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La regolazione emotiva e la disregolazione – Introduzione alla Psicologia nr. 19

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (19)

 

 

La regolazione emotiva è volta a sostituire uno stato emotivo inadeguato alle circostanze che si vivono in quel momento con un altro più funzionale.

 

Col termine regolazione emotiva si è soliti fare riferimento a una serie di comportamenti messi in atto dall’individuo per regolare l’emozione provata in quel momento.

La regolazione emotiva è volta a sostituire uno stato emotivo inadeguato alle circostanze che si vivono in quel momento con un altro più funzionale.

Per questo motivo adattare le emozioni è un aspetto fondamentale per l’individuo non solo da un punto di vista sociale, ma anche relazione e soggettivo.

La regolazione emotiva è considerata pertanto un costrutto multidimensionale, caratterizzato da:

  • disponibilità a sperimentare emozioni negative o positive
  • consapevolezza, comprensione e accettazione dei diversi stati emotivi;
  • impegnarsi nel raggiungimento dell’obiettivo, in risposta ad emozioni sia positive che negative;
  • uso flessibile di strategie adeguate al contesto per modulare l’intensità e/o la durata della risposta emotiva,
  • spostamento e non soppressione l’emozione disfunzionale.

La presenza di carenze in una di queste aree sono considerate indici di difficoltà di regolazione emotiva. In questo caso si parlerà di disregolazione emotiva, ed è indice di psicopatologia (Gross e John, 2004).

Chi è in grado di riconoscere le proprie emozioni, capire come funzionano, dotarle di significato, usare l’informazione da loro derivante, e gestire l’esperienza, apparirà, dunque, più capace di rispondere efficacemente alle richieste e alle situazioni della vita quotidiana rispetto a chi non è in grado di farlo.

 

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Mindfulness: stato mentale o funzione della mente?

Commento di Andrea Bassanini all’articolo di Claudia Perdighe: Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?

Leggo con molto interesse l’articolo pubblicato in questi giorni su State of Mind “Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?” di Claudia Perdighe, con cui ho avuto il piacere di condividere la co-conduzione di un workshop ACT & Mindfulness nel 2014, e mi sento spinto a rispondere aggiungendo alcune considerazioni e alimentando la discussione su un tema, accettazione e mindfulness, a me molto caro e che continua a diventare più intricato in modo direttamente proporzionale con la sua diffusione nel mondo della psicoterapia.

Che la pratica della Mindfulness sia un potente strumento terapeutico ormai è un dato supportato da molti dati di ricerca (il testo citato dalla collega, Baer, 2012 lo dimostra)… Sul fatto che la pratica di mindfulness sia una procedura che faciliti il distanziamento dagli stati interni mi vengono in mente alcune prime considerazioni.

 

Il distanziamento nella mindfulness

Ciò che nella mia mente sta entrando con potenza mentre scrivo è Ma nell’esperienza della pratica non c’è distanziamento! E poi distanziamento da cosa? Dagli stati interni o dal grado di adesione e di identificazione con quegli stessi stati?

detto in altro modo: “Dal contenuto e dalla presenza di quegli stessi stati (che forse sarebbe un evitamento?) o dalla identificazione acritica e automatica con essi?”

Credo che questo sia un punto cruciale, che spesso porta con sé grandi fraintendimenti, soprattutto perché credo sia un concetto che vada oltre le facoltà della nostra mente concettuale, logica e narrativa e che richiede esperienza di pratica, conoscenza implicita e intuitiva per comprenderne il funzionamento. E questo sembra essere un primo paradosso della mindfulness…

 

La definizione di accettazione

Sono d’accordo che il concetto di accettazione sia complesso e molto articolato e che tutt’oggi non esista una definizione operativa univoca. Visto che tutti noi terapeuti, prima o poi, facciamo scelte sui riferimenti cui ispirarci, io prendo come riferimento la definizione di Steven Hayes, fondatore della Acceptance and Commitment Therapy, che definisce la accettazione come

“An adoption of an intentionally open, receptive, and flexible posture with respect to moment-to-moment experience. Acceptance is not passive tolerance or resignation but an intentional behavior that alters the function of inner experiences from events to be avoided to a focus of interest, curiosity and observation as part of living a valued life” (Hayes et al., 2012, p.6, credo che mantenere il testo in lingua originale permette di ridurre al minimo l’errore semantico nella traduzione…).

Fatico a intendere l’accettazione come una “rinuncia a opporsi, anche solo psicologicamente, a un evento interno o esterno”. Nella mia esperienza di pratica, che credo sia esperienza abbastanza condivisibile da chi pratica, l’accettazione riguarda più che altro l’impegno, l’intenzione, il prendere atto, il dirigere l’attenzione, il fare un atto di consapevolezza, il partecipare, il vedere e constatare le cose e gli eventi (anche e soprattutto quelli interni) per come sono, per come si presentano nel momento, cioè come oggetti dell’esperienza, come parte dell’esperienza del momento, in continua evoluzione per sua natura.

E qui ci troviamo di fronte ad un secondo paradosso, da cui, anche in questo caso, non credo si possa uscire con le nostre procedure “concettuali-logiche”: lascio andare deliberatamente uno sforzo, una lotta, come ad esempio il controllo o l’evitare a tutti i costi il dolore e le difficoltà, per trovarmi di fronte ad un’altra lotta, chiamiamola impegno e responsabilità, se quest’ultima è utile e funzionale alle cose che per me sono importanti (NON uso di proposito il termine “valori” perché a mio parere spariglia troppo le carte e connota il termine con significati che il termine inglese “value” non ha…).

Una lotta che ha a che fare con l’impegno dell’azione, la committed action per come viene chiamata nella ACT basata su ciò che per il singolo individuo ha peso nella vita, è importante.  

 

Accettazione vs scopi e obiettivi

Sebbene la terminologia scopistica non sia a me molto affine, nell’articolo della collega Perdighe viene fatto riferimento all’accettazione come ad un ultimo e finale “abbandono dello scopo”. Mi aiuta di più pensare a un investimento diverso delle risorse verso qualcosa che per l’individuo è più soddisfacente rispetto all’abbandonare qualcosa. Leggendo “abbandono” i pensieri saltano alla famosa frase di Russ Harris che chiama gli obiettivi nella forma negativa (ad es., NON provare più tristezza” come a “Dead Man Goals”, obiettivi da uomo morto… Nell’intendere l’accettazione come a una rinuncia si rischia, a mio parere, di connotare un processo vitale, energico e soddisfacente come se fosse una rassegnazione masochistica, da stoici, in cui nulla e niente mi tocca e faccio anche finta di non esserne ferito…

 

Stoicismo vs Buddhismo

Accostare gli stoici e Abhidharma (la psicologia buddhista, per come viene considerato in Occidente) mi lascia un senso di inquietudine e di ingiustizia che provo a trasformare in parole… Lo stoicismo, in breve, rientra nel campo delle filosofie razionaliste influenzate dal Cinismo, che professava un atteggiamento ramingo, indifferente alle emozioni e alla preferenze, in cui l’aspetto della vitalità, della partecipazione é pressoché assente.

Mettendo insieme questa mia visione semplicistica dello stoicismo e le definizioni di Mindfulness date dai suoi maggiori diffusori, ci troviamo di fronte a un fraintendimento che fa riflettere: Marlatt & Kristeller (1999): “portare la propria completa attenzione sull’esperienza vissuta nel presente, momento per momento”; Brown & Ryan (2003): “stato in cui si è attenti e consapevoli di quanto avviene nel momento presente”; Segal et al. (2002): “il focus dell’attenzione è aperto ad ammettere qualsiasi cosa entri nell’esperienza e che contemporaneamente un atteggiamento di gentile curiosità consenta di indagare qualsiasi cosa si manifesti, senza essere vittima di giudizi automatici o reattività” ; Kabat-Zinn (2003): “la mindfulness include una partecipazione affettuosa e compassionevole, una presenza e un interesse sinceri e amichevoli”; Carol Wilson (2004): “attenzione pienamente partecipatoria all’esperienza mentre essa accade”.

In queste definizioni non sembra essere presente quell’idea presente nell’immaginario collettivo del monaco ritirato in monastero che sfugge alla vita mondana. Nella concretezza della pratica di consapevolezza, che include sì i ritiri di pratica, il ritiro dalle attività quotidiane per periodo di tempo stabiliti e brevi è soltanto un mezzo, una condizione privilegiata grazie alla quale le abilità legate alla pratica possono essere allenate e migliorate, non una metà cui aspirare…

 

Cosa rende la mindfulness un intervento di psicoterapia?

E mi trovo ora a riflettere su un terzo paradosso, sollecitato dalla domanda inserita nell’articolo dalla collega Perdighe: cosa renda la mindfulness un intervento di psicoterapia? Paradosso perché la pratica della mindfulness, almeno per come era nelle intenzioni iniziali di Jon Kabat-Zinn è e dovrebbe rimanere in primis pratica di consapevolezza; che ciò sia terapeutico, in un senso forse diverso dalla concettualizzazione di terapia come di “riparazione di qualcosa che si è rotto” (citando Rachel Remen…), risiede nel fatto che la pratica della mindfulness, come molte altre terapie cosiddette di Terza Ondata, ha come obiettivo principale la flessibilità psicologica, la riduzione della rigidità degli schemi abituali di reazione e di funzionamento, partendo da una prospettiva di completa fiducia nelle risorse individuali per così dire “naturali”.

Questo, come scrive la collega, “apre la questione su cosa qualifica un intervento come psicoterapeutico, e la questione è certamente assai complessa e di non facile soluzione”, ma credo sia un argomento di importanza cruciale, in luce dei nuovi sviluppi della psicoterapia e più in generale della integrative mind-body medicine, che richiede a mio parere una riflessione sui nostri paradigmi di riferimento.

 

Mindfulness: stato mentale o processo della mente?

Un’altra questione che ha sollevato il mio interesse è la domanda inclusa nell’articolo in merito a “che tipo di stato mentale stiamo promuovendo nei nostri pazienti quando offriamo la mindfulness?” Credo sia importante riflettere sul fatto che la mindfulness sia davvero uno stato mentale. Diversi ricercatori che si occupano di studi sulla coscienza ritengono che la consapevolezza (cosiddetta mindfulness) di fatto non sia uno stato mentale bensì un processo, una funzione della mente “vuota” da un punto di vista del contenuto, e soprattutto da una connotazione valoriale (nel senso di ideologia) e piena dal punto di vista del contatto partecipato con l’esperienza.

Certo, il campo dello studio delle funzioni della coscienza spesso scollina nella filosofia ma può essere un valido sostegno a predisporre chi propone la pratica di consapevolezza in una prospettiva diversa, in cui non stiamo proponendo una visione del mondo, nemmeno un culto, e nemmeno una via nobile per diventare “buddhisti”, e nemmeno una visione ideologica fricchettona e New Age.

Stiamo proponendo un addestramento alla consapevolezza (obiettivo peraltro di moltissime psicoterapie, la consapevolezza…), perché la ricerca ci dice che è un mezzo utile e perché, ancor prima della ricerca, è una funzione che accomuna tutti gli esseri umani e che può essere allenata. Proporre un sistema di valori, nel senso ideologico del termine, credo sarebbe un illecito disciplinare che andrebbe molto oltre la nostra professione e che ci farebbe tornare indietro di almeno cento anni, non differenziando il nostro praticare come psicoterapeuti dal consulente spirituale, dal prete o dal Vecchio del villaggio, che dispensa consigli e “saggezze” a tutta la comunità.

 

Provo a ipotizzare una riflessione alla domanda del paziente indicata nell’articolo della collega Perdighe: “Capisco che imparare a prendere le distanze dalle mie ruminazioni e dalle mie ansie mi faccia star meglio, ma non è un ostacolo all’impegno massimo per i miei scopi? È sicura che sia meglio per me mirare alla riduzione dell’infelicità piuttosto che al perseguimento dei miei scopi?”

No, forse non è meglio! Vorremmo davvero passare la vita a impegnarci a ridurre l’infelicità? O forse sarebbe più soddisfacente ridurre la disidentificazione con i propri stati mentali e focalizzare l’attenzione su ciò che per me è importante, che sia raggiungibile, fattibile e vitale e impegnarci per questo?

 

“Che sistema di valori mi sta passando?” – Forse una risposta adatta dal mio punto di vista da istruttore mindfulness sarebbe: “Nessuno, stiamo allenando alcune funzioni, alcune abilità che ci permetteranno di essere più flessibili. Discutere di valori, nel senso di ideologia, non è compito di noi terapeuti, men che meno compito degli istruttori Mindfulness né dei terapisti ACT…” Sapere invece cosa per i nostri pazienti è importante, a cosa danno peso, come è la persona che vorrebbero essere sì, e a mio parere ha una importanza cruciale, in termini terapeutici e in termini relazionali.

Concludo questa breve riflessione citando Jon Kabat-Zinn, che nel 2003 scrive:

“Poiché è probabile che in futuro l’interesse per la mindfulness e la sua applicazione a specifici disturbi affettivi continui a crescere, soprattutto all’interno della comunità dei terapeuti cognitivisti (…) diventa di importanza cruciale che quelle persone che si avvicinano a questo campo con interesse professionale ed entusiasmo riconoscano l’aspetto peculiare e le caratteristiche distintive della mindfulness in quanto pratica di consapevolezza, con tutto ciò che implica; ossia che la mindfulness non va concepita come una nuova promettente tecnica o esercizio cognitivo-comportamentale, decontestualizzato, innestato in un paradigma cognitivista, il cui scopo sia di indurre un cambiamento desiderabile (…) La mindfulness non è solo una buona idea che, dopo averne sentito parlare, si possa immediatamente decidere di vivere nel presente, con la promessa di una riduzione dell’ansia e della depressione o di un aumento delle prestazioni e della qualità di vita, e che si possa poi rimettere in pratica all’istante in modo attendibile. È più somigliante invece a una forma di arte che si sviluppa col tempo, ed è grandemente incrementata attraverso una pratica regolare, quotidiana, sia formale che informale”.  

Forse è questo un buon punto su cui noi terapisti interessati alla pratica della mindfulness e alla sua integrazione in psicoterapia possiamo iniziare le nostre riflessioni e discussioni.

