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Intervista con Cristina Comencini: la vita tra osservazione ed autosservazione

Regista e scrittrice: Cristina Comencini si racconta attraverso la propria storia, costellata di successi lavorativi e momenti di ricerca personale

Di Cristiana di San Marzano

Pubblicato il 24 Nov. 2014

Nella vita le cose non piacevoli ti capitano, ma ora ho un altro modo di guardarle, si sono staccate da me, non sono me. Le guardo, vedo che sta avvenendo quella roba che conosco molto bene, che va anche vissuta, ma non metto più in discussione me stessa. Quando avvengono fatti che riportano a galla sentimenti antichi, tu li vedi, riesci a creare uno spazio tra te e l’angoscia. 

 

Regista, il suo La bestia nel cuore si era guadagnato una candidatura all’Oscar, scrittrice, all’attivo una decina di romanzi, Cristina Comencini appartiene a una famiglia famosa del cinema. Il padre era Luigi Comencini, una delle sorelle, Francesca, è anche regista, un’altra, Paola, è scenografa. Laureata in Economia e Commercio con Federico Caffè, a 19 anni era madre, a 35 nonna. Ha tre figli e già molti nipoti.

Quanto le sue esperienze personali hanno influito, nel bene e nel male, sul suo lavoro?

Nella scrittura entra tutto, sia come eri da bambina che da adolescente nella famiglia d’origine, prima di fare le scelte di vita. Nel mio caso poi ha giocato un ruolo importante la mia non scelta, che poi le non scelte sono alla fine sempre delle scelte, di fare i figli molto presto. Affrontare precocemente la maternità, continuando però anche a studiare, fare le cose tutte insieme insomma, crea legami e conoscenze che ho poi potuto raccontare. Il personale conta tantissimo, anche se poi nell’arte il tutto è velato, perché nei personaggi che inventi c’è una parte di te, ma c’è anche un collage di pezzi di persone che hai incontrato o anche immaginato. In più, di te, rimane l’ispirazione più profonda, la necessità, quella sì solo tua, di scrivere quel racconto.

Questo presuppone un’attitudine all’osservazione degli altri non comune.

Penso sia una delle caratteristiche principali di uno scrittore e di un regista. E questa attitudine nasce molto dall’infanzia, una capacità di guardare un mondo che non sempre capisci. Io, per esempio, da bambina ero considerata anche un po’ tonta, non capivo molto le leggi della razionalità e dei concetti, guardavo questa famiglia, la mia, come fossi a teatro. Già lì facevo questo sport, di guardare gli altri, che poi è diventata abitudine. Anzi, a volte posso rischiare di essere invadente perché guardo molto le persone e non mi accorgo di guardarle.

E come si associa questa attitudine con il narcisismo che c’è un po’ in tutti gli artisti?

(Ride) Io sono egotica, ho sempre voglia di far bene, però non sono narcisista. Non amo le generalizzazioni, ma forse il narcisismo è più vicino all’artista uomo. Anche se fai un lavoro per cui sei esposta e riconosciuta, quando hai cresciuto quattro figli la sensazione dell’altro da te resta la parte principale. Anche se ci tengo a fare la cosa più bella del mondo non sono proiettata totalmente verso l’oggetto. E questa è una caratteristica di molte donne. Ogni tanto sogno di avere due identità, una col nome esterno e poi una mia, intoccabile.

Ha detto quattro figli, ma non sono tre?

Il quarto è una mia nipote. È nata contemporaneamente al mio ultimo figlio, l’ho cresciuta insieme a lui. Per molto tempo non me l’attribuivo, poi mi sono detta che è stata come un’adozione, perché la cura crea il legame. Che poi sia figlio o nipote non importa, lei mi chiama nonna, ma io me la sento come una figlia.

Ha mai avuto crisi di ansia, di panico?

Sì, certo, non a caso sono stata 11 anni in analisi. Il senso di angoscia a ognuno prende a suo modo, io avevo una malattia molto invasiva alle mani. Fin da bambina soffrivo di un fortissimo eczema alle mani che nessuno mi aveva mai saputo curare. Con l’analisi in un anno è sparito e non è mai ritornato. Mi sento una miracolata dall’analisi. L’ho cominciata non giovane, intorno ai 40 anni, per moltissimi anni ero convinta di stare benissimo, occultavo continuamente il malessere. Invece c’era, tanto che aveva somatizzato.

Le vengono ancora questi momenti di angoscia?

Beh nella vita le cose non piacevoli ti capitano, ma ora ho un altro modo di guardarle, si sono staccate da me, non sono me. Le guardo, vedo che sta avvenendo quella roba che conosco molto bene, che va anche vissuta, ma non metto più in discussione me stessa. Quando avvengono fatti che riportano a galla sentimenti antichi, tu li vedi, riesci a creare uno spazio tra te e l’angoscia. Ognuno ha il suo modo di fare l’analisi, di darsi degli obiettivi, per me è stata l’idea di non confondere più me stessa, e quindi tutti i sentimenti collegati a un fatto imprevedibile e magari spiacevole, con l’angoscia oppure la paura. Ma è molto difficile raccontare un’esperienza psicoanalitica, perché si compie come a teatro nel momento che si fa, i casi che uno racconta sono sempre molto astratti rispetto al dato mentale e corporeo che avviene nell’incontro e nella relazione.

