felici. Solo il 20 % ha scelto il prendersi cura degli altri.

Ovviamente questo dato non deve allarmarci e farci pensare a delle future personalità narcisistiche o antisociali, tuttavia, sempre nella stessa ricerca, è stato visto, a conferma del dato precedentemente illustrato, come i giovani mettano in atto comportamenti di scarso rispetto per gli altri come barare a un test o copiare i compiti dai compagni.

Per fortuna i ricercatori vengono incontro a tutti gli adulti con cinque semplici mosse da mettere in pratica per lasciar passare davvero il messaggio che prendersi cura degli altri è importante.

Consiglio a tutti la lettura dei cinque punti…chissà se dopo la lettura, avendo compreso finalmente quali sono gli errori dei più comuni, la famosa espressione Ma questi giovani d’oggi! non cambi in Ma questi adulti di oggi!

Ask parents how important it is to instill kindness in their kids, and most will rank it high: even as their very top priority, according to Harvard researchers. But children surveyed by the university’s Making Caring Common project said, overwhelmingly, that they were getting a different message.

Ma questi giovani d’oggi! E se fossero sbagliati gli insegnamenti degli adulti?- Cinque consigli per i genitori Consigliato dalla Redazione

Ma questi giovani d'oggi! E se fossero sbagliati gli insegnamenti degli adulti?- Cinque consigli per i genitori - Immagine: 62854425
I ricercatori di Harvard hanno indagato cosa i ragazzi percepiscano davvero dei nostri insegnamenti morali. Offrono così cinque suggerimenti per degli insegnamenti più corretti. (…)

Tratto da: Quartz

 

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