LEGGI L’ARTICOLO DI CLAUDIA PERDIGHE

ARTICOLI SULLA MINDFULNESS

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Steven C. Hayes, et al., Acceptance and Commitment Therapy and Contextual Behavioral Science: Examining the Progress of a Distinctive Model of Behavioral and Cognitive Therapy, Behavior Therapy (2011), 10.1016/j.beth.2009.08.002
  • Harris R. (2008). The Happiness Trap. Robinson Publishing ltd: London (UK).
  • Brown K.W. & Ryan R.M. (2003). The Benefits of Being Present: Mindfulness and Its Role in Psychological Well-Being. Journal of Personality and Social Psychology, 84(4): 822–848 – DOI: 10.1037/0022-3514.84.4.822
  • Kabat-Zinn J. (2003). Mindfulness-Based Interventions in Context: Past, Present, and Future. Clinical Psychology: Science and Practice, 10(2): 144–156.
  • Remen R. (2000). My Grandfather’s Blessings: Stories of Strength, Refuge, and Belonging. Riverhead Books: New York.

Il contenuto spaventoso dei programmi televisivi può facilitare la comparsa di disturbi internalizzanti nei bambini?

FLASH NEWS

L’esposizione dei bambini a programmi televisivi con contenuti paurosi, cioè contenuti che implicano situazioni in cui è presente una minaccia sociale, psichica o fisica reale o immaginaria, ha un impatto sulle emozioni dei più piccoli e può determinare la persistenza anche per mesi di stati di ansia e paura.

Le ricerche degli ultimi anni hanno messo in evidenza due dati significativi: il primo riguarda il fatto che i bambini trascorrono sempre più tempo di fronte ad uno schermo televisivo, addirittura il tempo stimato per i bambini inglesi dai 4 ai 9 anni è di quasi di 18 ore alla settimana, tempo che praticamente raddoppia per i bambini americani della stessa età; il secondo dato si riferisce all’evidenza che dalla metà del ’900 fino ad oggi i livelli di ansia e paura nei bambini sono decisamente aumentati, tanto che attualmente essi sembrano essere più elevati di quelli che si registravano negli anni ’50 per i pazienti psichiatrici.

Sembra che in parte tale aumento possa essere spiegato proprio dalla maggiore esposizione dei bambini a programmi televisivi con contenuti paurosi, cioè contenuti che implicano situazioni in cui è presente una minaccia sociale, psichica o fisica reale o immaginaria.

In particolare tale esposizione ha un impatto sulle emozioni dei più piccoli e può determinare la persistenza anche per mesi di stati di ansia e paura. Tuttavia questo effetto non è univoco, in quanto un’ampia percentuale di bambini (75%) non manifesta questo tipo di sintomatologia, per cui è possibile ipotizzare l’intervento di variabili individuali e contestuali.

Per quanto riguarda le prime sembra che ad avere un ruolo importante sia il livello di sviluppo delle capacità cognitive, infatti esso determina il modo che i bambini hanno di comprendere i messaggi della tv; ad esempio la ricerca ha evidenziato come nel tempo si riducano le reazioni di paura legate a contenuti fantastici e come invece aumentino quelle dovute a tematiche realistiche come guerre o attacchi terroristici, ciò accade perché i bambini più piccoli tendono ad interpretare ciò che vedono sulla base di aspetti percettivi e non soffermandosi sul significato.

Per quanto concerne le caratteristiche dei media, come in parte anticipato, nella primissima infanzia ad avere un impatto maggiore sono i programmi televisivi con contenuti di finzione, impatto che si riduce con il crescere dell’età per lasciare il posto a quello delle trasmissioni che trattano di fatti reali. Inoltre il miglioramento esponenziale della tecnologia ha fatto si che attualmente i programmi e i giochi per bambini, anche quando presentano contenuti fantastici, appaiono molto più realistici del passato e ciò ha determinato un aumento della violenza che essi trasmettono.

La maggior parte delle ricerche che ha affrontato queste tematiche si è concentrata sull’impatto che i programmi televisivi violenti hanno sullo sviluppo di tratti esternalizzanti come il disturbo della condotta e il comportamento antisociale; pochi studi invece hanno tentato di descrivere l’effetto che i contenuti paurosi della tv hanno nel determinare l’emergere di stati ansiosi e di terrore. Per questo motivo la presente meta-analisi ha cercato di stimare questo impatto con l’obiettivo di mettere in evidenza anche quali sono le variabili in grado di moderarlo e di dare ai genitori e a coloro che si occupano di programmare le trasmissioni televisive delle indicazioni più precise al riguardo.

A questo scopo nella meta-analisi sono state incluse 31 ricerche che hanno verificato l’effetto che i media hanno in particolare sui bambini più piccoli di 10 anni (questa età rappresenta una sorta di soglia per lo sviluppo delle capacità cognitive, infatti i bambini al di sotto dei 10 anni si concentrano maggiormente sulle caratteristiche percettive degli stimoli e per questo rispetto ai bambini più grandi sono più vulnerabili alle trasmissioni televisive con contenuti paurosi); non sono stati considerati gli studi che prendevano in esame giornali e/o internet in quanto le esperienze che quest’ultimi offrono sono del tutto diverse rispetto a quelle che si sperimentano d’avanti alla tv.

I risultati hanno mostrato che l’esposizione a programmi televisivi con contenuti paurosi è associata alla comparsa di disturbi internalizzanti come paura, ansia, depressione, difficoltà del sonno e sintomi caratteristici del disturbo da stress post traumatico e che tale affetto è del tutto paragonabile a quello che i contenuti violenti hanno nello sviluppo di tratti antisociali (tale corrispondenza può essere tuttavia spiegata anche dal fatto che i programmi televisivi paurosi spesso sono anche violenti). Inoltre sembra che la relazione sopradetta sia particolarmente vera per quei bambini caratterizzati da instabilità emotiva, tratti di ansia ed inibizione comportamentale, ma viene sottolineata la necessità di ulteriori ricerche che possano approfondire tali differenze individuali ed il peso che esse hanno nel determinare la risposta ai media.

Infine al contrario di altri studi e delle aspettative teoriche anche della presente meta-analisi, non sono state rilevate differenze tra i contenuti fantastici e quelli realistici negli effetti che i programmi televisivi hanno sui bambini e sui loro stati interni.

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BIBLIOGRAFIA:

Giornata nazionale contro il gioco d’azzardo patologico: NO al gioco d’azzardo patologico! – Comunicato Stampa

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COMUNICATO STAMPA

Giornata nazionale contro il gioco d’azzardo patologico

No al gioco d’azzardo patologico!

 

Primoconsumo nella persona dell’Avv. Marco Polizzi, Interessi Comuni nella persona del Dott. Angelo Santoro e Stare Bene nella persona della Prof.ssa Lolita Gulimanoska

Hanno chiesto l’indizione della Giornata Nazionale contro il Gioco d’Azzardo Patologico al Presidente del Consiglio Matteo Renzi ed al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin.

Una Giornata nazionale di informazione e formazione sul gioco d’azzardo patologico, dove la parola d’ordine sarà: No al Gioco d’Azzardo Patologico. 

Lo comunica il Dipartimento Salute di Primoconsumo con l’Avv. Ersilia Urbano.

Sarà una occasione per richiamare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica sul tema e mettere a fuoco il pericolo ed i rischi connessi al gioco d’azzardo, con iniziative che coinvolgano rappresentanti delle istituzioni, addetti al settore gioco, associazioni operanti nel settore, movimenti e la cittadinanza tutta per rendere operativo l’obiettivo della tutela del cittadino dalla dipendenza dal gioco e per sensibilizzare le istituzioni e la società al riconoscimento dei diritti delle persone che vivono l’esperienza di questa malattia sociale.

Si tratta di un fenomeno pericoloso che rovina le vite delle nostre famiglie e dei nostri ragazzi.

In occasione del decreto del Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, istitutivo del nuovo Osservatorio per il contrasto della diffusione del gioco d’azzardo, lo stesso Ministro riferisce che abbiamo tre milioni di italiani che rischiano di sviluppare una dipendenza dal gioco e che questo dato consegna un allarme sanitario.

Mettiamo allora in campo tutte le misure necessarie.

Si istituisca la giornata nazionale contro il gioco d’azzardo patologico il 13 settembre di ogni anno.

Sarà un’occasione per tutti, Amministrazioni Pubbliche, organismi di volontariato, associazioni che si occupano di G.A.P. per assumere, nell’ambito delle rispettive competenze e attraverso idonee e coordinate azioni di informazione e solidarietà, iniziative volte a informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul gioco d’azzardo patologico che coinvolge, oltre la persona, anche i familiari.

 

 

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The 3rd International Conference of Metacognitive Therapy – Milano 8, 9 Aprile 2016

Logo Studi CognitiviLogo MCT Institute Il Metacognitive Therapy Institute  in collaborazione con

Studi Cognitivi sono lieti di annunciare

 

The 3rd International Conference of Metacognitive Therapy

il congresso scientifico ufficiale di Teoria e Terapia Metacognitiva

Milano 8 e 9 Aprile 2016.

L’IC-MCT raccoglie alcuni tra i grandi esperti internazionali di terapia cognitivo-comportamentale e metacognitiva con lo scopo di presentare e condividere i recenti sviluppi della ricerca scientifica nell’area della metacognizione, dei processi mentali e della Terapia Metacognitiva. Il comitato scientifico è composto da Adrian Wells, Hans Nordahl, Marcantonio Spada, Ezio Sanavio e Sandra Sassaroli. Durante la conferenza i partecipanti potranno partecipare a workshop, lezioni magistrali, dimostrazioni cliniche, simposi e poster. Ci saranno otto lezioni magistrali per approfondire l’uso di tecniche dai supervisori MCT.

Il 7 Aprile sarà possibile iscriversi a workshop precongressuali sull’applicazione della MCT come terapia di gruppo per la depressione, vari disturbi d’ansia e casi complessi. La lingua ufficiale della conferenza sarà l’inglese.

La IC-MCT nasce con l’intento di creare un occasione per conoscere, apprendere, approfondire e aggiornare le proprie competenze con abilità e tecniche associate alla prospettiva della Terapia Metacognitiva, il primo approccio emergente che ha mostrato un significativo incremento di efficacia rispetto agli storici protocolli di terapia cognitiva e comportamentale (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

 La conferenza si terrà nella spettacolare cornice di Palazzo Mezzanotte a Milano.

Per qualsiasi informazione potete visitare il sito web della conferenza che è in costante aggiornamento.

Siete tutti invitati a sottoporre abstract per poster, presentazioni orali e simposi (in lingua inglese) relativamente a metacognizione e psicopatologia, processi cognitivi, terapia metacognitiva e relative tecniche applicate ai vari disturbi psicologici. L’abstract deve essere suddiviso in Background, Method, Results e Conclusion per un massimo di 175 parole. È possibile scaricare un file con le indicazioni per la sottomissione al seguente indirizzo.  La deadline per la sottomissione dei lavori è 01/10/2015.

Cos’è la metacognizione?

La metacognizione è l’aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi di autoregolazione (attentivi, cognitivi, comportamentali). Molte persone hanno dirette esperienze metacognitive, per esempio quando sono incapaci di ricordare il nome di una persona pur sapendo di conoscerlo. Questo esempio chiarisce come le componenti metacognitive lavorino per informare una persona che un ricordo è immagazzinato da qualche parte nella memoria anche se le persone non sono in grado di ricordarlo. Molti altri aspetti della metacognizione operano al di fuori della nostra coscienza. Negli ultimi vent’anni, la ricerca su processi e credenze metacognitive ha evidenziato un ruolo predominante nel mantenimento dei disturbi emozionali e comportamentali spostando l’attenzione dai contenuti del pensare e dai contesti di vita al modo in cui gli individui rispondono ai propri stati interni. Il disturbo psicologico non nasce tanto da rappresentazioni mentali o emozioni negative ma dal modo in cui gli individui rispondono o si difendono da quest’ultime.

Cos’è la Terapia Metacognitiva?

 La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

Una delle caratteristiche dei disturbi psicologici come ansia e depressione è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare o tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi.

La Terapia Metacognitiva ha come obiettivo ridurre questo stile di pensiero e riportare la nostra risposta a pensieri ed emozioni negative sotto il controllo cosciente.

La MCT mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti. Protocolli di intervento basati sulla teoria metacognitiva sono stati sviluppati per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione (Wells, 2008).

VEDI DETTAGLI EVENTO

 

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BIBLIOGRAFIA:

Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?

Claudia Perdighe, Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC Roma

 

Non per fede, ma basandomi sulle evidenze che vengono da un certo numero di studi (per una rassegna critica si può vedere Baer, 2012), considero la mindfulness e in generale tutte le procedure che facilitano il distanziamento e decentramento dagli stati interni, potenti strumenti terapeutici.

Mi piacerebbe, però, condividere alcune riflessioni sulla mindfulness e in generale sulle terapie basate sull’accettazione.
Le più conosciute tra queste sono la Mindufness Based Stress Reduction (MBSR), la Mindufness Based Cognitive Therapy (MBCT), la Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Dialectical Behavior Therapy (DBT).

Una prima osservazione riguarda il fatto che anche se si parla in generale di terapie basate sull’accettazione, “accettazione” non è affatto un termine dal significato univoco.
In linea di massima, l’accettazione riguarda sempre una rinuncia a opporsi, anche solo psicologicamente, a un evento interno o esterno (ad es., non contrasto una perdita o i sentimenti di tristezza o i pensieri dolorosi). L’oggetto può essere lo stato del mondo o gli stati interni.  Ci sono, però, almeno due modi diversi in cui questo può accadere e, ciascuno collegato a due accezioni differenti del concetto di accettazione.

La prima accezione riguarda l’accettazione come costruzione di un atteggiamento di maggiore distanza dalle esperienze interne e di generale disinvestimento dagli scopi; la focalizzazione è sulla presa di distanza dall’esperienza interna dell’evento, che in ultimo si risolve idealmente nell’abbandono dello scopo.