Molti artisti guardano con sospetto la psicoterapia perché temono che limiti la loro capacità di inventare.

I cosiddetti “blocchi”, se ci sono, hanno radici patologiche. Al contrario imparare a guardarsi dentro potenzia enormemente la capacità creativa, perché non sei più annientato dai momenti di angoscia. E non è che non vivi più le emozioni, anzi forse le vivi più intensamente, però con un certo distacco. Riesci a guardarle.

Qual è per lei il luogo più doloroso del profondo, quello che le crea emozioni difficili da affrontare?

La disarmonia nel rapporto con i figli. In famiglia è normale nascano conflitti, ma se c’è incomprensione ancora faccio fatica, anche se va meglio di prima. Mi sembra sempre che con i figli bisognerebbe avere sempre il massimo dell’armonia, e questo è un po’ claustrofobico, perché invece è normale discutere.

Una conseguenza del suo essere figlia?

Penso di sì, penso sia legato da un desiderio di osmosi con mia madre. Con i figli ho difficoltà a creare quel distacco che dovrebbe essere salutare, quello che invece ho imparato ad avere col lavoro. Mi sforzo, e ci riesco anche, ma è un terreno che mi vede molto reattiva.

Ci sono altri momenti di fragilità che la fanno soffrire?

Forse l’abbandono, ma non è legato alla coppia. Ho una esperienza di vita matrimoniale molto lunga, e tra noi, con tutte le crisi che una coppia può attraversare, c’è molto equilibrio. E la mia figura di madre che a volte si vede abbandonata, Mi succede di sentirmi circondata dal deserto degli affetti. Che peraltro non c‘è, ma se l’immagino mi dà dolore. A parte il problema con i figli, io sono abbastanza forte. Nel lavoro, e il mio ti sottopone a esami continui, resisto bene. Perché in fondo sono per natura abbastanza ottimista, mi sento spesso serena col mondo. Diciamo che prima dell’esperienza dell’analisi avevo la pretesa di esserlo sempre, anche quando non lo ero. Quindi mettevo in atto una grande rimozione dei momenti di dolore e angoscia. Ora invece li vivo.

Continua l’analisi?

Col mio analista un mattino ci siamo salutati, ma io so che lui è lì, dovessi averne bisogno. L’analisi non finisce, è un metodo di lavoro su te stessa che hai sperimentato, che sai che può funzionare, e che continui da sola nei momenti di dolore e di angoscia. C’è una responsabilità nel far star bene gli altri, e io penso che chi sta bene fa star bene gli altri. Quando sono andata in analisi, a parte il problema delle mani, ero alla seconda mandata di figli, erano adolescenti e gli adolescenti ti rimettono tutto davanti. Penso sia stato importante che io l’abbia fatta, ho allentato un po’ la presa, oggi ho un atteggiamento meno rigido, sono più fluida, non giudicante, lascio a loro il distacco che serve.

Ha mai scritto nulla sulla sua esperienza psicanalitica?

Il mio nuovo libro, “Voi non la conoscete”, è la storia di una detenuta, però dentro, come sempre, c’è il racconto di una carcerazione non solo fisica. Sia come regista che come scrittrice, sono un’autrice molto amata dagli psicanalisti. Proprio quest’inverno sono stata invitata con un mio film, Il più bel giorno della mia vita, a Cinemente, la rassegna romana di psicanalisi e cinema al Palazzo delle Esposizioni. Nel mio lavoro, e questo accadeva già prima che io entrassi in analisi, c’è molta psiche.
Da sempre sono alla ricerca dei risvolti interni alle persone, delle loro contraddizioni. È la voglia di raccontare le emozioni del profondo, quel crinale, come è nel profondo, dove il bene e il male non si distinguono. Ma è perché sono un po’ matta.

Si sente matta?

Tutti più o meno lo siamo, però io lo sono in quel modo un po’ controllato che le ho detto. Anzi dovrei farla un po’ di più la matta, questo l’analisi non l’ha liberato.

L’ultima domanda, le pesa la solitudine di chi lavora con la scrittura?

Se scrivi una sceneggiatura ti confronti, discuti, fai un lavoro di equipe. Ma se scrivi un romanzo non può che avvenire così! Devi accettare il vuoto, devi stare ferma e aspettare. Ci sono mattine che ti viene una pagina, altre niente. Però è bella questa cosa del vuoto, la vita è sempre tanto piena. Prima ero più volontarista, ora se viene viene, sennò vado a fare una passeggiata.

 

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