expand_lessAPRI WIDGET

Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia

Smetto quando voglio è un film del 2014 diretto da Sydney Sibilia. Il film oltre ad intercettare una condizione sociale diffusa, il precariato d’eccellenza, mostra molte sfaccettature del mondo della tossicodipendenza.

Pietro Zinni è un ricercatore universitario di 37 anni che viene licenziato dopo i tagli all’Università. Tornato a casa, non ha il coraggio di dire la verità a Giulia, la compagna con cui convive e che (paradossalmente) lavora in una comunità per tossicodipendenti. In compenso, però, ha un’idea: utilizzare un algoritmo per creare una nuova droga, tra quelle non ancora messe al bando dal ministero. La cosa in sé è legale, lo spaccio e il lucro che ne derivano no. Ma fa lo stesso, i tempi sono questi. Pietro recluta così tutti i suoi amici accademici finiti in rovina: due latinisti che lavorano come benzinai, un neurobiologo impegnato come lavapiatti in un ristorante cinese, un economista che sfrutta le sue conoscenze per giocare a poker, un antropologo che cerca di farsi assumere come sfasciacarrozze, un archeologo che assiste gli operai per gli scavi nei centri storici. Queste menti geniali vengono riunite e viene messa su una banda.

Smetto quando voglio, è la tipica espressione che chi lavora con i pazienti tossicodipendenti sente pronunciare e che sottolinea la difficoltà di questi utenti a riconoscere l’uso compulsivo della sostanza stupefacente e i comportamenti a esso associati (ad esempio lo spaccio) come problematici.

Questa banda decide di prendersi una rivincita sul sistema operando per vie non proprio legali. Lo scopo è fare i soldi e vedersi restituita un briciolo di dignità. Le cose poi prendono un’altra piega! Il loro piano è di sintetizzare una nuova droga ancora non catalogata dal Ministero della Salute.

 

È quello che succede oggi con le cosiddette droghe sintetiche. Queste droghe di ultima generazione sono droghe furbe: non perseguibili dalla legge in quanto non presenti come tali nelle tabelle legislative delle corrispondenti leggi che proibiscono l’uso di sostanze stupefacenti e psicotrope. In natura esistono moltissime molecole, di cui spesso gli studiosi della materia sanno poco o nulla, lasciando a chi le commercia un buon margine di tempo prima che vengano effettuate ricerche mediche che ne studiano gli effetti e che possano farle dichiarare illegali.

Gli smart shops propongono lo sballo con prodotti naturali rispetto alle droghe più comunemente utilizzate per tirarsi su. L’effetto stimolante-eccitante che producono è però grave: l’assunzione di queste sostanze, capaci di provocare elevata dipendenza psicofisica, può provocare problematiche psichiatriche di vario tipo correlate a diversi disturbi d’organo (soprattutto renali, cardiaci e respiratori) generalmente aggravati dal contestuale uso di alcolici.

Ma se il piano di Pietro e i suoi complici all’inizio doveva essere un modo per guadagnarci qualcosa, poi le pasticche prodotte avventurosamente hanno un immediato successo nei locali notturni romani. L’idea è più che brillante ed in men che non si dica il giro d’affari diventa enorme, fino ad arrivare all’alta società romana, fatta di conti e numeri telefonici esteri. Le loro vite private mutano così come il loro standard di vita, finché non si imbattono nel malavitoso di turno. Abbagliata dai soldi facili, la banda dei sette punta più in alto, avvicinandosi pericolosamente al giro della corruzione politica e dello spaccio della droga.

Così, se all’inizio si ha la percezione di poter gestire la sostanza, più tardi si è disposti a tutto.

Messi alle strette da un mafioso di quartiere, per procurarsi le sostanze di base rapinano una farmacia, ma vengono arrestati. Pietro si assume tutte le colpe e finisce in carcere, i suoi compagni ritornano alla loro condizione di sottoccupati accettando i lavori più umilianti.

Una commedia italiana che tra battute e scene stravaganti infonde una comicità amara: tutte storie vere che, per quanto paradossali, superano la fantasia.

 

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

La dipendenza da sostanze spiegata in un video

CASO CLINICO: FUNZIONI ED ABILITA’ DI BASE IN UNA PRESUNTA ENCEFALOPATIA MITOCONDRIALE

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior 

Caso clinico: funzioni e abilità di base in una presunta encefalopatia mitocondriale

Autore: Fabiana Giordano

Abstract

Le malattie mitocondriali, note come encefalomiopatie mitocondriali, sono un ampio gruppo di patologie associate a difetti del metabolismo energetico mitocondriale, attribuibili, in particolare, a difetti nella fosforilazione ossidativa (Zeviani e Di Donato, 2004). Tali disordini dipendono da mutazioni che possono intervenire nel genoma mitocondriale e/o in quello nucleare (DiMauro e Shon, 2003). Le malattie mitocondriali presentano notevole variabilità clinica per quanto riguarda l’età d’insorgenza, il tipo di evoluzione e i tessuti coinvolti. Una peculiarità di questo gruppo di patologie, che ne ha reso difficoltoso lo studio nel corso degli anni, è la variabilità delle manifestazioni cliniche; nonostante queste dipendano da un’inadeguata produzione di energia cellulare, la ripercussione a carico degli organi, la velocità di progressione e l’età di insorgenza della malattia variano notevolmente sia da malattia a malattia che da paziente a paziente, anche all’interno di una stessa famiglia. I sistemi più frequentemente interessati sono l’apparato muscolare ed il sistema nervoso centrale e periferico, ma possono essere coinvolti, con variabile gravità di interessamento ed in diverse combinazioni, anche le vie visive ed uditive, il cuore, le ghiandole endocrine. L’obiettivo del presente studio è stato osservare e descrivere le abilità cognitive e le funzioni di base caratterizzanti un quadro di sospetto encefalopatia mitocondriale infantile in un paziente di 3 anni.

Parole chiave: malattie mitocondriali, caso clinico. osservazione, funzioni cognitive, SVFB

Introduzione

In quasi tutte le cellule del corpo ci sono delle piccole centrali dette mitocondri. La teoria vuole che 1,5 miliardi di anni fa, i mitocondri fossero cellule indipendenti, probabilmente dei batteri, e che siano stati inglobati in cellule di organismi superiori che necessitavano di una fonte rapida di energia. Quello che i mitocondri fanno per la cellula è una “rapida produzione di energia”, ATP. I mitocondri sono fra gli organuli più cospicui del citoplasma e sono presenti in quasi tutte le cellule eucariotiche. Essi hanno una struttura particolare, osservabile al microscopio elettronico: ciascun mitocondrio si presenta come un corpuscolo dalla caratteristica forma a fagiolo. I mitocondri sono formati da due membrane concentriche: una esterna, liscia, e una interna, ripiegata a formare varie creste. (DiMauro e Schon, 2003). La membrana interna ospita gli enzimi della catena respiratoria mitocondriale e garantisce una barriera per la diffusione ionica, un fattore cruciale per generare il gradiente protonico necessario a produrre ATP; la membrana esterna permette la diffusione passiva tra citosol e spazio intermembrana di sostanze a basso peso molecolare. I mitocondri svolgono numerose funzioni, come l’ossidazione del piruvato, il ciclo di Krebs, il metabolismo degli aminoacidi, degli acidi grassi, degli steroidi, ma la più importante rimane la generazione di energia sotto forma di ATP (adenosine triphosphate) mediante la fosforilazione ossidativa. La fosforilazione ossidativa è il processo biochimico ad alta efficienza tramite il quale viene prodotto ATP, grazie all’energia progressivamente liberata dagli elettroni lungo la “catena di trasporto degli elettroni”. Questo processo di produzione di ATP è essenziale per il normale funzionamento di tutte le cellule eucariotiche, anche se i mitocondri sono particolarmente numerosi nelle cellule ad elevata richiesta metabolica, come i neuroni e i muscoli scheletrici. Tuttavia, i mitocondri, sono anche coinvolti in molti altri differenti processi, quali le vie di trasduzione del segnale, la differenziazione cellulare, l’apoptosi, il controllo del ciclo cellulare e la crescita delle cellule (DiMauro e Schon, 2003). I mitocondri sono gli unici organelli a possedere un proprio genoma, noto come DNA mitocondriale (mtDNA), ed un proprio macchinario per la sintesi dell’RNA e delle proteine (DiMauro e Schon, 2003). Il DNA mitocondriale umano è una piccola molecola circolare a doppio filamento contenente 37 geni; di questi, 24 sono necessari per la trascrizione del mtDNA (2 RNA ribosomiali e 22 RNA transfer), e 13 codificano le subunità della catena respiratoria. Esso viene ereditato, all’atto della fecondazione, dalla cellula uovo che pertanto partecipa, a differenza dello spermatozoo, alla costituzione del patrimonio mitocondriale dello zigote. Proprio per questo motivo molte delle malattie mitocondriali sono ereditate per via matrilineare. I precursori del genoma mitocondriale sono formati e regolati da una rete di enzimi anabolici e catabolici localizzati sia all’interno dei mitocondri che nel citosol. Un malfunzionamento degli enzimi coinvolti nella sintesi del mtDNA o eventuali sbilanciamenti nei pool nucleotidici, necessari alla sintesi, possono indurre un malfunzionamento nella replicazione e nel mantenimento del DNA e provocare, quindi, delle gravi malattie genetiche (Leanza et al., 2008; Pontarin et al., 2003; DiMauro e Schon, 2008).
Le malattie mitocondriali sono un ampio gruppo di patologie associate a difetti del metabolismo energetico mitocondriale, riconducibili in particolare ad anomalie nella fosforilazione ossidativa OXPHOS (Oxidative phosphorylation) (Zeviani e Di Donato, 2004). Poiché gli organi maggiormente affetti sono il cervello e i muscoli scheletrici, le patologie sono spesso conosciute come encefalomiopatie mitocondriali (DiMauro e Schon, 2003). Tuttavia, tutti i tessuti ad elevata richiesta energetica quali, oltre a cervello e muscolo, cuore, pancreas endocrino, rene, fegato ed epiteli neurosensoriali risultano particolarmente colpiti. Le malattie mitocondriali sono più diffuse di quanto comunemente ritenuto, colpiscono circa 10-15 persone ogni 100.000, al pari delle più note malattie neurologiche: sclerosi laterale amiotrofica e distrofie muscolari (Di Mauro e Schon, 2003). Oltre a ciò, si possono presentare a qualsiasi età: precocemente, in giovane età, nei bambini o in età adulta (Di Mauro e Schon, 2003). A volte, le malattie mitocondriali, sono così gravi da risultare incompatibili con la vita, in altri casi danno solo disturbi lievi o impercettibili. Anche se è noto fino dal 1963 che i mitocondri hanno geni propri racchiusi in molecole circolari presenti in molte copie in ogni mitocondrio, solo alla fine degli anni ottanta sono giunte le prime dimostrazioni di un collegamento tra alcune neuro e miopatie ereditarie e un’alterazione di questo particolare DNA. Queste scoperte sono principalmente opera di Douglas Wallace, direttore del Centro di medicina molecolare della Emory University di Atlanta, e di Salvatore Di Mauro, direttore del Dipartimento di malattie neuromuscolari della Columbia University di New York. Molte malattie mitocondriali sono così nuove che esse non sono ancora state inserite nei libri di testo medici o, in alcuni casi, nella letteratura medica. Conseguentemente, in alcuni casi risulta difficile giungere ad una diagnosi definitiva. Perfino medici che lavorano in centri altamente specializzati che vedono dozzine di casi di malattia
mitocondriale ogni anno sono colpiti dalla grande diversità di segni e sintomi di queste malattie. Le manifestazioni cliniche delle malattie mitocondriali sono estremamente eterogenee, in quanto possono coinvolgere tessuti, singole strutture (come nella Neuropatia ottica ereditaria di Leber, LHON, la prima malattia umana che è stata associata ad una mutazione nel DNA mitocondriale), molteplici organi ed apparati (come miopatie, encefalomiopatie e cardiopatie), o causare complesse sindromi multisistemiche (Zeviani e Di Donato, 2004). Per quanto riguarda le principali manifestazioni cliniche delle malattie mitocondriali, bisogna innanzitutto riferirsi a quelle che coinvolgono il Sistema Nervoso Centrale (SNC) che il Sistema Nervoso Periferico (SNP) o possono coinvolgere ad esempio il cervelletto e/o il tronco cerebrale oppure i nuclei della base. In alcuni malattie mitocondriali è preminente il coinvolgimento della sostanza grigia con un arresto dello sviluppo intellettivo, deterioramento mentale e alterazioni comportamentali frequenti, spesso sono precoci le manifestazioni epilettiche e l’atassia. In alcune forme di malattie mitocondriali il decorso è così lentamente progressivo che il quadro clinico di ritardo psicomotorio appare fisso, “statico”, non evolutivo. Nelle forme ad esordio più tardivo, dal 3°-4° anno di vita fino all’adolescenza, inizialmente possono essere coinvolti alcuni sistemi neuronali ad esempio i tratti cortico-spinali, il cervelletto, i nuclei della base, i nervi periferici con sintomatologia correlata: a) paraplegia spastica progressiva; b) emiplegia; c) atassia cerebellare; d) disturbi del movimento; e) epilessia; f) neuropatia progressiva; g) deterioramento cognitivo, modificazioni comportamentali. In alcuni malattie mitocondriali ad esordio tardivo la prima manifestazione che precede altre anche di molti mesi può essere un deterioramento mentale con progressive difficoltà scolastiche, alterazioni della personalità e del comportamento. I due più frequenti pattern di comportamento sono caratterizzati da irritabilità, agitazione, azioni violente, impulsive e irrazionali o al contrario da uno stato di calma e indifferenza. La presenza di un contemporaneo deterioramento cognitivo con riduzione della memoria, errori di sintassi, scarso orientamento temporo-spaziale fino ad arrivare ad uno stato di demenza devono indirizzare ad una attenta valutazione clinica. L’atassia cerebellare può essere la manifestazione principale in alcuni malattie mitocondriali, ma non è mai un fenomeno isolato ed è variabilmente associata ad atassia sensoriale, segni piramidali, polimioclono, epilessia, deterioramento mentale. Le manifestazioni epilettiche possono essere occasionalmente presenti in tutte le encefalopatie solo in alcune malattie mitocondriali rappresentano una frequente o principale e costante manifestazione. I disturbi del movimento, cioè movimenti anormali involontari quali corea, atetosi, distonia, mioclono non epilettico, tremori, tic, ballismo sono manifestazioni frequenti in età pediatrica, solitamente associati ad alterazioni del tono muscolare e della postura (rigidità, ipocinesia, bradicinesia); talvolta diversi tipi di movimento involontario possono coesistere (es. corea ed atetosi). Cause frequentemente ritenute responsabili di disturbi del movimento sono la sofferenza neonatale ipossico-ischemica (paralisi cerebrale extrapiramidale) o le infezioni, ma deve essere anche considerata la possibilità di una eziologia genetica o genetico-metabolica. Le malattie mitocondriali possono infatti determinare disturbi del movimento. Si riscontrano due principali pattern, spesso dissociati: una rigidità parkinsoniana generalizzata con disartria, disfagia, facies amimica, spasmi dolorosi o invece tremori grossolani posturali e intenzionali.