Il focus dell’accettazione è la gestione degli affetti intesi come reazioni a un evento, accaduto o atteso (non l’evento in sé e le sue implicazioni esistenziali). È ciò che gli stoici, e fra loro, ad esempio, Epitteto, hanno descritto come “il distacco dagli affetti”, o i buddhisti come abbandono dell’attaccamento alle cose del mondo. La massima realizzazione di questo modello è rappresentato dall’isolamento dell’asceta.

La seconda accezione è accettazione come dis-investimeno dagli scopi compromessi (o minacciati) e sostengo dell’investimento sugli scopi ottenibili: la focalizzazione è da un lato sulla presa di coscienza della mancanza di un potere, di un dovere o un diritto alla soddisfazione dello scopo compromesso e dall’altro sulla messa a fuoco degli scopi sovraordinati o di altri domini su cui la persona ha un potere.

La differenza tra i due significati è che nel primo caso il disinvestimento è totale e preventivo, anche rispetto a investimenti positivi e non solo difensivi (non soffrire e non gioire), mentre nel secondo è selettivo, cioè riguarda solo gli scopi compromessi o minacciati di compromissione.
La seconda accezione riguarda più l’accettazione come intensa in terapia cognitiva (Mancini e Perdighe, 2013), dove l’oggetto sono sia gli stati interni (problema secondario) ma soprattutto gli eventi in sé e i significati per l’individuo implicati dalla compromissione o minaccia allo scopo.

La mindfulness, invece, promuove soprattutto l’accettazione come intesa nella prima accezione e l’oggetto privilegiato dell’accettazione sono gli stati interni. L’ACT come le altre terapie basate sulla mindfulness ha per oggetto le esperienze interne, ma il disinvestimento dagli scopi è selettivo.

Detto ciò, uno dei grandi meriti della mindfulness, sia come RSBM sia come TCBM, è aver posto l’attenzione sulla possibilità e sull’utilità di ridurre il disagio non solo modificando i determinanti psicologici degli stati emotivi (i contenuti cognitivi, cioè scopi e rappresentazioni), ma anche attraverso il cambiamento della loro funzione, con l’addestramento a un decentramento intenzionale e radicale dagli stati interni.

Ci sono, però, alcuni aspetti che a mio parere meritano qualche riflessione in più tra noi clinici. Un primo punto, riguarda cosa renda la mindfulness un intervento di psicoterapia (o, in che senso lo è di più che fare sport o fare yoga, attività di cui si conoscono bene gli effetti benefici e duraturi sul benessere psicologico). È evidente che questo apre la questione su cosa qualifica un intervento come psicoterapeutico, e la questione è certamente assai complessa e di non facile soluzione.

Uno degli aspetti che, però, mi sembra qualificante è il fatto di essere una risposta specifica a un problema specifico; la mindfulness mi sembra, che non abbia sempre questa qualità (almeno in alcune forme in cui è proposta). È evidente che sto ipersemplificando, ma mi sembra utile per riflettere su come noi terapeuti a volte siamo talmente presi dal trovare soluzioni efficaci per i nostri pazienti, che rischiamo di “prendere tutto”, applicandolo senza tener conto di ciò che dovrebbe qualificarci e differenziarci, in altre parole la concettualizzazione del caso e l’individuazione di strategie e procedure adattate al singolo caso.

Un secondo aspetto, più rilevante, è: che tipo di stato mentale stiamo promuovendo nei nostri pazienti quando offriamo la mindfulness? La mindfulness, infatti, è fortemente caratterizzata dal punto di vista ideologico/valoriale, ovvero è inerente alla terapia il fatto di passare un preciso sistema di valori.

Negli scopi dell’accettazione come intesa dalla mindfulness (e, più in generale, da buona parte della tradizione meditativa e filosofica orientale), infatti, se da un lato si enfatizza l’importanza del vivere nel qui e ora, dall’altra si favorisce una generale accettazione dello stato delle cose e un disinvestimento anche dagli scopi perseguibili (è chiaro che questa è ora un po’ una semplificazione che si applica più alla mindfulness legata alla meditazione vipassana e meno alla mindfulness come intesa nella TCBM).

Tralasciando le questioni etiche legate al passaggio di valori in terapia, peraltro in modo tacito, il punto è la qualità e funzionalità/adattività di questi valori. Il valore che si passa, per usare un’immagine di Schopenhauer, è che si vive meglio guardando il mondo dal lato sbagliato del telescopio, distaccandosi dagli affetti e facendosi guidare/condizionare meno dai propri stati interni (che tanto passano se non si fa niente e ci si limita a osservarli). Che poi è quello che si afferma nelle verità del Buddha.

In questo mi sembra ci sia un aspetto critico, riassumibile nell’osservazione di un paziente: [blockquote style=”1″]Capisco che imparare a prendere le distanze dalle mie ruminazioni e dalle mie ansie mi faccia star meglio, ma non è un ostacolo all’impegno massimo per i miei scopi? È sicura che sia meglio per me mirare alla riduzione dell’infelicità piuttosto che al perseguimento dei miei scopi?[/blockquote] In altri termini, il paziente sta ponendo una questione molto seria, riassumibile in: che tipo di sistema di valori mi sta passando?

In questo mi sembra ci sia un aspetto critico, riassumibile in quella che è forse la vera obiezione, sia a parere degli stoici che della filosofia alla base del buddhismo e di gran parte delle forme di meditazione orientale: siamo sicuri che nella vita sia meglio ridurre l’attaccamento agli affetti (ovvero scopi, motivazioni, passioni) per garantirsi una minore infelicità che mirare a darsi una vita ricca di significato perseguendo i propri scopi? Il problema è: siamo sicuri che sia un sistema di valori vincente? Se guardiamo all’India, viene in mente che forse tanta povertà e ingiustizia sociale ancora oggi forse, almeno in parte, è figlia di questa filosofia (sopporto con distacco) e che, invece, una maggiore adesione ai propri stati d’animo magari fa soffrire di più ma spinge anche a combattere di più per cambiare le cose.

Del resto i migliori anni di Schopenhauer, che per tutta la via ha praticato l’autoterapia del distacco avendo come riferimento sia gli stoici sia le filosofie orientali, sono stati quelli in cui si sono infine realizzati gli stessi “effimeri sogni di gloria da bipede” da cui ha tanto cercato il distacco. Questo suggerisce che forse, anche quando ci si impegna tanto, non è davvero possibile per la maggior parte degli esseri umani distaccarsi da tutti gli affetti e che, comunque, si rischia di pagare un costo molto alto.

Un ultimo aspetto critico riguarda l’appiattimento dell’intervento sulla focalizzazione dell’esperienza soggettiva degli eventi, negandone quasi l’oggettività. Questo riporta alla tradizionale critica agli stoici, così espressa da Cicerone:

Dionisio di Eraclea, dopo aver imparato da Zenone a essere coraggioso, lo disimparò per via del dolore. Soffrendo di reni, gridava tra i gemiti che era falsa la sua precedente opinione sul dolore. E poiché il condiscepolo Cleante gli chiedeva per quale motivo avesse abbandonato la sua opinione, rispose: “Perché era convenuto che se dopo aver dedicato tanto tempo alla filosofia non fossi in grado di sopportare il dolore, sarebbe stato provato che il dolore è un male. Ora io ho dedicato molti anni alla filosofia e non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male” (da: Esempi di sopportazione del dolore, Tusculanae disputationes II, 58-61)

Come clinici siamo alla continua ricerca di procedure e tecniche che aumentino le nostre capacità di cura; inevitabilmente, come in parte accade anche in medicina, sperimentiamo le procedure nuove che sembrano efficaci anche quando non ci sono del tutto chiari i meccanismi in gioco. Credo, però, che per sfruttare al meglio le “nuove cure”, sia sempre utile capire cosa e come curano e gli eventuali effetti indesiderati, così da farne un uso strategico e specifico ed evitare di elevare ogni nuova procedura o tecnica a “terapia per quasi tutti i mali”.

LEGGI IL COMMENTO DI ANDREA BASSANINI

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Baer A.R. (2012). Come funziona la mindfulness (a cura di). Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Mancini F., Perdighe C., (2012). Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva. Cognitivismo Clinico, 9, 95-115.
  • Yalom I.D. (2005). La cura Schopenhauer. Neri Pozza, Vicenza.

Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction: cosa cambia nel DSM-5

Per quanto riguarda i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction un cambiamento fondamentale è che il DSM-5 non separa le diagnosi di abuso e dipendenza da sostanze: sono state fuse le categorie di abuso e dipendenza da sostanze del vecchio DSM-IV in un unico disturbo da uso di sostanze, misurato su un continuum da lieve a grave, i cui criteri per la diagnosi, quasi identici ai precedenti criteri, sono stati uniti in un unico elenco di 11 sintomi.

In linee generali il DSM-5 ha modificato l’organizzazione dei capitoli al fine di riflettere un approccio basato sull’arco di vita: il manuale inizia con i disturbi maggiormente diagnosticati nelle prime fasi della vita (Disturbi del neurosviluppo) e termina con quelli pertinenti all’età avanzata (Disturbi neurocognitivi).

Una considerevole modifica riguarda l’abbandono del sistema di valutazione multiassiale, al quale eravamo abituati dal DSM-III: questo cambiamento riflette il riconoscimento che un sistema categoriale eccessivamente rigido non coglie l’esperienza clinica o importanti osservazioni scientifiche.

Inoltre, con l’intento di aumentare la specificità diagnostica, la designazione di Disturbo NAS (Non Altrimenti Specificato) è stata sostituita con due opzioni: Disturbo con altra specificazione e Disturbo senza specificazione, per consentire al clinico di specificare o meno le caratteristiche di un disturbo che non corrisponde appieno alla sintomatologia necessaria per entrare nella categoria diagnostica corrispondente.

All’interno del DSM-5 il termine dimensionale viene poi utilizzato con significati diversi da quello originario: c’è l’accorpamento di più disturbi in una categoria più ampia, come è ad esempio avvenuto per il “disturbo da uso di sostanze”. Infine, sono stati introdotti degli specificatori quantitativi di gravità dei sintomi elencati all’interno di alcuni disturbi.

Per quanto riguarda i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction un cambiamento fondamentale è che il DSM-5 non separa le diagnosi di abuso e dipendenza da sostanze: sono state fuse le categorie di abuso e dipendenza da sostanze del vecchio DSM-IV in un unico disturbo da uso di sostanze, misurato su un continuum da lieve a grave, i cui criteri per la diagnosi, quasi identici ai precedenti criteri, sono stati uniti in un unico elenco di 11 sintomi.

Nel complesso, è stata aumentata la soglia del numero di criteri da soddisfare per porre diagnosi di disturbo da uso di sostanze: la soglia per la diagnosi di disturbo da uso di sostanze viene stabilita a due o più criteri, in contrasto con la soglia di uno o più criteri per una diagnosi di abuso di sostanze e tre o più per una diagnosi di dipendenza stabilita dal DSM-IV. Vengono invece forniti i criteri per il disturbo da uso di sostanze, accompagnati dai criteri intossicazione, astinenza, disturbi correlati a sostanze e disturbi correlati a sostanze senza specificazione, dove applicabili.

All’interno dei disturbi da uso di sostanze, il criterio del DSM IV relativo ai problemi legali ricorrenti collegati a sostanze è stato eliminato dal DSM-5 ed è stato aggiunto un nuovo criterio: craving, o forte desiderio o spinta all’uso di una sostanza.

Inoltre, sono stati inseriti degli indici di gravità: un disturbo da uso di sostanze lieve è suggerito dalla presenza di 2-3 sintomi, moderato da 4-5 sintomi e grave da 6 o più sintomi. Il cambiamento della gravità nel corso del tempo è anche rilevabile dalle riduzioni o dagli aumenti nella frequenza e/o dose di sostanza usata, valutati tramite il resoconto diretto dall’individuo interessato, il resoconto di altri esperti, le osservazioni del clinico e test biologici.

Un’ altra importante differenza rispetto ai manuali diagnostici del passato è che il capitolo sui disturbi correlati a uso di sostanze è stato ampliato per comprendere il disturbo da gioco d’azzardo.

Il Gioco D’Azzardo Patologico (GAP), secondo la definizione del DSM-IV, è un disturbo del controllo degli impulsi, che consiste in un comportamento di gioco persistente, ricorrente e maladattivo che compromette le attività personali, familiari o lavorative. La nuova edizione del DSM-5 ha riclassificato il gioco d’azzardo patologico nell’area delle dipendenze (addictions) per le similarità tra il GAP e le dipendenze da alcol e altre sostanze d’abuso. Per la precisione, in clinica, il disturbo non viene più definito “gioco patologico” ma “disordered gambling” (gioco problematico). Inoltre, anche in questo caso, l’aver commesso atti illegali non è più considerato uno dei criteri per la diagnosi del gioco d’azzardo patologico.

Questo cambiamento riflette la crescente e consistente evidenza che alcuni comportamenti, come il gambling, attivano il sistema di ricompensa del cervello, con effetti simili a quelli delle droghe e che i sintomi del disturbo da gioco d’azzardo assomigliano in una certa misura a quelli dei disturbi da uso di sostanze.

Nel DSM-5 astinenza da cannabis, il disturbo da uso di tabacco e astinenza da caffeina sono nuovi disturbi (quest’ultima era nell’Appendice B del DSM IV, “Criteri e Assi utilizzabili per ulteriori studi”).

 

Astinenza da Cannabis

Il disturbo da astinenza da cannabis è una condizione clinica che si manifesta in seguito a cessazione di uso di cannabis che è stato intenso e prolungato (cioè abituale uso quotidiano o quasi, almeno per un periodo di alcuni mesi) (Criterio A). Tale condizione porta allo sviluppo di 3 o più dei seguenti sintomi che si sviluppano approssimativamente entro 1 settimana dopo il criterio A: irritabilità, rabbia o aggressività; nervosismo o ansia; insonnia; diminuzione dell’appetito o perdita di peso; agitazione; umore depresso; almeno uno dei seguenti sintomi fisici causa malessere significativo: dolori addominali, instabilità/tremori, sudorazione, febbre, brividi o cefalea (Criterio B).

I sintomi del criterio B causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Criterio C). I sintomi non sono dovuti a un’altra condizione medica generale e non sono meglio giustificati da un altro Disturbo mentale, compresa l’intossicazione o l’astinenza da altra sostanza (Criterio D).

