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Indagine su un’epidemia. Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci – Recensione

Robert Whitaker si distingue da altre voci, compiendo un’analisi davvero attenta della pratica clinica psichiatrica americana, studiando a fondo la letteratura scientifica e intervistando medici e pazienti.  Al centro dell’inchiesta, come principali indiziati, ci sono loro, gli psicofarmaci, croce e delizia di ogni psichiatra.

Durante la specializzazione in psichiatria, mi ci è voluto un po’ di tempo per rendermi conto che è raro che gli psichiatri facciano una qualche lettura critica. 

E’ quanto sostiene nell’introduzione di un capitolo il Professore di Psichiatria texano Colin Ross.

Credo che il termine lettura critica sia particolarmente azzeccato per questo libro scritto da un giornalista americano (una sorta di Gabanelli d’Oltreoceano…), specializzato in inchieste sulla salute mentale. Non che nel mondo manchino le critiche alla psichiatria (si pensi ai tentativi di sabotaggio a scopo di lucro di Scientology o ai più romantici movimenti antipsichiatrici), ma Robert Whitaker si distingue da altre voci, compiendo un’analisi davvero attenta della pratica clinica psichiatrica americana, studiando a fondo la letteratura scientifica e intervistando medici e pazienti.  Al centro dell’inchiesta, come principali indiziati, ci sono loro, gli psicofarmaci, croce e delizia di ogni psichiatra.

Il libro parte proprio con la storia della scoperta e della diffusione delle medicine per la psiche. Chi lavora in psichiatria sa che per valutare ogni intervento terapeutico è assolutamente necessario conoscere la storia del paziente e, allo stesso modo, conoscere la storia delle armi usate nella cura può avere sicuramente un suo senso.

Viene messo in evidenza come gli effetti psicotropi delle principali medicine utilizzate nella pratica clinica (neurolettici, benzodiazepine, antidepressivi) siano state scoperte più o meno per caso (come gli antibiotici in realtà) e non da una ricerca basata su ipotesi precise sul funzionamento o malfunzionamento del cervello. Questo fatto getta un’ombra sulla reale possibilità di conoscere davvero a fondo il loro meccanismo d’azione, gli effetti terapeutici e i possibili effetti collaterali a lungo termine, ma soprattutto fa fortemente traballare il modello meramente biologico della malattia mentale, che prevede che i disturbi siano il frutto di squilibri biochimici completamente correggibili farmacologicamente.

In base all’analisi compiuta sulla letteratura, l’autore non nega che gli psicofarmaci siano utili o addirittura indispensabili nelle fasi acute del disagio psichico, ma mostra come un loro uso troppo prolungato possa contribuire alla cronicizzazione del quadro morboso, con una paradossale maggiore facilità di ricaduta nella malattia.

Su questo punto si potrebbe obiettare che l’autore è un giornalista e non è un ricercatore specializzato nell’analisi di studi sull’efficacia dei farmaci, ma i dati che presenta sono comunque impressionanti, soprattutto per quanto riguarda la risposta al placebo negli studi controllati randomizzati, che non si discosta poi di molto dall’efficacia del farmaco (tipo risposta al placebo 31%, risposta al farmaco 41%). Nel libro viene anche raccontata la strana epidemia del disturbo bipolare che si è manifestata negli ultimi anni (anche da noi in Italia ha colpito alcune prestigiose Scuole di Specializzazione in psichiatria).

L’aumento di queste diagnosi potrebbe essere legato ad un uso eccessivo di antidepressivi (soprattutto tra gli anni ottanta e novanta, sull’onda dell’entusiasmo per l’immissione sul mercato degli SSRI), ma non si può neanche escludere che le stesse case farmaceutiche, per favorire la prescrizione di neurolettici di nuova generazione (che chiaramente trovano indicazione nel disturbo bipolare) abbiano incoraggiato tramite laute ricompense e regalini vari gli opinion leaders della psichiatria a divulgare l’epidemia, che non risparmia neanche i minorenni. Alcuni capitoli sono infatti dedicati all’aumento esponenziale delle diagnosi di disturbo bipolare e depressione nei bambini e negli adolescenti, diventati forti consumatori di antidepressivi, e alla dilagante epidemia dell’ADHD, per il quale si prescrive il metilfenidato (amfetamina stimolante), che può indurre a sua volta stati psicotici e maniacali.

L’autore racconta poi alcune storie di pazienti che testimoniano come abbiano tratto beneficio dalla sospensione dei farmaci e parla ampliamente degli studi del dottor David Healy, controverso psichiatra gallese, che tra i primi ha giustamente lanciato l’allarme del possibile aumento del rischio suicidiario legato all’assunzione di antidepressivi (minando una sfolgorante carriera accademica, ma ottenendo che il rischio sia stato segnalato sul bugiardino).

Certi estremismi prescrittivi e altri aspetti della situazione clinica descritta da Whitaker (come il sistema sanitario assicurativo e la questione dell’invalidità dilagante per disturbi depressivi) paiono comunque molto legati alla realtà americana, tanto che alla fine del libro come esempio di psichiatria più umana viene portato quello di una comunità terapeutica finlandese, in cui i farmaci vengono usati quando servono e si lavora molto a livello psicoterapico e interpersonale. Una volta tanto che non dobbiamo imparare tutto dagli americani!

 

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Il fuoco amico sui CIM: commento all’articolo de La Repubblica “I manicomi ora si chiamano psicofarmaci”

 

BIBLIOGRAFIA:

Binge Eating Disorder: il grasso come mezzo di comunicazione

 Giorgia Vacchini

Il BED, Binge Eating Disorder (American Psychiatric Association). Traducendo il termine in italiano facciamo riferimento al comportamento delle abbuffate, di un’alimentazione che è quindi incontrollata.

Si tratta di una condizione di grave sovrappeso causato da fattori psicologici in assenza di cause mediche o genetiche.

Quando parliamo di Disturbi del Comportamento Alimentare siamo soliti pensare all’anoressia, a corpi magri ed emaciati per le eccessive restrizioni ed esercizi fisici che mirano alla perdita di peso, difficilmente ci vengono in mente corpi enormi e grassi.

All’interno della categoria rientra però anche un altro tipo di disturbo: il BED, Binge Eating Disorder (American Psychiatric Association). Traducendo il termine in italiano facciamo riferimento al comportamento delle abbuffate, di un’alimentazione che è quindi incontrollata. Si tratta di una condizione di grave sovrappeso causato da fattori psicologici in assenza di cause mediche o genetiche.

Che cosa fanno in concreto coloro che soffrono di questo problema? Possiamo dire che mangiano in un periodo di tempo circoscritto, in mezz’ora circa, una quantità di cibo molto superiore a quella che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo. I soggetti perdono il controllo sull’atto di mangiare, riferiscono ad esempio di non riuscire a smettere, di non riuscire a controllare cosa e quanto stiano mangiando.

Gli episodi di abbuffate compulsive sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri:

– Mangiare molto più rapidamente del normale;

– Mangiare fino ad avere una sensazione dolorosa;

– Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fame;

– Mangiare in solitudine a causa dell’ imbarazzo per le quantità di cibo ingerite;

– Provare disgusto di sé, intensa colpa o disagio dopo aver mangiato troppo;

Non vengono usati comportamenti compensatori come ad esempio il vomito autoindotto.

I pazienti che ho incontrato e che lamentano questo comportamento raccontano ovviamente storie diverse, sofferenze diverse che li portano ad abbuffarsi e a stare male, a vivere emozioni contrastanti.

 

Ma quale significati assume il grasso del quale si caricano?

Per alcuni è un mezzo di difesa, un muro oltre il quale non si può andare, rappresenta quindi una sorta di barriera protettiva per il soggetto che si sente al riparo dagli altri. Spesso un corpo grasso e poco attraente viene evitato, le persone si privano così anche di aspetti legati alla sfera relazionale e sessuale.

In situazioni diverse il cibo viene usato per colmare un vuoto, per riempirsi e sentire di esistere, attraverso di esso ci si può finalmente sentire “una persona di peso” che ha una posizione e un ruolo, che grazie alla sua massa enorme finalmente viene vista dagli altri.

Ancora, il cibo può essere usato come strumento di autoaggressione, di punizione: l’iperalimentazione suscita fantasie distruttive, si mangia fino a voler scoppiare e stare male.

Se le storie sono diverse e il grasso viene “usato” per motivi diversi ho potuto constatare che c’è qualcosa che ritorna all’ interno delle narrazioni di questo tipo di persone. Si definiscono perdenti e non hanno stima di sé, all’interno delle proprie famiglie sono etichettati e si percepiscono come falliti e succubi, davanti alle sfide della vita preferiscono scegliere la resa, le emozioni che li caratterizzano sono la vergogna e l’inadeguatezza (Ugazio, 2012).

Due sono le idee che guidano quotidianamente il mio lavoro:

La prima è l’idea che ogni comportamento sia una comunicazione, un messaggio per qualcuno (Watzlawick, Beaven, Jackson, 1971).

In questo caso il corpo è il mezzo di comunicazione per eccellenza. Coloro che soffrono di un disturbo del comportamento alimentare come quello che ho descritto assumono il peso di una posizione che li ha resi visibilmente invisibile, in altri termini ciò che si vede è sempre più il grasso e sempre meno la persona.

La seconda idea che guida il mio lavoro è che i sintomi, o comportamenti definiti problematici, siano la soluzione migliore che la persona ha trovato per poter risolvere un altro problema (Gandolfi & Martinelli, 2008).

Per meglio comprendere questo aspetto faccio riferimento ad alcuni studi pionieristici nell’ambito dell’obesità infantile (Molinari, Genchi,Valtorta, Compare,2012).

I bambini obesi con condotte di alimentazione incontrollata provengono spesso da famiglie in cui è avvenuta una separazione difficile o un lutto, ad esempio di un genitore. Il bambino con il suo corpo grasso, se da una parte presentifica il genitore assente (nella maggior parte dei casi anche esso obeso), dall’altra parte sposta l’attenzione su di sè e la distoglie dal problema della separazione o lutto del quale non si può parlare.

Nella maggior parte dei casi i contesti dai quali provengono questi bambini sono poveri dal punto di vista comunicativo, l’unico modo per comunicare è quindi attraverso il corpo. Mentre per l’anoressia e la bulimia l’età di insorgenza è intorno ai 12-18 anni, i dati ci dicono che si sta abbassando in riferimento al BED; è possibile trovare già bambini di 7 anni con questo problema.

Che cosa fare?

Come gli altri Disturbi del Comportamento Alimentare, anche il BED, necessita di un intervento multidisciplinare che coinvolga medico, dietista e psicologo. Trascurare l’importanza della psicoterapia è un grave errore, perché l’attenzione si concentra sugli effetti invece che sulla causa del problema e le ricadute in questo caso non sono infrequenti.

La terapia della famiglia sembrerebbe il trattamento d’elezione per le problematiche di minori: i bambini non chiedono aiuto a uno psicologo, il loro universo affettivo è rappresentato dalla famiglia, dipendono in tutto dai genitori; la scelta più ovvia sarebbe affrontare i problemi nel loro contesto familiare.

 

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BED, emotional eating, risposte allo stress o soluzioni di personalità

 

BIBLIOGRAFIA:

Ubriachi d’amore: le somiglianze tra gli effetti di ossitocina e alcool

Irene Rossi

FLASH NEWS

Un recentissimo studio, condotto dai ricercatori dell’università di Birmingham, ha evidenziato la presenza di significative similarità tra gli effetti comportamentali indotti dall’ossitocina e dall’alcool.

La ricerca, pubblicata in Neuroscience and Biobehavioral Reviews, si basa su dati ottenuti da studi preesistenti, utilizzati per indagare nel dettaglio le somiglianze tra gli effetti che hanno sulle nostre azioni alcool e ossitocina.

Sulla base dei risultati ottenuti il team mette in allerta in merito agli effetti nascosto dell’ “ormone dell’amore”,  l’ossitocina: tale ormone porta a comportamenti simili a quelli indotti dall’alcool, con un’incidenza molto maggiore di quanto si potesse sospettare.

L’ossitocina è un ormone peptidico composto da 9 aminoacidi, prodotto dai nuclei ipotalamici, in particolare sopraottico e paraventricolare, e prodotto dalla ghiandola pituitaria posteriore (neuroipofisi).

È ormai da tempo assodato come questo ormone giochi un ruolo centrale durante il travaglio e il parto e successivamente nel processo di allattamento. Più recentemente è stato inoltre indicato come elemento chiave nelle interazioni sociali e nelle nostre reazioni sentimentali, da questo il soprannome di “ormone dell’amore”.

L’ossitocina difatti aumenta i comportamenti pro-sociali come altruismo, generosità ed empatia e ci porta ad essere più propensi a fidarci degli altri. Questi effetti socio-cognitivi emergono in conseguenza della soppressione dell’azione dei circuiti prefontale e cortico-limbico, con conseguente abbassamento dei freni inibitori sociali come la paura, l’ansia e lo stress.

Proprio in questi effetti risiederebbe la sorprendente similarità tra le conseguenze comportamentali indotte da ossitocina e alcool. Sembra che queste due sostanze agiscano su differenti recettori a livello cerebrale, causando però effetti simili sulla trasmissione del neurotrasmettitore GABA nella corteccia prefrontale e nelle strutture limbiche.

Questi circuiti neurali controllano la nostra percezione dello stress o dell’ansia, in particolar modo nelle situazioni sociali. Assumere sostanze come ossitocina o alcool può quindi far sembrare meno difficoltose situazioni come ad esempio sostenere un colloquio o chiedere un appuntamento alla persona per cui proviamo attrazione.

Se nella realtà sociale spesso le persone sfruttano l’alcool per abbassare i livelli di ansia nelle relazioni social,i per essere meno inibiti, l’ossitocina sembra mimare questo effetto in laboratorio: quando fatta inalare sembra riprodurre proprio gli effetti del consumo di alcolici.

Tuttavia i ricercatori mettono in guardia contro comportamenti di “auto-medicazione” mediante l’uso sia di alcool che di ossitocina per ottenere un po’ più di sicurezza in se stessi nei momenti di difficoltà. Difatti accanto alle preoccupazioni che accompagnano il frequente consumo di alcool, ci sono anche effetti socio-cognitivi meno desiderabili che sia l’alcool che l’ossitocina possono facilitare. Le persone possono diventare più aggressive, presuntuose e invidiose di coloro con cui ritengono di essere in competizione.

Le sostanze in oggetto possono anche abbassare il nostro senso della paura, che normalmente agisce per proteggerci dalla tendenza a metterci in pericolo, e innalzare la percezione di affidabilità degli altri, elementi che congiunti aumentano la probabilità di incorrere in rischi inutili che altrimenti eviteremmo.

L’effetto neurochimico evidenziato da tale studio è affascinante di per sè e apre la strada alla possibilità di sfruttarlo nel trattamento di condizioni psicologiche e psichiatriche. Comprendere esattamente i meccanismi tramite i quali l’ossitocina sopprime certe modalità comportamentali e altera il nostro comportamento potrebbe fornire vantaggi per molte persone affette da svariate condizioni psico-patologiche.

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 L’ossitocina aiuta a superare la paura – Neuropsicologia 

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Limoni preservati, o il senso del limone in purezza

TASTE OF MIND: La rubrica della mente in cucina Nr. 04

L’aroma di limone, di questi limoni è un’altra cosa e ci racconta una cucina sapiente e più calma della nostra, ci invita a prendere tempo, a ragionarci su, a interrompere le nostre eterne corse per raggiungere mete e conquiste

In realtà vi vorrei descrivere una ricetta di limoni pickled, (o preservati,) che rendono unico il pesce, le lenticchie, il cous cous, ma anche una tazza di riso pilaf. Una ricetta facile che ha bisogno di qualche tempo per maturare in vaso ma che può rendere la vostra cucina molto più interessante.