Altri organi e apparati

Nell’ambito del cuore, possono essere colpiti sia il tessuto muscolare cardiaco che il sistema di conduzione, con conseguenti alterazioni del ritmo e cardiomiopatie. In alcuni pazienti le malattie cardiache possono essere il primo segno della malattia mitocondriale. Per quanto riguarda il fegato, in alcuni pazienti con difetti della catena respiratoria si può avere un difetto secondario della gluconeogenesi (formazione di glucosio a partire da altre sostanze diverse dai carboidrati. A livello del rene, spesso si può avere perdita di aminoacidi ed elettroliti nelle urine. Nei casi ad esordio infantile si possono verificare aminoaciduria, acidosi tubulare renale o sindrome di Fanconi. Il pancreas, invece, è coinvolto nelle malattie mitocondriali con forme di diabete spesso riscontrabili tardivamente, specie nella sindrome MELAS. Infine l’apparato visivo e quello uditivo. Riguardo al primo, si possono osservare atrofia ottica e retinite pigmentosa. Certo, non tutti i pazienti con questi quadri hanno necessariamente una malattia mitocondriale, ma questa dev’essere sospettata se è presente una familiarità o il coinvolgimento di altri organi. Riguardo al secondo, va detto che in alcuni pazienti è presente un’ipoacusia che inizia come perdita di udito per le alte frequenze, con progressione fino alla sordità totale. Il processo diagnostico ha inizio con l’anamnesi personale e familiare e con l’esame obiettivo neurologico (DiMauro et al 2004). Le “red flags” che inducono a prendere in considerazione una diagnosi di malattia mitocondriale sono bassa statura, ipoacusia neurosensoriale, ptosi palpebrale, oftalmoplegia, neuropatia assonale, diabete mellito, miopatia, cardiomiopatia ipertrofica, emicrania. Queste manifestazioni devono essere ricercate nel paziente e nei familiari (DiMauro et al 2004). Abbiamo già fatto cenno al controllo genetico duale della catena di trasporto degli elettroni. Un’ereditarietà di tipo materno suggerisce mutazioni del mtDNA, mentre una di tipo mendeliano suggerisce alterazioni delle proteine codificate dal nDNA (DiMauro et al 2004). Attualmente, la diagnosi richiede un complesso approccio: misurazioni ematiche del lattato, elettromiografia, risonanza magnetica spettroscopica (MRS), biopsia muscolare con studi istologici e biochimici, e analisi genetiche . La creatina chinasi (CK) ematica, comune marcatore di patologia muscolare, è quasi sempre normale. Un sintomo comune delle malattie mitocondriali è l’intolleranza all’esercizio con algie muscolari, dovuta alla deficitaria produzione di energia nel muscolo scheletrico. Questo porta ad un’aumentata produzione di lattato, deplezione di fosfocreatina (PCr), aumentata generazione di specie reattive dell’ossigeno (ROS). Per questi motivi, i test da sforzo rimangono uno strumento particolarmente utile nella diagnostica delle MM (Siciliano et al 2007).

Tecniche di imaging

Soggetti con differenti malattie mitocondriali presentano reperti di risonanza magnetica caratteristici. Ad esempio, nella sindrome di Leigh si osserva bilateralmente una iperintensità di segnale nei nuclei della base e nel tronco encefalico. Nella MELAS sono presenti lesioni simili a ictus, soprattutto nel lobo occipitale. Diffuse anomalie di segnale della sostanza bianca centrale sono caratteristiche della sindrome di Kearns-Sayre (KSS), e calcificazioni dei nuclei della base si ritrovano nella KSS e nella MELAS (DiMauro et al 2004; Bianchi et al 2007). La 1H MRS gioca un ruolo nel dimostrare l’alterazione del metabolismo ossidativo nell’encefalo, mostrando l’accumulo del lattato nel SNC (Bianchi et al2007). Ad oggi non esiste una strategia razionale di trattamento nel campo delle malattie mitocondriali. Supplementi vitaminici, agenti farmacologici, modificazioni dietetiche ed esercizio fisico sono stati usati in casi isolati e in piccoli studi clinici, ma l’efficacia di questi interventi rimane incerta. In particolare sono stati utilizzati agenti antiossidanti (CoQ10, idebenone, vitamina C, vitamina E,
menadione), agenti che agiscono sulla lattico acidosi (dicloroacetato e dimetilglicina), agenti che correggono deficit biochimici secondari (carnitina, creatina), cofattori della catena respiratoria (nicotinamide, tiamina, riboflavina, succinato, CoQ10), ormoni (ormone della crescita e corticosteroidi) (Chinnery et al 2006). La maggior parte delle evidenze a favore dell’uso di specifici trattamenti deriva da singoli case reports. Le opzioni terapeutiche sono state globalmente rivisitate da Chinnery et al (2006). Al momento attuale non sembra esserci una chiara evidenza a favore o contro i trattamenti comunemente utilizzati nelle malattie mitocondriali (Chinnery et al 2006). Sono necessari ulteriori studi al fine di chiarire il ruolo dei diversi approcci terapeutici nel trattamento delle malattie mitocondriali.

Il lavoro riporta il caso clinico di una encefalopatia di ndd

Anamnesi familiare Il paziente è unicogenito. Genitori non consanguinei. Non viene riferità familiarità per patologie NPI. Anamnesi fisiologica e di sviluppo Nato da madre primogravida primipara. Gravidanza normodecorsa. Parto distocito alla 40° settimana con applicazione di ventosa e rischio anossico. A causa di distress respiratorio insorto alla nascita, viene ricoverato in terapia intensiava neonatale (TIN) dove effettua ossigenoterapia, antibioticoterapia rx del torace, ecocerebrale (nella norma).
Anamnesi patologica Episodio di bronchiolite al 29° giorno di vita. Un episodio di convulsione in corso di febbre (T 41°C) all’età di 2.4 anni, a causa di una infezione delle alte vie aeree da streptococco; EEG negativo per anomalie parossistiche specifiche. All’età di 13 mesi esegue una visita fisioterapica poiché non presentava la reazione di paracadute, non stava in ginocchio né seguiva alcun passaggio posturale; una prima RM encefalo, eseguita presso Ospedale Federico II di Napoli, mostra “una tenue e diffusa iperintensità del segnale nel nucleo pallido di sx”. All’età di 16 mesi (giugno 2010) durante un ricovero diagnostico il bambino effettua: esami chimico–metabolici (tutti nella norma), genetici (sospetto sindrome di Prader-willi tutti nella norma), strumentali (EEG nella norma) e valutazione di sviluppo (Brunet-Lezine: EC 16mesi, età di sviluppo emersa 16 mesi). A marzo u.s. ripete all’ Ospedale di Salerno RM encefalo che evidenzia: “ aree di alterato segnale, tenue iperintensità a sx nel braccio posteriore della capsula interna, nel nucleo lenticolare, specie nel pallido, nel nucleo posteriore del talamo, in paratrigonale al corno occipitale. A dx si evidenzia area di alterato segnale al braccio posteriore della capsula interna e bilateralmente alla corteccia ippocampale. Tenue iperintensità in sede mesencefalica intorno all’acquedotto di Silvio. In fossa cranica posteriore iperintensità dei peduncoli cerebellari medi e del lemnisco mediale”. Nel sospetto di deficit di GAMT viene ricoverato presso il Policlinico Umberto
I di Roma, per eseguire l’indagine genetica specifica (negativa). In data 24/07 u.s. esegue RM encefalo con spettroscopia c/o O. Stella Maris, che evidenzia una evoluzione del quadro precedente, caratterizzato da una maggiore alterazione del segnale che coinvolge il globo pallido interno di sx, che appare tumefatto, e dalla comparsa di una alterazione di segnale a carico del globo pallido di dx e in sede sottotentoriale, a livello del nucleo dentato di sx e della sostanza bianca perilare cerebellare e perivermiana bilaterale; alla spettroscopia a livello della sostanza grigia interemisferica, in regione pallidare sx e in sede emisferica cerebellare sx, mostra una riduzione di Naa e la presenza di picchi nella frequenza di risonanza del lattato-lipidi. Nel sospetto di un’encefalopatia mitocondriale, il bimbo viene ricoverato presso il Policlinico Umberto I di Roma (sett. 2012). Nell’esame neurologico, qui effettuato, si legge: Quadro di ritardo psicomotorio. Facies lunare, collo tozzo, mani piccole e sottili. Stereotipie a tipo sfregamento delle mani e della dita, handclapping. Trisma. Pupille isocoriche, isocicliche e normoreagenti alla luce. Fissazione ed inseguimento visivo incostanti; non aggancia lo sguardo. Si gira verso la fonte sonora, non sempre se viene chiamato per nome. Restanti nervi cranici indenni per quanto esplorabili. Ipotonia generalizzata ed iperlassità legamentosa. No deficit di forza e trofismo muscolare. Buon controllo del capo e del tronco; reazione di paracadute LL ad AP presenti. Manitiene stazione eretta e deambula autonomamente con base d’appoggio allargata. Passaggi posturale: della posizione supina a quella seduto e da seduto a quella in piedi con sostegno monolaterale. In posizione prona solleva tronco e capo. Laterizzazione :sx. Non è presente gioco funzionale. Non si evoca sorriso sociale. Vocalizza. Durante il ricovero, nel settembre 2012, effettua: -fondo dell’occhio; -analisi GENE FORL1; -esami ematochimici; -esame urine 24H; -urine 24H; -RX esofago-stomaco-duodeno; -biopsia muscolo-cutanea; -consulenza gastroenterologica; -ecografia addome; -consulenza nefrologica; -ecografia vescicale pre e post-minzionale; Nel ricovero successivo marzo 2013, presso la medesima struttura, effettua: -esami ematochimici: tutti i parametri nella norma eccetto: globuli rossi, HGB, RDW, GB, eosinofili; -esame urine; -dosaggio ematico ammonico e lattato: lattato nella norma -dosaggio purine e pirimidine su raccolta di urine e plasma; -calciuria, fosfaturia, creatinuria, glicosuria, sodiuria, potassiuria, cloruria, microalbuminuria e proteinuria sulle urine 24H; -acidi organici urinari. Il bambino di 3anni e 8 mesi giunge alla mia osservazione alla fine di ottobre ’12. Frequenta il Centro di Riabilitazione Psicosomatica di
Castellammare di Stabia dove esegue psicomotricità (3ore/sett) e fisioterapia (3ore/sett). Mi viene data la possibilità di osservare il bambino durante le ore di psicomotricità eseguite dalla Dott.ssa Loredana Todisco. Le condizioni del paziente, se pur molto complesse, hanno consentito un iter diagnostico quasi completo. Gli elementi clinici, ematochimici, strumentali ed orientano verso una possibile diagnosi di encefalopatia mitocondriale “atipica”. Il caso riportato sembra interessante e meritevole di segnalazione, non solo perché richiama l’attenzione su una patologia rara , ma per la particolare modalità di manifestazione clinica determinata dal maggiore coinvolgimento del SNC.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La manipolazione delle immagini mentali nella sclerosi multipla

E’ una questione di principio! – Le persone cambiano i loro valori morali per trarne profitto?

Laura Pancrazi

FLASH NEWS

Quando qualcuno afferma “Non lo faccio per i soldi, ma è una questione di principio!” è molto probabile che non faccia qualcosa proprio per una questione economica.

Perseguire il proprio successo economico mettendo i propri interessi finanziari avanti a tutto spesso non è possibile perché bisognerebbe passare sui diritti o interessi degli altri, e questo è moralmente inaccettabile! Quindi, a questo punto cosa succede? Succede che le persone cercano non solo di ottenere il massimo guadagno individuale, ma anche di convincere gli altri di essere, moralmente, nel giusto. O almeno questo è quanto affermano gli autori di uno studio pubblicato su Proceedings of the Royal Society B.

Lo studio, intitolato Equity or equality? Moral judgments follow the money, è stato condotto da Peter DeScioli, professore associato di scienze economiche presso la Brock University e coordinatore associato del Center for Behavioral Political Economy, ed del suo gruppo di ricerca. Lo studio qui presentato sottolinea che per i raggiungere i propri scopi si prode spesso in modo inflessibile ed egoistico, infatti le persone aggiusterebbero le loro proprie scelte morali sulla base dei benefici che potrebbero ottenere. 

Per dimostrarlo, i ricercatori del gruppo di DeScioli hanno condotto una ricerca strutturata in questo modo: i partecipanti lavoravano a coppie per trascrivere un paragrafo in cambio di una ricompensa in forma di denaro. Uno dei due partecipanti (Typist) svolgeva la funzione di dattilografo e trascriveva tre paragrafi.

L’altro partecipante (Checker) si occupava di trascrivere un paragrafo scelto casualmente tra quelli scritti dal collega. Se le due trascrizioni corrispondevano esattamente, allora ricevevano una ricompensa in denaro. Al primo partecipante (Typist) era affidato il compito di decidere in che modo dividere la ricompensa ottenuta, potendolo fare in due modi: la ricompensa poteva essere divisa al 50% tra i due partecipanti, secondo il principio di uguaglianza, oppure proporzionalmente al lavoro svolto, spettando allora il 25% al soggetto che aveva trascritto un paragrafo e il restante 75% all’altro soggetto, secondo il principio di giustizia.