 

Astinenza da tabacco

Il disturbo da uso di tabacco è definito come un pattern che porta a disagio o compromissione clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle seguenti condizioni, che si verificano entro un periodo di 12 mesi: il tabacco è spesso assunto in quantitativi maggiori o per un periodo più lungo di quanto fosse nelle intenzioni; desiderio persistente o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso di tabacco; una gran parte del tempo è impegnata in attività necessarie a procurarsi o usare tabacco; craving, o forte desiderio, o spinta all’uso di tabacco; uso ricorrente di tabacco che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa; uso continuato di tabacco nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti di tabacco (per es. discussioni con altri circa l’uso di tabacco); importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o ridotte a causa dell’uso di tabacco; uso ricorrente di tabacco in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso (per es. fumare a letto); uso continuato di tabacco nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dal tabacco; tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti fattori: a- un bisogno di quantità marcatamente aumentata di tabacco per ottenere l’effetto desiderato, b- una marcata diminuzione dell’effetto con l’uso continuato della stessa quantità di tabacco; astinenza, manifestata da ciascuno dei seguenti fattori: a- la caratteristica sindrome da astinenza di tabacco, b- il tabacco (o una sostanza strettamente correlata, come la nicotina) viene assunto per attenuare o evitare sintomi di astinenza (Criterio A).

 

Astinenza da caffeina

Il disturbo da astinenza da caffeina è quella condizione clinica definita da un uso quotidiano prolungato di caffeina (Criterio A) e la cui brusca cessazione o riduzione è seguita, entro 24 ore, da tre (o più) dei seguenti segni o sintomi: cefalea, affaticamento marcato o fiacchezza, umore disforico, umore depresso o irritabilità, difficoltà di concentrazione, sintomi tipo influenza (nausea, vomito o dolori muscolari/rigidità) (Criterio B).

I segni o sintomi del Criterio B causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o altre aree importanti (Criterio C). I segni o sintomi non sono associati agli effetti fisiologici di un’altra condizione medica (per es., emicrania, patologia virale) e non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale, compresa intossicazione o astinenza da altra sostanza (Criterio D).

Infine, lo specificatore del DSM IV per il sottotipo fisiologico è stato eliminato nel DSM-5, così come la diagnosi di dipendenza da sostanze molteplici. La remissione precoce da un disturbo da uso di sostanze è definita dal DSM-5 da un minimo di 3 ma meno di 12 mesi senza soddisfare i criteri del disturbo da uso di sostanze (con l’eccezione del craving) e la remissione protratta è definita da un minimo di 12 mesi senza soddisfare i criteri del disturbo da uso di sostanze (con l’eccezione del craving). Infine, i nuovi specificatori aggiuntivi del DSM-5 comprendono “in ambiente controllato” e “in terapia agonista”, a seconda di ciò che la situazione richiede.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Workaholic: Dipendenti dal lavoro si nasce o si diventa?

Marianna Aurora Solomita

Vi siete mai domandati cosa spinge alcuni lavoratori a dedicare molto del proprio tempo libero al lavoro? Maniaci del lavoro si nasce o si diventa a causa delle eccessive richieste dell’ambiente nel quale lavoriamo?

Vi siete mai domandati cosa spinge alcuni lavoratori a dedicare molto del proprio tempo libero al lavoro? Si tratta della crisi economica che ci spinge ad essere più produttivi nel tentativo di evitare il licenziamento o di un nostro impulso incoercibile ad andare sempre oltre le richieste professionali nel tentativo di appagare uno scopo carrieristico? Maniaci del lavoro si nasce o si diventa a causa delle eccessive richieste dell’ambiente nel quale lavoriamo?

 

Dipendenza dal lavoro

La workaholism, detta anche work addiction (letteralmente dipendenza da lavoro), è stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, così da rientrare nel novero delle New Addiction, assieme alla Internet Addiction, Shopping Compulsivo ed altre. Essa, tuttavia, si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali, poiché non si riferisce, come per l’uso di sostanze,  al ricorso ad un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione.

L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità. Nonostante si tratti di un tema dibattuto da diversi anni, la workaholism, per la sua stessa correlazione con un’attività quotidiana, quella lavorativa, indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe non essere riconosciuta dalla società, al momento, come un disagio patologico (Oates, 1971). 

Ad esempio, mentre in Italia risulta ancora sconosciuto, in altri paesi come il Giappone, tale fenomeno identificato con il nome di Karōshi (morte per eccesso di lavoro), è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemici, dovuti alle eccessive ore di lavoro e alle condizioni lavorative stressanti. Si associa a questo fenomeno anche il karo-jisatsu, termine che indica il suicidio al quale ricorrono gli impiegati che soffrono di depressione correlata all’eccesso di lavoro.  (Araki & Iwasaki, 2005; Kanai, 2006).

I sintomi più ricorrenti nella workaholism sono:

  • Tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;
  • Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);
  • Poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;
  • Impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;
  • Sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);
  • Abuso di sostanze stimolanti come la caffeina. (Castiello d’Antonio, 2010).

Diversi ricercatori, nel corso degli anni,  si sono interessati alla work addiction. Spence e Robbins, nel 1992, coniarono la nozione di triade workaholic, caratterizzata da :

  • impegno nel lavoro
  • motivazione nel lavoro
  • piacere ricavato dal lavoro

Furono identificati, in seguito, tre profili di workaholics, ovvero di soggetti maniaci dal lavoro:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro): coloro che mostravano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti): chi mostrava elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro): coloro che possedevano marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risultarono essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con ambizioni eccessive e obiettivi irrealistici, spesso soggetti ad elevate quote di stress ed ansia associati a sintomi fisici.

Successivamente, Scott assieme ai suoi collaboratori, in una rassegna molto estesa del 1997, ha proposto una definizione di workaholism attualmente valida e condivisa, concettualizzato l’esistenza di tre tipi di comportamento caratteristici della persona dipendente da lavoro:

  • Spendere la maggior parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, generando un malfunzionamento sociale, nelle relazioni interpersonali e familiari e sullo stato di salute;
  • Pensare e focalizzarsi sul lavoro per trovare soluzioni, anche quando non si sta lavorando;
  • Lavorare al di là delle richieste o necessità finanziarie e organizzative.

Per quanto riguarda gli stili di comportamento, i tre pattern identificati sono:

  • compulsivo-dipendente: correlato positivamente ad ansia, stress, problemi fisici e psicologici, e negativamente a performance lavorative e a livelli di soddisfazione lavorativa e/o personale;
  • perfezionista: correlato positivamente ad alti livelli di stress, problemi fisici e psicologici, relazioni interpersonali ostili, bassa soddisfazione lavorativa, scarsa performance e assenteismo dal lavoro;
  • orientato al successo: positivamente correlato a buona salute fisica e psicologica, soddisfazione lavorativa e personale e comportamenti socialmente desiderabili.

Nel 2008, anche Schaufeli e i suoi collaboratori definirono la workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente.

Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta la componente comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva della workaholism ed implica che i  workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Come per le altre dipendenze, anche la workaholism ha un’origine multifattoriale, pertanto, sembrerebbe derivare dalla storia di apprendimento familiare, in cui i figli tenderanno ad assumere gli alti standard dei genitori, eccellendo nelle attività scolastiche ed extrascolastiche. Tali  ritmi, vissuti come naturali, avrebbero come scopo quello di ricevere attenzioni e riconoscimento da parte degli stessi genitori e, talvolta, legittimando un minor investimento nelle relazioni interpersonali ed un atteggiamento di chiusura emotiva.

Si somma all’influenza dell’ambiente familiare, l’innovazione tecnologica che, con l’avvento di internet, smartphones e tablet e indebolendo i confini naturali tra ambito professionale e privato, avrebbe permesso al lavoro di invadere quegli spazi umani precedentemente non intaccati dalla sfera professione. Banalmente, il fatto di essere sempre reperibili tramite cellulare, da un lato rassicura, dall’altro sembrerebbe operare una sorta di invasione e controllo sulle vite private dei lavoratori. L’eccessiva mole di lavoro e la spasmodica ricerca di alti standard professionali,  delineerebbe nel workaholic, ovvero in colui che tende a sviluppare la dipendenza dal lavoro,  una personalità incline al comportamento compulsivo finalizzato ad evitare, nascondere o silenziare stati emotivi sgradevoli come rabbia e tristezza, derivanti da credenze associate ad una bassa autostima, intolleranza all’incertezza o difficoltà nelle relazioni interpersonali.  Vissuti di vergogna o colpa legati al senso di inadeguatezza, saranno pertanto gestiti con comportamenti controllanti, perfezionistici e iperattività (Robinson, 1998).

Ng e colleghi nel 2007, hanno dimostrato come i tratti di personalità associati al bisogno di realizzazione individuale rappresentino una delle principali cause della workaholism.

La motivazione al successo, in particolare, può essere definita come la necessità di realizzare obiettivi complessi ed ambiziosi che richiedono il superamento di ostacoli, di pensare e agire rapidamente, accuratamente ed in maniera autonoma, oltre che competere e superare gli altri ottenendo un riconoscimento immediato e la ricompensa ai propri sforzi. Coerentemente con questi risultati, gli stessi autori hanno dimostrato che gli individui che riferiscono livelli più elevati di auto-efficacia nelle attività lavorative rispetto ad attività non lavorative hanno maggiori probabilità di diventare maniaci del lavoro. La credenza di essere più capaci di gestire compiti di lavoro piuttosto che attività extralavorative può portare i dipendenti a dedicare tutto il tempo a loro disposizione alle attività lavorative con lo scopo di evitare tutte quelle attività nelle quali ritengono di essere  meno abili .

Questi dati, assieme ad altri studi empirici, suggeriscono che svariate caratteristiche di personalità, quali: la motivazione al successo, il perfezionismo, la coscienziosità (Andreassen et al., 2010) e l’auto-efficacia predispongono significativamente alla dipendenza dal lavoro (Mazzetti et al., 2014). Tuttavia, recenti indagini confermano che il clima organizzativo gioca un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della workaholism. A tal proposito, sempre Ng e colleghi nel 2007, hanno proposto un modello teorico che spiega la workaholism come il risultato combinato di tratti disposizionali (ad esempio, bisogni, valori), esperienze socio-culturali (l’apprendimento sociale, culturale enfasi sulla competenza e la concorrenza) e rinforzi comportamentali (ricompense organizzative ed incentivi di sistema), suggerendo che i dipendenti maggiormente esposti alla workaholism sono coloro i quali vivono in un ambiente lavorativo che rinforza sistematicamente alcuni tratti di personalità.

Allo stesso modo, Liang e Chu, nel 2009, hanno sviluppato un modello che individua tre principali antecedenti della workaholism: tratti di personalità, incentivi personali e incentivi organizzativi. Tali approcci teorici assegnano un ruolo cruciale agli ambienti organizzativi che spronano o obbligano i dipendenti a lavorare sodo,  riconoscendo nella combinazione di tratti di personalità e ambiente, gli elementi prodromici nella determinazione della workaholism, nella quale l’organizzazione lavorativa fungerebbe da fattore di innesco (Mazzetti et al., 2014).  

In linea con quanto appena descritto,  la workaholism può svilupparsi quando i dipendenti percepiscono che il lavorare oltre l’orario di lavoro anche a casa, nei fine settimana o durante le vacanze, sia considerata una condizione indispensabile per il successo e l’avanzamento di carriera. La combinazione di questi valori percepiti da parte dei dipendenti  nel loro ambiente di lavoro è descritta, nello studio di Mazzetti, col termine overwork climate, ovvero la percezione di un clima organizzativo in cui è richiesto un maggior sforzo lavorativo per il raggiungimento del successo.

L’overwork climate sembrerebbe favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia. Poichè la letteratura internazionale descrive la workaholism come l’interazione di caratteristiche individuali e fattori ambientali e dal momento che, si sa poco circa l’impatto congiunto di questi due fattori, lo studio di  Mazzetti, Schaufeli e Guglielmi del 2014 ha indagato l’interazione esistente tra l’ overwork climate, l’organizzazione e le caratteristiche individuali  nello sviluppo della workaholism. Lo studio pioneristico, è partito dall’ipotesi secondo la quale, essendo le caratteristiche personali piuttosto stabili nel tempo, esse agirebbero come moderatori che amplificano l’impatto dell’ overwork climate sulla workaholism.

I dati sono stati raccolti su un campione olandese di 333 dipendenti, reclutati da un’agenzia olandese mediante l’invio elettronico di una newsletter. Il clima overwork è stato misurato utilizzando una scala composta da otto item che misurava la percezione degli impiegati rispetto al clima e alle richieste dell’ambiente lavorativo, creata appositamente per lo studio (Mazzetti et al, 2014).  La motivazione al successo è stata misurata utilizzando dieci item presi dalla versione breve della Ray Achievement Motivation Scale (Ray, 1979). Il Perfezionismo è stata valutato costruendo una scala che comprendeva otto item legati al lavoro (ad esempio: Mi sforzo di fare il mio lavoro perfettamente), ed è stato valutato con  5 punti Likert (1 fortemente in disaccordo; 5 fortemente d’accordo ). Questa scala si proponeva di valutare il perfezionismo positivo, così come definito da Frost e collaboratori (1993).

La Coscienziosità è stata valutata utilizzando la scala sulla coscienziosità presa dalla traduzione olandese del Big Five Inventory (Denissen et al., 2008). L’autoefficacia è stata misurata utilizzando una scala costruita sulla base del concetto ideato da Bandura (2012) composta da cinque item: (ad esempio: Al lavoro, io raggiungo il mio obiettivo, anche quando le situazioni sono imprevedibili) valutate su una scala Likert a 5 punti (1 fortemente in disaccordo, 5 molto d’accordo). Ed infine, la Workaholism è stata misurata utilizzando i 10 item della Work Addiction Scale olandese (DUWAS; Schaufeli et al., 2009), che includeva due sottoscale: lavorare compulsivamente (ad esempio, ho la sensazione che ci sia qualcosa dentro di me che mi spinge a lavorare sodo) e lavorare eccessivamente (Ad esempio, mi sembra di andare in fretta e di corsa contro il tempo). Entrambe le sottoscale consistevano di cinque item valutati su una scala a 4 punti di frequenza che va da 1([Quasi] mai) a 4 ([quasi] sempre).