Quando cucino il pesce arrosto a Ginostra non manco mai di mettere qualche fettina dei miei limoni pickled.

A Ginostra ci sono molti limoni, vecchie piante generose, mai troppo grandi e mai troppo curate. E ormai c’è un unico pescatore: Gaetano Merlino, un vecchio amico, un signore brontolone, a volte iroso, con tendenze messianiche, che quando riesco a andare a giugno, non mi fa mai mancare qualche buon pesce da fare arrosto (e da mangiare insieme).

 

Cosa aggiunge il limone preservato al nostro pesce, alle nostre lenticchie?

Spesso quando si cucina in fretta, il sapore del limone nella nostra cucina italiana è un acido finale, uno smorzatore del sapore grasso, un aggiunta che rende secco e puntuto il piatto.

Questi limoni preservati aggiungono un sapore intenso di limone, ma come addolcito, appesantito, rotondo e aromatico che non richiede nient’altro e rende qualsiasi cibo più soddisfacente. L’aroma di limone, di questi limoni è una altra cosa e ci racconta una cucina sapiente e più calma della nostra, ci invita a prendere tempo, a ragionarci su, a interrompere le nostre eterne corse per raggiungere mete e conquiste.

Come vedete anche i limoni preservati possono renderci calmi e smorzare ansie e tristezze. Per esempio potreste non avvisare nessuno di questa novità e guardare l’effetto che fa questo nuovo sapore sui vostri ospiti. Sarà di stupore, pace, calma e curiosità.

 

La ricetta per i limoni preservati:

Prendete alcuni limoni ben maturi, senza veleni e insetticidi. Tagliateli a fettine fini fini. Metteteli a scolare per 24 ore su un colino con sale grosso tra uno strato e l’altro.

Preserved Lemons  (1)

Quando è passato il tempo, asciugateli un poco e pressateli dentro un vaso ben disinfettato con acqua bollente o con alcol a 95 gradi, aggiungendo, tra una fettina e l’altra della paprika forte (o dolce se preferite), pressate bene e con forza fino all’imboccatura del vaso.

Poi aggiungete del buon olio extravergine d’oliva che copra i limoni del tutto. Richiudete bene il vaso. e mettete a riposare per un mese in luogo tranquillo e asciutto.

 

TASTE OF MIND: La rubrica della mente in cucina

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Forme di democrazia in psichiatria: l’Open Dialogue finlandese

Matteo Bessone, Chiara Tarantino

L’Open Dialogue, la cui paternità spetta a Jaakko Seikkula, è la naturale conseguenza della gestazione di teorie e pratiche che risalgono alla fine degli anni ’60 in Lapponia (“il trattamento adattato al bisogno” di Alanen). Il gruppo di ricerca finlandese diretto da Alanen iniziò a perseguire, sin dal 1968, l’obiettivo di sviluppare un modello di trattamento psichiatrico pubblico destinato a pazienti schizofrenici e alle loro famiglie caratterizzato da estreme adattabilità e flessibilità (di metodi e strumenti).

Il Nord Europa rappresenta per gli abitanti del Bel Paese uno di quei riferimenti le cui politiche sociali ed economiche costituiscono un orizzonte fantastico, quasi fiabesco: c’è sempre qualcosa di migliore lassù che in fondo quaggiù crediamo purtroppo di non poter ottenere. Quello che c’incanta è solitamente legato ad una sorta di abito culturale (Bourdieu, 1980) che riesce a strutturare sia abitudini individuali che possibilità sociali e istituzionali che percepiamo come drasticamente estranee, altre, quasi esotiche e in una sorta di rassegnazione ingiustificata preferiamo raccontare tutto questo e portarlo come esempio di come dovrebbe andare il mondo, piuttosto che tentare di apportare alcuni cambiamenti nel nostro mondo.

Questo processo di fascinazione verso il Nord Europa sta interessando in questi anni anche la salute mentale e non solo quella italiana. In Lapponia infatti dagli anni ’90 i servizi psichiatrici sono organizzati secondo modalità che hanno dell’inverosimile ai nostri occhi, gli psicologi e gli psichiatri lapponi rappresentano la realtà clinica (Kleiman, 1978) secondo modalità radicalmente diverse dalle nostre e la popolazione nutre nei confronti dei servizi una fiducia e una benevolenza che ha per noi dell’inverosimile. Tale osservazione non può che essere accompagnata dalla constatazione della differenza tra i nostri servizi e quelli finlandesi. La cultura finlandese di operatori e cittadini sulla salute mentale ha caratteristiche del tutto peculiari che sono state notevolmente influenzate dai servizi e dagli approcci attualmente dominanti, in particolare da uno: l’Open Dialogue.

L’Open Dialogue, la cui paternità spetta a Jaakko Seikkula, è la naturale conseguenza della gestazione di teorie e pratiche che risalgono alla fine degli anni ’60 in Lapponia (“il trattamento adattato al bisogno” di Alanen). Il gruppo di ricerca finlandese diretto da Alanen iniziò a perseguire, sin dal 1968, l’obiettivo di sviluppare un modello di trattamento psichiatrico pubblico destinato a pazienti schizofrenici e alle loro famiglie caratterizzato da estreme adattabilità e flessibilità (di metodi e strumenti): l’idea di una terapia “su misura” per le psicosi schizofreniche emerge a partire dalla constatazione della radicale eterogeneità delle forme cliniche della schizofrenia, e da questa deriva la necessità di integrare tipologie di interventi prima ritenuti antitetici.

Negli anni 1981-1987, con la realizzazione del Finnish National Schizophrenia Project, un programma nazionale per lo sviluppo e lo studio del trattamento e della riabilitazione dei pazienti schizofrenici, si è tentato con successo di applicare questo modello a comunità psichiatriche sempre più ampie, per ridurre al minimo i trattamenti ospedalieri e privilegiare l’assistenza extra-ospedaliera. Gli esiti dimostrarono che la strategia messa a punto da Alanen a Turku poteva essere riproposta in altre città avendo registrato risultati ampiamente positivi (una ricerca relativa ai soli pazienti con un primo episodio psicotico tra il 1983 e il 1984 evidenziò che al follow-up di cinque anni il 61% era asintomatico e solo il 18% persisteva in una condizione di disabilità).

A partire da quel momento la pratica psicoterapeutica in Finlandia è diventata parte integrante del sistema di cura pubblico. Sulle orme della tradizione inaugurata da Alanen, nel 1987 (a conclusione del progetto nazionale) nell’ospedale di Keropudas venne avviato un progetto di ricerca, in collaborazione con l’università di Jyvaskyla, che ha portato alla trasformazione del sistema psichiatrico tradizionalmente orientato all’individuo in un sistema aperto, centrato sulla famiglia e sulla rete sociale.

Questo processo di cambiamento, lento ma radicale, non è stato immune da errori e delusioni: i tentativi iniziali di praticare psicoterapia familiare in setting ospedaliero si rivelarono del tutto fallimentari fino a quando il team iniziò ad organizzare incontri aperti il giorno stesso del ricovero a cui partecipavano tutti i professionisti coinvolti, il paziente e le persone che lo avevano accompagnato. Aprire i confini ospedalieri, tradizionalmente rigidi e chiusi, permise agli attori del trattamento (il paziente e la famiglia) il passaggio da un trattamento “subìto” (e spesso con scarso coinvolgimento e partecipazione) a un trattamento condiviso in cui ognuno era chiamato a offrire il proprio contributo. Quando due sistemi (ospedale e famiglia) si incontrano sono legati alle stesse leggi sistemiche e si impegnano  ad accomodare il proprio comportamento a quello dell’altro, in un processo di mutua co-evoluzione (Maturana, 1988). Il nuovo sistema funzionale, creato dal lavoro congiunto di ospedale e famiglia (operatori e clienti) senza che nessuno dei sue sistemi assuma il controllo sull’altro, offre grandi opportunità di crescita e cambiamento.

Da queste premesse si è strutturato nella Lapponia occidentale un approccio con caratteristiche proprie chiamato “Dialogo Aperto”. Oltre all’ospedale di Keropudas sono stati coinvolti i cinque centri di salute mentale distrettuali presenti nel territorio, in un lavoro che è stato caratterizzato da molteplici studi sperimentali, modificato sulla base dei feedback e dell’esperienza maturata dal team. In quegli stessi anni, l’attenzione della comunità scientifica si è rivolta lentamente e cautamente al Dialogo Aperto grazie alla pubblicazione dei primi studi dai quali emergeva una incontrovertibile diminuzione del tasso di cronicizzazione della psicosi e l’abbattimento del tasso di ospedalizzazione.

Pratica clinica e ricerca hanno continuato a intrecciarsi in Lapponia nel corso di 25 anni e i risultati hanno acquistato maggior valore all’interno di un ulteriore proficuo rapporto, quello tra il sistema sanitario nazionale e università. E’ da questo dialogo tra pratica e ricerca da una parte, e tra accademia e servizi pubblici dall’altra, che viene generata quella moltitudine di evidenze cliniche e di studi che attualmente conferiscono autorevolezza e consistenza all’OD.

L’obiettivo del progetto OD è quello di ridurre le ospedalizzazioni: piuttosto che sradicare il paziente dal proprio sistema sociale, la situazione di crisi viene osservata “in vivo” nell’ambiente naturale in cui ha avuto origine, il domicilio del paziente e alla presenza di tutti coloro che avendo contribuito all’emergere dell’esperienza psicotica, possono diventare  partner attivi del processo di cura. Il nucleo familiare esteso non è l’oggetto bensì l’agente del cambiamento sin dal principio. Anderson e Goolishian (1988) considerano i problemi come costrutti sociali nati e riformulati continuamente nelle conversazioni e poichè chi osserva un problema diventa parte del problema stesso, la crisi è risolta solo quando tutti coloro che lo hanno nominato tale cessano di riferirsi ad esso come ad un problema e tale riformulazione può avvenire solo all’interno della conversazione comune.

Il Dialogo Aperto si serve di 6 equipe mobili di intervento sulla crisi (per una popolazione di 72000 abitanti) incaricate di organizzare e condurre il trattamento per ogni nuovo caso di esordio psicotico (è bene sottolineare come l’OD, pur mantenendo l’originale interesse per i pazienti schizofrenici, non si possa considerare un trattamento diagnosi-specifico e venga utilizzato oggi per una molteplicità di problematiche diverse).

Il Team  per ciascun caso è composto da un gruppo multiprofessionale di operatori (psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, infermieri…). Ad ogni  nuova richiesta di aiuto si organizza il primo incontro al domicilio del paziente entro 24 ore dalla richiesta stessa. Chi riceve la telefonata si occupa di costituire l’equipe che dal primo incontro si assume la responsabilità di accompagnare il paziente per tutto il tempo necessario alla soluzione della crisi e in qualsiasi setting (se è necessaria una fase di ospedalizzazione il medesimo team di operatori si occuperà di condurre incontri di dialogo aperto nel reparto ospedaliero).

Offrire un aiuto immediato e tempestivo permette di ridurre notevolmente il periodo di psicosi non trattata DUP (Duration of Untreated Psychosis), cioè l’intervallo di tempo che intercorre tra l’insorgenza dei sintomi e l’inizio di un percorso di cura presso i servizi competenti. Questo intervallo di tempo è uno dei fattori maggiormente connessi alla prognosi della malattia: tanto maggiore è la durata del DUP, tanto maggiore è il rischio che la prognosi sia sfavorevole. In Lapponia, prima dell’implementazione del Dialogo Aperto nei servizi psichiatrici pubblici, il DUP ammontava in media a 12-13 mesi. Nei primi anni ‘90, successivamente all’introduzione del metodo OD, il DUP è declinato a 4,2 mesi e nel 2000 si è ulteriormente ridotto a 15 giorni. La riduzione del DUP è uno dei risultati più importanti per almeno due motivi: da una parte è chiaro che se il contatto con i servizi avviene precocemente, i sintomi psicotici sono meno radicati rispetto a quei pazienti per i quali è trascorso un lungo periodo (mesi o anni) tra l’insorgenza della malattia e l’avvio di un percorso terapeutico.

Dall’altra parte, nella provincia della Lapponia occidentale sono emersi evidenti segni di diminuzione dell’incidenza annua della schizofrenia (da 33 nuovi pazienti l’anno su 100000 abitanti nel 1985 a 2 nuovi pazienti l’anno su 100000 abitanti nei primi anni del 2000). Secondo gli attuali manuali di riferimento (DSM-5) per porre diagnosi di schizofrenia è necessario che i sintomi perdurino per un periodo di almeno 6 mesi. Questa diagnosi in terra lappone sta gradualmente estinguendosi perchè nella maggior parte dei casi i sintomi vanno incontro a un netto miglioramento nel corso dei primi sei mesi, prima che sia possibile attribuire una diagnosi di psicosi.

Inoltre la continuità psicologica (in una prima fase gli incontri possono avvenire anche per 10-12 giorni consecutivi) e la presa in carico da parte di un unico gruppo di professionisti contribuiscono a rendere più flessibili i confini tra strutture diverse e tipi di trattamento differenti con effetti positivi sull’alleanza terapeutica e sulla prevenzione dei drop-out anche perchè, oltre a promuovere la capacità del soggetto di riappropriarsi del proprio percorso di cura, il clima promosso da parte dei servizi attorno al paziente non risente della frammentazione e della conflittualità (tra servizi e famiglia o tra diversi servizi) che talvolta è possibile riscontrare.

L’obiettivo dei professionisti durante gli incontri è quello di far emergere, nello spazio di dialogo tra i partecipanti, una nuova rappresentazione della situazione problematica e un linguaggio co-costruito e condiviso per esprimerla. L’intenzione non è quella di trovare vincitori o soluzioni ai problemi, ma quello di aprire nuove prospettive (Seikkula, 2014), creandole nel dialogo. Nessun operatore si presenta come il detentore esclusivo di un sapere che investe unidirezionalmente la famiglia dall’esterno. Il compito dei professionisti è quello di ascoltare, rispondere alle comunicazioni dei clienti, permettere a ciascuno di esprimere la propria voce, la propria opinione promuovendo la sensazione di essere co-autore del percorso di cura.

Non esistono riunioni di équipe separate in cui “pianificare” la cura del paziente e tutte le decisioni inerenti il trattamento vengono prese all’interno degli incontri da parte di operatori e familiari. Le discussioni sono aperte e trasparenti e ciascun partecipante è autorizzato ad esprimersi. Quello che accade, a livello relazionale, è molto più di una autorizzazione all’espressione, è una vera e propria legittimazione e responsabilizzazione: il paziente e le persone a lui vicine hanno il diritto di costruire il proprio percorso di cura e sono le persone che, più di tutte, possiedono le conoscenze e le risorse  per affrontare le proprie difficoltà.

Il rovesciamento di paradigma che è avvenuto nella Lapponia si può riassumere con le parole di Birgitta Alakare: “Ci siamo specializzati nel dire che non siamo degli specialisti” (Whitaker, 2013). Non essendoci più degli specialisti non esistono nemmeno modalità standard di pianficare il trattamento, non esistono step prestabiliti da seguire; gli sforzi terapeutici sono tutti volti ad una negoziazione dei significati e ad un adattamento sia al modo in cui i clienti fanno esperienza della crisi che ai significati che questa assume per ciascuno. Per fare questo è necessario un profondo lavoro da parte dell’équipe teso alla tolleranza dell’incertezza, valore ritenuto fondamentale, rispetto alla capacità di offrire soluzioni preconfezionate. Il compito dei terapeuti dialogici è quello di restituire ai clienti la capacità di riprendersi in mano la propria vita, il senso di “agentività” e la possibilità di plasmare il proprio destino, tutte funzioni che il nucleo familiare scivolato nella spirale psicotica ha perduto.