La maggior parte di loro ha scelto di prendersi la fetta più larga della torta, come ipotizzato dagli autori dello studio. Non solo: ai partecipanti era richiesto di valutare la bontà del principio di uguaglianza e quello di giustizia. Ovviamente, anche questa scelta si è dimostrata essere egoisticamente interessata, ovvero volta a difendere e giustificare la propria preferenza. Infatti, i partecipanti nel ruolo di Typist giudicavano più onesto il principio di giustizia; invece i soggetti nel ruolo di Checker preferivano, com’era ipotizzabile, il principio di uguaglianza.

Ma non è tutto: i ricercatori avevano chiesto l’opinione dei partecipanti riguardo la correttezza di ciascuna modalità di ripartizione sia prima che dopo l’assegnazione dei ruoli. A quanto pare, in pochi minuti i partecipanti hanno cambiato i propri valori in favore della regola morale, che gli avrebbe garantito di ricevere una maggiore quantità di denaro. Sembra dunque che molto spesso le nostre scelte si basino su presupposti egoistici e interessati.

DeScioli sottolinea come i risultati di questa ricerca siano potenzialmente estensibili a qualsiasi occasione delle nostre vite in cui ci siano delle risorse economiche da spartire, pensiamo, ad esempio, ad una famiglia che si divide un’eredità, colleghi di lavoro che dividono profitti, politici che decidono in che modo spendere le entrate fiscali o capi di stato che si dividono territori. Ognuno farà le scelte che di fatto gli consentiranno di prendersi la fetta più grossa della torta.

Tuttavia, ci rincuora lo studioso, il nostro egoismo ha un limite: in un esperimento successivo, si era riproposta una situazione simile a quella dello studio precedentemente illustrato dividendo però esattamente a metà il lavoro da svolgere, in modo tale da rimuovere ogni pretesto per una suddivisione non equa del denaro. Dunque, ogni partecipante trascriveva solo un paragrafo e, se le due trascrizioni corrispondevano, guadagnavano una ricompensa. In questo caso tutti i partecipanti hanno scelto di dividere equamente il denaro.

In conclusione, secondo DeScioli, le persone cercano non solo di ottenere il massimo guadagno individuale, ma anche di convincere gli altri di essere, moralmente, nel giusto. Però, certo, a tutto c’è un limite, anche al nostro egoismo.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Perché riteniamo che sia OK rubare e imbrogliare (qualche volta)

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Il sè vulnerabile nella paranoia

Il termine paranoia si riferisce a una forma di pensiero dominata dalla sfiducia o sospetto intenso, irrazionale ma persistente nei confronti delle persone e da una corrispondente tendenza a interpretare le azioni degli altri come volutamente minacciose o degradanti.

Il protagonista de L’Enfer di Claude Chabrol, convinto dell’intenzione della moglie di ingannarlo, umiliarlo, tradirlo, fino ad ucciderla. Un (mio) paziente, che una sera mi chiamò per informarmi di aver trovato un metodo infallibile – girare per casa con una pentola in testa – per contrastare i piani degli extraterrestri decisi ad ucciderlo mediante una progressiva sottrazione dei ricordi.
Cosa hanno in comune?

A parte mio cugino, che ha risposto hanno il complesso di persecuzione, la maggior parte delle persone a cui l’ho chiesto, pur non essendo psichiatri o psicologi, ha risposto sono paranoici.

Il termine paranoia si riferisce a una forma di pensiero dominata dalla sfiducia o sospetto intenso, irrazionale ma persistente nei confronti delle persone e da una corrispondente tendenza a interpretare le azioni degli altri come volutamente minacciose o degradanti. Poiché le persone paranoidi generalmente si aspettano che gli altri siano malevoli o minacciosi, esse sono guardinghe, reticenti e sempre vigili, costantemente alla ricerca di indizi di slealtà nel prossimo. Queste aspettative vengono facilmente confermate: l’ipersensibilità dei paranoidi trasforma le piccole mancanze di riguardo in insulti gravi e anche gli avvenimenti innocui sono erroneamente interpretati come nocivi o vendicativi. Viziosamente, le aspettative di tradimento e di ostilità spesso hanno l’effetto di provocare reazioni del genere negli altri, confermando e giustificando così il sospetto e l’ostilità iniziale del paranoico.

Nel 1903 Freud lesse le memorie di D.P. Schreber, intitolate “Memorie di un malato di nervi”, e questa lettura lo portò a teorizzare che alla base del pensiero paranoide dovesse trovarsi un’omosessualità latente. Secondo Freud le persone possono sviluppare uno stato paranoico nei confronti delle cose che non riescono a tollerare, come la percezione della propria omosessualità, di sentimenti di inferiorità e di amore/odio inaccettabili; oltre a ciò, il delirio offrirebbe anche al soggetto un sistema di sicurezza e sfogo che permette all’Io di sentirsi a proprio agio allorchè ci si trova da soli in mezzo ad altri individui.

Se l’eredità concettuale freudiana sulla paranoia viene accolta nel senso più lato appena descritto, è possibile districarsi dalla diatriba sull’effettività di un nesso stretto, letterale, tra paranoia e omosessualità. Plausibilmente, non sarebbe tanto l’omosessualità in sé a costituire un substrato della paranoia, quanto come essa viene costruita dal sistema di significato del paziente. Al termine della sua terapia, un mio paziente giunse a comprendere quanto i suoi desideri omosessuali fossero motivo di vergogna e substrato di una percezione di sé come inferiore fisicamente, soccombente, rispetto agli altri uomini. Questo è un esempio di ciò che definisco sé vulnerabile.

L’esperienza clinica, associata a una rilettura della psicopatologia classica, consentono di ipotizzare che nei pazienti affetti dalle diverse forme di paranoia vi sia una rappresentazione basica di sè come ontologicamente vulnerabile; un elemento che la schizofrenia paranoide sembra avere in comune con il disturbo delirante a contenuto persecutorio e con il disturbo paranoide di personalità (Salvatore et al., 2005, 2007, 2008; Popolo et al., 2012). Questo sè ontologicamente vulnerabile può consistere nell’esperienza di sè come incapace, nell’interazione con gli altri, di mantenere l’integrità dei confini personali e un senso di sè come differenziato dagli altri (Lysaker & Lysaker, 2008). I confini del sè sarebbero quindi molto rigidi, e ogni violazione percepita di essi viene immediatamente percepita a livello soggettivo come una minaccia all’integrità del sè.

Per comprendere meglio la vulnerabilità del paziente paranoide può essere utile confrontarla con la percezione di sè fragile che caratterizza i soggetti con disturbi d’ansia (Buss, 1980; Fenigstein et al., 1975). Anche il paziente con delirio persecutorio sperimenta stati di ansia, ma la debolezza del sè del paziente ansioso è sensibilmente differente dalla vulnerabilità del paziente paranoide. Nel primo caso, il sè si sente vittima di un evento catastrofico imminente e impossibile da fronteggiare. Nel secondo caso, il sè si percepisce incapace di fronteggiare le aggressioni da parte degli altri individui. In altre parole, il sè non teme eventi catastrofici, nè sente di non poterli fronteggiare; sono gli altri a costituire una potenziale minaccia.

Il sè si sente soggiogato socialmente (si veda Gilbert [2005] per la rilevanza del rango sociale come fattore di sofferenza psicologica). Il soggetto si sente vulnerabile rispetto all’altro, che è rappresentato come dominante o motivato a escludere, sottomettere, umiliare il sè. La condizione più temuta per il sè è quella di subordinazione e inferiorità rispetto all’altro. In uno dei nostri pazienti il delirio persecutorio fu innescato dall’incontro sul posto di lavoro di un gruppo di nuovi colleghi che egli percepiva implicitamente come più forti e più virili di lui (Salvatore et al., 2005). Questo paziente andò incontro a un miglioramento clinico quando la terapia lo aiutò a divenire consapevole del suo senso di vulnerabilità personale e inferiorità fisica.

Questo aspetto può essere ancor meglio compreso se si riprendono alcuni studi classici della psicopatologia della paranoia. Per esempio Janet (1889) considerava l’assetto costituzionale dell’ individuo paranoide come una manifestazione della psicastenia: un sentimento basico di incompletezza della propria persona. Bleuler (1906) pur accordando maggior rilevanza alle reazioni agli eventi di vita rispetto ai fattori costituzionali nell’ insorgenza dei sintomi, ipotizzava che il soggetto paranoide tentasse di tener lontana dalla coscienza la rappresentazione insopportabile della propria insufficienza.

Kretschmer (1918) introdusse il termine di ‘psicosi sensitiva’: quando gli eventi mostrano al soggetto la propria insufficienza sul piano morale, la reazione del soggetto è di rivalsa, con un’esaltazione delle proprie qualità morali a fronte della malevolenza del mondo. Lacan (1932) considerava la paranoia come parte di una più generale economia della personalità, in cui il delirio rappresenterebbe una risposta comprensibile a fronte della sconfitta e della percezione intima di non possedere risorse sufficienti per affrontare le difficoltà del mondo.

A questo proposito, sorprende che il tema dello squilibrio di potere e della sottomissione sia stato indagato dalla letteratura in relazione con le allucinazioni uditive, e solo da poco in relazione con il delirio persecutorio (Freeman & Garety, 2004; Freeman, 2007; Freeman et al., 2005; Gilbert et al., 2005). I soggetti con paranoia possono ricercare una posizione di elevato rango sociale con l’idea che il potere che ne conseguirà potrà consentire loro di controllare il pericolo proveniente dagli altri, una strategia che si rivela per lo più fallimentare, in quanto ottenere un elevato potere sociale non riduce la percezione persecutoria. Questo perchè la rappresentazione basica di sè come vulnerabile è troppo pervasiva e radicata per essere corretta dalla condizione mondana di potere e controllo.

Ipotizzo che il sé vulnerabile costituisca una rappresentazione implicita, non necessariamente oggetto di riflessione cosciente da parte del soggetto. Quando l’esperienza di sé come vulnerabile ha un accesso parziale alla coscienza, il delirio funziona come una sorta di processo attribuzionale distorto in cui la vulnerabilità di fondo viene considerata come il risultato della minaccia esterna. Questa errata attribuzione, tra l’altro, innesca la rabbia e l’ipervigilanza al fine di proteggere i confini del sé.

A conferma di questo assunto stanno i risultati di alcuni studi che suggeriscono che dietro il comportamento aggressivo e vendicativo del paranoico contro il ‘persecutore’ vi siano sentimenti di vulnerabilità e inferiorità (Millon, 1999). Green e colleghi (2006a, 2006b) hanno riscontrato in un gruppo di 70 soggetti con delirio persecutorio che la percezione di minaccia si associava significativamente con sentimenti di inferiorità personale.

E’ ipotizzabile che il delirio persecutorio non solo consenta di dare spiegazione alla vulnerabilità del sè e di porvi così un parziale rimedio (e.g., sconfiggere il nemico o fuggire), ma, una volta attivato, possa anche perpetuare l’esperienza di vulnerabilità. Il delirio potrebbe per esempio facilitare una cristallizzazione della rappresentazione di sè come vulnerabile e dell’altro come dominante, alimentando un arousal negativo, e il richiamo di immagini mentali, memorie episodiche ed emozioni negative. Ciò condurrebbe a sua volta a un rinforzo della rappresentazione della minaccia esterna, con una ulteriore riduzione del margine di confutabilità del delirio.

Secondo Freeman e colleghi (Freeman et al., 2002, 2008) questo senso di vulnerabilità è correlato con fattori di ordine traumatico. Alcune ricerche hanno mostrato tassi elevati di occorrenza di episodi traumatici tra i pazienti con diagnosi di psicosi; così come è accertata la correlazione tra esperienze anomale assimilabili ai sintomi positivi di psicosi ed esperienze traumatiche nella popolazione generale (Butler et al., 1996; Ensink, 1992; Liotti & Gumley, 2008; Morrison et al., 2003). In questo contesto alcuni autori (Bale et al., 2010; Gumley & Schwannauer, 2006) suggeriscono che esperienze negative nel corso dell’evoluzione, in particolare con le figure di attaccamento, caratterizzate per esempio da abuso, negligenza, o rifiuto, possono impedire nel soggetto in crescita lo sviluppo di un’esperienza basica di sicurezza capace di proteggerlo dalla sensazione di vulnerabilità.

Ciò contribuirebbe alla costruzione interna di una rappresentazione del mondo sociale come malevolo e pericoloso. Il senso di vulnerabilità può però essere connesso con una serie dei altri fattori, come lo stigma, l’esperienza di sintomi psicotici floridi, e di una profonda compromissione delle funzioni cognitive necessarie per costruire una percezione di sè come agente attivo nel mondo (Lysaker & Lysaker, 2008; Stanghellini, 2001).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Disturbo paranoide di personalità – sospettando ad veritatem pervenit! 

BIBLIOGRAFIA:

La famiglia Belier. Un film che vi farà star bene – Recensione

 

Nelle sale c’è il film La Famiglia Belier, il cui sottotitolo cita: un film che vi farà star bene. Ed è questa la sensazione che lascia, unita alla semplicità e all’immediatezza dei temi affrontati.

Nelle sale c’è una commedia francese, La Famiglia Belier, il cui sottotitolo cita: un film che vi farà star bene. Ed è questa la sensazione che lascia, unita alla semplicità e all’immediatezza dei temi affrontati: la disabilità come fonte di diversità e integrazione, e l’adolescenza come risorsa di conoscenza e crescita.

La storia è quella di una famiglia di sordomuti in cui la primogenita, Paula, diventa l’interprete privilegiata delle comunicazioni tra la famiglia e il mondo esterno a questa:  i fornitori e i clienti della fattoria di famiglia e il medico di base. Paula diventa così una mediatrice amorevole e accudente fino a che, quasi per caso, si imbatte nella possibilità di riconoscersi in un talento tutto suo: la sua meravigliosa voce.