I risultati derivanti dalle analisi statistiche hanno pienamente sostenuto le ipotesi degli autori dimostrando che l’interazione tra overwork climate e le caratteristiche individuali sono legate alla workaholism. Più in particolare, i risultati hanno rivelato un aumento significativo della workaholism quando i dipendenti che possedevano le caratteristiche individuali predisponenti la dipendenza da lavoro, percepivano un overwork climate nei loro luoghi di lavoro. Inoltre, la coscienziosità e l’autoefficacia risultavano correlate alla workaholism, ma solo in presenza dell’interazione con la percezione del overwork climate. Questi risultati contribuiscono alla concettualizzazione sulla workaholism dimostrando empiricamente che un ambiente professionale caratterizzato da un clima organizzativo con delle eccessive richieste può favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto per coloro i quali mostrano un elevata motivazione alla realizzazione, al perfezionismo, alla coscienziosità e all’autoefficacia.

Gli autori, individuano una serie di limiti nel loro studio. Il primo tra tutti riguarda proprio le scale utilizzate per la misurazione dei costrutti individuali: molte di esse, infatti, andrebbero convalidate e standardizzate in nuovi studi. In secondo luogo, tutti i dati si sono basati su un disegno trasversale, pertanto sarebbe utile effettuare ulteriori ricerche utilizzando un disegno longitudinale per comprendere meglio le relazioni casuali esistenti tra l’ overwork climate, le caratteristiche individuali e la workaholism. In terzo luogo, i dati sono stati ottenuti interamente da questionari autosomministrabili pertanto, le ricerche future dovrebbero adottare una approccio multimetodo, basato sulla raccolta di questionari autosomministrati, interviste o pareri di colleghi così da ottenere dati più robusti ed eterogenei. Infine, il reclutamento telematico del campione può creare dei bias nella stratificazione del campione quindi, potrebbe essere utile utilizzare più canali per la selezione dei partecipanti, in ricerche future.    

Malgrado alcuni dei limiti individuati, gli autori sostengono l’utilità dei loro risultati per la progettazione di interventi finalizzati ad impedire la promozione e la riacutizzazione della workaholism. Potrebbe essere più utile per le organizzazioni, ad esempio, creare un ambiente che non premi il lavoro correlato ad un comportamento compulsivo, piuttosto sensibilizzare i manager e i dirigenti, quindi le categorie più vulnerabili alla workaholism, a promuovere una serie di modelli comportamentali che favoriscano un equilibrio tra lavoro e vita sana, stimolando un lavoro intelligente ed efficace ma sicuramente meno estenuante.

Potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Ed infine, promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il rapporto tra la memoria evocata dagli odori e la valutazione del prodotto

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

I risultati della ricerca indicano come il profumo di un prodotto che evoca memorie emozionali personali, influenzi gli acquisti dei clienti.

Gli effetti della memoria proustiana- ossia quando le fragranze elicitano i ricordi più emotivi e suggestivi rispetto ad altri aspetti di memoria- è ben consolidata. Le fragranze potenziano una varietà di stati psicologici che possono variare dagli stati d’animo al comportamento motivato.
Quando il profumo di un prodotto fragrante innesca un ricordo nel cliente è più probabile che sia un successo.

I risultati della ricerca indicano come il profumo di un prodotto che evoca memorie emozionali personali, influenzi gli acquisti dei clienti.

I cosiddetti ricordi proustiani di solito si formano durante i primi anni di vita, ma sono meno frequenti rispetto ai ricordi indotti da segnali visivi o verbali, anche se le memorie elicitate dai profumi sono decisamente più emotive ed evocative. Le ricerche di mercato hanno dimostrato che piacevoli profumi congruenti al prodotto rafforzano l’attrattiva del prodotto e che prodotti con un maggior coinvolgimento emotivo e cognitivo sono percepiti in modo più positivo.

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Per lo studio condotto da Rachel Herz of Brown University e colleghi sono stati inviati a 271 donne americane di età compresa tra 22 e 31 anni campioni di 4 creme profumate per il corpo. Prima di iniziare ad utilizzarli, le donne hanno completato un sondaggio online iniziale. Hanno valutato i profumi per piacevolezza, intensità, familiarità e la misura in cui venivano indotti ricordi personali. In un sondaggio successivo hanno valutato quanto abbiano apprezzato le lozioni.

I risultati dimostrano che è la potenza personale dei ricordi proustiani evocati dalla fragranza di un prodotto, più che le qualità edonistiche del profumo in sé, che guida la percezione del prodotto e ha importanti implicazioni per lo sviluppo di prodotti profumati.
Tanto più è potente la memoria che la fragranza attiva, maggiori saranno le probabilità che la lozione venga tenuta in grande considerazione.
I ricercatori affermano che i risultati evidenziano la natura individualistica delle fragranze legate alla memoria proustiana e come l’effetto di un profumo varia da persona a persona.

La conoscenza di una data cultura può aiutare i creatori di un prodotto a prevedere il grado in cui una fragranza specifica può suscitare certe associazioni di profumo.
Per esempio in Nord America e in Europa i profumi arancio-agrumi sono percepiti come felici e calmanti, mentre il gelsomino è associato ad uno stato d’animo positivo e rilassato in Giappone. Avendo informazioni su quando le persone provenienti da diverse regioni abbiano fatto una prima esperienza di vari profumi, questo può aiutare a sviluppare prodotti i cui profumi hanno più probabilità di suscitare dei ricordi ad esso collegati.

 

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Psicoterapia e Salute Mentale: incontro con il Prof. Saggino a EXPO

 

AGI) – Pescara, 16 giu. – “E’ la psicoterapia una scienza? E’ anche una scienza utile per la societa’?”: e’ questo il titolo della relazione che il prof. Aristide Saggino, Ordinario di Psicometria presso l’Universita’ di Chieti-Pescara, terra’ il prossimo venerdi’ 19 giugno a Milano nei saloni dell’esposizione universale 2015. L’intervento del prof.
  Saggino, che e’ anche presidente nazionale dell’Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva (Aiamc) sara’ inquadrato nella Tavola rotonda “Verso una psicoterapia evidence based” del Convegno “Il futuro della salute mentale” organizzato proprio da Expo…

Expo: il prof. Saggino (Aiamc) al convegno sulla salute mentaleConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
(AGI) – Pescara, 16 giu. – “E’ la psicoterapia una scienza? E’ anche una scienza utile per la societa’?”: e’ questo il titolo della relazione che il prof. Aristide Saggino, Ordinario di Psicometria presso l’Universita’ di Chieti-Pescara, terra’ il prossimo venerdi’ 19 giugno a Milano nei saloni dell’esposizione universale 2015. L’intervento del prof. Saggino, che e’ anche presidente nazionale dell’Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento e Terapia Comportamentale e Cognitiva (Aiamc) sara’ inquadrato nella Tavola rotonda “Verso una psicoterapia evidence based” del Convegno “Il futuro della salute mentale” organizzato proprio da Expo. La relazione del docente dell’ateneo abruzzese (…)

Tratto da: AGI.it

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Il controverso caso dell’esperimento carcerario di Stanford

Quello di Stanford è uno degli esperimenti che tutti gli addetti agli psicolavori hanno studiato nel corso dell’Università, è uno dei più conosciuti nell’ambito della psicologia sociale, e in sintesi si proponeva di indagare il comportamento delle persone sulla base del proprio gruppo di appartenenza. I risultati dell’esperimento furono drammatici.

Quello di Stanford è uno degli esperimenti che tutti gli addetti agli psicolavori hanno studiato nel corso dell’Università, oltre ad avere avuto una buona risonanza nell’ambito non accademico, ispirando diversi film tra cui The Experiment di Scheuring del 2010.

L’esperimento è uno dei più conosciuti nell’ambito della psicologia sociale, e in sintesi si proponeva di indagare il comportamento delle persone sulla base del proprio gruppo di appartenenza.

La procedura ha previsto l’assegnazione casuale di 24 studenti metà al ruolo di guardia e metà al ruolo di carcerato. In seguito, tutti i ragazzi furono inseriti in una prigione artificiale collocata nell’Università di Stanford, seguendo in modo preciso le procedure adottate nelle prigioni del Texas sia la per quanto riguarda la costruzione dello stabile che le pratiche di arresto. Le guardie non ricevettero alcuno specifico addestramento e furono istruite a fare tutto ciò che ritenevano fosse utile a far osservare le regole, mentre i detenuti furono informati delle condizioni che li aspettavano in termini di umiliazione e violazione della privacy.

I risultati dell’esperimento furono drammatici e nonostante la durata prevista fosse di due settimane, portarono all’interruzione prematura dopo soli 6 giorni a causa del forte impatto psicologico che la situazione ebbe sugli studenti: in pochissimi giorni le guardie divennero sadiche e maltrattanti e i prigionieri mostrarono evidenti segnali di stress e depressione.

Se nell’immediato questi esiti furono interpretati come una riprova del forte impatto della categoria di appartenenza sulla condotta dei singoli, recentemente sono state sollevate diverse critiche alle procedure seguite e alla pertinenza delle inferenze proposte.

In particolare, nonostante le conclusioni tratte riguardino quello che succede quando le persone si identificano in una categoria di appartenenza nella vita di tutti i giorni, il contesto dell’esperimento non era rappresentativo della quotidianità, ma era altamente influenzato dall’elevato livello di brutalità e depersonalizzazione indotta.

In secondo luogo, le umiliazioni protratte dalle guardie nel periodo di carcere sono state probabilmente legittimate dal modo brutale in cui i carcerati sono stati arrestati. In questo senso, ci può essere stato un tacito consenso o addirittura un incoraggiamento implicito a utilizzare sui carcerati procedure violente e spietate, che hanno appunto portato alla conclusione anticipata della procedura.

Ancora, i critici delle procedure notano come le guardie non fossero in realtà del tutto autonome nei loro comportamenti e nella loro linea di condotta, dal momento che erano presenti dei supervisori (uno dei quali rappresentato dallo stesso Zimbardo, artefice dell’esperimento): è possibile che anche in questo caso la tacita accettazione dei comportamenti violenti da parte dei supervisori abbia funzionato come approvazione, portando a perpetuare le violenze e le umiliazioni.

Inoltre, una delle guardie ha dichiarato di aver volontariamente calcato la mano, impersonando un ruolo sadico e violento, come era solito fare nella sua attività di attore di teatro, parlando della capacità di assumere un’altra identità prima di iniziare a recitare; inoltre, ha dichiarato:

stavo svolgendo un piccolo esperimento personale all’interno dell’esperimento di Stanford, testando quanto potessi forzare la mano e quanto tempo avrebbero impiegato gli altri prima di dirmi di smettere.

Ancora, l’arruolamento dei partecipanti è avvenuta attraverso un annuncio che proponeva di partecipare a uno studio psicologico sulla vita carceraria, e questo potrebbe aver selezionato i partecipanti in una determinata direzione. In uno studio del 2007, Carnahan e McFarland hanno indagato meglio questo aspetto, pubblicando due diversi annunci: mentre uno riportava le esatte parole originali dell’esperimento di Stanford, il secondo ometteva la specifica sulla vita carceraria: gli autori hanno confermato come, una volta sottoposti a test psicometrici, i soggetti che avevano risposto al primo annuncio ottenessero punteggi significativamente più elevati in aggressività, autoritarismo, narcisismo, dominanza sociale e punteggi significativamente inferiori in altruismo e empatia rispetto a quelli che avevano risposto al secondo, confermando l’ipotesi di una particolare selezione di persone anche nell’esperimento di Zimbardo.

Infine, la portata dei comportamenti violenti sembra essere stata sopravvalutata, dando maggiore attenzione a quelle guardie che avevano sviluppato comportamenti sadici e tralasciando che due terzi delle guardie (come traspare da un report scritto al tempo da Zimbardo stesso) non avevano sviluppato comportamenti tirannici.

In conclusione, ci sono alcune questioni controverse che hanno bisogno di maggiore chiarezza, anche alla luce del grande impatto che l’esperimento di Stanford ha avuto sull’opinione pubblica.

Il Prof. Philip Zimbardo, primo autore dell’esperimento originale e responsabile delle procedure, sarà ospite della Sigmund Freud University domenica 11 luglio e terrà due talk in lingua inglese dal titolo My journey from Evil to Heroism e The secret power of Time in our lives.

Tutte le informazioni relative all’evento sono disponibili a questo link

Zimbardo SFU 2015

 

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AstroSamantha, lo spazio come ce lo immaginiamo e il desiderio di esplorazione

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 14/06/2015 

 

Lo spazio infinito è il luogo ignoto dell’uomo moderno, l’ambiente che ancora ispira il nostro desiderio di esplorazione. Desiderio che ci abita fin dall’infanzia e che trova la sua base proprio nella sicurezza che avvertiamo nel legame di attaccamento con le figure che ci amano e che ci accudiscono. Da qui parte il bisogno di uscire dalla tana, esplorare e comprendere.

In un’epoca in cui il mondo è ormai tutto esplorato, in cui nulla più si nasconde dietro l’orizzonte ignoto del mare, rimane il lancio nello spazio. I racconti di fantascienza sostituiscono le avventure dei pirati e dei marinai. Sognare di andare sulla luna invece che desiderare di aprire il solito baretto ai Caraibi. La tecnologia romantica e immaginaria dei viaggi spaziali si fonde con la letteratura del viaggio in astronave. Da Verne in poi, una strana nuova letteratura ha preferito lanciare i propri personaggi in alto e nel vuoto invece che sulla superficie delle acque.

Il ritorno di Samantha Cristoforetti, ingegnere, aviatrice e astronauta italiana, dà fiato all’immaginario fantascientifico italiano. Questa donna parla non solo inglese, ma anche tedesco, francese e perfino il russo, utilizzato nelle comunicazioni con il cosmodromo di Bajkonur. Come sappiamo, Samantha ha appena ottenuto il record europeo e il record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo: 200 giorni nelle missioni ISS Expedition Futura 42 e 43. E questi nomi e queste cifre già ci suggeriscono mondi e avventure.