Il concetto di psicosi cui fanno riferimento gli ideatori del Dialogo Aperto (e che si sta diffondendo grazie ad essi in Finlandia anche tra i non addetti ai lavori) è piuttosto diverso da quelli predominanti che afferiscono ai paradigmi strettamente biologici e affonda le sue radici nella tradizione scandinava (forse negletta) delle psicosi psicogene (Wimmer, Stromgren, Retterstol). Questo termine indica una “psicosi clinicamente indipendente (distinta dalla schizofrenia e dalla psicosi maniaco depressiva) causata da fattori mentali o traumi emotivi, generalmente su un terreno predisposto; tali traumi determinano l’insorgenza, il decorso e la fine della psicosi la cui forma e i contenuti riflettono il trauma in modo significativo, più o meno direttamente e comprensibilmente” (Wimmer, 1913).

In un’intervista con lo staff del Keropudas Hospital di Tornio del 10 Settembre 2009, Tapio Salo sostiene che [blockquote style=”1″]la psicosi non è qualcosa che hai nella testa; è qualcosa che esiste nella zona di confine tra i membri di una famiglia o tra i membri di un piccolo gruppo. E’ qualcosa che esiste all’interno di queste relazioni: la persona che diventa psicotica rende percepibili tutti questi aspetti negativi. E’ come se indossasse l’abito sintomatologico e prendesse su di sè gli oneri che ciò comporta[/blockquote] (Whitaker, 2013).

In questa concezione, la schizofrenia perde i caratteri della malattia diventando una risposta “naturale”, una modalità singolare e certamente tragica di affrontare un evento di vita alienante e terrificante, la risposta ad un trauma che non è possibile significare nè verbalizzare e che ha trovato  come unica forma di espressione i sintomi psicotici. E’ l’esperienza di una totale frattura del discorso interno che si ripercuote verso l’esterno e viceversa: quanto più il pensiero diventa frammentato tanto più diffice sarà instaurare relazioni significative, e a questo isolamento corrisponde una frammentazione che depaupera il paziente.

La comunicazione si interrompe. Per Bateson (1977) in quel particolare linguaggio che è il guazzabuglio schizofrenico, il paziente sta descrivendo una situazione traumatica che comporta un groviglio metacomunicativo. Il sintomo rappresenta in tale contesto l’ultima possibilità espressiva del soggetto, la riattualizzazione metaforica della sua esperienza. Cogliere la portata comunicativa, e la costruzione di significato di cui il sintomo si fa veicolo, permette agli operatori e alla comunità di costruire delle rappresentazioni di tali tipi di esperienze che guideranno verso determinate direttrici la strutturazione degli interventi e conseguentemente dei servizi.

Tamponare il sintomo, soffocare le voci, amputare l’esperienza psicotica non rappresentano la priorità in questo tipo di approccio e il farmaco assume un nuovo ruolo. Se da una parte gli operatori non avvertono il bisogno di soffocare il sintomo, dall’altra l’utilizzo del farmaco non viene neanche escluso aprioristicamente. Il trattamento farmacologico viene considerato come una delle possibili traiettorie dei percorsi di cura, possibilità che, al pari delle altre, diventa oggetto di un confronto dialogico, senza venir imposta. In maniera prioritaria si cerca di ripristinare il sonno del paziente e di attenuare il suo stato d’ansia, somministrando ipnoinducenti e benzodiazepine. A volte si ritiene necessario l’uso di antipsicotici, sempre a basse dosi. Dal punto di vista pratico quando, durante un incontro dialogico, viene evocata la possibilità di iniziare una terapia antipsicotica, devono passare almeno tre incontri in cui sia possibile riflettere su questa alternativa, prima che si possa prendere una decisione e iniziare, eventualmente, l’assunzione.

Nella realtà clinica solo in un  terzo dei casi si decide di inziare un trattamento farmacologico, sempre con l’intenzione che tale trattamento sia il più breve possibile. Le valutazioni a lungo termine sui pazienti trattati nel periodo 1992-1997 hanno evidenziato che a cinque anni, il 79% dei pazienti era asintomatico e l’80% lavorava, studiava o era alla ricerca di un lavoro. Solo al 20% era stata assegnata una pensione di invalidità. Di tutti questi pazienti, circa i due terzi (67%) non avevano mai seguito una terapia con antipsicotici, il 33% ne aveva fatto solo un uso breve ed occasionale, e solo il 20% aveva assunto e proseguito regolarmente la terapia (Seikkula et al., 2006). Questi risultati sono rimasti stabili lungo un periodo di oltre dieci anni: lo studio più recente, condotto nel periodo 2003-2005, ha valutato specificatamente la stabilità dei risultati ottenuti all’interno del periodo complessivo di utilizzazione dell’OD in Lapponia (1992-2005), sottolineando che oltre il 70% dei pazienti non ha avuto neanche una ricaduta in questo periodo. Contrariamente a quanto consigliato dalle linee guida italiane per il trattamento della psicosi, quindi, in fase iniziale il trattamento farmacologico viene evitato: durante i primissimi giorni di crisi sembra possibile parlare di cose di cui è difficile invece discutere  in seguito, [blockquote style=”1″]le allucinazioni possono essere affrontate e prese sotto esame, e questa opportunità di parlarne non riappare poi successivamente, se non dopo molti mesi di terapia individuale. E’ come se la finestra su queste esperienze estreme rimanga aperta solo per pochi giorni (i primi)[/blockquote] (Seikkula, 2014).

Questo nuovo ruolo assegnato alla farmacoterapia non sembra affatto diminuire l’efficacia dell’OD rispetto ad altri metodi psicoterapeutici. In un recentissimo articolo apparso su Science, Michael Balter (2014)  propone una breve rassegna di dieci studi che riassumono lo stato dell’arte dell’efficacia psicoterapeutica dei vari approcci alla schizofrenia: accanto ad una moderata efficacia della psicoterapia psicodinamica (Rosenbaum et.al, 2012) o della psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) (Morrison et al., 2014; Grant et al., 2012; Van der Gaag et al., 2012), quasi sempre associate al trattamento farmacologico tradizionale, l’autore cita il lavoro di Seikkula e collaboratori (Seikkula et al., 2011), che, tra i dieci presi in esame, è l’unico a vantare una percentuale di guarigione dell’ 81% con un ridottissimo utlizzo di farmaci antipsicotici.

Gli effetti dei cambiamenti introdotti all’interno del sistema psichiatrico con l’OD hanno però portata ben maggiore, una portata che investe, come è stato detto, le rappresentazioni stesse della psicosi, della cura e che colora anche i rapporti tra la cittadinanza e i servizi. La sollecitudine dei servizi, la possibilità di muoversi dentro un registro cooperativo da questi promosso, la completa trasparenza dei processi decisionali, la consapevolezza che la propria domanda sarà, in ogni caso, presa in carico, genera un circolo virtuoso in cui l’esperienza psicotica, non viene vissuta come qualcosa da nascondere o negare, quanto un problema come altri, da gestire, che può trovare una risposta concreta, immediata, flessibile e realmente centrata sui propri bisogni. I servizi sono quindi interpellati in prima istanza e non rappresentano più l’ultima spiaggia nella deriva individuale e familiare.

L’OD costituisce un incentivo ed un esplicito invito da parte delle istituzioni alla partecipazione della famiglia e della rete sociale al processo di guarigione. Tale invito sembra andare nella direzione di una riapproriazione della salute da parte della comunità, resa possibile solo grazie alla cessione, da parte del sistema medico, di una quota del proprio potere, contrariamente a quella che Illich definiva “l’espropriazione della salute” (Illich, 2005) del sistema medico e che descriveva come uno dei risultati della iatrogenesi sociale ovvero da quel processo generato dall’espansione pervasiva della medicina che porta l’ambiente ad essere privato delle condizioni che permettono agli individui, alle famiglie e alle comunità di occuparsi autonomamente della propria salute.

Il sistema OD al contrario restituisce alla famiglia, alla rete sociale e alla collettività il potere di co-determinare il proprio percorso di cura. Il sistema medico cede loro parte di quel potere di cui è detentore e che gli è stato conferito per una delega politica. La cittadinanza demanda un’istituzione alla cura e questa, di rimando, invita la famiglia a partecipare. Questo processo è retto da un autentico interesse reciproco (istituzione medico-familiare) al servizio dell’individuo sofferente. All’interno del setting il nucleo familiare si riappropria di una parte di quel potere contrattuale che per Basaglia era precluso ad alcuni, in un rapporto di sopraffazione e di violenza tra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere del non potere.

L’abbattimento del tasso di cronicizzazione della psicosi non influenza solo direttamente gli attori di questo processo, ma ha un effetto positivo sul fenomeno della stigmatizzazione. Sono ben note le ripercussioni che lo stigma può comportare sul soggetto che ne è vittima. La rapida remissione sintomatica (legata all’avviamento di un tempestivo processo di significazione, invece che di annullamento della sintomatologia psicotica) è possibile porti all’incorporazione, a livello sociale, di un diverso concetto di malattia rispetto ai luoghi in cui non vi è tale remissione. Non si tratta però di esperienze individuali fenomenologicamente distinte rispetto alle nostre, quanto piuttosto di differenze nel trattamento che producono utenti diversi (esiti diversi) e quindi differenti concezioni della malattia, probabilmente più funzionali, sia per la collettività che per il soggetto.

La psicosi, cessando di essere un attributo del soggetto, per collocarsi nello spazio tra i membri di una famiglia o di un piccolo gruppo, viene fronteggiata da tutti i membri del sistema che ne determinano la comparsa e non è più un attributo dell’individuo, ma del sistema-famiglia. E’ questa gestione sinergica, non solitaria, che permette di affrontare e superare la malattia. La psicosi cambia faccia: la persona e la famiglia possono riemergere dall’esperienza traumatica della psicosi, continuare a condurre una vita il cui funzionamento sociale può non essere inevitabilmente compromesso da una diagnosi.

Anche il nostro Paese, talvolta sordo ai richiami e alle evidenze provenienti dai cugini europei, questa volta ha subito il fascino dialogico. In un momento importante di profonda riflessione autocritica rispetto agli esiti del proprio operato la psichiatria avverte, in maniera ambivalente, l’intima esigenza di esperienze più soddisfacenti. Volendo considerare l’istituzione psichiatrica quale luogo del prendersi cura, dovremmo allora poterne modificare la funzione: non più un’istituzione che categorizza e contiene la malattia mentale, ma un’istituzione che in primo luogo promuova quei fattori protettivi per la salute mentale e in cui la prevenzione torni ad avere un ruolo primario. Il  nuovo Piano Nazionale della Prevenzione 2014-2018 ha inserito tra i suoi obiettivi prioritari la salute mentale e ha assegnato a tutte le strutture sanitarie preposte (Dipartimenti di Salute Mentale, Dipartimenti di Prevenzione, Servizi Territoriali) il compito di intervenire precocemente nelle crisi psichiatriche. A questo proposito è utile sottolineare che gli interventi precoci in psichiatria sono una questione spinosa e discussa. Talvolta l’efficacia e il senso dell’azione terapeutica sono stati sacrificati all’altare della rapidità d’azione stessa, con effetti controproducenti. La prevenzione viene così spesso scambiata per un allargamento, a cerchi concentrici, dei potenziali pazienti, che vanno a costituire così una base sempre più ampia, e che continua a conquistar terreno, da cui attingere i casi che meglio si adattano ai sistemi di cura esistenti (nel caso dei nostri servizi, i farmaci).

Una reale prevenzione ha come obiettivo la promozione della salute nella e della comunità, non può coincidere semplicemente con la riduzione delle conseguenze negative della malattia o della crisi attraverso l’identificazione tempestiva, ma consiste in politiche che promuovano un ambiente che favorisca in tutti, e specialmente nei più deboli, la fiducia in se stessi, l’autonomia, la dignità e capacità personale di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile (Illich, 1976).

Uno dei risultati più sorprendenti e degli effetti più significativi dell’OD consiste proprio in questo, una utilizzazione del tutto nuova, più sapientemente scelta e partecipata, dei servizi territoriali.

In risposta a ciò l’ASL TO1 della regione Piemonte ha presentato al Ministero della Salute- CCM (Centro Controllo Malattie) un progetto di sperimentazione della durata di 24 mesi che ha come obiettivo generale la valutazione della trasferibilità (operativa e organizzativa) del Dialogo Aperto per il trattamento di pazienti in fase di esordio e acuzie nei DSM italiani. Il progetto è esteso su tutto il territorio nazionale e coinvolge regioni del Nord, del Centro e del Sud del Paese. La sfida che si prospetta non è semplice, ma è stata già portata avanti con successo da altri 6 paesi occidentali. Il progetto presuppone certamente una fase di formazione sull’ OD e un adattamento del metodo alla struttura organizzativa dei DSM selezionati in base alle caratteristiche di contesto e sociali dei rispettivi territori, molto differenti rispetto a quelli finlandesi (in termini, ad esempio, di rapporto operatori/abitanti, numero di casi ecc.). Le équipe mobili costituite si occuperanno esclusivamente delle nuove richieste di intervento pervenute al DSM da pazienti residenti nel territorio selezionato per il progetto.

Il progetto è sicuramente ambizioso e non esente dalle criticità che caratterizzano ogni valevole tentativo di cambiamento. Il ricorso a professionisti volontari, necessario per ottimizzare le già limitate risorse esistenti (e per salvaguardare la qualità del progetto che ricade così nelle mani di professionisti realmente motivati) potrebbe creare conflitti, all’interno dei DSM, legati alla presa in carico e alla gestione dei nuovi pazienti. Inoltre potrebbe sorgere scetticismo rispetto alla possibilità di trasferire efficacemente l’OD nei nostri DSM, a causa della radicale differenza rispetto al contesto socioculturale ed economico. Durante la fase di implementazione dell’intervento, sarà necessario lasciare spazio a modalità più democratiche di quelle attuali nella scelta del percorso di cura e a relazioni con i pazienti maggiormente simmetriche e centrate sui loro bisogni.

Un altro interessante aspetto da tenere in considerazione sarà la valutazione del rapporto costo/benefici del Dialogo Aperto. Sebbene non siano state condotte delle specifiche analisi in merito a ciò, possiamo tentare di leggere l’implementazione dell’OD alla luce del contesto economico e dei finanziamenti al sistema di cura pubblico nella regione finlandese. A causa della profonda recessione del 1991 , i fondi per i servizi psichiatrici nella Lapponia occidentale sono diminuiti del 33%, configurandosi tra i più bassi di tutti i distretti sanitari finlandesi. Tuttavia questa situazione non ha influenzato negativamente la qualità del trattamento dei pazienti psicotici.

Attualmente, il costo pro-capite dell’assistenza psichiatrica in questa regione è il più basso di tutta la Finlandia. Inoltre lungo questi anni si è anche registrata una riduzione del numero totale di letti ospedalieri (e delle spese correlate) da 320 a 66, in seguito alla ricollocazione dei pazienti nelle proprie case. Questo nuovo sistema ha letteralmente svuotato i reparti psichiatrici di un ospedale che negli anni ‘80 era gremito di pazienti considerati cronici e incurabili. Quali potrebbero essere i risultati attesi nei nostri SPDC che riversano in situazioni di cronici affanni e sovraccarichi? Dovremo attendere un pò per rispondere al quesito.