E per un ironia della vita, proprio ciò che manca ai suoi genitori e a suo fratello, è quello che la renderà promettente per una brillante carriera da cantante. Coltivare questo talento però la porterà inevitabilmente a stravolgere gli equilibri familiari.

E quando uscendo allo scoperto comunica ai genitori la voglia di tentare un provino che la porterebbe a studiare canto a Parigi, lo sconforto della famiglia prende il sopravvento. Se da un lato infatti c’è la paura dei genitori di lasciarla andare e il concretizzarsi della perdita dalla figlia, che amano, che li accudisce e li aiuta, dall’altro c’è un’adolescente alle prese con la sua prima cotta, con la realizzazione di un sogno, alla ricerca di identità e autonomia.

La perspicacia e l’abilità che questa ragazza dimostrata nella gestione pratica della sua famiglia, scivola quasi in un’inversione di ruoli. Ma come in ogni adolescenza che si rispetti (o almeno dovrebbe) si può e si deve spiccare il volo, quello dell’indipendenza e del riconoscimento. L’amore e il bisogno che i genitori riversano su di lei in qualche modo le tarpano le ali: Paula è ingabbiata nell’ambiguità del volersene andare per volare e crescere da un lato, e dall’idea di rimanere nel nido per accudirlo e proteggerlo dall’altra.

Una famiglia i cui valori arrivano al pubblico in una modalità diretta, fatta di gesti e movenze, di corpi emozionati che se pur in modalità non sonora, trasmettono un repertorio di stati d’animo intenso e deciso. Il ricco ventaglio emotivo che fa da cornice al film permette agli spettatori di mettersi, almeno per qualche minuto, nelle orecchie dei Belier ed è così che la diversità diventa integrazione e fonte di conoscenza.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Supercondriaco: ridere fa bene alla salute (2014) – Cinema & Psicologia

Aggressività proattiva e reattiva & bullismo

Cinzia Borrello OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

 

Quali sono gli obiettivi che muovono i ragazzi nell’interazione con i loro pari? Riscontrato quanto i comportamenti aggressivi siano una delle risposte più frequentemente utilizzate nelle interazioni sociali, ci si è chiesti quali siano i fini che inducono i pre-adolescenti a mettere in atto la condotta aggressiva.

La molteplicità di variabili interindividuali conduce inevitabilmente a prendere in considerazione l’idea che l’aggressività si può distinguere in due tipologie: una reattiva e l’altra proattiva. La tendenza a reagire con la forza nelle situazioni sociali definisce l’aggressività reattiva, mentre l’utilizzo dell’aggressività come strumento per raggiungere i propri obiettivi di affermazione e dominanza nel gruppo delimita l’aggressività proattiva.

Nella letteratura scientifica vi sono state molteplici difficoltà nel tentativo di spiegare e definire l’aggressività, nonostante il senso comune porti ad intendere intuitivamente ciò che è un comportamento aggressivo. Ciò è insito nel fatto che il concetto stesso di aggressività varia a seconda che venga considerato un istinto, una reazione emotiva ad un evento stressante, o una componente comportamentale appresa. La difficoltà nel definire l’aggressività riflette la complessità del fenomeno stesso. Nello sport e nel business il termine aggressività viene facilmente utilizzato anche quando termini quali assertività, entusiasmo, sicurezza, affermazione di se stessi nell’interazione con gli altri risulterebbero più appropriati al contesto (Bushman e Anderson, 2001). In ambito scientifico si definisce l’atto aggressivo come il comportamento che ha un impatto negativo sulle relazioni sociali e il benessere psicologico della persona (Krahé, 2005).

Attualmente tre sono gli aspetti che consentono di definire un atto come aggressivo: l’intento, che rappresenta la volontà di arrecare danno; l’azione, tesa a provocare un danno fisico con o senza aggressività verbale; lo stato emotivo. La complessità nel definire il concetto di aggressività ha spinto molti autori a considerarla come un costrutto multidimensionale (Coie e Dodge, 1998; Dodge, 1991; Dodge e Coige, 1987; Frick, 1998; Pulkkinen, 1996). Ricercatori come Little e al. hanno differenziato tale fenomeno a seconda delle diverse forme, il “what” dell’aggressività: diretta, palese, fisica e verbale, vs. indiretta, relazionale, sociale e materiale. Allo stesso modo l’aggressività è stata distinta per le funzioni, lo scopo, la motivazione che determina l’azione, ciò che viene definito il “why” dell’aggressività caratterizzandola in proattiva, offensiva, e strumentale vs. aggressività reattiva e difensiva (Little, 2003).

Recentemente è stata introdotta la scissione tra aggressività reattiva e aggressività proattiva (Dodge e Coie, 1987; Dodge, 1991; Pulkkined, 1996). Si pensa che l’aggressività reattiva e quella proattiva si differenzino per determinate variabili (Bushman e Anderson, 2001): la rabbia, la motivazione che spinge all’azione, l’intenzionalità, la pianificazione e l’impulsività.

L’aggressività proattiva non richiede alcuna provocazione o rabbia (Smithmyer, 2000). Essa è finalizzata al raggiungimento di un obiettivo diretto ad una persona, con lo scopo di dominarla o intimidirla. L’aggressività diviene la maniera appropriata per raggiungere un particolare obiettivo o fine (Dodge e Coie, 1987). Mossa da comportamenti agiti per ottenere ricompense materiali o psicologiche utili a sé (Dodge, Coie, Lynam 2006), nell’aggressività proattiva interviene la premeditazione, rivelandosi perciò pianificata e calcolata (Bushman e Anderson, 2001).

L’aggressività reattiva viene invece definita come la risposta messa in atto per difendersi da una minaccia, reale o erroneamente percepita (Dodge, Coie, Lynam 2006), come il risultato di una provocazione che comporta scatti d’ira (Dodge, 1991) e come aggressività mossa dallo scopo primario di nuocere l’altro (Bushman e Anderson, 2001). Inoltre, l’aggressività reattiva risulta essere impulsiva e, a differenza dell’altra, non è pianificata (Bushman e Anderson, 2001). Le due forme di aggressività possono concorrere nello stesso individuo, ma possono essere difficilmente individuabili (Dodge, 1991).

Alla base dell’aggressività reattiva e di quella proattiva vi sono differenti correnti teoriche. La radice teorica dell’aggressività reattiva può essere posta nel modello frustrazione-aggressività (Dollard, Doob, Miller, Mowrer e Sears, 1939). L’aggressività proattiva è descritta in termini di apprendimento sociale. Il comportamento aggressivo viene considerato come un comportamento socialmente acquisito e mantenuto (Bandura, 1973).

Prendendo in considerazione aspetti morali, social-cognitivi ed emotivi si riscontrano importanti differenze tra aggressività reattiva e proattiva. I ragazzi proattivamente aggressivi mostrano di prediligere il ricorso all’aggressività per raggiungere obiettivi materiali, non riflettendo sulle conseguenze che il proprio comportamento potrebbe avere sulla vittima: ciò sembrerebbe rimandare non solo ad un bias socio-cognitivo, ma anche ad un deficit nel ragionamento morale (Arsenio et al., 2009). Questi soggetti pur consapevoli delle conseguenze emozionali e materiali, non le prendono in considerazione sul piano morale. I ragazzi con aggressività reattiva, invece, mostrano un deficit di comprensione delle intenzioni altrui (Astor, 1994). Arsenio e at. (2009) dimostrano che l’aspettativa di un’emozione positiva è associata esclusivamente all’aggressività proattiva e non a quella reattiva. Il valore positivo delle conseguenze dei comportamenti aggressivi, associato alla dimensione di aggressività proattiva, è illustrato dalla sua associazione con la leadership e il senso dell’umorismo. Infatti tale comportamento risulta essere tollerato e accettato dal gruppo dei pari, non solo perché fornisce una sorta di regolazione sociale apprezzata dal gruppo, ma anche perché garantisce il potere dei ragazzi, dando loro la possibilità di accesso a risorse desiderabili (Boivin et al., 1995).

Soggetti con aggressività reattiva mostrano un deterioramento delle funzioni esecutive e di elaborazione delle informazioni sociali (Stanford, Greve e Gerstle, 1997), un’inadeguata abilità di problem solving (Dodge et al, 1997) ed un’elevata reattività agli eventi stressanti (Cima et al., 2007); è più frequente che abbiano inoltre genitori controllanti e punitivi (Vitaro et al, 2006), che presentino una storia di abusi (Connor et al, 2004) con episodi di delinquenza tra pari (Fite e Colder, 2007) e comportamenti violenti (Brendgen, Vitaro, Tremblay e Lavoie, 2001). Spesso sono dipendenti da sostanze e manifestano scarso adattamento sociale (Card e Little, 2006). Gli individui aggressivi proattivi, invece, non mostrano aree problematiche nella sfera cognitiva, hanno ricevuto un monitoraggio genitoriale scarso riguardo alle regole di comportamento (Poulin e Boivin, 2000), hanno una storia familiare di violenza e di dipendenza da sostanze (Fite e Colder, 2007), di condotte delinquenziali (Vitaro et al, 2006) spesso associate a violenza fisica (Brendegen et al, 2001).

Inoltre l’aggressività proattiva risulta essere correlata all’uso di strategie coercitive, umorismo, bullismo e bassi livelli di empatia e di comportamenti prosociali (Polman, De Castro, Thomaes, & Van Aken, 2009). Ancora, l’aggressività proattiva è associata a ridotti livelli di reattività emozionale, ad una minor percezione delle emozioni morali (Cima, 2007; Cornell, 1996) e a tratti di personalità callous and unemotional (CU), intesi come mancanza di emozioni prosociali quali rimorso e senso di colpa (Frick, Cornell, Barry, Bodin, e Dane, 2003).
L’aspettativa di ricompensa materiale ed emotiva si pone come base della credenza secondo cui il comportamento aggressivo viene utilizzato come strumento per ottenere risultati e il soddisfacimento dei propri bisogni. Il comportamento strumentale e i deficit morali potrebbero esser ricondotti ad un deficit della capacità empatica (Arsenio, 2006; Arsenio e Lemerise, 2001).

In aggiunta ai precedenti studi, Vitaro et al. (1998) hanno mostrato che l’aggressività proattiva durante la preadolescenza predice condotte delinquenziali nel periodo di metà adolescenza, mentre non risulta lo stesso per soggetti aggressivi reattivi. Pulkkinen (1996) ha affermato che l’aggressività proattiva predispone alla criminalità e all’abuso di sostanze in età adulta.

Riassumendo, l’aggressività reattiva è caratterizzata da impulsività, risposte difensive e ostili a provocazioni e mostra inoltre correlazione con la disregolazione emozionale ed il rifiuto sociale. Questa aggressività è accompagnata da rabbia intensa, che interferisce con vari meccanismi di autocontrollo e di elaborazione delle informazioni (Ripamonti, 2011). L’aggressività proattiva è invece pianificata, orientata all’obiettivo e non è connessa a una provocazione (Coie e Dodge, 1998). Al contrario dell’aggressività reattiva, essa è correlata a maggiore popolarità e abilità comunicative. E’ un’aggressività moderata e controllata dall’aspettativa di ricompense esterne e rinforzata dal comportamento altrui (Ripamonti, 2011).

Crick e Dodge (1996) hanno definito il bullismo come una forma di aggressività proattiva, nella quale sono impiegati degli atti aggressivi per il raggiungimento di scopi personali e orientati alla dominanza nei rapporti interpersonali.

Olweus ha proposto una definizione condivisa in letteratura descrivendo il bullismo in tali termini: “Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni” (Olweus,1996, pp 11-12). L’aggressività verso i coetanei viene quindi definita di comune accordo come tratto distintivo di questi soggetti.

Crick e Dodge (1999) hanno applicato il concetto di aggressività reattiva e proattiva al fenomeno del bullismo, ipotizzando che i bulli esibiscono aggressività proattiva e, in accordo con Kochenderfer e Ladd (1997), riportano che la vittima mostra le caratteristiche dell’aggressività di tipo reattivo.

Se da un lato Crick e Dodge (1999) e Price e Dodge (1989) hanno avanzato l’ipotesi secondo cui i bulli mostrano in particolare un’aggressività proattiva (diretta alla persona); dall’altro, Pellegrini, Bartini e Brooks (1999) e Pulkkinen (1996) hanno affermato che questi soggetti mostrerebbero entrambe le tipologie di aggressività. In accordo con Pulkkinen, recenti studi (Camodeca, Goossens, Meerum Terwogt, e Schuengel, 2002) hanno rinvenuto che i bulli mostrano entrambe le tipologie di aggressività mentre le vittime sono tendenzialmente inclini all’aggressività reattiva. Bulli e vittime presenterebbero un’aggressività reattiva rispondendo entrambi alle provocazioni ed utilizzando la forza per difendere se stessi; mentre soltanto i bulli sarebbero proattivamente aggressivi, usando l’aggressività per tormentare e provocare gli altri (Camodeca, 2005).

I ragazzi con aggressività proattiva sembrano rispondere al modello del bullo abile manipolatore (Sutton, Smith e Swettenham, 1999), ovvero un soggetto portato a considerare in modo machiavellico il comportamento aggressivo come un modo per ottenere benefici personali, quali l’affermazione sociale, la leadership e il controllo dei compagni. Sebbene il comportamento aggressivo del bullo sia socialmente disapprovato, esso non appare maladattivo; il bullo infatti raggiunge in modo efficace i propri obiettivi senza perdere il suo status dominante e la propria popolarità (Sutton et al., 1999). D’altra parte, un recente studio italiano (Caravita, Gini, Caprara, 2009) ha evidenziato come lo status modifica il funzionamento morale in adolescenza. Lo status sociale, inteso come popolarità percepita, sembrerebbe influenzare la relazione tra condotta prepotente e il disimpegno morale. I meccanismi di disimpegno risultano essere associati all’agire aggressivo in adolescenza in particolar modo tra i ragazzi percepiti popolari. Il bullo presenta una scorretta percezione delle regole morali, maggiore disimpegno e minori emozioni morali come il senso di colpa e la vergogna (Caravita e Gini, 2010).