Cosa sa e cosa immagina un bambino di queste avventure spaziali? Riesce a rappresentarle in una sua cosmologia infantile ma credibile? Oppure non ha un’idea chiara di tutto questo? I bambini occidentali hanno una conoscenza precoce dalla forma sferica della terra, del concetto di spazio vuoto e della possibilità di esplorarlo nelle tre dimensioni. Tuttavia molto dipende anche dal modo con cui facciamo le domande. Una conversazione troppo aperta finisce per far saltare fuori concezioni più primitive, compresa la convinzione che sia possibile arrivare al limite della terra e cascare fuori (Vosnoiadu, Skopeliti e Ikospentaki, 2004). Una guida più stretta invece fornisce risposte più logiche.

I bambini indiani a loro volta integrano la cosmologia folk con le informazioni scientifiche: la terra è piatta e sostenuta da entità misteriose, ma al tempo stesso ruota intorno al sole (Samarapungavan, Vosnoiadu e Brewer, 1996).

Allo stesso incrocio tra concezione scientifica e cosmologia folk probabilmente si incontrano i pensieri dei bambini e quelli della letteratura fantascientifica. In quell’incrocio nel quale Verne inseriva anche la vecchia concezione della terra cava e dove oggi potremmo porre gli effetti delle scie degli aerei. La terra cava a sua volta richiamava il mito della caverna di Platone, mentre queste famigerate scie e i loro terribili effetti sulla nostra salute non possono non suggerire alla mente i dardi di Apollo che diffondeva la peste sugli uomini, e in particolare sui guerrieri achei durante l’assedio di Troia. Samantha è invece Ulisse che torna sulla terra e in Italia, dove tanti Penelope di sesso maschile la attendono fedeli.

La partecipazione dell’Italia alla costruzione dell’immaginario fantascientifico è stata finora scarsa. Come del resto anche la partecipazione ai viaggi di avventura oceanici, sul tipo di Robinson Crusoe o dell’Isola del Tesoro. Cresciuti nel Cosmo Mediterraneo, che un tempo esauriva in sé l’Ecumene, ovvero il mondo conosciuto, e nel quale si svolgevano i viaggi esplorativi degni di essere raccontati, da Ulisse a Enea fino ad arrivare a Erodoto e Strabone, ci siamo trovati un giorno incastrati in un microcosmo escluso dalla grandi rotte. Il Mediterraneo, il grande mare di mezzo tra le terre conosciute, si riduceva a uno stagno periferico nel quale rimanevamo ingusciati.

Oppure no, stiamo esagerando. Con Colombo, Vespucci e Caboto siamo stati tra i primi a sfidare l’Oceano, e con Marco Polo siamo arrivati via terra fino al lontano oriente. Ora con Samantha abbiamo una donna che esplora lo spazio e torna, portandoci sia conoscenza scientifica (Samantha in orbita ha condotto esperimenti scientifici sulla fisiologia umana e la stampa 3D in assenza di peso) che l’immaginazione fantascientifica del terzo millennio. Che sia di buon auspicio per l’Italia, non destinata a cascare in giù oltre il bordo della Terra.

 

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La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) è più efficace della terapia interpersonale nel trattamento dei disturbi alimentari

La terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) è più efficace della terapia interpersonale nel trattamento dei disturbi alimentari

Massimiliano Sartirana (1) e Riccardo Dalle Grave (2)

1 Psicologo, psicoterapeuta, dottore di ricerca in scienze mediche generali e scienze dei servizi.
2 Medico, psicoterapeuta, specialista in scienza dell’alimentazione ed endocrinologia.


 

I dati dello studio indicano che la CBT-E è un trattamento potente per i pazienti ambulatoriali non marcatamente sottopeso affetti da disturbi dell’alimentazione e che l’IPT rimane un’alternativa alla CBT-E, ma la sua risposta è meno pronunciata e più lenta.

Studi controllati eseguiti in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America hanno evidenziato che la terapia interpersonale (IPT) alla fine del trattamento è meno efficace rispetto alla terapia cognitivo comportamentale per la bulimia nervosa (CBT-BN), ma a distanza di un anno ottiene i medesimi risultati (1-2). La IPT non è mai stata però testata in un campione allargato trasdiagnostico di pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione e non è stata confrontata con la più recente versione di CBT “migliorata” (CBT-E; E = “enhanced”). La CBT-E è derivata dalla CBT-BN, ma è stata ideata per essere più efficace e adatta per curare tutte le categorie diagnostiche dei disturbi dell’alimentazione (approccio transdiagnostico) affrontando, con un approccio individualizzato e flessibile, i meccanismi cognitivo comportamentali comuni di mantenimento della psicopatologia condivisa ed evolvente dei disturbi dell’alimentazione (non la diagnosi DSM) (3-4).

Uno studio eseguito presso il Center of Research on Eating Disorders dell’Università di Oxford e recentemente pubblicato su Behaviour Research and Therapy (5), si è posto due obiettivi principali: confrontare la CBT-E con l’IPT; valutare se l’efficacia della CBT-E, verificata nell’originale e ampio trial randomizzato e controllato pubblicato nel 2009 ed eseguito in pazienti con bulimia nervosa e disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati non sottopeso, può essere replicata quando è reclutato un equivalente campione di pazienti e la CBT-E è stata somministrata allo stesso modo.

Il disegno dello studio è stato quello di un trial randomizzato e controllato eseguito in un campione transdiagnostico di pazienti con disturbo dell’alimentazione e con indice di massa corporea (IMC) >17,5 e <40,0. I pazienti eleggibili sono stati randomizzati alla CBT-E o all’IPT, due trattamenti che prevedono 20 sedute da eseguirsi in 20 settimane.

La valutazione dell’efficacia dei trattamenti è stata misurata con l’Eating Disorder Examination Interview (EDE.16.0D) e l’Eating Disorder Examination-Questionnaire (EDE-Q), per valutare la psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione, il Clinical Impairment Assessment (CIA), per valutare il danno psicosociale derivante dal disturbo dell’alimentazione, la SCID-DSM-IV (Intervista Clinica Strutturata) e il Beck Depression Inventory (BDI), per valutare la comorbidità psichiatrica e la depressione clinica coesistente, rispettivamente. Le valutazioni sono state eseguite all’inizio, alla fine del trattamento e a 20, 40 e 60 settimane di follow-up da valutatori che erano all’oscuro della condizione di trattamento del partecipante e non erano coinvolti nel trattamento.

Il campione è stato reclutato da pazienti inviati da medici di famiglia e da altri clinici al servizio clinico di Oxfordshire nel Regno Unito. I criteri di esclusione sono stati i seguenti: l’aver già eseguito un trattamento simile alla CBT-E e IPT (13 soggetti esclusi); la presenza di un disturbo psichiatrico generale coesistente che preclude un trattamento focalizzato sul disturbo dell’alimentazione come, per esempio, la depressione clinica grave, il disturbo bipolare e l’agorafobia grave (16 pazienti esclusi); la presenza di instabilità medica o di gravidanza (13 pazienti esclusi); il non essere disponibili a partecipare al trattamento (13 pazienti esclusi). Prima di entrare nello studio i pazienti hanno sospeso un eventuale trattamento psichiatrico, fatta eccezione del trattamento farmacologico per la depressione clinica che è stato mantenuto durante l’intero trial.

I terapeuti che hanno preso parte allo studio avevano un’esperienza clinica nel trattamento dei pazienti con disturbo dell’alimentazione. Durante lo studio sono stati condotti incontri di supervisione settimanale condotti da Christopher Fairburn e Zafra Cooper. Tutte le sedute del trattamento sono state registrate e ogni settimana alcune sedute a caso sono state scelte e ascoltate dai due supervisori. La qualità della conduzione dei due trattamenti è stata anche valutata da un valutatore indipendente usando l’adattamento di uno strumento sviluppato per il precedente trial che aveva confrontato la CBT-E con l’IPT.

65 partecipanti sono stati assegnati random alle due condizioni di trattamento. Di questi 130, 53 (40,8%) avevano una diagnosi di bulimia nervosa, 8 di disturbo da binge-eating (6,2%) e 69 (53,1%) di disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato.
I punteggi riguardanti le aspettative, l’idoneità e la fedeltà al trattamento sono stati elevati, non diversi tra i due trattamenti e oltre i due terzi delle sedute sono state valutate come eccellenti.
29 partecipanti (22,3%) non hanno completato le 20 sedute di trattamento (bulimia nervosa 32,1%, disturbo da binge-eating  0% e disturbo dell’alimentazione non altrimenti specificato 17,4%).

Alla fine del trattamento, i livelli di psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione e generale sono diminuiti significativamente in entrambi i bracci, ma i cambiamenti sono stati significativamente maggiori nei partecipanti allocati alla CBT-E. La percentuale di partecipanti trattati con la CBT-E che ha raggiunto la remissione, ovvero un punteggio all’EDE globale inferiore a 1,74 (corrispondente al punteggio medio della comunità più una deviazione standard), alla valutazione intent to treat è stata quasi due volte superiore a quella dei partecipanti trattati con l’IPT.  Quasi la metà dei partecipanti trattati con la CBT-E (44,8%, 26/58) non riportava episodi bulimici, vomito autoindotto o uso improprio di lassativi alla fine del trattamento, rispetto a solo il 21,7% (13/60) dei partecipanti trattati con l’IPT.

I cambiamenti osservati sono stati maggiori tra i partecipanti che hanno concluso il trattamento e il tasso di remissione è stato raggiunto in circa 3/4 di partecipanti trattati con la CBT-E rispetto a solo poco più di un terzo in quelli trattati con l’IPT. Al follow-up di 60 settimane il tasso di remissione è rimasto significativamente superiore nei partecipanti trattati con la CBT-E rispetto a quelli trattati con l’IPT (CBT- E 69.4%, IPT 49.0%; p=0.028).
Per quanto riguarda il secondo obiettivo dello studio, il tasso di remissione ottenuto dai partecipanti trattati con la CBT-E è stato simile a quello dello studio del 2009 (6) (67% e 66% alla fine del trattamento e 69% e 63%, rispettivamente).

Commenti

I dati dello studio indicano che la CBT-E è un trattamento potente per i pazienti ambulatoriali non marcatamente sottopeso affetti da disturbi dell’alimentazione e che l’IPT rimane un’alternativa alla CBT-E, ma la sua risposta è meno pronunciata e più lenta. La capacità della CBT di operare rapidamente non è sorprendente, perché è stata ideata per affrontare direttamente la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, mentre l’IPT probabilmente agisce indirettamente sui processi interpersonali nel determinare il cambiamento.

Lo studio è metodologicamente ineccepibile e per questo presenta tre punti di forza. Il primo è che ha reclutato un campione clinicamente rilevante con pochi criteri di esclusione. Il secondo è che il campione trattato è transdiagnostico. Il terzo è che sono state prese tutte le cautele per fare in modo che i due trattamenti fossero ben eseguiti in accordo ai loro protocolli all’interno di un setting ambulatoriale.

Lo studio presenta alcuni limiti. Il primo è che si tratta di uno studio condotto su soggetti adulti con disturbo dell’alimentazione e per questo i suoi risultati non sono generalizzabili a pazienti più giovani. Il secondo è che è stato valutato un campione con IMC compreso tra 17,5 e 40,0 e quindi non si possono generalizzare risultati a soggetti con un IMC diverso da questo. Per ultimo non sono stati riportati risultati sui mediatori o i moderatori della risposta ai due trattamenti. C’è, comunque, da parte del gruppo di Oxford l’intenzione di esaminare la presenza di moderatori di risposta alla CBT-E e all’IPT e di verificare specifiche ipotesi mediazionali rispetto a come operano i due trattamenti.

In conclusione, i risultati dello studio, oltre a dimostrare la maggiore efficacia della CBT-E rispetto all’IPT nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione non marcatamente sottopeso, sottolineano il valore della ricerca in campioni transdiagnostici di partecipanti, come sostenuto dall’iniziativa RDoC (7-8), perché  risultati come quelli ottenuti da questo studio difficilmente possono emergere da ricerche che includono partecipanti con una singola categoria diagnostica.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione: Milano, 7 maggio 2015 – Report dall’evento

 

La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione

Università degli Studi di Milano-Bicocca,7 Maggio 2015

con J. Treasure e con G. Lo Coco, C. Mazzeschi, S. Sassaroli

Pochi giorni fa si è tenuto a Milano, presso l’Università degli Studi Bicocca, un evento di grande interesse scientifico per illustrare lo stato dell’arte sulla ricerca nei Disturbi del Comportamento Alimentare.

Particolare rilievo è stato dato agli interventi con familiari e pazienti affetti da tali disturbi. Nel corso della giornata sono intervenuti alcuni dei più grandi esperti in materia di Disturbi del Comportamento Alimentare.

Sandra Sassaroli, direttrice della Scuola di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi, è intervenuta mostrando quali siano le componenti cognitive che caratterizzano chi è affetto da Disturbi Alimentari (DA).

Le variabili principalmente coinvolte nella psicopatologie dei DA sono l’elevato perfezionismo, sotto-componente ‘timore di sbagliare’, e la ridotta autostima, intesa come ‘inadeguatezza’ riferita agli aspetti corporali. Questi pazienti utilizzano il rimuginio e la ruminazione come strategie di gestione delle emozioni problematiche: ansia, tristezza, rabbia.  Sul rimuginio i pazienti possiedono credenze positive e negative, che incidono sulla psicopatologia del DA.

A svolgere un ruolo determinante sembra essere l’incontrollabilità del pensiero e della vita, elemento meta-cognitivo cruciale per il mantenimento del disturbo. Infatti, il monitoraggio del peso, della forma corporea, dell’alimentazione serve per gestire l’incontrollabilità della vita, dal quale deriva una percezione di pseudo-controllo. Un ricerca condotta dal gruppo di Studi Cognitivi ha esaminato il ruolo del perfezionismo nello sviluppo dei DA, mediante modello statistico con criticismo e perfezionismo come predittori ed il DA come variabile dipendente.  È stato, così, dimostrato che il perfezionismo gioca un ruolo di mediatore tra il criticismo ed il disturbo alimentare. Altri fattori predittivi includono la rigidità del pensiero, la bassa autostima, lo stress e la disregolazione emotiva.