Quando si chiede a Seikkula come sia stato possibile realizzare un cambiamento di questa portata e come sia pensabile la sua traduzione in altri contesti, si riceve sempre la stessa risposta: [blockquote style=”1″]Il Dialogo Aperto non è un modello da seguire uniformemente da luogo in luogo. Siamo realmente contrari alla generalizzazione dei modelli di trattamento psichiatrici, piuttosto siamo dell’idea che ogni pratica debba naturalmente seguire le condizioni e la cultura della società in cui è applicata. Allo stesso tempo, però, consideriamo il Dialogo Aperto non un metodo, ma uno stile di vita. Quando nasciamo, la seconda cosa che impariamo a fare, dopo respirare, è quella di coinvolgerci in relazioni dialogiche. Questo significa che quando organizziamo gli incontri di Dialogo Aperto stiamo tornando all’idea davvero essenziale, basica, della vita umana, non stiamo applicando un metodo. Come professionisti dobbiamo imparare a seguire il modo di vivere e il linguaggio dei nostri pazienti, completamente, interamente, senza eccezioni o pregiudizi. Non è facile. Ma questo è il vero cambiamento.[/blockquote]

 

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La capacità di metacognizione come focus di trattamenti della schizofrenia

 

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La risonanza magnetica può predire il rischio di schizofrenia: le alterazioni delle connessioni cerebrali come biomarker precoce di malattia

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

A partire dalla fine degli anni ’90, diversi studi di neuroimmagine condotti su pazienti schizofrenici hanno evidenziato, in modo piuttosto consistente, la presenza di un diffuso pattern di disconnessione cerebrale, tanto che questa malattia ha iniziato ad essere sempre più concettualizzata come una vera e propria “sindrome da disconnessione”.

La schizofrenia è una malattia psichiatrica tendenzialmente cronica o recidivante, caratterizzata dalla presenza di alterazioni della percezione, del contenuto e della forma dei pensieri, del comportamento e dell’affettività, che determinano una grave disfunzione a livello sociale, scolastico e lavorativo. 

A partire dalla fine degli anni ’90, diversi studi di neuroimmagine condotti su pazienti schizofrenici hanno evidenziato, in modo piuttosto consistente, la presenza di un diffuso pattern di disconnessione cerebrale, tanto che questa malattia ha iniziato ad essere sempre più concettualizzata come una vera e propria “sindrome da disconnessione”.

Questo filone di ricerca ha ricevuto grande impulso dallo sviluppo della Graph Theory (GT), un potente modello matematico che, applicato alle scansioni di risonanza magnetica, permette di esaminare nel dettaglio l’architettura e la funzionalità delle connessioni cerebrali, con la possibilità di rilevare anche minime alterazioni non identificabili dai tradizionali metodi di indagine.

Nei cervelli dei pazienti schizofrenici, nello specifico, ha permesso di rilevare una riduzione di densità, forza ed efficienza delle connessioni a livello del cosiddetto “rich club”, un network cerebrale composto da veri e propri hub di instradamento dell’informazione che normalmente consentono a regioni anche molto distanti tra loro di comunicare in modo veloce ed efficace. Poiché la maggior parte di questi studi è stata condotta su pazienti che hanno ricevuto diagnosi di schizofrenia anche da molti anni, non è chiaro se le alterazioni riscontrate possano rappresentare dei veri e propri correlati neurologici della malattia o siano, piuttosto, il risultato di possibili fattori confondenti (es. assunzione prolungata di antipsicotici e complicazioni).

Per superare questo limite metodologico, un gruppo internazionale di ricercatori, guidati da Mark Drakesmith e Derek K. Jones, dell’Università inglese di Cardiff, ha applicato la GT ad un gruppo di 123 individui con esperienze psicotiche (EP) non trattati farmacologicamente e privi di una diagnosi clinica di schizofrenia, sebbene ad alto rischio di svilupparla.

I risultati, pubblicati sulla rivista Human Brain Mapping, mostrano negli individui con EP delle alterazioni molto simili a quelle rilevate in pazienti con diagnosi formalizzata di schizofrenia, specie a livello degli hub cerebrali, con delle ripercussioni importanti attraverso l’intero cervello. Questa scoperta, oltre a supportare l’ipotesi disconnessionista della schizofrenia, suggerisce che la connettività strutturale cerebrale potrebbe essere utilizzata come “biomarker” per identificare le fasi precoci di psicosi e, potenzialmente, per individuare una predisposizione allo sviluppo della malattia, fondamentale per poter implementare prontamente degli interventi a carattere terapeutico.

[blockquote style=”1″]Il motivo per cui questa sorta di predisposizione alla schizofrenia esiti in taluni e non in altri nello sviluppo effettivo della malattia non è chiaro ma rappresenta la nostra prossima sfida[/blockquote], sostiene il Prof. Anthony David del Kings College di Londra, coautore dello studio.

 

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Schizofrenia e biomarcatori: nuove evidenze 

 

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Lo stress genitoriale e gli effetti sul bambino

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La letteratura ha rilevato che il puerperio può comportare nei genitori alti livelli di stress che potrebbero compromettere l’assunzione del ruolo genitoriale e lo sviluppo del bambino (Abidin, 1995).

In alcune circostanze, una serie di fattori come le caratteristiche del bambino, il tipo di relazione madre-bambino o l’ansia associata al ruolo genitoriale possono determinare un aumento di stress. Alcuni bambini sono più semplici da gestire, altri più vivaci e iperattivi e ogni genitore dispone di esperienze e conoscenze sulla genitorialità diverse dagli altri. Per questo, le primipare generalmente soffrono di livelli di ansia e talvolta di depressione più elevati a causa della scarsa esperienza. Rassicurazioni, consigli, informazioni sul bambino e sulla sensibilità materna possono aumentare il senso di competenza personale e il livello di autostima dei neo-genitori e ridurre il livello di stress.

Una variabile che può generare un aumento eccessivo di stress è la presenza di problematiche nel bambino, ad esempio la presenza di ritardo mentale, disturbo della condotta, iperattività, disabilità, autismo, ecc. E’ stato dimostrato che anche un parto prematuro può comportare un aumento dei livelli di stress e può costituire un fattore di rischio per la relazione madre-bambino: gli eventuali problemi di salute del bambino possono rendere difficoltoso il riconoscimento da parte della neo-mamma dei segnali del piccolo (Abidin, 1995).

Tuttavia, anche nelle famiglie in cui apparentemente non sono presenti problematiche oggettive si possono riscontrare fragilità che si affiancano alle risorse e ai fattori protettivi di cui dispongono i neo-genitori (Bastianoni, Taurino, 2009). Elementi di fatica, stress o inadeguatezza possono ostacolare la funzione genitoriale anche in famiglie non a rischio. A questo proposito, Belsky (1984) ha proposto un modello processuale, secondo il quale i fattori che influiscono sul ruolo genitoriale sono la personalità dei genitori, le caratteristiche individuali del bambino e il contesto sociale e si evidenzia come gli aspetti di forza di un nucleo familiare siano spesso controbilanciati da fragilità e difficoltà.  Lo stress psicologico è il risultato di una continua interazione tra persona e ambiente (Lazarus, Folkman, 1984) e deriva dalla discrepanza percepita dal genitore tra le esigenze e i bisogni associati alla genitorialità e le risorse parentali di cui dispone (Essex, Klein, Cho, Kalin, 2002).

La ricerca ha individuato diversi predittori dello stress genitoriale. In uno studio condotto nel 2000 da Östberg e Hagekull è stato riscontrato che il 48% dello stress delle neo-mamme era spiegato dal temperamento del bambino, dal supporto sociale, dagli eventi stressanti della vita, dall’età della madre, dall’educazione, dal numero dei figli, dal carico del lavoro della madre. Altre ricerche hanno dimostrato come anche la personalità della madre, lo stress della gravidanza, l’esperienza del parto, lo stress del post-partum siano spesso associati allo stress genitoriale sia nei campioni clinici che in quelli di controllo (Buist, Janson, 2001; Coms-Orme e al., 2004).

Interessanti risultano le correlazioni tra lo stress genitoriale e la depressione post-partum. Soliday, McCluskey e ‘O Brien (1999) hanno somministrato a 51 madri e padri, un mese prima e un mese dopo il parto alcuni strumenti per valutare lo stress genitoriale, i sintomi depressivi, la relazione diadica, le strategie di coping e le reazioni emotive. I sintomi depressivi sono stati riscontrati in un quarto di madri e padri e lo stress genitoriale ne è risultato un buon predittore. Ha, Oh e Kim (1999) hanno verificato l’associazione tra la depressione e la qualità della relazione coniugale in uno studio su 150 soggetti di età compresa tra i 20 e i 60 anni. Lo stress genitoriale, l’insoddisfazione coniugale e il senso di incompetenza associato al ruolo genitoriale si sono rivelati predittori significativi dei sintomi depressivi.

La ricerca ha messo in evidenza gli effetti che lo stress genitoriale può avere sul bambino in termini di attaccamento e di adattamento. Jarvis e Creasey (1991) in un campione di 32 famiglie hanno riscontrato significative correlazioni tra lo stress esperito da padri e madri e l’attaccamento insicuro dei bambini all’età di 18 mesi. Risultati simili sono stati riportati da Hart (1985) in uno studio in cui le madri di bambini con attaccamento insicuro-evitante e insicuro ansioso-ambivalente risultavano affette da uno stress psicologico significativamente maggiore rispetto alle madri di bambini con attaccamento sicuro.

Herrick (2002) si è proposto di spiegare la relazione esistente tra stress genitoriale, depressione materna e attaccamento e in uno studio condotto su 65 madri di bambini di età compresa tra i 12 e i 36 mesi ha messo in evidenza che lo stile di attaccamento dei bambini può essere predetto dalla depressione materna, dalla qualità della relazione coniugale e dallo stress genitoriale.

La letteratura ha anche esaminato la relazione che intercorre tra lo stress genitoriale e l’adattamento comportamentale dei bambini. Abidin, Jenkins e McGaughey (1992) hanno analizzato questa correlazione in un campione di 100 madri euroamericane, di classe media, i cui figli avevano un’età compresa tra i 6 e i 12 mesi nella prima fase della ricerca. Essi sono stati nuovamente testati dopo 4 anni e mezzo. È stato dimostrato che i punteggi riportati dalle madri nelle scale del Life Stress, del Dominio del bambino e del Dominio del genitore del Parenting Stress Index erano predittori del successivo funzionamento dei bambini in relazione a disturbi della condotta, aggressività, disturbi dell’attenzione e ritiro sociale e tale correlazione è risultata più significativa nel caso dei maschi rispetto alle femmine. Costa e al. (2006) hanno analizzato anch’essi la relazione che intercorre tra i punteggi delle 3 sottoscale della forma breve del PSI (Distress genitoriale, Interazione genitore-bambino disfunzionale e Bambino difficile) e i comportamenti di internalizzazione e di esternalizzazione dei bambini. Nel campione composto da famiglie con bambini di età compresa tra i 5 e i 17 anni è stato riscontrato che lo stress relativo alla sottoscala Bambino Difficile era connesso ai problemi di internalizzazione e di esternalizzazione dei bambini, lo stress relativo alla scala Interazione genitore-bambino disfunzionale era connesso solo ai problemi di internalizzazione dei bambini mentre il Distress genitoriale non aveva alcuna relazione con l’adattamento.

Il Parenting Stress Index (Abidin, 1995) è lo strumento di valutazione adottato per misurare lo stress genitoriale. Si tratta di una tecnica di screening e di valutazione diagnostica che consente di rilevare il livello di stress presente nel sistema genitore-bambino e può essere utilizzato già nel primo mese dopo il parto. L’obiettivo è quello di individuare precocemente sistemi genitore-bambino disfunzionali in modo tale da poter intervenire tempestivamente, riducendo il livello di stress e i possibili disturbi emotivi e comportamentali dei bambini che ne possono derivare.

Il PSI consta di 2 versioni: una Forma estesa e una breve. Quest’ultima è stata standardizzata su genitori di bambini di età compresa tra 1 mese e 12 anni ed è costituita da 36 item mentre la Forma estesa ne contiene 120. Gli assunti di base sottolineano l’effetto additivo e la multidimensionalità dei fattori stressanti e per questo sono stati definiti 3 domini di fattori stressanti: le caratteristiche del bambino, del genitore e i fattori stressanti del contesto familiare.

L’interpretazione dei risultati della forma estesa consente di ottenere i punteggi relativi alle scale dello Stress Totale, del Dominio del genitore, del Dominio del bambino e del Life Stress, oltre alla misura della Risposta Difensiva. Il Dominio del bambino valuta il temperamento del bambino e la sua percezione da parte del genitore, in quanto esso può influire sulla relazione genitore-bambino. La scala si sofferma anche sulle caratteristiche del piccolo: ad esempio i bambini disabili o con ritardo mentale, iperattivi, con disturbi emotivi o di apprendimento possono aumentare il livello di stress genitoriale. Il Dominio del genitore, invece, si riferisce alla capacità della madre di percepirsi come un buon caregiver. La scala si sofferma sul senso di inadeguatezza del genitore, sulla presenza di depressione, sullo stato coniugale, sull’isolamento sociale, ecc. La scala del Life Stress si sofferma invece su eventi contingenti che possono contribuire allo stress genitoriale.

La forma breve del PSI deriva dalla forma estesa ed è il risultato di un’analisi fattoriale condotta da alcuni ricercatori (Castaldi, 1990; Saft, 1990; Solis, 1990). Le ricerche hanno dimostrato che era possibile ricavare una forma ridotta del PSI, selezionando solo gli item che saturavano in uno specifico fattore ed eliminando quelli che saturavano in più fattori. Sono stati individuati 36 item da ricondurre a 3 fattori: Distress genitoriale, Interazione genitore-bambino disfunzionale e Bambino difficile. Oltre ai punteggi delle 3 sottoscale, si calcolano anche quelli della Risposta Difensiva e della scala dello Stress Totale.

La scala del Distress genitoriale rileva il grado di ansia, di disagio e di frustrazioni che il genitore esperisce associato al ruolo genitoriale. La sottoscala dell’Interazione genitore-bambino disfunzionale invece, rileva i casi in cui il genitore sente che il bambino non si conforma alle aspettative e questo sentimento negativo viene proiettato sul piccolo. In molti casi il genitore si sente respinto ed estraneo al bambino e ciò non ha permesso l’instaurarsi di un rapporto adeguato tra i due partner. Infine, la sottoscala del Bambino Difficile valuta le caratteristiche del comportamento del bambino, il temperamento, i comportamenti di richiesta, ecc. Elevati punteggi in questa sottoscala possono essere dovuti a problemi di autoregolazione nel bambino e questo può dipendere dal temperamento del bambino o da cause di natura fisiologica. La scala della Risposta Difensiva valuta, invece, il grado di desiderabilità sociale del soggetto, ossia la tendenza a voler fornire un’immagine positiva di sé. Il PSI può essere uno strumento utile per definire degli interventi precoci, per fare diagnosi e per valutare l’efficacia di alcuni interventi (Abidin, 1995).