Soggetti che utilizzano in maniera massiccia meccanismi di disimpegno morale, proverebbero minori sentimenti anticipatori di colpa, tenderebbero a ruminare sui danni subiti e sul modo in cui vendicarsi e manifestano minori comportamenti prosociali. Quanto maggiore è il disinvestimento morale, tanto maggiore è la probabilità che il soggetto sia coinvolto in comportamenti aggressivi devianti (Bandura, 1996, Olweus,1996), abuso di alcool e sostanze stupefacenti, e condotte criminali. Inoltre, come precedentemente sottolineato, bulli e soggetti con tratti psicopatici tendono ad avere deficit della componente affettiva dell’empatia. Tratti aggressivi in soggetti con ridotte, se non nulle, capacità empatiche aumenterebbero il rischio di sviluppare un disturbo antisociale di personalità di tipo psicopatico (Fagiani, Ramaglia, 2006).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 Bullismo: conseguenze permanenti nelle vittime anche dopo quarant’anni

BIBLIOGRAFIA:

Disapprendere i bias impliciti durante il sonno è possibile?

FLASH NEWS

E’ possibile sbarazzarsi di “errori” cognitivi automatici di cui nemmeno siamo consapevoli? I cosiddetti “bias impliciti” consistono in una sorta di pregiudizi e stereotipi che riguardano spesso il genere e l’etnia e di cui potremmo essere affetti anche se non consapevoli.

Uno studio pubblicato su Science si è domandato se durante il sonno sia possibile rafforzare il “dis-apprendimento” di questi bias impliciti che spesso non solo rimangono nella mente ma si traducono in comportamenti stigmatizzanti. Tra questi errori cognitivi inconsapevoli ritroviamo in letteratura l’associazione mentale tra caratteristiche negative e il colore della pelle (scura) oppure tra il genere (femminile) e determinati orientamenti professionali (raramente a ingegnere viene associato il genere femminile).

Vi sarebbero persino training cognitivi finalizzati alla riduzione di questi bias impliciti. Un gruppo di ricercatori della Northwestern University ha voluto approfondire il meccanismo della riattivazione mnestica durante il sonno come motore per potenziare i training finalizzati al disapprendimento di stereotipi e pregiudizi impliciti (che altro non sono se non malsane abitudini cognitive spesso inconsapevoli).

Ecco come funziona il meccanismo della riattivazione mnestica durante il sonno: in una fase di veglia il soggetto impara, ad esempio, a distinguere un certo suono da altri stimoli; durante una successiva fase di sonno vengono presentati stimoli uditivi coerenti con quanto appreso; al risveglio è stato verificato un maggior grado di apprendimento nella distinzione degli stimoli acustici. In questa ricerca, i partecipanti sono stati sottoposti a training cognitivi per la riduzione dei bias razziali e di genere: sullo schermo di un computer venivano presentati volti (femminili o con la pelle scura) associati a parole che descrivevano caratteristiche opposte allo stereotipo implicito (ad esempio il volto femminile era associato alla parola “matematica”). E in concomitanza veniva presentato un suono associato agli stimoli contrastanti lo stereotipo implicito.

In seguito, durante una fase di sonno ai soggetti venivano ripresentati i suoni associati- durante la veglia – agli stimoli target del training.

La procedura di riattivazione della memoria attraverso il suono ha prodotto i risultati positivi attesi: è stata dimostrata una maggiore riduzione dei bias cognitivi impliciti legati al genere e all’etnia proprio nella condizione in cui al training durante la veglia è stato integrato il processo di ri-stimolazione mnestica durante il sonno. E i benefici si manterrebbero anche a una settimana di distanza. Gli studiosi però sottolineano che la verifica è stata effettuata utilizzando una sola breve sessione di training e che per produrre effetti a lungo termine nel cambiamento degli stereotipi sociali impliciti servirebbe un programma di apprendimento più esteso.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Bias impliciti: quali interventi? Psicoeducazione

 

BIBLIOGRAFIA:

L’intensità e il tempo della gelosia – Tracce del Tradimento nr. 13

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XIII: L’intensità e il tempo della gelosia

L’intensità della gelosia è direttamente proporzionale alle dimensioni immaginarie della catastrofe della perdita della relazione e dell’amato intollerabile.

Se al solo pensiero il soggetto si sente disperato e senza un futuro, se la sua perdita è segno di sconfitta e fallimento personale, se teme di non potersi mai più innamorare, tutto contribuisce a costruire il dramma della gelosia. Talvolta più che previsioni catastrofiche ben definite il soggetto sperimenta una sorta di buio totale, come se non avesse mai davvero pensato alla possibilità della perdita dell’amato: questo scenario non è rappresentato nella sua mente ed è proprio questa assenza di prospettive a renderlo massimamente minaccioso.

La definizione prima e il ridimensionamento poi del danno temuto sono operazioni fondamentali per uscire dalla sofferenza della gelosia ed è spesso ciò che le persone vicine fanno con chi soffre terribilmente per attenuare il suo dolore. In fondo si tratta di aiutarlo a immaginare in modo concreto la sua vita dopo la perdita dell’amato e di mostrargli come l’esistenza vada avanti e sia ricca di opportunità e come ciò che ha perduto non sia poi così grande.

Durante la malattia di suo marito e anche dopo la sua morte la signora si impediva volontariamente di immaginarsi ancora vitale in questa nuova condizione. Aveva una sorta di pudore a sopravvivere a suo marito, le sembrava sconveniente riprendere una esistenza normale, concedersi di vivere dopo di lui. Si erano sempre detti che loro avrebbero vissuto l’uno per l’altro, l’uno con l’altro ed ora bisognava onorare questo patto. Era ancora una donna in gamba e piena di risorse, interessi e potenzialità ma andare avanti le sembrava un orribile tradimento al suo amato. Essere senza di lui non era una possibilità contemplata, non era dato.

La gelosia non ha un tempo definito: si può essere gelosi nella fase iniziale del rapporto oppure dopo decenni di amabile convivenza. All’inizio della storia lo strappare l’amato al suo amore presente o al desiderio di altri veri e immaginati, aumenta il valore suo e del rapporto nascente. Successivamente parlare dei precedenti partner o dei fantasmi dei passati tradimenti tiene vivo il rapporto in momenti in cui potrebbe essere stanco o annoiato. Tiene viva l’immagine dell’altro come desiderabile. La possibilità della perdita rende nuovamente interessante l’altro che era considerato scontato e ravviva il desiderio. La gelosia può essere un sentimento segreto e non svelato ed essere considerata come una perversione personale, una propria debolezza ma spesso diviene ingrediente fondamentale del rapporto a due: va detta, raccontata, se ne deve parlare, si deve esorcizzare e richiamare continuamente. A volte la gelosia può essere addirittura postuma e forse è ancora peggiore perché non consente soluzioni.

Un’anziana signora richiese una terapia perché dopo una vita piena con la nascita di molti figli e una vita coniugale armonica, aveva avuto la perdita improvvisa del marito. Nel giornale era apparso l’annuncio di una persona a lei sconosciuta, che aveva scritto “ a … con amore”. Dopo il funerale qualche amico le aveva detto che verso la fine della cerimonia era apparsa una donna che era stata qualche attimo ed era andata via. Per la signora la vita era finita, aveva cominciato uno stato ossessivo, torturante, che non la lasciava dormire, e le impediva di vivere. Chiedendo agli amici e tormentando continuamente le persone più vicine al suo uomo, aveva ricostruito la storia. Il marito aveva avuto una storia d’amore segreta e tormentata con una delle donne più belle e conosciute della piccola città del sud in cui vivevano, ma al momento di decidere di rendere pubblica la storia aveva scelto di chiudere e di rimanere con la moglie. Nella ricostruzione del periodo in cui tutto ciò era avvenuto la signora ricordò che in quel tempo smisero per sempre di avere rapporti ( lui lo giustificò come un problema di prostata e di stanchezza) e il marito ebbe una depressione lunga dalla quale in realtà non uscì più. La conoscenza di questa storia la stava ossessionando e diceva: “ non posso fare il lutto di mio marito … perché rimase con me e quanto veramente mi voleva bene … quanto era migliore di me l’altra e quanto più felice starebbe stato con lei … che vita ho avuto a chi sono stata vicino … perché non mi ha mai detto nulla, perché non si è fidato di me … chi era veramente e chi siamo stati noi insieme … che recita è stata … ”

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La gelosia: patologia o amore vero?

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori. Dove agisce la prevenzione (Parte IV)

 

La discussione finale si è rivelata molto coinvolgente e costruttiva in quanto ha visto contrapporsi i “sostenitori della scientificità e del rigore metodologico nelle prevenzione” ai “sostenitori della bontà della prevenzione a prescindere dalle evidenze (in quanto complesse e di difficile misurazione)” a testimonianza di come il tema sia ad oggi attuale, molto delicato e dibattuto.

L’inizio della seconda giornata del convegno: “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori”, è impostato su due sessioni mattutine di workshop. La seconda sessione offriva ai partecipanti la scelta di uno dei tre workshop di seguito descritti:
“Dove agisce la prevenzione: luoghi e buone pratiche” (con Roberta Molinar, Peter Koler e Gabriella Zanone)
“Cosa significa aiutare i familiari? Testimonianze e pratiche” (con Maurizio Coletti, Roberto Cuni, Caterina e Roberto Dalla Chiara)
“Prassi innovative dal mondo delle comunità terapeutiche” (con Leopoldo Grosso, Egle Demaria, Alessandra Berto e Mario Dondi)

Ho scelto di partecipare al workshop “Dove agisce la prevenzione: luoghi e buone pratiche”, che si è rivelato molto costruttivo sia per i contenuti sia per il dibattito che si è sviluppato nella discussione finale tra pubblico e relatori.

La prima ad intervenire è stata Roberta Molinar (Università del Piemonte Orientale) che ha esposto la sua relazione incentrata sull’importanza di valutare attraverso ricerche scientifiche anche i programmi di prevenzione. La prevenzione infatti, può essere implementata da chiunque, senza restrizioni, e raramente viene valutata, non considerando la possibilità che essa possa anche rivelarsi inefficace oppure dannosa. Tutto ciò avviene in quanto la prevenzione è un fenomeno complesso e multifattoriale, vi sono scarse evidenze scientifiche sulla sua efficacia, vi è mancanza di regolamentazione e di rigore metodologico. Roberta Molinar sottolinea come il concetto di buona pratica non sia sinonimo di intervento efficace e auspica quindi per il futuro una prevenzione basata sulle evidenze scientifiche, da considerare come atto di responsabilità e non come limite all’esercizio della propria libertà professionale.

Di tutt’altro avviso è Peter Koler (Forum Prevenzione, Bolzano) che sostiene che una prevenzione sul territorio funzioni solo se è attivo un lavoro di rete e un centro che si occupi di prevenzione attorno ad esso, come succede in Alto Adige con il Forum Prevenzione di cui è direttore. Koler porta numerosi esempi di buone prassi e progetti in ogni ambito in cui il suo centro lavora (scuola, famiglia, lavoro, internet, strada, sport, comunità, media, aziende, politica, ecc.) e ribadisce che lo scopo della prevenzione non dev’essere l’uso oppure il non-uso della sostanza quanto l’abbassamento dei rischi e la maggior sensibilizzazione, soprattutto dei giovani.

Per ultima interviene Zanone Gabriella (SerT di Genova) che presenta una relazione incentrata e basata sul termine “luoghi”, con numerosi e interessanti riferimenti narrativi. La prevenzione secondo la relatrice dev’essere nella testa di ogni adulto, che deve educare e fornire un luogo sicuro ai ragazzi, dove questi si possano esprimere. La prevenzione è quindi un prerequisito alla relazione: “quando gli adulti rinunciano ad educare, consegnano la vita agli specialisti”. Essa dunque sta nel processo educativo, in quanto non sarà mai possibile implementare una prevenzione per tutto: è importante ricominciare a dare informazioni ai nostri ragazzi, anche semplici, e raccontargli sempre la verità su come stanno realmente le cose, senza mistificazioni.

Come anticipato, la discussione finale si è rivelata molto coinvolgente e costruttiva in quanto ha visto contrapporsi i “sostenitori della scientificità e del rigore metodologico nelle prevenzione” ai “sostenitori della bontà della prevenzione a prescindere dalle evidenze (in quanto complesse e di difficile misurazione)” a testimonianza di come il tema sia ad oggi attuale, molto delicato e dibattuto.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

MBRP – Mindfulness based relapse prevention per la prevenzione delle ricadute nelle dipendenze

LEGGI DIPENDENZE. INNOVAZIONI PER DIRIGENTI E OPERATORI

14 Giugno: Giornata mondiale del donatore di sangue – I fattori che influenzano la motivazione a donare sangue

Dal 2004 il 14 giugno viene festeggiata la Giornata mondiale del donatore di sangue proclamata dalla Organizzazione mondiale della sanità. Questa data è stata scelta in quanto giorno di nascita di Karl Landsteiner, scopritore dei gruppi sanguigni e coscopritore del fattore Rhesus. 

Come ogni comportamento umano, la donazione mette in movimento e dinamizza pensieri, emozioni ed affetti: nel dono del sangue, rispetto al ciclo normale del dare-ricevere-ricambiare (che è l’esperienza di dono maggiormente sperimentata) il sangue non è ricevuto da una persona conosciuta, non è restituito (o lo è in piccola misura) e in ogni caso non lo si dona perché sia contraccambiato. Inoltre, l’atto della donazione del sangue, con le sue implicazioni di realtà (il prelievo), fisiologiche e simboliche (il sangue, cioè la vita che in parte esce da noi) e il contesto in cui avviene, può determinare una dinamica e una complessità di emozioni e pensieri che, in certi casi, travalicano e quasi neutralizzano l’intenzionalità razionale (“dono il sangue per il bene altrui”). Ciò può determinare stati di tensione e, a volte, di ansia o di paura.