La parola è data poi a Janet Treasure, la quale parla del ruolo dei familiari dei pazienti con DA nel suo intervento intitolato Eating is a Family Affair.

Il ruolo dei familiari nei Disturbi del Comportamento Alimentare è fondamentale, tuttavia il modo in cui i familiari cercano di ridurre i sintomi potrebbe inavvertitamente giocare un ruolo nel mantenimento o nella legittimazione del problema (Treasure et al., 2008). Le famiglie hanno quindi bisogno di incrementare le proprie abilità così da poter modificare le proprie credenze.

L’individuo che è affetto da un disturbo alimentare presenta una compromissione di alcune funzioni quali la cognizione sociale, la regolazione emozionale, il processo decisionale, la flessibilità e la pianificazione manifestando comportamenti patologici associati, in particolare l’isolamento, problemi nella gestione delle emozioni negative, l’intolleranza all’incertezza, una rigidità globale e l’incapacità a scegliere strategie per raggiungere scopi generali.

Ai familiari è richiesto di diventare competenti nel fornire un supporto attraverso l’ascolto, sviluppare livelli di regolazione emozionale con un atteggiamento mentale sereno e compassionevole e di acquisire le abilità necessarie a comprendere gli altri, ad essere flessibili, a prendere decisioni e a pianificare tenendo in mente un progetto di vita e specifici valori.

I familiari sono quindi generalmente il supporto principale per i giovani che soffrono di un Disturbo Alimentare ma spesso corrono il rischio di mettere in atto modelli di comportamento non salutari che potrebbero mantenere ed aggravare i comportamenti alimentari patologici. È spesso necessario per i membri della famiglia cambiare alcuni aspetti dei propri schemi di interazione in risposta ai comportamenti alimentari problematici.

I comportamenti di chi è affetto da DA provocano nei familiari e nelle persone loro vicine, un corteo di reazioni istintive quali: rabbia, frustrazione, pianto, ansia o al contrario disinteresse e negazione del problema.

Queste reazioni sono state ben descritte attraverso delle metafore animali, alcune delle quali di seguito illustrate, che Janet Treasure ha elaborato con il suo team.

Il Canguro: troppa emozione e troppo controllo.

Metafora del Canguro - La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione - Report

Il Rinoceronte: troppo logico e poco caloroso.

Metafora del Rinoceronte - La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione - Report

Lo Struzzo: poca emozione e poco controllo.

Metafora dello struzzo - La ricerca sugli interventi con familiari e pazienti con disturbi dell’alimentazione - Report

È stata discussa, infine, un’applicazione clinica recente sulla famiglia di pazienti ospedalizzati: l’ECHO (Expert Carers Helping Others). Si tratta di un programma di auto-aiuto che fornisce ai genitori un manuale e un Dvd che mostrano loro le modalità di supporto e gestione dei figli con Anoressia Nervosa in corso di dimissione, includendo anche dieci sedute telefoniche di training. Ricerche che hanno confrontato l’efficacia del programma ECHO e quella di un trattamento standard Family Based Treatment (FBT) hanno dimostrato che il programma ECHO ottiene: maggiori benefici rispetto ai sintomi alimentari, all’autonomia e alla qualità di vista generale; recupero del peso corporeo più rapido; aumento progressivo del BMI anche dopo la dimissione; riduzione dello stress genitoriale; aumento dell’espressione dell’emotività in famiglia. Un trattamento combinato (ECHO e FBT), invece, si è dimostrato particolarmente efficace per pazienti più gravi, sia per il recupero del peso corporeo sia per ridurre gli atteggiamenti disfunzionali dei genitori.  Risulta, pertanto essenziale il coinvolgimento precoce della famiglia all’interno del trattamento di pazienti con DA.

Interviene dunque Claudia Mazzeschi, parlando di Obesità in età evolutiva e di come questa non sia una entità diagnostica definita, ma sia piuttosto caratterizzata da una eziologia multifattoriale (fattori organici, socio-ambientali, psicologici e psicosociali). Gli interventi di elezione sui pazienti obesi in età evolutiva sono quelli focalizzati su un approccio di tipo Collaborativo che coinvolge il nucleo familiare. I problemi che riguardano il coinvolgimento dei genitori in terapia sono essenzialmente due:

  • tendono a considerare il disturbo alimentare del figlio di natura esclusivamente biomedica;
  • considerano il disturbo alimentare un problema unicamente del figlio.

La dottoressa Mazzeschi ha presentato una ricerca che ha impiegato l’approccio collaborativo in fase di assessment, usando come strumenti di rilevazione questionari sel-report, colloqui, narrazioni e test proiettivi. Ha così evidenziato le caratteristiche delle famiglie di pazienti obesi: ridotto funzionamento familiare globale, bassa alleanza genitoriale, ruolo predittivo del BMI dei genitori, stile di attaccamento insicuro distanziante.

La parola è passata infine a Gianluca Lo Coco che ha esposto il suo intervento relativo a Stili di personalità e Disturbi Alimentari.

Il dottor Lo Coco ha illustrato recenti classificazioni di personalità in pazienti con DA. Wildes & Marcus (2013) ne distinguono tre tipologie: forme multi-impulsive di Bulimia Nervosa (BN), DA con o senza disregolazione emotiva, DA con Disturbo Ossessivo Compulsivo in comorbilità. Thompson-Brenner identifica tre tipologie di personalità nei DA: ipercontrollato, disregolato, ad alto funzionamento. Lo Coco ha presentato tre ricerche sul tema della personalità nei DA che hanno impiegato strumenti di valutazione differenti. Uno studio condotto mediante il Big Five-Questionnaire ha rilevato alti livelli di estroversione, aggressività, impulsività e ridotti livelli di coscienziosità in pazienti con Binge Eating Desorder (BED). Una ricerca che ha impiegato il Millon Clinical Multiaxial Inventory-III (Millon, 2006) ha rilevato personalità passivo-aggressive e depressive in soggetti con Anoressia Nervosa (AN), BN e BED; personalità dipendente in soggetti con BN e BED; tratti auto-aggressivi e con sottomissione interpersonale in soggetti con BED.  Infine, un’analisi condotta con il Depressive Experiences Questionnaire (Blatt, 1976) ha messo in luce maggiori livelli di depressione in pazienti con AN, BN, BED, OBESI rispetto ad un campione di controllo; depressione come fattore predittivo del BED; auto-criticismo come predittore della qualità di vita, della regolazione emotiva e dell’autostima in pazienti con BED.

 

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Report dal Congresso ICED 2015: International Conference on Eating Disorders – Boston, 23-25 Aprile 2015

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Vitiligine & qualità della vita: efficacia della psicoterapia

Annarita Scarola, Laura Grigis, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Le difficoltà psicologiche delle persone affette da vitiligine incidono negativamente sul loro benessere psicologico e sulla qualità della vita, ma possono essere risolte attraverso un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

La vitiligine è una dermatosi comune, ad andamento cronico e progressivo, caratterizzata da chiazze cutanee carenti (ipocromia) o prive (acromia) di pigmento melanico; la melanina è la sostanza che fornisce la normale colorazione della pelle. L’assenza di melanina comporta la presenza di chiazze chiare sulla pelle. Queste chiazze, di solito disposte simmetricamente, possono manifestarsi in qualsiasi parte del corpo, a qualunque età e la loro insorgenza è indipendente dal sesso e dal colore della pelle (Menchini, 2011). La distribuzione corporea delle macchie, anche se soggetta ad estrema variabilità individuale, riguarda principalmente le mani, i piedi e il volto (contorno labbra e contorno occhi), gomiti e ginocchia. Esistono inoltre diverse forme di manifestazione anche per quanto riguarda la velocità di diffusione e espansione delle chiazze.

Statisticamente, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la vitiligine colpisce oltre l’1% della popolazione mondiale, senza differenze geografiche, razziali o di sesso. La fascia d’età maggiormente colpita comprende soggetti tra i 20-40 anni e in circa il 13-15% dei casi ha andamento familiare (Ortonne, Mosher, & Fitzpatrick, 1983).

Le cause dell’insorgenza della vitiligine non sono ancora certe, sebbene nel corso degli anni siano state formulate diverse ipotesi (Boissy RE, 2012): la teoria patogenetica convergente è ad oggi quella che raccoglie più consensi e ipotizza la compartecipazione di diversi meccanismi (neurali, biochimici e autoimmuni) che, in presenza di predisposizione genetica e unitamente ad altri fattori ambientali (tra cui condizioni di stress e traumi psicologici), sarebbero responsabili dell’insorgenza di un danno a carico dei melanociti (Ram M, 2007). Tale danno attiverebbe una risposta del sistema immunitario diretta nei confronti di antigeni melanocitari responsabile del perpetuarsi del danno a carico dei melanociti (Nordlund J, 2011).
E’ difficile considerare la vitiligine una vera e propria malattia, perché non ha sintomi fisici dolorosi e l’unico indicatore della presenza della patologia è l’aspetto della pelle.

In realtà però questa malattia ha conseguenze psicologiche su chi ne soffre (Lansdown, Rumsey, Bradbury, Carr, & Partridge, 1997; Thompson & Kent, 2001), perché spesso comporta lo sviluppo di ansia sociale legata al giudizio delle persone: gli occhi di chi guarda esprimono la sorpresa, il disgusto e quasi la paura di trovarsi di fronte ad una persona “con la pelle a macchie” (Ramsey & O’Reagan, 1988). Sono stati inoltre individuati elevati punteggi di ansia di tratto nelle persone affette da vitiligine (Seongmin,Miri, Chang, Seung-Kyung, Sang Ho, 2013) : questo studio ha evidenziato anche che, al contrario di quanto si possa immaginare, l’ansia non è maggiore nei pazienti con depigmentazione in zone esposte come viso e collo.

Un peggioramento della qualità della vita, causato dalla vitiligine, è correlato anche ad una maggiore incidenza della depressione (Lucybeth, Jyoti, Dipesh, 2015).
L’ansia sociale spesso porta chi soffre di vitiligine a isolarsi e ad evitare situazioni sociali in cui può sentirsi giudicato (Salzer & Schallreuter, 1995); in alternativa si ricorre al trucco e all’uso di creme coloranti che garantiscono per un breve periodo la normale colorazione dell’epidermide; altre persone invece iniziano un lungo percorso di ricerca di cure, tentativi di terapie e consultazione di esperti che ha però un inevitabile esito negativo, non esistendo ad oggi una cura efficace per questa malattia.

Gli aspetti psicologici possono anche modificare il decorso della malattia: ad esempio depressione e ansia possono ridurre la compliance ad un eventuale trattamento dermatologico (DiMatteo, Lepper, Croghan, 2000).

Sono state fatte numerose ricerche sul rapporto tra qualità della vita, benessere psicologico e vitiligine. Una ricerca condotta negli Stati Uniti da Thompson, Kent e Smith (2002) evidenzia una migliore qualità della vita per i pazienti che, invece di nascondere il problema o ricorrere all’evitamento delle situazioni sociali, intervengono sulla propria vita impegnandosi nell’accettazione della loro condizione. Questa risulta essere una strategia più faticosa ma più duratura ed efficace, soprattutto se accompagnata dal sostegno sociale e familiare.

Le strategie cognitive disfunzionali più utilizzate da queste persone sono:
– evitamento e dissimulazone;
– ipervigilanza rispetto al pensiero e al comportamento degli altri e pregiudizi interpretativi (Rapee & Heimberg, 1997);
– fare confronti “al ribasso”: confrontarsi con chi ha malattie peggiori della propria.

Mentre quelle positive e funzionali, acquisite grazie ad un adeguato sostegno psicologico sono:
– acquisizione di locus of control esterno: “Non sono io ad avere un problema ma sono gli altri che non comprendono”;
– cercare incoraggiamento e rassicurazione da parte degli altri.

Il sostegno sociale infatti risulta essere un’importantissima risorsa per questi pazienti (Carver e Scheier, 1981).
L’utilità di un intervento psicoterapeutico per i pazienti affetti da vitiligine è stato dimostrato dallo studio di Papadopoulos, Bor e Legg (1999): i partecipanti che hanno ricevuto un’ora di trattamento CBT (cognitive-behavioral therapy) per otto settimane, associato ad alcune tecniche comportamentali per aumentare le competenze sociali, hanno ottenuto miglioramenti della qualità della vita, della percezione del proprio corpo e dell’autostima.
Le difficoltà psicologiche delle persone affette da vitiligine incidono negativamente sul loro benessere psicologico e sulla qualità della vita, ma possono essere risolte attraverso un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

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I ricordi di colpevolezza possono essere volontariamente soppressi

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

Capita a tutti di passare momenti in cui continuiamo a ripensare di aver ferito qualcuno o di esserci comportati in modo inadeguato; le memorie di questi episodi possono indurre sentimenti di colpa e vergogna. E’ possibile sopprimere questo tipo di ricordi, ma quali sono le conseguenze di questo processo di soppressione?

Una nuova ricerca dimostra che le persone in grado di inibire con successo alcuni ricordi incriminanti, riducono l’impatto dei ricordi sui comportamenti automatici con conseguente attività cerebrale simile a quella osservata nei partecipanti “innocenti”.

[blockquote style=”1″]Utilizzando la simulazione di un reato, abbiamo esaminato se le persone possono sopprimere i ricordi colpevoli ed evitarne il rilevamento[/blockquote] spiega il ricercatore Xiaoqing Hu dell’Università del Texas a Austin.[blockquote style=”1″] Il nostro studio indica che la soppressione può essere efficace in un certo modo, ci aiuta a limitare l’influenza di ricordi indesiderati sul nostro comportamento.[/blockquote]

I ricercatori hanno reclutato 78 studenti universitari e li hanno assegnati in modo casuale a uno di tre gruppi. Due dei gruppi, i cosiddetti gruppi “colpevoli”, sono stati incaricati di trovare e rubare un determinato oggetto dalla cassetta postale di un membro della facoltà. L’oggetto era un anello, ma la parola “anello” non è mai stata menzionata nelle istruzioni. Questo per garantire che i ricordi legati all’anello risultassero dal ricordo del crimine reale commesso e non delle istruzioni date. A un terzo gruppo, il gruppo “innocente”, è stato detto di andare nella stessa area e semplicemente scrivere le loro iniziali su un pezzo di cartoncino.