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Psicopatologia e gravidanza. Trattare o non trattare: questo è il dilemma – SOPSI 2014

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Abidin, R. (1995). PSI: Parenting Stress Index (3rd ed). Odessa: Psychological Assessment Resources. Trad it. PSI: Parenting Stress Index. Giunti Organizzazioni Speciali, Firenze, 2008.
  • Bastianoni, P & Taurino, A. (2009). Famiglie e genitorialità oggi: Nuovi significati e prospettive (2nd ed). Milano: Unicopli.
  • Belsky, J. (1984). The determinants of parenting: a process model. Child Development, 55, 83-96.
  • Lazarus, R.S. & Folkman, S. (1984). Stress, appraisal and coping. New York: Springer.
  • Essex, M.J., Klein,. M.H., Cho, E. & Kalin, N.H. (2002). Maternal stress beginning in infancy may sensitize children to later stress exposure: effects on cortisol and behavior. Biological Psychiatry, 52, 776-784.
  • Östberg, M. & Hagekull, B. (2000). A structural modeling approach to the understanding of parenting stress. Journal of clinical Child Psychology, 29, 615-625.
  • Buist, A. & Janson, H. (2001). Childhood sexual abuse, parenting and postpartum depression, a 3 year follow up study. Child Abuse & Neglect, 25, 909-921.
  • Coms-Orme, T., Cain, D.S. & Wilson, E.E. (2004). Do maternal concerns at delivery predict parenting stress during infancy? Child Abuse & Neglect, 28, 377-392.
  • Soliday, E., McCluskey, F.K. & ‘O Brien, M. (1999). Postpartum affect and depressive symptoms in mothers and fathers. American Journal of Orthopsychiatry, 69 (1), 30-38.
  • Ha, E.H., Oh, K.J. & Kim, E.J. (1999). Depressive symptoms and family relationship of married women: focused on parenting stress and marital dissatisfaction. Korean Journal of Clinical Psychology, 18 (1), 79-93.  
  • Jarvis, P.A. & Creasey, G.L. (1991). Parental stress, coping and attachment in families with an 18-month-old infant. Infant Behavior and Development, 14, 383-395.
  • Hart, N.J. (1985). Family system influences on the quality of infant-mother attachment. University of Virginia, Charlottesville, VA.
  • Herrick, B. (2002). Maternal depression, relationship quality, perceived parenting stress and children’s security of attachment. Dissertation Abstract International: Section B: The Sciences and Engineering, 62 (9-B), 4253.
  • Abidin, R. R., Jenkins, C.L. & McGaughey, M.C. (1992). The relashionship of early family variables to children’s subsequent behavioural adjustment. Journal of Clinical Child Psychology, 21, 60-69.
  • Castaldi, J. (1990). The relationship of maternal defensiveness to reported levels of parenting stress. University of Virginia, Charlottesville, VA.
  • Saft, E.W. (1990). A factor analytic study of the Portuguese translation of the Parenting Stress Index. University of Virginia, Charlottesville, VA.
  • Solis, M. (1990). A cross-cultural comparison of patterns of stress. University of Virginia, Charlottesville, VA.

La gratitudine: un cuore grato è un cuore più sano

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

Come dimostrato dall’American Psychological Association avere un atteggiamento positivo di gratitudine risulta essere a vantaggio della salute mentale e fisica in pazienti con insufficienza cardiaca asintomatica.

La gratitudine può essere attribuita ad una fonte esterna come un animale, una persona, o un soggetto non umano (ad esempio, Dio, il cosmo), o può essere parte di una prospettiva più vasta facendoci notare e apprezzare gli aspetti positivi del mondo. Gli studi longitudinali suggeriscono che livelli più elevati di gratitudine sono direttamente legati al miglioramento della percezione del sostegno sociale così come della riduzione di stress e depressione, e che tali effetti diretti non sono spiegati da fattori di personalità (Wood et al.,2008).

Lo studio di Paul J. Mills, professore di medicina generale e sanità pubblica presso l’Università della California a San Diego, ha coinvolto 186 soggetti tra uomini e donne a cui era stata diagnosticata un’asintomatica (stadio B) insufficienza cardiaca da almeno tre mesi. Lo stadio B è costituito da quei pazienti che hanno sviluppato una cardiopatia strutturale ma che non hanno mai mostrato segni o sintomi dell’insufficienza cardiaca. Lo stadio B è una fase importante a livello terapeutico poiché potrebbe permettere l’arresto della progressione del livello di malattia e migliorare la qualità della vita.

Lo scopo dello studio è stato esaminare le associazioni tra il benessere spirituale e la gratitudine, e la salute fisica e mentale nei pazienti ed esaminare una potenziale via (cioè la gratitudine) attraverso il quale il benessere spirituale può promuovere benefici per la salute mentale e fisica.

A tal proposito sono state misurate la gravità di sintomi depressivi, la qualità del sonno, la fatica, l’autoefficacia, e “inflammation marker” (stati d’infiammazione possono peggiorare l’insufficienza cardiaca).

È stato rilevato che la gratitudine è legata a un migliore umore e sonno, più auto-efficacia, e più basso affaticamento e infiammazione. Anche il benessere spirituale favoriva queste variabili, con l’eccezione dell’indice infiammatorio. Nell’esaminare queste relazioni più approfonditamente, si è scoperto che la gratitudine mediava completamente gli effetti benefici del benessere spirituale sul sonno e sull’umore e in parte le relazioni tra il benessere spirituale, e la fatica e l’auto-efficacia.

Quindi è l’aspetto di gratitudine insito nella spiritualità a favorire il sonno e l’umore e non la spiritualità di per sé. Si tratta di osservazioni potenzialmente importanti perché l’umore depresso e il poco sonno sono associati ad una prognosi peggiore nell’insufficienza cardiaca così come in altri disturbi cardiaci, e quindi interventi che aumentano i livelli di gratitudine potrebbe avere implicazioni cliniche per il miglioramento della salute (Canivet, Nilsson, Lindeberg, Karasek, e Ostergren, 2014; Huffman, Celano, Spiaggia, Motiwala, e Januzzi, 2013; Rutledge et al., 2006).

Dato che gli interventi per aumentare la gratitudine sono relativamente semplici e di basso costo, gli sforzi per valorizzarla nella vita dei pazienti con insufficienza cardiaca possono essere di potenziale valore clinico e rappresentano un obiettivo di trattamento per migliorare il benessere.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Mills, P. J., Redwine, L., Wilson, K., Pung, M. A., Chinh, K., Greenberg, B. H., … & Chopra, D. (2015). The role of gratitude in spiritual well-being in asymptomatic heart failure patients. Spirituality in Clinical Practice, 2(1), 5.  DOWNLOAD

Confini e violazione dei confini in psicoterapia ipnotica

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Curiouser and curiouser… Non faccio ricerca sistematica in laboratorio per cui non ho dati da portare che possano riempire diapositive o immagini colorate di particolari regioni cerebrali che si attivano e stimolano la fantasia di essere vicini alla comprensione del meccanismo col quale funzioniamo come umani. Il mio laboratorio è la “clinica”, la mia ricerca è quella che conduco con i pazienti frequentatori del mio studio, che varcano la soglia, mi guardano curiosi, si accomodano un po’ spaesati e piano piano scoprono – magari per la prima volta – che è possibile funzionare in un modo diverso, insolito e cambiano l’espressione del viso, il modo di essere nel loro proprio corpo e anche da fuori si capisce che ne avevano proprio bisogno… Ma nemmeno si immaginavano come fare, prima d’ora, prima di avere una plausibile occasione di lasciar fuori tutto il resto dalla porta, dal loro corpo, dalla loro mente profonda, dal vuoto che qualcuno ha sentito di essere al primo colpo appagandosi pienamente in sé e per sé.

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Le alterazioni del senso di Agency nel Disturbo Narcisistico di Personalità

I pazienti con disturbi di personalità sembrano soffrire di alterazioni nel senso di agency, ovvero la sensazione di essere in controllo delle azioni prodotte dal Sé e quindi di essere un agente causale capace di generare cambiamenti nell’ambiente.

Forme basiche di disturbi dell’agency si riscontrano in schizofrenia e patologie neurologiche, dove può essere presente la sensazione che i pensieri siano indotti da forze esterne o il braccio non sia mosso grazie ad uno sforzo volontario. Forme più articolate di agency esistenziale riguardano il sentirsi in potere di compiere scelte vs. la sensazione di essere impotenti e vittime di regole sulle quali non abbiamo controllo.  

È plausibile che disturbi del senso di agency siano presenti nei disturbi di personalità (DP), e nel modello alternativo per la classificazione dei DP nel DSM 5 (American Psychiatric Association, 2013) il problema è riconosciuto come un aspetto nodale. Può assumere varie forme: la percezione che regole morali ci impongono le scelte, accompagnata dall’assenza di consapevolezza che aderire ad una regola morale è un processo di scelta autonoma; la percezione che forze oscure comandino le nostre azioni; la sensazione di impossibilità di influenzare l’ambiente.

Esiste anche il suo opposto polare: l’hyperagency, ovvero l’eccesso di fiducia nella nostra capacità di influenzare l’ambiente o la sovrastima degli effetti che hanno le nostre azioni. Finora questo problema non era stato studiato in laboratorio. Hascalovitz e Ohbi (2015) hanno compiuto un primo passo in questa direzione studiando le correlazioni tra tratti di narcisismo non clinico e il senso di agency. Quest’ultimo è stato investigato tramite il paradigma dell’intentional binding. Tale paradigma misura la differenza che esiste tra: l’intervallo di tempo oggettivo tra un’azione e il suo effetto (ad esempio tra il click del mouse e la comparsa di un’immagine sullo schermo) e la percezione soggettiva dell’intervallo trascorso. Tipicamente quando al soggetto dell’esperimento si chiede di compiere attivamente l’azione, invece che di osservare da esterno il tempo che passa tra azione e conseguenza, l’intervallo viene percepito come minore che in realtà. In altre parole, se l’azione la compio io penso che l’effetto arrivi prima. L’intentional binding è storicamente considerato una misura del senso di agency.  

Hascalovitz e Ohbi hanno quindi ipotizzato che persone con tratti più elevati di narcisismo avessero un senso di agency più pronunciato, e quindi un maggiore grado di intentional binding. I risultati dell’esperimento (vedi articolo) confermavano i dati.

Insieme a Paul Lysaker ho commentato l’articolo su Frontiers in Human Neuroscience. Sicuramente lo studio è di grande importanza ma apre la finestra su varie ipotesi su come si caratterizzi l’agency nel narcisismo. Sottolineo che gli autori hanno analizzato soggetti non clinici che nel complesso avevano livelli bassi/medi di narcisismo, nessuno si collocava nella fascia più alta di punteggi al Narcissistic Personality Inventory, che avrebbe davvero qualificato la persona come caratterizzata da tratti narcisistici. Lo strumento stesso poi analizzava il narcisismo non clinico, che non corrisponde al disturbo narcisistico di personalità. Il paradigma sperimentale inoltre analizzava quella che definiamo agency strumentale, ovvero la capacità di agire sugli oggetti del mondo.

Nel nostro commento suggeriamo che il narcisismo sia caratterizzato da un paradosso nell’agency, ovvero hyperagency nel dominio strumentale e carenza di agency nel dominio relazionale, in particolare dopo avere subito rifiuti nel campo sociale e sentimentale. Guidato dal bisogno di conferme e ammirazione, il narcisista, dovendo fronteggiare un fallimento in tale dominio, diventerebbe spento, passivo, devitalizzato e con la sensazione di essere incapace di influenzare gli altri (Kohut, 1971; Dimaggio, 2013).

È anche possibile che sottotipi diversi di narcisismo mostrino forme diverse di problemi nell’agency: il sottotipo grandioso potrebbe mostrare un pattern coerente ai risultati ottenuti da Hascalovitz e Ohbi, mentre il sottotipo vulnerabile o covert potrebbe mostrare una carenza di agency.

Quello che resta di questo studio è che al di là che i risultati vengano replicati o meno, apre la strada per investigare uno degli aspetti più importanti della patologia di personalità, il problema nel senso di agency, che sempre più autori considerano un bersaglio fondamentale del trattamento (Dimaggio et al., 2013; Links, 2015; Ronningstam, 2009).

 

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BIBLIOGRAFIA:

Alzheimer e suicidio assistito: togliersi la vita prima che sia la malattia a farlo

Tratto dall’articolo del New York Times “The last day of her life

 

La commovente storia di Sandy è stata pubblicata sul NY Times e vi consiglio di leggerla. È terribilmente simile a tantissime altre storie di chi si ritrova a dover fare i conti con una malattia mentale che in maniera inesorabile lo svuoterà lentamente e che vorrebbe andarsene alle proprie condizioni.

[blockquote style=”1″]Quando Sandy Bem scopre di avere l’Alzheimer decide che prima che la malattia le rubi completamente la mente si ucciderà. La domanda è: quando?[/blockquote]

Sandy Bem sta guardando un documentario della HBO, “The Alzheimer’s Project”, quando decide di provare su se stessa un semplice test di memoria proposto dall’esaminatore; il test consiste nell’ascoltare 3 parole, scrivere una frase su un foglio e poi ripetere le 3 parole. “Mela, tavolo, penny”, scandice l’esaminatore. Sandy scrive su un pezzo di carta “Sono nata a Pittsburgh”. Poi prova a ripetere le tre parole: “Mela, tavolo, …” Il vuoto.
Da 2 anni Sandy si è accorta di alcune stranezze cognitive: dimentica i nomi, confonde parole simili…

Un mese dopo le viene diagnosticato un moderato deterioramento cognitivo della memoria, spesso purtroppo anticamera dell’Alzheimer.
Sandy, 65 anni, una mente acuta sempre al lavoro, è terrorizzata. Non vuole diventare un guscio vuoto, incapace di ricordarsi nulla della propria vita; non vuole che la sua mente diventi una lavagna su cui pensieri e riflessioni si cancellano come con un colpo di spugna un attimo dopo. Sandy promette a se stessa che sarà lei a togliersi la vita prima che sia la malattia stessa a portargliela via.

Ma quando sarebbe stato il momento giusto? Sandy non vuole farlo né troppo presto né troppo tardi, bensì quando sarà ancora se stessa. Il dramma di Sandy infatti è che quando l’Alzheimer sarà conclamato, non sarà più in grado di farlo. D’altro canto, togliersi la vita quando ancora si è pienamente coscienti significa trovare il coraggio di compiere un gesto in un momento in cui si è ancora in grado e si ha ancora il tempo per godersi la vita e i propri cari. Sebbene l’Alzheimer abbia un andamento prevedibile, non è possibile sapere quanto tempo durerà ogni singolo stadio della malattia. L’unico desiderio di Sandy Bem è di scegliere quando andarsene, cercando di vivere la vita che le rimane il più intensamente possibile, ma senza procrastinare troppo in là il momento dell’addio con il rischio che poi sia troppo tardi per poterlo fare.

La vita si trasforma in un calvario, scandita da visite mediche, medicine e nuovi trattamenti costosissimi non coperti dall’assicurazione, nel vano tentativo di rallentare l’avanzata dell’Alzheimer. Passano quasi 5 anni e Sandy Bem è cambiata: lei che amava tanto leggere testi complessi ora non riesce più a seguire trame che non siano lineari. I film con flashback la confondono, ora riesce a guardare solo Mary Poppins. Suonare il piano diventa sempre più complicato fino a diventare impossibile, seduta sulla seggiola a fissare stranita i misteriosi tasti bianchi e neri. Un giorno la trovano in cucina: “Ho fame. Cosa faccio quando ho fame?

Il momento è giunto, Sandy lo sa e anche la sua famiglia, ma stabilire una data seduti attorno ad un tavolo è quanto di più straziante si possa fare. Come decidere quando dire addio alla propria mamma? Alla propria moglie?
“Quando ho detto che l’avrei fatto?” domanda Sandy.
“A giugno” Risponde il marito.
“Perché non le hai risposto agosto?!” urla la figlia.
“Quando ho detto che l’avrei fatto?” domanda Sandy, di nuovo.
“A giugno” Risponde il marito.
“…”
“Quando ho detto che l’avrei fatto?”