Sono diversi gli studi che indagano i fattori che sembrano contribuire all’intenzione a donare sangue (cfr. Aturni, 2009).
Un fattore che potrebbe influire negativamente sulla motivazione è quello che in psicologia sociale viene definito l’effetto Ringelmann: in compiti comuni, dove il contributo del singolo non è identificabile, si alimenta una diffusione di responsabilità che porta ad un minore impegno del singolo nello sforzo collettivo. Questo potrebbe spiegare il pensiero comune del “tanto c’è chi ci pensa” in base al quale ciascun individuo, facendo affidamento sull’impegno degli altri, riduce il proprio sforzo manifestando quella che viene definita pigrizia sociale.

Pilavin e Callero (1991) hanno sottolineato come la conoscenza personale sulla necessità di raccogliere sangue sembra influire sulla scelta di donare: le persone che riferiscono di avere (esse stesse o loro consanguinei) ricevuto sangue sono più propense a diventare donatori rispetto a coloro che non lo hanno mai ricevuto. Ricevere qualcosa, infatti, ci pone all’interno di quella che è stata definita norma di reciprocità (Gouldner, 1960) che ci fa sentire in dovere di restituire, a nostra volta, ciò che abbiamo precedentemente ricevuto.

L’importanza attribuita dalla famiglia alla donazione e le aspettative percepite dagli altri significativi rispetto all’assunzione di quel comportamento, invece, possono essere ricondotte ad alcuni studi (ad esempio gli studi di Lee, Pilivian, e Call Vaughn, 1999) dove si evidenzia come i neo donatori abbiano spesso un famigliare donatore.

Un altro importante fattore individuato sono le norme personali, intese come valori personali che guidano il comportamento. In uno studio (Lee, Pilivian, e Call Vaughn, 1999) si mostra come le norme personali siano predette dalle aspettative percepite degli altri significativi e, a loro volta, siano predittive dell’intenzione a donare. Tuttavia, se questa variabile influenza l’intenzione a donare effettivamente, il continuum di questo impegno nel tempo sembrerebbe essere determinato dall’identità di ruolo e dalle esperienze precedenti (Lee, Piliavin e Call, 1999): con l’aumentare del numero di donazioni effettuate sembra emergere una identità di ruolo che guida i comportamenti, orientando le scelte future verso la volontà di continuare a donare; altre ricerche hanno sottolineato come l’intenzione ad agire un comportamento sia mediata dal ricordo positivo associato a quel comportamento, evidenziando come il ricordo delle emozioni sperimentate durante la donazione di sangue, insieme all’attitudine a donare, sia predittore dell’intenzione a donare ancora (Breckler, e Wiggings 1989; Piliavin, et al. 1982).

Godin e collaboratori (2005) mostrano come sentimenti di obbligo morale e il controllo percepito siano maggiormente predittivi dell’intenzione a donare nei donatori fidelizzati, mentre l’atteggiamento verso la donazione sembra essere il maggior predittore per coloro che non hanno mai donato. Il ricordo delle prime esperienze di donazione, infatti, influenza l’intenzione a donare, specialmente se esiste un contrasto emozionale tra il ricordo dell’ansia sperimentata prima della donazione e le emozioni positive sperimentate dopo la donazione.

Questo contrasto, secondo Piliavin e colleghi (1982), rinforzerebbe il comportamento di donazione incrementando l’intenzione a donare nuovamente.
In Italia, è il CIVIS (coordinamento interassociativo volontari italiani del sangue), fondato a Perugia nel 1995, che riunisce le quattro principali associazioni e federazioni di donatori di sangue volontari operanti sull’intero territorio nazionale: AVIS, FIDAS, Fratres e donatori di sangue della CRI.

Le strutture associative che si occupano di donazione di sangue rivestono un ruolo importante e peculiare che può incidere sull’effettivo mantenimento di questo gesto da parte sia dei neodonatori sia dei donatori fidelizzati. Tuttavia la donazione di sangue, pur essendo un atto personalmente scelto, deriva da una costellazione di variabili personali, familiari ed organizzative che necessitano di essere approfondite e studiate nella loro globalità al fine di arrivare alla creazione di strategie di reclutamento e di fidelizzazione che portino alla soddisfazione totale del bisogno di scorte di sangue.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il volontariato in Italia: come funziona questa attività?

BIBLIOGRAFIA:

Scelta del partner: differenze culturali?

FLASH NEWS

Trovarsi una moglie o un marito è una questione assai diffusa; controversi sono però i criteri che ci portano a scegliere per uno o un altro esemplare di uomo o donna. La psicologia si è occupata dei fattori desiderabili nella selezione del partner amoroso.

Scrive una ventenne di Shanghai per descrivere il suo partner ideale: “Un uomo che abbia un corpo sano, che possa sopportare il mio carattere, che abbia amore e pietà filiale verso gli anziani della mia famiglia; che ami i miei genitori. Che abbia senso di responsabilità e sappia come prendersi cura della famiglia. Che abbia un buon reddito e una casa di proprietà.”

Trovarsi una moglie o un marito è una questione assai diffusa; controversi sono però i criteri che ci portano a scegliere per uno o un altro esemplare di uomo o donna. La psicologia si è occupata dei fattori desiderabili nella selezione del partner amoroso.

Ad esempio le teorie delle strategie sessuali supportano l’ipotesi del vantaggio evolutivo per la prole tale per cui i maschi sarebbero valutati per l’accesso alle risorse, lo status sociale e la ricchezza, mentre le femmine per la loro buona salute, giovane età e buon aspetto fisico in quanto segnali di fertilità (Buss & Schmitt, 1993). Se però ci spostiamo dall’Occidente alla Cina i criteri di selezione del partner per maschi e femmine sono universali o si differenziano a seconda della cultura? Che cosa conta per gli uomini e le donne cinesi nel momento in cui scelgono con chi accasarsi?

Secondo diverse ricerche che si sono occupate del tema (Toro-Morn & Sprecher, 2003; Zhang & Kline, 2009) i soggetti delle culture individualistiche (ad esempio gli USA) porrebbero maggiore enfasi sul concetto di amore romantico e sui tratti individuali che promuovono nella coppia la vicinanza emotiva. D’altro canto, nelle culture collettivistiche (ad esempio la Cina), dove l’armonia interpersonale del gruppo famigliare allargato è fondamentale, si darebbe la priorità alla continuità dei valori della famiglia d’origine e dunque alla conformità alle aspettative sociali-familiari in termini di selezione del proprio compagno per la vita.

Rispetto a questi studi– che spesso hanno considerato generazioni precedenti – le cose oggi forse assumono nuovi significati in considerazione del cambiamento delle culture di per sé, in cui nonostante la radicazione del confucianesimo la Cina non è più solo la Cina tradizionale.

Uno studio recente (dati raccolti nell’anno 2013) (Chen, Austin, Miller, & Piercy, 2015) ha confrontato giovani adulti (età media 25 anni) cinesi e americani di orientamento eterosessuale, rispettivamente residenti in grandi aree metropolitane della Cina e degli USA.  In particolare è stato utilizzato un elenco di 21 aggettivi rispetto ai quali i soggetti dovevano esprimersi mediante scale Likert con l’aggiunta di una domanda aperta (“ Quali altri criteri sono importanti per scegliere il tuo partner ideale?”).

Dalle analisi sono emerse interessanti differenze culturali. I soggetti cinesi riferiscono i seguenti criteri preferibili nella scelta del partner in misura maggiore rispetto agli americani:
“con buone origini familiari”
“brava casalinga”
“ricco”
“con buono stipendio”
“di un elevato status sociale”
“potente”
“che goda di uno stato di buona salute”
“che dimostri elevata pietà filiale” (xiao shun) che consiste nell’obbedire e onorare i propri genitori e nel comportarsi in modo da non disonorare il nome della famiglia d’origine (Ho, 1994). Tale costrutto è totalmente assente negli americani.

Le differenze di genere riguardo questi criteri più scelti dai cinesi sono le seguenti. Sono le donne cinesi che rispetto agli uomini hanno aspettative più elevate riguardo la ricchezza e lo status sociale; mentre è il sottogruppo maschile che maggiormente riporta le doti casalinghe tra i criteri fondamentali.

Ecco invece le caratteristiche più scelte dagli americani rispetto ai cinesi:
“onesto e affidabile”
“con un buon senso dell’humor”
“intelligente”
“avvincente, emozionante”
“con un buon livello di istruzione”
“fisicamente affascinante”
“spirituale e religioso/a”
“buona compatibilità religiosa ed etnico-culturale”

Le differenze di genere tra gli americani seguono questo andamento: le donne più degli uomini valutano l’onestà e l’affidabilità e il senso dello humor; anche le donne americane considerano status sociale e ricchezza come criteri importanti rispetto agli uomini americani, ma in misura minore rispetto ai cinesi.

Dunque i giovani di cultura cinese- in particolare le donne- sarebbero più esigenti riguardo lo status sociale, il successo e la ricchezza. Questo risultato può essere spiegato facendo riferimento alle teorie delle strategie sessuali che vedono le donne preferire i fattori legati alle risorse materiali del partner. E’ interessante però notare che in letteratura il successo personale e l’autoaffermazione sono variabili associate alle culture individualiste (Anolli, 2004): e in questa ricerca sono proprio questi fattori dell’individualismo “occidentale” a essere molto considerati dai cinesi, pure in modo più ampio rispetto agli americani.

I giovani cinesi mantengono parimenti un saldo attaccamento ai propri valori culturali tradizionali considerando fondamentali le origini familiari del partner nonché l’inclinazione ad onorare, rispettare e prendersi cura dei propri genitori (pietà filiale). La dimostrazione naif e lampante è che frequentemente si incontrano in Cina giovani sposi che vivono insieme ai suoceri. In tal senso i valori della cultura collettivistica, tra cui il mantenimento dell’armonia sociale e la ricerca del consenso nel proprio gruppo allargato influenzano la scelta del partner e allo stesso tempo vengono preservati. In ultima analisi, emerge il concetto di sé interdipendente o “we-self”: il soggetto non si sente separato e distinto dal proprio gruppo ma parte integrante di esso.

Gli americani invece avrebbero aspettative maggiori riguardo diversi tratti della personalità individuale, il fascino e la spiritualità. Caratteristiche che rimandano al concetto del sé indipendente tipico delle culture individualiste: il sé come entità autonoma dotata di una serie di caratteristiche e attributi specifici e indipendenti dall’altro (Anolli, 2004). Ciò non significa che i cinesi non citino aggettivi relativi all’aspetto fisico, alla personalità (ad esempio risposte freuqnti sono “che abbia un buon carattere”), ma certamente lo fanno in modo non esclusivo, meno dettagliato e granulare, come se considerassero non solo l’individuo ma in eguale misura anche il suo contesto di riferimento.

La compatibilità etnico-culturale e religiosa nella scelta del partner – più significativa per gli americani – pesa in funzione dei differenti background storico-sociale dei due paesi: se gli USA sono famosi per la loro ampia varietà etnica, in Cina il 91,51% degli individui appartengono alla etnia Han [National Bureau of Statistics of China, 2011].

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Scelta del partner: chi si piglia si somiglia?

BIBLIOGRAFIA:

Snoopy, la delusione amorosa e il cibo come auto-medicazione – Peanuts Nr. 6

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA Nr.6

Al termine di una relazione è spesso inevitabile sentirsi profondamente tristi. La perdita della persona che un tempo abbiamo amato, o che ancora amiamo ma con un sentimento non corrisposto, può portare con sé un profondo senso di smarrimento, sconforto e di incertezza nei confronti dell’immediato futuro.

Peanuts Nr. 6 - Delusione amorosa

Ritornare alla condizione di single determina la necessità di una riorganizzazione mentale, emotiva e spesso anche logistica, le certezze della vita quotidiana vengono a mancare per lasciare spazio alla novità, al rinnovo e al cambiamento. Per alcune persone questo passaggio può essere molto faticoso, soprattutto se è accompagnato da sentimenti di incertezza rispetto alle proprie capacità di ricostruirsi una vita indipendente.

E’ facile infatti, per alcune persone, cadere in trappole mentali come: “Non ce la farò mai da solo”, “Nessun altro mi amerà” “Non valgo nulla”.

Nella vignetta Snoopy esprime i suoi pensieri negativi attraverso la colpa e l’auto-commiserazione. In questo stato mentale, le abitudini alimentari possono risentirne, attraverso la privazione del cibo o l’ipercompensazione. In questo caso, per Snoopy il cibo assume una valenza di auto-medicazione.

La vignetta mostra, in modo ironico, le conseguenze a medio e a lungo termine di questo illusorio metodo auto-curativo. L’aumento della quantità di cibo e la scelta di alimenti ad alto contenuto calorico, può infatti comportare non solo rischi per la salute, ma anche un’ ulteriore diminuzione del tono dell’umore, innescando un circolo vizioso di tristezza – ricorso al cibo – aumento della tristezza – aumento del cibo.

L’influenza della condotta alimentare sul tono dell’umore è stata confermata da una recente ricerca dell’University College London e pubblicata sul British Journal of Psychiatry (Akbaraly et al., 2009).

 

Lo studio ha analizzato gli effetti dell’alimentazione nel suo insieme e non dei singoli nutrienti, mettendo in evidenza come il rischio dell’effetto depressivo non dipenda da alimenti particolari, ma dallo stile alimentare predominante. La ricerca ha concluso che le persone che prediligono un’alimentazione ricca di grassi e dessert hanno un rischio del 60% superiore di soffrire di depressione rispetto a chi privilegia frutta, pesce e verdura.

La striscia può quindi essere molto utile per affrontare questo tema delicato, perché mostra le conseguenze di una modalità illusoria di gestire la situazione di crisi e apre il dialogo verso la ricerca di modi più utili, costruttivi e innovativi per riappropriarsi del proprio tempo e per ricostruirsi una nuova immagine di sé, con una disposizione mentale positiva verso il cambiamento.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Guardate l’alba, ballate senza vergogna, siate felici! I compiti per le vacanze

Cesare Catà, professore del liceo di Scienze Umane di Fermo (Marche), ha compiuto una piccola rivoluzione all’interno del contesto scolastico con l’assegnazione dei compiti per le vacanze estive 2015, tra i quali sono contemplati: fare una passeggiata sulla riva del mare in solitudine, guardare l’alba almeno una volta, ballare senza vergogna, cercare situazioni di arricchimento con nuovi amici…

Il professore è riuscito in poche righe a capovolgere il tradizionale sistema di insegnamento, per lasciare spazio allo sviluppo di un nuovo modo di guardare gli allievi e il ruolo educativo della scuola stessa.