Ad un gruppo di studenti colpevoli è stato detto che non avrebbero dovuto permettere alla propria mente di ripescare nessuna informazione riguardo al furto durante il test delle informazioni nascoste (concealed-informaton test, CIT) cioè, essi sono stati incaricati di reprimere la memoria. Agli altri studenti colpevoli e agli studenti innocenti non sono state date istruzioni di soppressione.

I tre gruppi hanno poi completato un CIT, un test che può essere utilizzato per valutare se un individuo ha conoscenze specifiche suggerendo coinvolgimento in un crimine. In ogni prova, ai partecipanti sono stati presentati sia elementi inerenti all’evento accaduto (ad esempio, la parola “anello”) sia uno di sei elementi senza collegamento al reato (ad esempio, “braccialetto”, “collana”, “orologio”, “gemello”, “medaglione”, “portafoglio”), mentre la loro attività cerebrale è stata registrata usando l’elettroencefalografia. I ricercatori sono stati specificamente interessati a guardare il P300, un’onda ERP che indica il ricordo cosciente.

Gli studenti hanno inoltre completato un test di Associazione Implicita Autobiografica (Autobiographical Implicit Association Test, AIAT), in cui dovevano indicare se le dichiarazioni specifiche fossero vere o false. I tempi di risposta sull’AIAT sono pensati in modo da riflettere la forza di una particolare associazione, più é veloce la risposta, più è forte l’associazione, a prescindere da pensieri e sentimenti esplicitamente dichiarati dalla persona.
Come previsto, i ricercatori hanno trovato che i partecipanti colpevoli hanno mostrato risposte P300 significativamente più ampie al bersaglio che agli stimoli irrilevanti, ma solo se non erano state date istruzioni per sopprimere i ricordi del crimine.

Coloro che avevano “soppresso” i ricordi connessi alla criminalità non hanno mostrato alcuna differenza di attività P300 tra i due tipi di stimoli, con dati che erano indistinguibili da quelli dei partecipanti innocenti. Inoltre, i partecipanti a memoria repressa sono risultati anche in minori probabilità colpevoli nell’ associare i ricordi connessi alla criminalità con la verità sull’AIAT.

I risultati suggeriscono che la soppressione della memoria smorza l’attività neurale associata con il recupero dei ricordi e limita anche l’influenza di questi ricordi sulle risposte comportamentali automatiche. I ricercatori stanno progettando di esplorare ulteriormente questo effetto di soppressione della memoria e indagare se potrebbe essere applicato ad altri tipi di memorie personalmente significative.

Anche se i ricordi traumatici possono sembrare un bersaglio ovvio per la soppressione, i ricercatori sottolineano che questi ricordi derivano da eventi emozionali che coinvolgono una forte eccitazione fisiologica e non è chiaro se la soppressione sarebbe efficace nel ridurne l’impatto.

 

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Favorire l’attaccamento sicuro nei bambini: il “Circle of Security”

Dal 18 al 21 Giugno si terrà a Roma il II Training ufficiale del “Circle of Security” (COS, “Cerchio della sicurezza”; Marvin et al., 2002), frutto della collaborazione tra l’Associazione Terapia e Ricerca Età Evolutiva e Adulti – ASTREA e il Circle of Security International.

Il COS è un particolare programma di intervento di parenting basato sulle evidenze scientifiche fornite dalla Teoria dell’Attaccamento. Questo programma di intervento, rivolto a gruppi di genitori, risulta particolarmente indicato per la fascia d’età che copre la prima infanzia – da 0 a 5 anni – ed è stato ideato in modo tale da disporre di due diverse tipologie di intervento: una versione “psicoeducazionale”, in cui sono previsti 10 incontri, e una versione “psicoterapeutica” in cui sono previsti 20 incontri.

Ognuna delle versioni ha un programma strutturato secondo due distinti momenti: l’assessment e l’intervento vero e proprio (Manaresi, 2012; Zeanah et al., 2013). Nella parte iniziale del protocollo è presente una valutazione dei genitori, del bambino e della loro relazione; tale valutazione mira a classificare la tipologia di attaccamento del bambino (Cooper et al., 2005) oltre che a raccogliere informazioni anamnestiche e di tipo diagnostico. Nel programma di valutazione è inserita anche un’intervista semi-strutturata in cui sono stati inseriti elementi tratti dalla Adult Attachment Interview (AAI) (George, Kaplan e Main, 1996) con l’obiettivo di indagare il rapporto che i genitori hanno instaurato con il proprio bambino e l’emotività esperita quando gli stessi si ritrovano in situazioni che attivano il legame di attaccamento. Un aspetto importante di questo approccio, infatti, è l’idea secondo cui i principi basilari della teoria dell’attaccamento, attraverso tecniche di video-feedback, possono essere appresi con facilità e, dunque, “fare da guida” ai genitori nelle interazioni con i propri bambini.

Il protocollo del Circle of Security

Visto il ruolo significativo che i modelli specifici di attaccamento hanno nello sviluppo dei bambini, i ricercatori che si sono occupati di sviluppare il programma di intervento del COS hanno ritenuto necessario l’utilizzo di protocolli basati sulla tipologia di attaccamento rilevata nel bambino (Hoffman et al., 2006) al fine di creare un intervento specifico ed individuale per il soggetto destinatario. In altre parole, attraverso la classificazione dell’attaccamento del bambino (i.e., sicuro, insicuro e disorganizzato) è possibile comprendere ciò che quel bambino ha imparato sull’essere in relazione con il proprio caregiver e, dunque, discernere quali siano le eventuali problematiche su cui focalizzarsi nell’intervento.

Nello specifico, il programma di intervento del COS prevede all’interno del suo protocollo una suddivisione in 8 moduli, ciascuno con i propri obiettivi specifici. Lo svolgimento del protocollo, a seconda della varie fasi e dei vari moduli che devono essere affrontati, può variare in termini di tempo (l’esigenza è quella di trovare un equilibrio tra la necessità di fornire i contenuti del programma e il rispetto dei tempi di apprendimento dei partecipanti al fine di generare una risposta significativa e riflessiva ai contenuti stessi) (Zeanah et al., 2013; Manaresi, 2012).

Nel programma del COS, dunque, è previsto un lavoro prima teorico e poi “pratico” attraverso esercitazioni con supporti video sull’acquisizione di consapevolezza dei processi di regolazione e strutturazione delle dinamiche relazionali (Zeanah et al., 2013).

Quando i genitori hanno appreso e “familiarizzato” con i diversi aspetti teorici presentati vengono a loro proposti video che riproducono momenti di interazione tra genitori e figli e, utilizzando la tecnica dei video-feedback, i genitori sono invitati a descrivere gli avvenimenti del filmati utilizzando, però, gli strumenti di interpretazione forniti dal COS stesso. Vengono dunque invitati a riconoscere l’espressione del legame di attaccamento, il bisogno di esplorazione del bambino e, inoltre, invitati a descrivere e individuare i diversi comportamenti messi in atto dai genitori nel video in base alle nozioni fornite dal programma (ad esempio, le “mani” o la “base sicura”) e cercare di individuare le tecniche più “efficaci” di coping.

Nel programma vengono utilizzati anche video che riguardano la Strange Situation Procedure (SSP; Ainsworth et al., 1978) che sono stati precedentemente registrati durante la fase di valutazione dei partecipanti e che, quindi, li riguardano direttamente (Zeanah et al., 2013); così facendo, si presuppone che i genitori siano portati a operare una rivalutazione sullo stato emotivo e sui modelli operativi interni (MOI; Bowlby, 1969) che vengono rievocati dalle richieste del bambino, anche tramite una riflessione sulla propria storia di attaccamento infantile (Manaresi, 2012).

L’utilizzo dei supporti video prevede, inoltre, dei segmenti estratti dal materiale della valutazione selezionati per ogni diade madre/bambino (o caregiver), utilizzati in momenti diversi del programma con scopi diversi: in una prima parte del lavoro ci si pone l’obiettivo di individuare le risorse disponibili nella diade mentre, in un secondo momento, ci si concentra sui problemi riscontrati e sugli aspetti non funzionali dell’interazione. In una terza parte del lavoro, invece, si punta al rinforzo diretto delle capacità che sono emerse durante il lavoro stesso (Zeanah et al., 2013).

Esistono contesti in cui si avverte la necessità di fornire un forte sostegno alle madri nelle esigenze specifiche relative alla cura di se stesse e dei loro bambini. Il COS rappresenta un breve percorso, comportamentale e orientato all’insight, adatto a supportare la genitorialità utilizzando le conoscenza derivate dalla Teoria dell’Attaccamento.

Tale protocollo è radicato nella ricerca empirica sulla psicopatologia dello sviluppo e pone un focus continuo sulla stimolazione della sensibilità genitoriale, sul sostegno alla famiglia e sul cambiamento delle rappresentazioni mentali al fine di promuovere la sicurezza dell’attaccamento nel bambino.

La forza di tale metodo, probabilmente, risulta essere l’utilizzo di interventi e tecniche psicoeducative, cognitivo-comportamentali e psicodinamiche con la stessa finalità. Negli ultimi anni l’interesse verso questo protocollo è cresciuto e, attualmente, sono in corso alcuni studi clinici controllati randomizzati (uno su tutti, quello in corso al Department of Child and Adolescent Psychiatry, Psychotherapy, and Psychosomatics at the University Medical Center of Hamburg condotto da Ramsauer e collaboratori, 2014) che “testeranno” tale intervento anche in ambienti clinici con genitori affetti da differenti disturbi psichici (e.g., depressione post partum).

 

 

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Dott. Walter Sapuppo

Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, AAI Certified Coder. Docente presso le scuole di psicoterapia Cognitivo – Comportamentale “Studi Cognitivi” e “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”. Già Professore a Contratto presso il CDL in “Psicologia Clinica” e Docente al Master di II Livello in “Psicodiagnostica clinica dell’individuo e delle istituzioni” presso la Seconda Università degli Studi di Napoli. Socio Ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR). È autore di pubblicazioni scientifiche su Disturbi Alimentari, Cicli Cognitivo-Interpersonali, “process” terapeutico e psicopatologia correlata ai traumi.

Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia

Smetto quando voglio è un film del 2014 diretto da Sydney Sibilia. Il film oltre ad intercettare una condizione sociale diffusa, il precariato d’eccellenza, mostra molte sfaccettature del mondo della tossicodipendenza.

Pietro Zinni è un ricercatore universitario di 37 anni che viene licenziato dopo i tagli all’Università. Tornato a casa, non ha il coraggio di dire la verità a Giulia, la compagna con cui convive e che (paradossalmente) lavora in una comunità per tossicodipendenti. In compenso, però, ha un’idea: utilizzare un algoritmo per creare una nuova droga, tra quelle non ancora messe al bando dal ministero. La cosa in sé è legale, lo spaccio e il lucro che ne derivano no. Ma fa lo stesso, i tempi sono questi. Pietro recluta così tutti i suoi amici accademici finiti in rovina: due latinisti che lavorano come benzinai, un neurobiologo impegnato come lavapiatti in un ristorante cinese, un economista che sfrutta le sue conoscenze per giocare a poker, un antropologo che cerca di farsi assumere come sfasciacarrozze, un archeologo che assiste gli operai per gli scavi nei centri storici. Queste menti geniali vengono riunite e viene messa su una banda.

Smetto quando voglio, è la tipica espressione che chi lavora con i pazienti tossicodipendenti sente pronunciare e che sottolinea la difficoltà di questi utenti a riconoscere l’uso compulsivo della sostanza stupefacente e i comportamenti a esso associati (ad esempio lo spaccio) come problematici.

Questa banda decide di prendersi una rivincita sul sistema operando per vie non proprio legali. Lo scopo è fare i soldi e vedersi restituita un briciolo di dignità. Le cose poi prendono un’altra piega! Il loro piano è di sintetizzare una nuova droga ancora non catalogata dal Ministero della Salute.

 

È quello che succede oggi con le cosiddette droghe sintetiche. Queste droghe di ultima generazione sono droghe furbe: non perseguibili dalla legge in quanto non presenti come tali nelle tabelle legislative delle corrispondenti leggi che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope. In natura esistono moltissime molecole, di cui spesso gli studiosi della materia sanno poco o nulla, lasciando a chi le commercia un buon margine di tempo prima che vengano effettuate ricerche mediche che ne studiano gli effetti e che possano farle dichiarare illegali.

Gli smart shops propongono lo sballo con prodotti naturali rispetto alle droghe più comunemente utilizzate per tirarsi su. L’effetto stimolante-eccitante che producono è però grave: l’assunzione di queste sostanze, capaci di provocare elevata dipendenza psicofisica, può provocare problematiche psichiatriche di vario tipo correlate a diversi disturbi d’organo (soprattutto renali, cardiaci e respiratori) generalmente aggravati dal contestuale uso di alcolici.

Ma se il piano di Pietro e i suoi complici all’inizio doveva essere un modo per guadagnarci qualcosa, poi le pasticche prodotte avventurosamente hanno un immediato successo nei locali notturni romani. L’idea è più che brillante ed in men che non si dica il giro d’affari diventa enorme, fino ad arrivare all’alta società romana, fatta di conti e numeri telefonici esteri. Le loro vite private mutano così come il loro standard di vita, finché non si imbattono nel malavitoso di turno. Abbagliata dai soldi facili, la banda dei sette punta più in alto, avvicinandosi pericolosamente al giro della corruzione politica e dello spaccio della droga.

Così, se all’inizio si ha la percezione di poter gestire la sostanza, più tardi si è disposti a tutto.

Messi alle strette da un mafioso di quartiere, per procurarsi le sostanze di base rapinano una farmacia, ma vengono arrestati. Pietro si assume tutte le colpe e finisce in carcere, i suoi compagni ritornano alla loro condizione di sottoccupati accettando i lavori più umilianti.

Una commedia italiana che tra battute e scene stravaganti infonde una comicità amara: tutte storie vere che, per quanto paradossali, superano la fantasia.

 

 

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