Due giorni prima della data stabilita amici e parenti si ritrovano a ricordare con Sandy la sua vita. Sandy Bem era una mente: psicologa americana, ricevette numerosi premi per le sue ricerche pionieristiche nel campo dell’androginia e degli studi di genere, tra cui l’American Psychological Association Distinguished Scientific Award per il suo contributo alla psicologia nel 1976, il Distinguished Publication Award dell’ Association of Women in Psychology nel 1977 e lo Young Scholar Award of the American Association of University Women nel 1980. Nel 1995 fu eletta “Eminent Woman in Psychology” dalla Divisione di Psicologia Generale e di Storia della Psicologia dell’APA, ma Sandy non lo ricorda. È una vita di cui lei ormai non ha più memoria, l’Alzheimer l’ha cancellata. “L’ho fatto davvero?” esclama compiaciuta ad ogni evento ricordato dai presenti. “L’ho fatto davvero?”

Sandy ha pianificato tutto per anni. Ha preparato un documento in cui scagiona amici, parenti e medici da eventuali accuse di complicità, un foglio su cui oltre ad apporre la propria firma avrebbe voluto scrivere le proprie riflessioni su quell’ultimo coraggioso, disperato gesto, ma l’Alzheimer si è portato via anche quei pensieri. Si è informata sui vari modi per togliersi la vita, perché negli USA l’eutanasia è legale in pochissimi stati, ma non per i casi di demenza. Sandy ha scelto una morte dolce, si è procurata dei barbiturici da accompagnare con un bicchiere di vino, per accelerarne l’effetto. Ma una volta preparati i 2 bicchieri non ricorda qual è la medicina e qual è il vino. Glielo indica con la morte nel cuore il marito. E così Sandy se ne va, scivolando in un sonno incosciente in cui il respiro rallenta finché alla fine si ferma.

Il dibattito attorno all’eutanasia e al suicidio assistito è argomento complesso e delicato. C’è chi per motivi etici, religiosi e di fede non vi ricorrerebbe mai, e chi invece non esiterebbe un solo istante, proprio come Sandy, la cui commovente storia, che vi consiglio di leggere, è stata pubblicata sul NY Times.

La sua storia è terribilmente simile a tantissime altre storie di chi si ritrova a dover fare i conti con una malattia mentale che in maniera inesorabile lo svuoterà lentamente e che vuole andarsene alle proprie condizioni.

Spesso le motivazioni che giocano un ruolo importante nella scelta di porre fine alla propria vita nei pazienti affetti da demenza riguardano le scarse prospettive di miglioramento, il prolungamento di una vita senza senso, la scarsa qualità di vita e la prevenzione di future sofferenze. Ma la capacità di decision making raramente è conservata nei pazienti con demenza in stadio avanzato; pertanto il momento in cui realizzare la volontà di morire spetterebbe ai familiari o ai medici (Chambaere K., 2015) con tutto il fardello, la responsabilità e le difficoltà legate all’eutanasia. Invece nei casi di demenza precoce ci si ritroverebbe a dover assecondare la volontà di morire di una persona che si trova nel momento presente in condizioni “non gravi”, ma che in futuro, quando lo sarà, non sarà più in grado di compiere tale scelta.

A febbraio il Journal of Medical Ethics (Bolt E.E. et Al., 215) ha pubblicato un sondaggio condotto tra il 2011 e il 2012 su un campione casuale di 2500 medici nei Paesi Bassi, in cui suicidio assistito ed eutanasia sono legali anche in caso di malattia mentale. Dal sondaggio è emerso che più dell’80% dei medici prenderebbe in considerazione l’eutanasia per casi di tumore o malattia fisica, ma solo il 30% per malattie mentali. Inoltre 4 su 10 sarebbero pronti ad aiutare a morire persone affette da demenza ad uno stadio precoce, ma solo 1 su 3 lo farebbe per qualcuno in fase di demenza avanzata, anche nel caso in cui il paziente abbia lasciato precedenti indicazioni in merito.

Se eutanasia e suicidio possono apparire gesti comprensibili nei casi di malattie terminali quali cancro oppure malattie fisiche, in cui si tratta di anticipare una fine inevitabile alleviando così la sofferenza e il dolore del paziente che lo richiede, nei casi di malattie mentali il dibattito si fa molto più complesso e si incontrano molte più resistenze.

Considerando che “la popolazione anziana è in continua crescita nel mondo e la speranza di vita aumenta con ritmo costante” e che “numerosi studi epidemiologici internazionali prevedono, nel 2020, un numero di casi di persone con demenza di oltre 48 milioni, che potrebbe raggiungere, nei successivi venti anni, una cifra superiore agli 81 milioni di persone” (Fonte: Ministero della Salute), è plausibile pensare che in futuro dovremo confrontarci sempre più con casi simili a quello di Sandy che non potranno essere più a lungo ignorati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Genitori social ai tempi di Facebook e Whatsapp – Psicologia

L’ampio panorama informatico attuale offre vastissime opportunità alla community adolescenziale, ma anche altrettante possibili insidie.

Di fronte a questa ambivalenza, è legittimo un certo disorientamento da parte dei genitori e delle figure educative in generale che, se da una parte vorrebbero sostenere l’utilizzo costruttivo della rete, dall’altra si preoccupano di tutelare la sicurezza dei giovani dai pericoli in essa insiti. Ma come fare per essere genitori e allo stesso tempo “social”?

La linea proibizionista, privando l’adolescente di un bagaglio esperienziale utile alla costruzione della propria identità, ne limiterebbe lo spazio di crescita e lo esporrebbe anche al rischio di emarginazione da parte del gruppo dei coetanei, minando così il profondo bisogno di appartenenza tipico di quest’età. Per la generazione 2.0, per la quale questa prospettiva risulta tanto anacronistica quanto irrealizzabile, l’unica strada percorribile secondo gli autori consisterebbe in una corretta informazione e in un’ educazione all’utilizzo equilibrato e responsabile della rete.

Ma come? Se la credenza comune dei giovani è quella secondo cui il “cyberspazio” sia una terra dove tutto è lecito e impunito, occorre invece fare chiarezza sulle infrazioni della legge in cui si può incorrere da autore e di cui si può essere vittima. Tra i reati informatici più frequenti troviamo: il furto dei dati personali, il reato di sostituzione di persona, di diffusione di contenuti pornografici o violenti, di adescamento, di ingiuria, di diffamazione, di stalking e di cyberbullismo.

Di fronte a questi pericoli tendenzialmente sottovalutati, i ragazzi si trovano spesso impreparati e, dunque, ingenuamente vulnerabili e indifesi. Tutelare i propri figli allora significa dunque anche informare, illustrando nella quotidianità le potenziali trappole della rete prendendo spunto da un fatto di cronaca o dalla visione condivisa di un film. Non demonizzare, ma invitare ad avere uno sguardo critico verso i molteplici utilizzi possibili, conformi e non, del web.

Secondo gli autori, sia di fronte ai rischi on-line sia a quelli off-line, “la protezione si realizza sempre attraverso il dialogo”, con una disponibilità all’ascolto, alla sintonizzazione emotiva e alla comprensione che risultano certamente le misure preventive privilegiate e più efficaci.

 

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Noi e la dipendenza da internet

BIBLIOGRAFIA:

Il volto delle emozioni: riconoscimento automatico dell’espressione del dolore

Antonio Ascolese, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi.

 

L’affective computing si ripropone di ottenere dei software in grado sia di esprimere le emozioni, sia di riconoscere lo stato emotivo dell’utente, adattandosi ad esso.

I progetti basati sullo sviluppo di nuove interazioni uomo-computer sono molteplici, con i più svariati obiettivi e riguardano molti ambiti, come le scienze informatiche, la psicologia, l’ergonomia, etc. (tra le più recenti: Dinakar, Picard & Lieberman, 2015; Morris, Schueller & Picard, 2015; Morris & McDuff, 2014; Ahn & Picard, 2014; McDuff et al., 2014). E’ in questo contesto di ricerca che si sviluppa l’affective computing, il cui obiettivo è quello di ottenere delle macchine in grado di interagire con l’uomo a livello emotivo.

Nello specifico, l’affective computing, si ripropone di ottenere dei software in grado sia di esprimere le emozioni, sia di riconoscere lo stato emotivo dell’utente, adattandosi ad esso, ad esempio adeguando la difficoltà del compito proposto, qualora risultasse troppo stressante per l’utente (Cohn & De la Torre, 2015; Calvo et al., 2014; Canento et al., 2012; Kolodyazhniy et al. 2011; Cohn, 2010; Sanna, 2009; Nkambou, 2006; Nayak & Turk, 2005; Limbourg & Vanderdonckt, 2004; Lisetti & Nasoz, 2002; Paternò, 2005; 2004; 1999).

Tra gli sviluppi più interessanti, con molteplici applicazioni pratiche possibili, c’è senz’altro quello di un sistema informatico in grado di leggere le espressioni facciali. Le espressioni facciali sono utilizzate dal genere umano per comunicare le proprie emozioni, le proprie intenzioni nonché il proprio stato di benessere o malessere fisico (Reed et al., 2014; Gonzalez-Sanchez et al., 2011; Ambadar et al., 2005; Stewart et al., 2003).

Grazie a tutte queste funzioni, le espressioni facciali rappresentano un potente motore in grado di regolare i comportamenti interpersonali. Per questo motivo, riuscire a rilevare e comprendere correttamente le espressioni facciali in maniera automatica è stato, per anni, un forte interesse della ricerca di base e sta diventando sempre più un focus anche della ricerca applicata, in vari settori. Ad esempio, un sistema di questo tipo, potrebbe essere usato a supporto delle macchine della verità, come controllo di sicurezza o come strumento diagnostico.

Proprio in questo ambito di studi, i ricercatori dell’Università di San Diego sono riusciti a sviluppare un software in grado di rilevare se il dolore espresso dalle persone sia autentico o falso. L’accuratezza di questo programma è risultata persino superiore alla capacità di riconoscimento di osservatori umani. Dopo che diversi programmi hanno dimostrato di saper leggere e discriminare accuratamente sfumature di sorrisi o smorfie differenti. Questo caso rappresenta la prima volta in cui un computer riesce a superare un umano nella lettura di espressioni della sua stessa specie. Secondo Matthew Turk, un professore di informatica dell’Università di Santa Barbara, questo sviluppo rappresenta come ‘[blockquote style=”1″]la ricerca confinata in laboratorio possa lasciare il passo a tecnologie più utili’[/blockquote], maggiormente collegate col mondo reale.

Rispetto all’espressione del dolore, le persone sono in genere brave a mimare il dolore, modificando le proprie espressioni per trasmettere disagio fisico. E, come mostrano gli studi, le altre persone non sono quasi mai in grado di individuare questi inganni correttamente (Kokinous et al., 2014; Krumhuber et al., 2013; Hill & Craig, 2002; Ekman, 1999).

Riuscire ad operare un’accurata valutazione delle espressioni di dolore, per poi gestirlo nel modo migliore, può avere conseguenze importanti in un’ampia gamma di disturbi e interventi di tipo terapeutico. La misurazione del dolore avviene, usualmente, in maniera del tutto soggettiva, perlopiù attraverso misure self-report, con tutti gli evidenti limiti che ne possono derivare. Questo tipo di misurazione è suscettibile di suggestioni, bias sociali, senza contare i limiti nel caso di bambini, persone con danni neurologici, etc.

In un recente studio (Bartlett et al., 2014) sono state confrontate le prestazioni di umani e computer di fronte a stimoli video di persone che esprimevano dolore, reale o simulato. I computer, riuscendo a rilevare i più sottili pattern di movimento muscolare sul volto dei soggetti, hanno evidenziato una maggior accuratezza nel riconoscimento.

ARTICOLI SU: DOLORE

Il disegno di ricerca prevedeva un protocollo standardizzato per l’induzione di dolore. Ai soggetti ripresi dal video è stato chiesto di inserire un braccio in acqua ghiacciata per un minuto (un tipo di dolore immediato, ma non dannoso, né prolungato). Agli stessi soggetti è stato chiesto di immergere un braccio in acqua tiepida, cercando di riprodurre un’espressione di dolore.
I partecipanti hanno poi guardato un minuto di video silenziosi, riuscendo a discriminare correttamente, tra dolore reale e simulato, solo la metà circa delle risposte.

Contestualmente, i ricercatori hanno formato, per circa un’ora, un nuovo gruppo di osservatori: ai partecipanti è stato chiesto di individuare dai video le espressioni di dolore reale e i ricercatori comunicavano immediatamente, di volta in volta, le risposte corrette. Successivamente i partecipanti sono stati sottoposti ad una reale prova, con altri video, mostrando come la formazione abbia inciso veramente poco sui risultati: il tasso di accuratezza si è alzato al 55%.

Dopodiché, il riconoscimento delle espressioni di dolore è stato richiesto a CERT, il software sviluppato dai ricercatori dell’Università di San Diego. Al computer sono stati sottoposti gli stessi 50 video mostrati al primo gruppo di partecipanti, quello senza formazione.

I risultati sono stati sorprendenti, in quanto il computer è riuscito ad identificare tutti i movimenti troppo fini e rapidi per essere percepiti dall’occhio umano. Quando i muscoli interessati sono gli stessi, il computer riesce a discriminare la loro velocità, intensità e durata.
Ad esempio, la durata dell’apertura della bocca varia nella condizione di dolore reale, mentre nella condizione di dolore simulato è piuttosto costante e regolare. Altri movimenti facciali individuati riguardano lo spazio tra le sopracciglia, i muscoli intorno agli occhi e quelli ai lati del naso. Il tasso di accuratezza del software è stato dell’85% circa. Queste evidenze ci dicono che esistono segnali del comportamento non verbale che il sistema percettivo umano non è in grado di rilevare o, quantomeno, di distinguere.

Il dottor Bartlett e il dottor Cohn stanno studiando come applicare questa tecnologia per il riconoscimento delle espressioni facciali all’assistenza sanitaria. In particolare, uno dei prossimi passi in questo ambito sarà quello di riuscire a rilevare l’intensità del dolore nei bambini. Di fronte a un computer sarà così possibile ottenere una stima del dolore che il bambino prova ma che non sa ancora comunicare, riuscendo così a intervenire in maniera precoce con le terapie antidolorifiche adeguate (Hoffman, 2014).

Un altro possibile utilizzo di questo sistema di riconoscimento potrebbe essere quello di supportare il medico nell’individuare il miglioramento dei pazienti in maniera più ‘oggettiva’. Allo stesso modo, si potrebbe distinguere il reale bisogno di medicinali dei pazienti più insistenti nel richiederne.
Infine, questo studio rappresenta anche l’apertura di nuovi scenari nel rapporto uomo macchina, in cui sarà sempre più probabile riuscire a programmare computer in grado di leggere, con accuratezza, anche altre espressioni facciali, non necessariamente negative, come la soddisfazione per la propria vita o altre misure finora affidate agli approcci self-report.

Ma c’è qualcosa che questo sistema di decodifica automatica delle emozioni ‘toglie’ all’esperienza emotiva? Toglie innanzitutto ‘l’elemento umano’: che fine fa la persona che prova e comunica un’emozione ad un’altra persona? Le emozioni e la loro comunicazione sono esperienze prettamente umane. Scenari in cui una macchina si inserisce in questa esperienza o, provando a fare uno sforzo di immaginazione, in cui due macchine si comunichino emozioni tra di loro, priverebbero l’emozione della sua stessa essenza. Persino l’errore di riconoscimento fa parte di questa esperienza: è un elemento della comunicazione, che è un processo opaco per definizione, in cui le intenzioni dell’altro non sempre sono univoche e immediate.