 

Di seguito l’elenco dei 15 compiti per l’estate:

  1. Al mattino, qualche volta, andate a camminare sulla riva del mare in totale solitudine: guardate come vi si riflette il sole e, pensando alle cose che più amate nella vita, sentitevi felici.
  2. Cercate di usare tutti i nuovi termini imparati insieme quest’anno: più cose potete dire, più cose potete pensare; e più cose potete pensare, più siete liberi
  3. Leggete, quanto più potete. Ma non perché dovete. Leggete perché l’estate vi ispira avventure e sogni, e leggendo vi sentite simili a rondini in volo. Leggete perché è la migliore forma di rivolta che avete (per consigli di lettura, chiedere a me).
  4. Evitate tutte le cose, le situazioni e le persone che vi rendono negativi o vuoti: cercate situazioni stimolanti e la compagnia di amici che vi arricchiscono, vi comprendono e vi apprezzano per quello che siete.
  5. Se vi sentite tristi o spaventati, non vi preoccupate: l’estate, come tutte le cose meravigliose, mette in subbuglio l’anima. Provate a scrivere un diario per raccontare il vostro stato (a settembre, se vi va, ne leggeremo insieme)
  6. Ballate. Senza vergogna. In pista sotto cassa, o in camera vostra. L’estate è una danza, ed è sciocco non farne parte.
  7. Almeno una volta, andate a vedere l’alba. Restate in silenzio e respirate. Chiudete gli occhi, grati.
  8. Fate molto sport.
  9. Se trovate una persona che vi incanta, diteglielo con tutte la sincerità e la grazia di cui siete capaci. Non importa se lui/lei capirà o meno. Se non lo farà, lui/lei non era il vostro destino; altrimenti, l’estate 2015 sarà la volta dorata sotto cui camminare insieme (se questa va male, tornate al punto 8).
  10. Riguardate gli appunti delle nostre lezioni: per ogni autore e ogni concetto fatevi domande e rapportatele a quello che vi succede.
  11. Siate allegri come il sole, indomabili come il mare.
  12. Non dite parolacce, e siate sempre educatissimi e gentili.
  13. Guardate film dai dialoghi struggenti (possibilmente in lingua inglese) per migliorare la vostra competenza linguistica e la vostra capacità di sognare. Non lasciate che il film finisca con i titoli di coda. Rivivetelo mentre vivete la vostra estate.
  14. Nella luce sfavillante o nelle notti calde, sognate come dovrà e potrà essere la vostra vita: nell’estate cercate la forza per non arrendervi mai, e fate di tutto per perseguire quel sogno.
  15. Fate i bravi.

 

I compiti del professore mirano alla crescita di aspetti affettivi, relazionali e motivazionali che spesso vengono trascurati nell’impostazione didattica tradizionale, ma che sono fondamentali per uno sviluppo psicologico sano degli allievi e per vivere l’esperienza scolastica in modo costruttivo.

Inoltre, e’ ragionevole pensare al risvolto positivo sull’aggancio relazionale con gli studenti, i quali probabilmente affronteranno l’inizio del nuovo anno scolastico con il sorriso, accompagnati dal loro insegnante e maestro di vita.

 

ADHD: un disallineamento tra individuo e ambiente?
L’ADHD si manifesta in modi diversi a seconda del contesto in cui una persona vive, combinando aspetti genetici e influenze ambientali
Lo sconosciuto conosciuto: la sindrome di Fregoli
La Sindrome di Fregoli è un raro disturbo psichiatrico che porta a riconoscere nei volti estranei persone familiari sotto mentite spoglie
Il sonnambulismo: quel misterioso caso del “sonno a metà”
Il sonnambulismo è un disturbo del sonno in cui il corpo si muove mentre la coscienza resta sopita. Cosa accade nel cervello?
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Giugno 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
La Consulta delle Scuole CBT: un Convegno per il Futuro della Psicoterapia in Italia
Il convegno della Consulta delle Scuole Italiane di CBT ha offerto un'occasione per esaminare la formazione attuale e futura, sottolineando l'importanza di adottare pratiche basate sull'evidenza.
Quando un genitore tradisce: comprendere e superare il dolore
L’infedeltà di un genitore non coinvolge solo la coppia, ma può generare nei figli sentimenti di tradimento, delusione e perdita di fiducia
Lab Apprendimento Clinica Eta Evolutiva Milano
Lab-Apprendimento: strategie per un apprendimento autonomo
Un mini-corso estivo promosso dalla Clinica età Evolutiva di Milano per imparare un metodo di studio efficace. Dal 1 al 22 luglio a Milano.
Il potere della chain analysis: comprendere i nostri comportamenti problematici può generare cambiamenti e migliorarci la vita
La chain analysis aiuta a comprendere a fondo i comportamenti problematici, ricostruendo i processi che li precedono e li mantengono nel tempo
Tollerare la noia: un nuovo strumento self-report per una nuova prospettiva sulla “divina indifferenza”
La scala Boredom Intolerance Scale (BIS) misura l’intolleranza alla noia, offrendo una nuova prospettiva clinica
Congresso: L’orizzonte della Psicoterapia – Porta il tuo contributo e proponi il tuo poster
4° Congresso italiano di psicoterapie cognitive-comportamentali di terza generazione. Condividi i risultati del tuo lavoro proponendo un poster da presentare durante la sessione dedicata
I videogiochi d’azione possono migliorare le abilità di lettura
I videogiochi d’azione possono potenziare la consapevolezza fonologica nei bambini in età prescolare, riducendo il rischio di dislessia
I farmaci integrati alla psicoterapia: quali paure e quali resistenze? – Inside Therapy
La rubrica Inside Therapy esplora quando e perché in psicoterapia può servire anche un supporto farmacologico
ChatGPT e psicoterapia: può l’Intelligenza Artificiale sostituire il terapeuta umano?
ChatGPT sta entrando nel mondo della psicoterapia, ma resta aperto il dibattito su quanto possa davvero sostituire l’intervento umano
”Vado a tagliare i capelli”. Dispercezioni sensoriali nell’autismo e trattamenti: lo studio di un caso
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
La coppia narcisistica borderline. Nuovi approcci alla terapia di coppia (2023) di Joan Lachkar – Recensione
La coppia narcisistica borderline (2023) di Joan Lachkar esplora le complesse dinamiche emotive e relazionali tra personalità narcisistiche e borderline
Le conseguenze dei disturbi alimentari in epoca perinatale sullo sviluppo psicofisico del nascituro
I disturbi alimentari in gravidanza rappresentano un fattore di rischio per il benessere psicofisico della madre e lo sviluppo del bambino
Sandra Sassaroli ospite a Tressessanta, il podcast di Virginia Gambardella
Sandra Sassaroli è stata ospite del podcast "Tressessanta" di Virginia Gambardella, un dialogo intenso e ricco di spunti per approcciare al tema della salute mentale
Offerta-di-lavoro-Segreteria-inTHERAPY
Offerta di lavoro: inTHERAPY cerca operatore per Segreteria Clinica
Il servizio di psicoterapia inTHERAPY sta cercando nuove risorse da inserire nella segreteria clinica.
Narcisismo: il rischio di essere e sentirsi ostracizzati
Secondo una recente ricerca, le persone con tratti di narcisismo grandioso tendono a essere e a percepirsi come escluse più frequentemente rispetto agli altri
Stato e tratto in psicologia
Stato e tratto in psicologia descrivono come varia o si mantiene stabile il modo in cui pensiamo, sentiamo e ci comportiamo
Carica altro

Immolarsi per la ricerca sì…ma fino a un certo punto!

Alcune ricerche in psicologia sono venute alla ribalta soprattutto per le prove e i compiti non proprio usuali e non affatto piacevoli ai quali i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti. 

La maggior parte dei lettori, avendo studiato psicologia o psichiatria o, in caso contrario, mostrando comunque un certo interesse verso le scienze psicologiche e le neuroscienze, avrà avuto a che fare col mondo della ricerca scientifica.

Sia che i ricercatori siate voi (o per lo meno lo siete stati ai tempi della tesi sperimentale quando disperati cercavate di reclutare soggetti anche dal salumiere), sia che invece abbiate mai fatto parte di un campione di ricerca (magari eravate lì tranquilli dal salumiere a far la spesa!), avrete avuto modo di osservare, a grandi linee, cosa significa essere uno di quegli individui che prendono parte a una ricerca: per lo meno viene chiesto di compilare questionari, spesso a risposta chiusa, altre volte a risposta aperta o di svolgere compiti di concentrazione, memoria, calcolo, ecc. (a parte ovviamente gli studi che si avvalgono di risonanze magnetiche e altri strumenti di misurazione fisiologica e neuronale; con questo però non si vuole sminuire alcun tipo di ricerca, spero sia chiara l’impronta ironica dell’articolo). Dunque si tratta di essere sottoposti a compiti a volte semplici, alle volte un pò più difficili, ma comunque decisamente accettabili per i partecipanti.

Stessa lieta sorte non è però toccata ai soggetti di alcuni studi, venuti alla ribalta soprattutto per le prove e i compiti non proprio usuali e non affatto piacevoli ai quali i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti.

Un esempio: quale sarebbe stata la vostra reazione se un ricercatore, con l’intento di studiare il disgusto, vi avesse chiesto di odorare il pannolino sporco di un bebè? D’accordo, numerose mamme penserebbero Sono abituata, che ci vorrà mai?!, ma cosa penserebbero invece se dei neuroscienziati, mossi dalla voglia di scoprire i circuiti cerebrali coinvolti nella paura, le sottoponessero a una PET mentre un bel serpente di 1, 5 metri si stringe attorno al loro corpo?

L’articolo che vi consigliamo di leggere elenca le dieci ricerche in psicologia che più hanno messo a dura prova i soggetti e ce n’è di tutti i tipi: dalle prove più dolorose alle prove più hot! Non vi anticipo altro, buona lettura!

 

It was all in the name of science, to better understand the darker, less pleasant aspects of being human. We salute the men and women who volunteered their minds and bodies to take part. Their pain is our gain. It’s important to note that in line with international ethical protocols, any psychology studies from the modern era would have required participant informed consent, with careful debriefing upon study completion (…) Now, let’s get this Digest tour underway

Immolarsi per la ricerca sì…ma fino a un certo punto!Consigliato dalla Redazione

Immolarsi per la ricerca sì...ma fino a un certo punto! - Immagine: 59313025
Alcune ricerche in psicologia sono venute alla ribalta soprattutto per le prove e i compiti non proprio usuali e non affatto piacevoli ai quali i ricercatori hanno sottoposto i partecipanti. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Tutti gli Articoli di State of Mind su Ricerca
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Maggio 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Aprile 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali, Marzo 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
Rimuginio desiderante: valutazione dell’impatto sulla soddisfazione sessuale e relazionale – PARTECIPA ALLA RICERCA
La ricerca presentata vuole indagare la relazione tra il rimuginio desiderante e la soddisfazione sessuale e relazionale percepita
Che cos’è una meta-analisi? Il metodo PRISMA
Le meta-analisi sono un metodo usato nella ricerca per sintetizzare i risultati di molti studi scientifici sullo stesso argomento
Che cos’è una revisione sistematica. Il metodo PRISMA
Cosa sono le revisioni sistematiche e perché sono importanti per la ricerca scientifica e per la nostra società
Stress accademico e atteggiamenti mindful – PARTECIPA ALLA RICERCA
Una ricerca volta a indagare lo stress percepito dagli studenti universitari e gli atteggiamenti mindful messi in atto nel quotidiano
Tra studio e lavoro: il fenomeno NEET in relazione a variabili psicologiche – PARTECIPA ALLA RICERCA
Una survey per indagare l’associazione tra il fenomeno NEET e variabili come intolleranza all’incertezza, rimuginio e ruminazione
Come nasce un articolo scientifico
Scopriamo come nasce un articolo scientifico, il mezzo principale attraverso il quale i ricercatori condividono le loro scoperte con la comunità scientifica e il pubblico
Il Concetto di Validità in Psicologia
Il concetto di validità garantisce la precisione delle ricerche psicologiche per ampliare la conoscenza del funzionamento dell’essere umano
Gioco d’azzardo patologico, comorbilità e meta-cognizione
Qual è il ruolo della metacognizione e del pensiero desiderante nel gioco d'azzardo patologico e nelle sue comorbilità?
Wilhelm Maximilian Wundt: il fondatore della psicologia scientifica
Wilhelm Maximilian Wundt: il fondatore della psicologia scientifica
Nel 1879 Wundt fonda il primo laboratorio di psicologia identificando la psicologia come disciplina scientifica autonoma con dei metodi di ricerca rigorosi
Ruminazione in infanzia e adolescenza quale contributo della genetica
Ruminazione in infanzia e adolescenza: quale contributo della genetica?
Una recente review analizza i risultati degli studi genetici che hanno indagato il ruolo dei potenziali geni coinvolti nella ruminazione in infanzia e adolescenza
Covid-19 e processi di adattamento della popolazione uno studio qualitativo
Processi di adattamento dopo la prima ondata della pandemia di COVID-19: uno studio qualitativo basato sull’esperienza degli psicologi clinici
Uno studio qualitativo ha approfondito la comprensione dei processi di adattamento alla pandemia da COVID-19, analizzando le esperienze degli psicologi
Videoterapia online e terapia in presenza una meta-analisi sull'efficacia_
Una metanalisi sull’efficacia della videoterapia online comparata con la psicoterapia in presenza
Una recente meta-analisi di Fernandez e colleghi (2021) ha indagato l’efficacia della videoterapia erogata online a confronto con la psicoterapia in presenza
Musicisti e pandemia: uno studio sulla professione e il senso di identità
La psicologia del musicista e la pandemia da Covid
Una ricerca scientifica sul rapporto dei musicisti con la loro professione e sulla situazione della musica durante la pandemia
Craving, pensiero desiderante ed uso problematico della pornografia online
Il ruolo del pensiero desiderante e del craving nell’uso problematico della pornografia su Internet
In che modo pensiero desiderante e craving si associano a un uso eccessivo e patologico del cyberporn? Esistono differenze di genere in tale associazione?
Esperienze Infantili Avverse e Pensiero Ripetitivo Negativo in eta adulta
Esperienze Avverse dell’Infanzia (ACE) e Pensiero Ripetitivo Negativo (RNT) in età adulta: una revisione sistematica
Una recente review ha indagato la relazione tra esperienze avverse dell’infanzia (ACE) e Pensiero Ripetitivo Negativo (RNT) in età adulta
Uso problematico di Internet, gaming online e metacognizione
Il ruolo del tempo speso in attività di gaming online nel predire l’uso problematico di Internet  
Caselli, Marino e Spada (2021) hanno indagato il ruolo delle metacredenze e del tempo speso nel gaming online nel predire l’uso problematico di internet
Covid-19: sostegno psicologico mirato per infermieri in prima linea
Covid-19: sostegno psicologico mirato per operatori sanitari in “prima linea”
L’articolo espone l’importanza di un intervento di sostegno psicologico tempestivo per gli infermieri coinvolti in prima linea nella pandemia da Covid 19
Carica altro

L’impulsività – Introduzione alla Psicologia nr. 18

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA Nr. 18

 

 

L’impulso, o l’impulsività, rappresenta la voglia irrefrenabile di eseguire un’azione incontrollabile, involontaria, incontenibile.