Non solo: un tale sistema di riconoscimento automatico toglie all’esperienza emotiva anche tutti gli elementi di contesto, in quanto considera unicamente il rapporto tradizionale tra azione e reazione. Che ne è dell’insegnamento della prospettiva comunicativa delle espressioni facciali presentata dall’ecologia comportamentale (Fernandez-Dols, 1999)? Secondo questo punto di vista, infatti, non ci sarebbe completa corrispondenza tra le espressioni facciali e gli stati mentali interni, nel senso che non tutto ciò che appare sul volto indica necessariamente un’esperienza interna e, allo stesso modo, non tutto ciò che un individuo prova a livello interno si manifesta sul volto.

L’ecologia comportamentale non considera le espressioni facciali come azioni pianificate o eseguite secondo un insieme astratto e universale di regole, bensì secondo le condizione del contesto di riferimento. Pertanto la produzione di una data espressione facciale dipenderebbe dalla capacità di gestione locale sia delle emozioni, sia delle condizioni contestuali da parte dell’individuo (Anolli, 2003; 2002; O’Keefe & Lambert, 1995). Questo spiegherebbe come mai la medesima emozione può suscitare espressioni facciali differenti.

 

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Graffiti e scritte nei bagni pubblici: differenze di genere nello stile comunicativo adottato

FLASH NEWS

Lo studio effettuato dalla Dottoressa Pamela Leong e recentemente pubblicato dalla rivista Gender, Place & Culture, prende in analisi la modalità con cui uomini e donne esprimerebbero la propria mascolinità o femminilità in quel luogo anonimo e apparentemente privato che sarebbero i bagni pubblici.

I graffiti nei bagni, che si tratti di disegni o di parole, costituirebbero un efficace mezzo di comunicazione tra sconosciuti: scritti in un momento privato con la consapevolezza che diventeranno pubblici essi trasmettono idee, immagini e addirittura sostegno. Utilizzando dati raccolti in 10 bagni dell’università (5 maschili e 5 femminili), lo studio esamina le differenze di genere nei pattern di comunicazione, a partire dall’analisi dello stile e del contenuto dei graffiti.

I dati ci mostrano che, mentre lo stile comunicativo delle donne tende ad essere di tipo supportivo e centrato sulla relazione, quello maschile è infarcito di insulti e commenti a sfondo sessuale. Inoltre, un’analisi delle catene di “botta e risposta” contenute nei graffiti, suggerisce che le gerarchie di potere sono stabilite e mantenute anche in un luogo anonimo, senza che sia necessaria la presenza fisica degli interlocutori.

Il primo grande studio sui graffiti nei bagni fu effettuato dal famoso docente Alfred Kinsey negli anni Cinquanta, il quale scoprì che la maggior parte dei graffiti dell’università era ad alto contenuto sessuale, ma che la sessualità si definiva diversamente tra gli uomini e le donne: gli argomenti nei bagni maschili ruotavano attorno ad atti ed organi sessuali, nei bagni delle signore ci si concentrava maggiormente sulla sessualità in termini relazionali e tendenzialmente non osceni. Successive ricerche effettuate in questo campo rilevarono poi che, verso gli anni Settanta e Ottanta, anche i graffiti del gentil sesso si spostavano su argomenti e terminologie più volgari, introducendo inoltre contenuti politici e politicizzati, in pari con i vari movimenti di emancipazione delle donne avvenuti in quegli anni.

Insomma, a 60 anni dallo studio di Kinsey, Pamela Leong, assistente docente di Sociologia presso la Salem State University, torna sull’argomento e scopre che le donne sono molto più prolisse, autrici del 70% dei graffiti totali. I maschi si esprimono in termini più espliciti, aggressivi e crudi, con riferimenti frequenti ai genitali femminili e commenti omofobi, introducendo di tanto in tanto insulti e battute; le donne tendono invece a occupare i muri con sfoghi riguardanti difficoltà relazionali, pensieri e sentimenti privati, supporto e risposte ad altre “pittrici e scrittrici dei bagni”. Inoltre discutono spesso dei propri movimenti intestinali, esprimendo il disagio di parlarne in pubblico ed essere giudicate su affari tanto privati.

E’ noto che commenti estremi ed irriverenti sono diffusi tramite l’utilizzo dei graffiti; ma quello che Leong tiene a sottolineare è che, nonostante tutto, anche questa pratica comunicativa tende a rinforzare stereotipi in merito alla virilità maschile ed alla subordinazione femminile. Afferma la studiosa:

[blockquote style=”1″]Anche negli spazi anonimi si usa differenziare i sessi disprezzando qualsiasi cosa sia femminile … questo mostra e rinforza le gerarchie di potere esistenti.[/blockquote]

 

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Tracce del tradimento XI: Ansia, vergogna e gelosia

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – (Ansia, vergogna e gelosia – Nr. 11)

 

[blockquote style=”1″]Come geloso io soffro quattro volte perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.[/blockquote]

Roland Barthers “Frammenti di un discorso amoroso”

 

Chi cerca le tracce di un ipotetico tradimento è geloso. I protagonisti della gelosia sono tre: il geloso, la persona amata e il rivale. Il geloso soffre per la minaccia di perdita dell’essere amato che gli viene portato via da un rivale ma soffre anche per la perdita dell’esclusività del rapporto. Si era in due, si diventa in molti e si condivide la stessa persona.

Il geloso ha un’attenzione selettiva verso i più minuziosi particolari ed una memoria selettiva verso minuscoli ricordi che confermano i suoi sospetti e innescano un continuo rimuginio sulla doppia catastrofe che teme. La catastrofe temuta è doppia perché egli paventa la perdita della persona amata e contemporaneamente della propria autostima.

Il rivale è la prova concreta del suo essere inferiore, inadeguato, perdente. La persona amata è il giudice che ha emesso la sentenza sulla sua pochezza, tradendolo con il rivale. La perdita della persona amata giustificherebbe la tristezza che troviamo nelle situazioni di lutto, ma le emozioni implicate nella gelosia sono molte di più.

Forte è la rabbia per il presunto danno subito sia da parte della persona amata che non ha ricambiato l’investimento fatto su di lei e ha imbrogliato e che ha decretato con la sua scelta lo scarso valore del geloso, sia da parte del rivale che si è appropriato di qualcosa che apparteneva al geloso dimostrando contemporaneamente propria superiorità e dunque la sua inferiorità.

 

Un ingrediente emotivo della gelosia è l’ansia. Il geloso è in ansia all’idea ancora incerta che il tradimento si sia effettivamente consumato. E lo è, una volta avuta questa certezza, al pensiero di quello che accadrà dopo, a come potrà sopravvivere senza la persona amata.

Le emozioni che costituiscono gli ingredienti della gelosia hanno tempi diversi. Nel momento della ricerca prevale l’ansia e quando poi le tracce sono state effettivamente trovate sopraggiungono la rabbia e la tristezza. Anche l’invidia per il rivale può essere presente. Egli è più amato è dunque forse migliore, più interessante, piacerebbe essere come lui o che mi amasse, ma non è possibile e per questo si soffre.

La vergogna, dominante nelle culture più arcaiche, per la propria situazione di donna o uomo tradito è un altro fenomeno emotivo molto comune:

[blockquote style=”1″]Cosa si dirà di me a vedermi tradito, che figura ci faccio.[/blockquote]

La vergogna è una emozione che molte volte può trascinare con sé la rabbia, non per il tradimento ma per la minaccia che si sente di subire alla propria immagine sociale (Castelfranchi). Il tradimento dell’altro ci sposta da un ruolo sociale ad un altro, si perde valore agli occhi degli altri che ci compatiranno e disprezzeranno o rideranno di noi.

Tradendoci l’altro ci umilia, ci pone in condizioni di inferiorità, riduce il nostro valore personale, e ciò ci rende tristi ma ci fa anche arrabbiare per il torto che ci procura. E ancora si sperimenta la malinconia per il finire di una epoca in cui certezze e illusioni erano prevalenti, e la paura a fronte dei rivolgimenti esistenziali che si hanno davanti.

Ci sono quindi molti stati emotivi davanti a delle tracce di tradimento, uno stato di vergogna, umiliazione, tristezza, e paura e una seconda fase che probabilmente ha una sua iniziale funzione di riequilibrio, di rabbia. La rabbia consente di sospendere emozioni e conoscenze di se dolorose o intollerabili e di spostare l’attenzione sui torti subiti dall’altro.

In qualche modo la rabbia è inizialmente fisiologica, mentre diventa malata, patologica, se nel tempo non si attenua, se diventa un’ossessione ostile, se non permette al sistema un adattamento nuovo e più creativo, che non dimentichiamoci è sempre possibile.

La gelosia è un’emozione complessa che si è probabilmente selezionata nel corso dell’evoluzione per garantire la prosecuzione della propria discendenza e in particolare per garantire i maschi di non allevare dei figli non propri e le femmine di non perdere un partner che protegga e alimenti i propri figli.

Perché ciò non avvenga occorre stare all’erta, vigilare sulle possibili minacce, attaccare i possibili rivali e altrettanto il proprio partner per dissuaderlo a tradire. La gelosia dunque, sia come emozione che come tendenza all’azione, sembra essere nata con lo scopo di garantire certezza della propria discendenza e possibilità ad essa di sopravvivenza, garantendo l’esclusione di estranei dalla coppia.

Un professore quarantacinquenne aveva di recente subito un drammatico tradimento dalla sua compagna ma non riusciva a provare per lei nessun risentimento. Ciò gli era già capitato quando la moglie lo aveva tradito con un suo collega. In fondo egli le giustificava e continuava a vederle come persone di grandissimo valore che comprensibilmente si erano stufate di lui. Le sue storie erano una sorta di lunga attesa: prima o poi si sarebbero accorte che egli altro non era che un bluff e lo avrebbero giustamente lasciato. A quel punto non avrebbe potuto lagnarsi perché aveva avuto quello che effettivamente si meritava ed anzi doveva semmai vergognarsi per avere rubato per un po’ di tempo l’affetto di così meravigliose creature con l’inganno. Il momento centrale delle sue storie non era quello della conquista e della stabilizzazione del legame ma l’epilogo, il tradimento che confermava la sua inadeguatezza e inferiorità rispetto ad ogni altro uomo. In fondo era per quello che si dava tanto da fare, era quello lo scopo supremo; e tanto più il partner gli preferiva un altro tanto più si dimostrava un giudice saggio e attendibile…

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Vincere le sfide quotidiane: la costruzione cognitiva dell’autostima

Keywords: Autostima, Inferenze cognitive, Distorsioni cognitive, Autoefficacia.

Abstract

L’autostima è un paradigma che può essere costruito giorno dopo giorno attraverso strategie cognitive. Da questa costruzione può dipendere il modo con cui l’individuo affronta la quotidianità, ossia se riveste il ruolo di vincitore o sconfitto di fronte alle mille incombenze o ostacoli che la vita presenta.

L’autostima

Secondo le classiche teorizzazioni di James (1890) l’autostima dipende dal rapporto che esiste fra il sé reale, ovvero quello che la persona pensa di sé, e il sé ideale, ossia come la persona vorrebbe essere.
La suddetta concezione, prevalentemente intraindividuale, non tiene conto delle variabili ambientali, cioè di quei fattori interindividuali che possono implementare o far decrescere l’autostima. Secondo Bracken (1993) gli individui traggono le informazioni sul loro valore dalla percezione degli altri. Questa conoscenza che l’alterità ha del soggetto, mediante un processo di retroazione, è influenzata dall’idea che il singolo ha di sé.
Per la Horney (1971) l’immagine e, quindi, l’impressione che l’uomo ha di sé dipendono dalla relazione che si è creata fra lui e le figure che lo hanno accudito. In altre parole, sono queste interazioni affettive, che si strutturano nel corso dei primi anni di vita, che determinano il volersi bene o l’odiarsi, viste come emozioni alla base dell’autostima o della disistima che l’individuo sviluppa nei propri confronti.

Le distorsioni cognitive

Ogni persona ha bisogno, sovente, di sapere quanto vale in termini globali, di stabilire, cioè, il proprio valore di merito e questo avviene analizzando e qualificando le esperienze vissute. Talvolta queste autoanalisi sono disturbate dalle distorsioni cognitive, ovvero da pensieri che inficiano la considerazione di sé.
Sacco e Beck (1985) indicano una serie di distorsioni cognitive, che sono:
le inferenze cognitive, attraverso le quali gli individui maturano delle idee arbitrarie su se stessi senza l’avallo di dati reali e obiettivi;
le astrazioni selettive, per mezzo delle quali un piccolo particolare negativo viene estrapolato, divenendo emblematico e rappresentativo del proprio modo di essere;
le sovrageneralizzazioni, per cui si è portati a generalizzare partendo, per esempio, da un singolo tratto di personalità che contraddistingue un individuo o da un singolo episodio esperienziale che lo ha visto protagonista;
la massimizzazione, che consente di implementare gli effetti negativi di una singola azione svolta;
la minimizzazione, la quale permette di rimpicciolire la portata positiva di qualche evento;
la personalizzazione, che autorizza a sentirsi colpevole per qualche evento negativo accaduto;
il pensiero dicotomico, che non ammette sfumature nell’ambito delle assunzioni di responsabilità, riconducendo l’analisi ai costrutti del tutto e niente.

Le strategie per incrementare l’autostima

Per accrescere la percezione positiva di sé esistono diverse strategie, come Toro (2010) specifica, quali:
l’incremento della tecnica del problem solving;
l’implementazione del dialogo interno (self – talk) positivo;
la ristrutturazione dello stile attribuzionale;
l’ampliamento dell’autocontrollo;
la modificazione degli standard cognitivi;
il potenziamento delle abilità comunicative.

L’autostima spesso è in funzione delle capacità che si hanno di risolvere i problemi. Solitamente la risoluzione delle difficoltà richiede una procedura suddivisa in fasi consequenziali, che sono:
la consapevolezza di avere un problema;
l’analisi di tale criticità nella sua interezza;
l’individuare un obiettivo che si vuol raggiungere, attraverso la risoluzione della problematica;
il focalizzare le differenti soluzioni per eliminare la difficoltà;
l’immaginare gli effetti pratici di ogni possibile soluzione;
il reperire la tattica ottimale che consente di dirimere il problema, attraverso il minore spreco di energie (Toro, op. cit., pag. 34).

L’autostima può essere incrementata attraverso il dialogo positivo con se stessi, utilizzando la propria voce interiore. In altre parole, se noi per primi inviamo dei messaggi positivi alla nostra mente, è molto probabile che le autopercezioni possano migliorare (Toro, op. cit., pag. 35).
Un notevole contributo all’implementazione dell’autostima è fornito dallo stile attribuzionale. In pratica, se siamo obiettivi possiamo riconoscere che frequentemente la causa di certi avvenimenti o situazioni che ci accadono e che inficiano la percezione di sé non dipende solo da noi, ma prevalentemente da alcuni eventi oggettivi sfavorevoli (Toro, op. cit., pag. 35).
Un’altra maniera per incrementare l’autostima è la ristrutturazione cognitiva della percezione della realtà, utilizzando delle chiavi di lettura positive. In altri termini, l’abituarsi a leggere il positivo in quello che accade o si vive. In questo modo si incrementa il controllo dei pensieri, polarizzandoli verso la positività (Toro, op. cit., pag. 36).
Spesso il modificare gli standard cognitivi che si hanno su di sé aiuta ad ampliare l’autostima. Infatti, laddove ci sono delle aspettative estremamente elevate, si corre il rischio di non essere all’altezza delle proprie attese e quindi di ipotecare negativamente le autopercezioni (Toro, op. cit., pag. 36).
Infine, il possedere delle buone abilità comunicazionali, che consentono di stare bene con gli altri, incrementa la propria autostima (Toro, op. cit., pag. 37).

L’autoefficacia

Connessa all’autostima è la sensazione di possedere il controllo della propria vita e degli avvenimenti che accadono. In sostanza, più questa percezione è strutturata e più si consolida l’autostima (Weiner, 1986).
Importantissimo, inoltre, nella percezione dell’autostima è il senso di autoefficacia. Con tale costrutto, come messo in evidenza da Bandura (2000), si intende la fiducia nelle proprie capacità di escogitare delle strategie che consentono di affrontare nel modo ottimale qualsiasi evenienza. Il concetto di autoefficacia viene implementato:
dall’esito brillante di precedenti situazioni problematiche affrontate;
dalle esperienze vicarie, ovvero dall’aver visto altri fronteggiare contesti situazionali difficoltosi e di esserne usciti vittoriosi;
dalle autopersuasioni positive;
dallo stato di benessere derivante dall’aver superato prove particolarmente impegnative;
dalla capacità di immaginarsi vincenti in esperienze gravose (Toro, op. cit., pag 47 – 48).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bandura, A. (2000), Autoefficacia. Teoria e Applicazioni (G.L. Iacono e R. Mazzeo trad.). Trento: Erickson.
  • Bracken, B. A. (1993), T.M.A. – Test di valutazione dell’autostima (R. Mazzeo trad.). Trento: Erickson.
  • Horney, K. (1971), I nostri conflitti interni (F. Sambalino trad.). Firenze: Martinelli.
  • James, W. (1890), Principle of psychology. New York: Holt, Rinehart & Winston.
  • Sacco, W. P. & Beck, A. T. (1985), Cognitive therapy for depression in E. Beckham & W. R. Leber (eds), Handbook of depression. Homewood (IL): Dorsey Press.
  • Toro, A. (2010), Studio su variabili psicologiche in un campione di atleti impegnati in differenti attività sportive non agonistiche. Tesi di Dottorato, A.A. 2009/10, Università di Catania, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dottorato di Ricerca in Scienze Motorie, XXII Ciclo.
    http://archivia.unict.it/bitstream/10761/148/1/Tesi%20Dottorato%20Agata%20Toro.pdf.
  • Weiner, B. (1986), An attributional theory of motivation and emotion. New York: Springer – Verlag.  DOWNLOAD

Il ruolo delle immagini mediatiche del corpo nell’insorgenza dei disturbi alimentari negli adolescenti

Corinne Oppedisano

 

Gli adolescenti, a causa della familiarità con i mezzi multimediali, sono sovraesposti alle immagini mediatiche del corpo, il più delle volte irrealistiche.

Negli ultimi decenni ci si è chiesto se la presentazione di modelli estetici irrealistici possa costituire un ostacolo alla formazione dell’identità corporea negli adolescenti.  Se da una parte le adolescenti sembrano essere consapevoli  del fatto che nei media la percentuale di corpi filiformi non rappresenta la realtà (Fougts e Buggraf, 2000), dall’altra parte molte adolescenti tendono a ritenere l’ideale di magrezza normativo, reputando che la quantità di corpi mediatici magrissimi sia un riflesso della realtà (Lopez-Guimera et al., 2010).

Per spiegare l’influenza che le immagini mediatiche hanno sull’immagine corporea ricorriamo alla teoria dell’Oggettivazione (Fredrickson e Roberts, 1997). Vi è oggettivazione quando un individuo viene pensato come oggetto e dunque viene deumanizzato, divenendo merce e strumento. 

L’oggettivazione dei corpi proposta dai media porta ad una “frammentazione strumentale nella percezione sociale, una divisione della persona in parti che servono scopi e funzioni specifiche dell’osservatore” (Gruenfeld, Ine-si, Magee e Galinsky, 2008).

Le fasce più giovani sono particolarmente vulnerabili alle immagini mediatiche oggettivizzanti. In particolare, gli adolescenti sono impegnati in un delicato processo di costruzione della propria identità di genere, in cui il corpo gioca un ruolo importante. La percezione del proprio corpo è strettamente legata all’autostima. Sono infatti proprio le ragazze con una bassa autostima ad essere più colpite dal fenomeno dell’oggettivazione (Tolman et al., 2006).

Secondo Nolen-Hoeksema e Girgus, le ragazze sono più esposte al rischio di sviluppare disturbi psicologici a causa delle loro caratteristiche di personalità che le distinguono dai ragazzi quali un maggior orientamento sociale, una minore strumentalità e una minore aggressività. Per queste caratteristiche, le ragazze esposte a modelli estetici perfezionistici imparano che il corpo non è il loro e che il criterio di valutazione del loro valore è l’aspetto estetico (Volpato, 2011).  L’interiorizzazione della prospettiva dell’altro porta a conseguenze anche sul piano delle prestazioni cognitive e fisiche, incidendo sui risultati scolastici e l’affermazione professionale.

I ragazzi sono particolarmente vulnerabili all’esposizione a questo tipo di immagini, non solo a motivo della particolare fase evolutiva che stanno attraversando, ma anche a causa della quantità di televisione con cui sono a contatto fin da giovanissimi. Molte ricerche hanno provato il legame fra esposizione ai media, preoccupazioni per il proprio aspetto e disordini alimentari (Grabe et al, 2008). Anche la frequenza di fruizione di riviste di moda è correlata coi disturbi alimentari e la diminuzione dell’esposizione alle riviste ed ai programmi televisivi riduce il rischio di disturbo alimentare.

Uno studio che mostra l’importanza dei media nella costruzione dell’immagine del corpo degli adolescenti è quello condotto da Becker (2004) alle isole Fiji. La ricercatrice ha trovato che i disturbi alimentari e le preoccupazioni per il proprio aspetto fisico hanno fatto la loro comparsa con l’avvento della televisione.

Sono bastati tre anni per cambiare gli standard della cultura tradizionale che prediligeva fisici morbidi e fondava l’identità dei suoi attori sociali sul ruolo che essi svolgevano all’interno della comunità e della famiglia. Bisogna sottolineare però che per queste ragazze l’esigenza di rimodellare il proprio corpo aveva come fine quello di massimizzare le opportunità sociali ed economiche. Risulta dunque prematuro affermare che la relazione fra l’avvento dei media e l’aumento dei disturbi alimentari rifletta esattamente il legame che vige fra questi due fattori nella società occidentale.

Un altro aspetto fondamentale riguarda il ruolo dei social network sulla costruzione della propria immagine corporea. Un recente studio (Meier, 2013) ha indagato la relazione fra le attività delle ragazze sui social network e l’immagine corporea. I risultati della ricerca hanno rivelato che una elevata esposizione a contenuti relativi all’aspetto estetico è positivamente correlata con un incremento dei disturbi dell’immagine corporea fra le ragazze, e l’associazione è particolarmente forte nel caso di Facebook. In particolare, non era l’uso del social network in sé a predire l’insoddisfazione corporea, il desiderio di essere più magre e l’internalizzazione dell’ideale mediatico, ma specificamente il tempo trascorso guardando e postando foto su internet.

È importante esplorare le variabili che mediano l’effetto dell’esposizione alle immagini mediatiche. Bisogna considerare, non solo il ruolo che hanno le caratteristiche di personalità individuali, ma anche l’influenza del gruppo dei pari. I pari, infatti, hanno un ruolo importante in questa fase evolutiva e possono contribuire a indebolire o rinforzare gli effetti negativi dei media sull’immagine corporea. Per rilevare gli effetti di mediazione dei pari Veldhuis, Konijn e Seidell (2013) hanno indagato il ruolo dei commenti dei coetanei durante la visione di immagini di modelle molto magre sulla soddisfazione corporea e la vergogna relativa al proprio corpo.

I risultati mostrano che, quando le immagini erano accompagnate da commenti che indicavano queste modelle come leggermente sottopeso, l’insoddisfazione corporea e la vergogna per il proprio corpo era maggiore rispetto alla condizione in cui le immagini erano accompagnate da commenti che identificavano queste modelle come fortemente sottopeso.

Ciò significa che quando un membro del gruppo dei pari identifica una modella visibilmente sottopeso come leggermente sottopeso, suggerisce che il modello corporeo rappresentato è raggiungibile. Il commento dei pari ha il potere di creare una idealizzazione del corpo che lo rende lo standard estetico a cui ispirarsi. In base a questo si può concludere che l’ “iconoclastia” del corpo mediatico non è l’unica via per prevenire insoddisfazione corporea e disturbi alimentari. A questo fine sono altresì efficaci gli interventi educativi che forniscono ai ragazzi gli strumenti critici per giudicare correttamente i modelli a cui sono esposti. 

 

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La donna che visse due volte tra paura morale e senso di colpa

Questo suo portare in scena il senso di colpa sembra avere origine nella sua infanzia, come confesserà a Truffaut: “Probabilmente è stato durante il periodo passato dai Gesuiti che il sentimento della paura si è sviluppato con forza dentro di me. Paura morale, come di essere associato a tutto ciò che è male” (Truffaut, 1981; p.23).  Cerca quindi come di espiare una colpa innata attraverso i suoi personaggi?

Un pò per diletto e per propria passione, sto rispolverando o addirittura scoprendo vecchissimi film che hanno gettato le basi e le idee per molte delle opere che ci vengono offerte oggi. Tra questi quelli con la firma Hitchcock. La sua filmografia dovrebbe essere revisionata per i diversi e intrigati spunti psicologici. “ La donna che visse due volte”, “Vertigo”, mi ha fatto pensare molto, nello specifico a due cose fondamentali: la prima non strettamente psicologica a (come già notato con il ciclo di Antoine Doinel di Truffaut ed il richiamo a questo di Boyhood di Richard Linklater) il parallelismo tra la trama e gli aspetti conseguenziali dell’inganno giocato tra questo ed il film del 2013 “La miglior offerta” di Tornatore e come opere come queste siano continuamente fonte di stimolo per gli artisti attuali; secondo, più specificatamente psicologico, al complesso di colpa e non solo, e come questo sia ricorrente nei capolavori del regista.

Durante un inseguimento sui tetti di San Francisco, il detective Scotty Ferguson scivola e si aggrappa a una grondaia. Per salvarlo, un suo collega precipita e muore. In seguito a quest’evento, Ferguson – vittima delle sopraggiunte crisi di acrofobia – lascia la polizia. Viene quindi contattato da un suo vecchio compagno di università, Gavin Elster, che gli chiede di seguire la moglie Madeleine vittima a suo dire di dissociazione psichica.

La donna infatti assume gli atteggiamenti  di una sua antenata, Carlotta Valdes, e il timore dell’uomo è quello che essa possa emularne la fine suicida. Scotty accetta di aiutarlo e comincia a seguirla. Durante un pedinamento la salva da un annegamento (la donna si getta nella baia della città) e per via del momento intimo che vivono, la conosce e se ne innamora.

Cerca disperatamente di aiutarla e spiegarle che le sue visioni sono reali e cerca di condurla nei luoghi che lei crede solo di aver sognato. Tra questi luoghi c’è anche la Missione spagnola, la conduce lì, le dice di non aver sognato la missione,  cerca di convincerla del fatto che ci era semplicemente già stata -la ragazza non gli crede, prima di un bacio turbinoso gli confessa che in qualunque modo finisca avrebbe voluto amarlo e poi scappa sulla torre campanaria del villaggio, lui prova a inseguirla sulle scale, ma per via della vertigine non riesce nel suo intento e la vede precipitare.

Dopo la morte di Madeleine, Scotty è gettato nello sconforto. Il forte senso di colpa per non essere riuscito a superare la sua fobia e non aver salvato l’amata lo getta in un mutismo malinconico, tanto da dover essere poi ricoverato in una clinica psichiatrica, la bellissima scena che ne chiarifica il meccanismo psicologico si trova nel sogno che fa Scotty, girato magistralmente e che sembra portarci nel turbinio angosciato della mente del protagonista, nel suo inconscio, nella sua non rassegnazione.

Non può elaborare questo lutto se non con la sua diretta responsabilità. Riuscirà a metabolizzare il fatto, ma ne rimarrà succube tanto che una volta uscito dalla clinica, andrà in giro perseguendo continuamente i luoghi che le ricordano la donna, cercandola irrazionalmente tra la folla.

Un giorno però, fatalmente vede una giovane, Judy Barthon, identica a Madeleine. La segue, la corteggia, ma smaschera le sue motivazioni. E’ attratto da lei ma solo perché ha il suo viso, l’amerà solo se accetterà di trasformarsi nella defunta donna amata. Lei dapprima è titubante, non vuole. Di lì a poco si scoprirà però che Judy è realmente Madeleine e che a quanto pare interpretò su commissione la moglie del vecchio amico, che aveva pianificato il tutto per sbarazzarsi della moglie e prenderne l’eredità. Lei ama Scotty e quindi lo asseconda. La trasformazione va avanti, lei stà al gioco, ma per un errore sciocco ( lei indosserà un suo gioiello che poteva appartenere solo a Madeline) lui scopre l’inganno. In preda alla rabbia, la  conduce sul luogo del delitto, vuole capire come i fatti si siano svolti, vince il senso di vertigine e giunge con fino in cima al campanile. La tensione è molta ma con un colpo di scena inaspettato, per l’ombra di una suora che compare davanti a loro, Judy/Madeleine si getta nel vuoto, morendo.

Il ruolo di Judy, in questa seconda parte del film sebbene anch’esso intriso di sensi di colpa è più legato ad un disturbo da dipendenza affettiva.

All’inizio asseconda l’imbroglio di Gavin Elster perché ne è innamorata. Poi asseconda la malata e illusoria voglia di Scotty di trasformarla (ritrasformarla in Madeleine) accettandone la perversione, sempre per amore .

Nei due protagonisti sono esplicitati due schemi di rappresentazione della malattia mentale che il famoso regista riportava spesso nei suoi film. Ho scoperto recentemente leggendo l’articolo “La rappresentazione della malattia mentale nelle opere cinematografiche di Alfred Hitchcock” di Giannini A.M., Cordellieri P.- Dipartimento di Psicologia, “Sapienza” Università di Roma, che questo schema in un modo o nell’altro è spessisimo presente nelle opere del regista. In “Vertigo” come detto a mio parere sono presenti entrambi.

La prima è di solito costruita cosi:

– Trauma

– Senso di colpa

– Manifestazione del disturbo

– Abreazione

– Attribuibile al personaggio di James Stewart

La seconda :

– Dipendenza affettiva

– Manifestazione del disturbo con condotta criminale

– La malattia non si risolve e il responsabile è consegnato alla giustizia

– Del tutto attribuibile a Jude/Madeleine

Questo suo portare in scena il senso di colpa sembra avere origine nella sua infanzia, come confesserà a Truffaut “Probabilmente è stato durante il periodo passato dai Gesuiti che il sentimento della paura si è sviluppato con forza dentro di me. Paura morale, come di essere associato a tutto ciò che è male” (Truffaut, 1981; p.23).  Cerca quindi come di espiare una colpa innata attraverso i suoi personaggi?

E’ comunque talmente coinvolgente che si vede, essere parte della sua personalità e come per ogni artista geniale che si rispetti, la sua grandiosità non si può solo che ricercare nella sua essenza, nell’invischiamento personale, nel semplice fatto del creare qualcosa di assolutamente suo.

 

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