 

Si tratta di mettere in atto una risposta repentina in reazione a uno stimolo proveniente dall’ambiente esterno tramite un agito comportamentale.

Non sempre è un gesto negativo, infatti, le persone che manifestano un tratto impulsivo sono brillanti, veloci nelle decisioni, adottano comportamenti alternativi, sono dinamici e plastici, scattanti, originali e creativi, sono spontanei e molto spesso intuitivi, si adattano ai cambiamenti e sono flessibili alle situazioni della vita.

Vista in questi termine, vorremmo tutti essere impulsivi!

Ovviamente esiste il rovescio della medaglia: l’impulsività può causare numerosi inconvenienti non solo relazionali, ma anche personali. La cosa importante è non superare il limite, ovvero quel sottile confine che separa il patologico dal normale. L’impulsività è anche un comportamento funzionale se manifestato al momento giusto, ma se fosse l’unica modalità attuabile in tutte le situazioni quotidiane, allora sarebbe disadattiva.

Agire d’impulso, dunque, significa rispondere malamente senza pensare minimante alle possibili conseguenze, guidare ad alta velocità in città senza considerare i rischi, lanciare un oggetto senza valutare se fosse dannoso per qualcuno, etc.

Chiaramente, se agire d’impulso diventasse la norma, allora potrebbe essere auspicabile imparare a gestirlo. Gestire l’impulso significa valutare sempre le conseguenze di un proprio gesto impulsivo, modificando di conseguenza il proprio comportamento. Una possibile strategia potrebbe essere differire i propri scopi, ad esempio contando fino a 10 prima di parlare, oppure bere un bicchiere d’acqua o pensare a qualcosa di piacevole.

In sostanza, la cosa importante, prima di agire, è trovare qualcosa di utile che permetta di inserire una pausa o di spostare l’attenzione prima di agire. Inoltre, gerarchizzare gli scopi da raggiungere permette di perseguirli senza disperdere inutilmente energie. Infine, ma non meno importante, comunicare la propria emozione prima di agire aiuta a renderla meno carica e a questo punto è possibile scegliere di non agirla, ma di fare qualcosa che possa far star bene.

 

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori. Supereroi fragili: adolescenti e dipendenze – (Parte V)

 

La seconda giornata del convegno: “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori”, inizia con due sessioni mattutine di workshop. Nella prima sessione i partecipanti avevano la possibilità di optare per uno dei tre seguenti workshop:
“Ho tutto sotto controllo: affrontare la dipendenza da cocaina” (con Antonia Cinquegrana, Claudia Passudetti e Mauro Cibin)
“Le dipendenze di fronte alla legge. Sanzioni amministrative, prevenzione della carcerazione, detenzione” (con Fabio Ferrari, Francesco Scopelliti, Felice Nava e Maria Alessandra Giribaldi)
“Supereroi fragili: adolescenti e dipendenze” (con Stefano Vicari, Maria Antonella Costantino e Emanuela Rivela)

Il workshop “Supereroi fragili: adolescenti e dipendenze”, al quale ho partecipato, è stato molto coinvolgente e caratterizzato da una nota di interattività tra relatori ed uditori.

Stefano Vicari (U.O. NPI, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma) ribadisce come l’adolescenza sia un’ età critica per l’abuso di sostanze. Esistono dei fattori di protezione e di rischio per le dipendenze in età adolescenziale. Tra i fattori di protezione ne troviamo di ambientali (famiglia stabile e accogliente, buon uso del tempo libero, buon rendimento scolastico, presenza di regole) e di psicologici (buon insight, strategie di coping adeguate, buon autocontrollo percepito, assenza di disturbi psichiatrici). Tra i fattori di rischio ambientali vi è in generale l’atteggiamento dei pari e dei fratelli e la mancanza di supervisione genitoriale; mentre tra i fattori di rischio psicologici spicca la presenza di disturbi psichiatrici. Vi è infatti un’alta comorbilità tra sostanze e disturbi psichiatrici: l’uso della sostanza può essere antecedente e quindi determinare la comparsa di un disturbo, oppure la sostanza può essere usata come automedicazione dal disturbo. Per questo motivo in questi casi è auspicabile e consigliabile una combinazione di interventi psicosociali e farmacologici, senza prescindere dal trattamento dell’uso di sostanze che dev’essere simultaneo e non sequenziale al trattamento del disturbo psichiatrico.

Successivamente interviene Maria Antonella Costantino (UONPIA, Policlinico di Milano) con una gran mole di dati e di numeri a favore dell’ipotesi che i destinatari degli interventi, soprattutto gli adolescenti, sono un’utenza in rapida trasformazione; i disturbi sono sempre più complessi e ad elevato impatto sociale e quindi richiedono nuove modalità di risposta ai loro bisogni, tanto più da ottimizzare in condizioni di crisi economica. La relatrice denuncia la necessità di nuove modalità di lavoro che siano multidimensionali, con modelli compatibili e cambiamenti di paradigma che riflettano la situazione attuale in continua evoluzione, e che siano conseguenza di un pensiero innovativo centrato sui moltiplicatori di salute piuttosto che sulla patologia in sè.

Per ultima Emanuela Rivela (Servizio Adolescenti, Dip. Dipendenze Torino 2) cerca di fare il punto sul motivo per il quale i ragazzi usano e sulla tipologia di consumo dei giovani. Il consumo può avere infatti svariate funzioni (sperimentale, sociale, ecc.) che vanno indagate a fondo assieme alla frequenza dello stesso. La gravità della dipendenza tuttavia non dipende strettamente dal tipo di sostanza usata, dalla modalità o dalla frequenza, quanto dal significato che il ragazzo dà all’assunzione. La relatrice si sofferma anche sul significato che il rischio ha in adolescenza: in questo caso non deve avere una valenza totalmente negativa ma può essere considerato in positivo come “ricerca di qualcosa” e nell’ottica dello sviluppo della propria identità. Anche Emanuela Rivela denuncia una difficoltà nel trattamento di ragazzi adolescenti in quanto sarebbero necessari dei servizi specialistici per questa fascia d’età, che si adattino ai bisogni dei giovani pazienti e variando le offerte.

Anche questo workshop si conclude con un’interessante discussione durante la quale si evince che il pubblico si trova fortemente in accordo con quanto esposto dai tre relatori.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Adolescenti & gambling online – Psicologia dei New Media

LEGGI DIPENDENZE. INNOVAZIONI PER DIRIGENTI E OPERATORI

Resisto, dunque sono! (2007) Burnout & stress lavoro-correlato

Addolorata Carretta

Sta prendendo sempre più piede, in svariati ambiti di lavoro, il fenomeno del burnout, esaurire fino all’ultimo le nostre energie.

[blockquote style=”1″]Quando la vita rovescia la nostra barca; alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo “resalio”. Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilenza, deriva da qui .[/blockquote]

Si apre così il primo capitolo del libro “Resisto, dunque sono” di Pietro Trabucchi. Un libro che, ad ogni singola riga mi ha parlato, che utilizza il mondo dello sport come metafora della vita, e mi ha motivato a scrivere ad una moltitudine di colleghi, che come me, praticano uno sport estremo: lavorare nell’ambito socio sanitario , in particolare in comunità alloggio di tipo riabilitativo.

Sta prendendo sempre più piede, in svariati ambiti di lavoro, il fenomeno del burnout , esaurire fino all’ultimo le nostre energie.

Essendo un tecnico della riabilitazione psichiatrica non ho la presunzione di dichiarare che solo il mio lavoro sia difficile ma in questi anni di lavoro ho potuto toccare con mano quanto questo campo ti svuoti e ti inondi di un mondo che la comunità con le sue dinamiche , inevitabilmente, ti riversa.

Allenare la nostra resilienza significa dunque porsi continuamente una domanda di fronte agli accadimenti della vita: “Cosa c’è di buono in quello che sta succedendo?“, ovvero “Qual è il miglior significato che posso attribuire a quanto sta accadendo?“

Le nostre reazioni di fronte ad eventi negativi, non dipendono direttamente dagli eventi, ma dalla nostra valutazione di essi : questo processo è alla base della nostra valutazione cognitiva e ristrutturazione del pensiero per fare in modo che il nostro comportamento sia più funzionale, più adattivo alla situazione che stiamo vivendo.

Riscontreremmo meno certificati di malattie o ferie impreviste, vivremmo la pausa dal lavoro come momento di distacco piacevole e non più stressante, senza vivere il giorno prima di ricominciare con l’angoscia di tornare dietro quella scrivania. Credo che stati mentali positivi possono produrre un aumento dell’efficienza della risposta immunitaria e diminuire la compresenza di patologie somatizzanti.

 

Il decalogo contro il burnout

Sarebbe auspicabile immaginare una sorta di tavola dei dieci comandamenti per accrescere la resilienza per l’operatore di comunità come ben ci illustra il libro di Pietro Trabucchi:

1. Abbassa le tue aspettative : una valutazione cognitiva più vicina al reale;
1. Dividi l’obiettivo da raggiungere in tanti altri piccoli step e non sovraccaricherai la mente;
1. Impegnati : accetta la fatica, non si può sempre vincere facile;
2. Permettiti di sbagliare: l’errore genera nuove opportunità, nuove strategie di intervento sul paziente;
3. Rispettate i vostri ruoli: lavoriamo in equipe e ci possiamo permettere di dividerci le responsabilità;
4. Rivestiti di “medaglie di ghiaccio”: ogni successo è temporaneo e non conta misurarsi con il collega ma l’impegno che ci hai messo;
5. Abbi senso dell’umorismo: ironizza su alcune dinamiche, l’humor ti consente di verbalizzare sentimenti che se repressi sono distruttivi;
6. Non vi sono situazioni disperate ma solo coloro che disperano di potercela fare;
7. Imparare ad ascoltare i segnali d’allarme del tuo corpo e prendi una pausa;
8. Ultimo ma non meno importante è mantenere vivo l’entusiasmo: ricorda che senza entusiasmo non si è mai compiuto nulla di grande.

Per concludere riporto le parole di Cristian Zorzi, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Torino nel 2006:[blockquote style=”1″] La capacità di resistere allo stress, superare gli ostacoli pur restando sempre motivati: questa è la resilienza. È interessante il fatto che si possa allenare e potenziare e insegnare alle nuove generazioni. È il mio augurio. Credo che oggi nel nostro mondo ci sia bisogno di molta resilienza.[/blockquote]

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Burnout: stress lavorativo, cos’è, da cosa è causato e quali conseguenze comporta 

 

BIBLIOGRAFIA:

Condividere le emozioni positive: per farsi nuove amicizie!

FLASH NEWS

L’espressione e la comunicazione di emozioni positive, ma non di quelle negative, predice in modo statisticamente significativo la successiva vicinanza relazionale tra due soggetti che non si conoscono ancora.

Se volete farvi una nuova amicizia, semplicemente sorridete. Questo mite e banale consiglio naif trova riscontro in un recente studio, pubblicato sulla rivista Motivation and Emotion, in cui si sottolinea che le persone avrebbero una maggiore inclinazione verso le emozioni positive (rispetto a quelle negative) nel momento della formazione di nuovi legami. D’altro canto in psicologia è risaputo che le emozioni svolgono anche la funzione di creare, mantenere o modificare le relazioni.

I ricercatori hanno condotto due studi per verificare il ruolo delle emozioni positive nelle relazioni interpersonali.
Oltre a un esperimento che ha esaminato la consapevolezza delle emozioni positive nel partner di coppia, è interessante lo studio in cui si è verificato il ruolo delle emozioni positive nella formazione di un nuovo legame con uno sconosciuto. 91 donne sono state assegnate a diverse condizioni sperimentali: guardare filmati elicitanti emozioni positive vs. negative e in compagnia di un amico vs. di uno sconosciuto. I risultati indicano che le persone tendono a percepirsi relazionalmente più vicine al loro partner “sconosciuto” nel momento in cui quest’ultimo esprime emozioni positive.

Quindi, l’espressione e la comunicazione di emozioni positive, ma non di quelle negative, predice in modo statisticamente significativo la successiva vicinanza relazionale tra due soggetti che non si conoscono ancora.

Inoltre, la ricerca riporta che in tali situazioni di nuove conoscenze le persone generalmente esprimono le emozioni positive attraverso il cosiddetto sorriso Duchenne: una particolare configurazione dell’espressione facciale che coinvolge non solo il movimento dei muscoli della bocca ma di quelli oculari e che viene anche definita sorriso sincero.

Allo stesso tempo gli esseri umani sarebbero ben allenati a riconoscere velocemente il sorriso sincero dal sorriso finto (sorriso non- Duchenne) nell’interazione con i propri consimili.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Feedback facciale: muovere i muscoli coinvolti nel sorriso ci rende più felici

 

BIBLIOGRAFIA:

cancel