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Paura. Lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia – Recensione

Gli esseri umani possono lasciarsi sopraffare dalla paura se imparano a temere le cose sbagliate: vedere un predatore in ogni cosa ha dei costi esorbitanti

Di Cristiana Chiej

Pubblicato il 20 Mag. 2022

L’etologo Daniel Blumstein ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso il mondo della paura, per comprendere meglio come e quanto la nostra paura e i nostri comportamenti di difesa condizionino non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri discendenti e delle generazioni successive.

 

Perché abbiamo più paura dell’attacco di uno squalo che di un incidente d’auto, quando ogni anno muoiono molte più persone a causa degli incidenti stradali di quante non siano attaccate da tutti i carnivori del pianeta?

Perché siamo attratti da sport estremi o abbiamo dovuto attendere che una legge ci imponesse l’obbligo prima di allacciare le cinture di sicurezza sulle nostre auto?

Perché siamo più colpiti da una singola storia drammatica rispetto a continue notizie di tragedie collettive ai vari angoli del mondo?

Per capire perché e come noi esseri umani reagiamo alle situazioni spaventose, dobbiamo comprendere la nostra storia evolutiva. Siamo i discendenti di progenitori che hanno saputo vincere le sfide della sopravvivenza e hanno permesso ai loro geni, e dunque ai nostri geni, di arrivare fino ad oggi.

Ogni specie ha la sua singolare storia evolutiva, ma condividiamo con gli animali numerosi meccanismi neurofisiologici, tanto che diversi fattori di stress e di predazione inducono nelle diverse specie, umani compresi, risposte molto simili.

L’etologo Daniel Blumstein ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso il mondo della paura, esplorando le risposte fisiologiche e i comportamenti evolutisi centinaia di milioni di anni fa, per comprendere meglio come e quanto la nostra paura e i nostri comportamenti di difesa condizionino non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri discendenti e delle generazioni successive.

L’autore propone interessanti riflessioni e ipotesi, supportate da un lungo lavoro di studioso sul campo e da una solida letteratura, su come si possa utilizzare la conoscenza del comportamento antipredatorio animale per imparare a convivere meglio con la nostra paura e per migliorare le nostre decisioni in condizioni di minaccia reale o percepita.

Vi siete mai chiesti se la paura ha un volto? O un odore, un suono?

Blumstein prende in esame studi ed esperimenti scientifici che, uniti alla sua lunga e prolifica carriera di etologo sul campo, ci insegnano come gli animali, nella loro storia evolutiva, abbiano imparato a riconoscere specifici segnali visivi, olfattivi e uditivi, che indicano la presenza effettiva o potenziale di un predatore e a modificare di conseguenza il loro comportamento.

La paura può essere scatenata da stimoli, anche apparentemente innocui o minimi, che in passato sono stati per la specie segnali attendibili di minaccia.

Perché, per esempio, basta la vista di un piccolo ragno a far saltare sulla sedia una buona quota di persone? Pare che la capacità di riconoscere la figura di un ragno come qualcosa di specifico e rilevante sia presente già nei neonati, che rispondono con attenzione e attivazione alla vista di un semplice disegno stilizzato che ricordi la forma di un ragno, cosa che non fanno di fronte a forme analoghe di altri oggetti, piante o animali.

Allo stesso modo certi suoni, come i rumori forti, le grida o in generale i suoni non lineari, inducono una reazione di paura tanto da influenzare perfino il successo riproduttivo degli individui. Vivere in un ambiente in cui sono presenti molti versi di predatori, infatti, induce nelle prede uno stress cronico e influisce negativamente sulla crescita, sull’accudimento dei piccoli e dunque sulla sopravvivenza della popolazione presente in quell’area.

Cosa ancora più interessante, questo non accade solo alla presenza di una minaccia reale, ma è un effetto della paura indotta dai segnali acustici, visivi o olfattivi. Numerosi studi, come riporta l’autore, hanno infatti dimostrato come sia sufficiente la paura di un predatore a innescare una serie di comportamenti antipredatori con effetti a cascata sulle generazioni successive e sull’intero ecosistema.

Quest’osservazione ha implicazioni molto importanti per noi umani. Anche noi siamo molto influenzabili e manipolabili dall’esposizione a immagini e suoni spaventosi. Pensiamo a cosa succede quando andiamo al cinema a vedere un film dell’orrore: la musica è appositamente studiata per indurre nel pubblico una reazione di paura. Ma se la paura è parte del piacere e addirittura ricercata nell’andare al cinema, le conseguenze dell’uso strumentale di una certa retorica, che sfrutta l’effetto spaventoso di suoni e immagini per influenzare l’uditorio, sono potenzialmente più pericolose.

L’ansia e la paura sono innate, e di solito adattative, ma certamente hanno un costo. Un animale troppo vigile, attento a ogni possibile minaccia, o che scappa al primo segnale di pericolo, perde un’importante occasione di alimentazione, di riproduzione o legata ad altre attività sociali fondamentali per il benessere dell’individuo e della specie. E’ necessaria una sottile e continua valutazione di costi e benefici, l’abilità di trovare il migliore equilibrio possibile tra il rischio di morire di fame e il rischio di essere mangiati.

La selezione naturale opera secondo una logica economica e gli animali che sono in grado di rispondere adeguatamente alle minacce utilizzando il minimo delle risorse necessarie, lasceranno una discendenza più numerosa di quelli che hanno una reazione eccessiva. Il comportamento ottimale è quello che produce la massima “fitness”, ossia il massimo successo riproduttivo in quello specifico ambiente, sia che si tratti di fuggire immediatamente, sia che si tratti di aspettare e valutare meglio la reale portata del pericolo.

Ma esiste una strategia di sopravvivenza migliore delle altre?

Gli animali che rischiano di più, ovvero che usano le loro energie per una crescita rapida e prematura, riproducendosi presto, hanno una maggiore probabilità di morire in giovane età.

Quelli che, invece, adottano strategie che rallentano la loro crescita, ritardano la riproduzione e dedicano una quota maggiore di energia alla crescita di ogni piccolo, aumentano la loro sicurezza e la percentuale di sopravvivenza.

Questo significa che una delle due strategie è intrinsecamente migliore delle altre?

Dipende. Come prima cosa dipende dal contesto. E, infatti, in natura le troviamo entrambe: in ambienti pericolosi e poveri di risorse la prima è certamente una strategia vincente, mentre in ambienti più sicuri e relativamente liberi dai predatori, troviamo più frequentemente il secondo tipo di strategia.

Lo stesso si riscontra nella nostra specie: si pensi alle differenze fra paesi in via di sviluppo, in cui i pericoli sono certamente maggiori, maggiore è la mortalità infantile e minore è l’aspettativa di vita, e paesi industrializzati, in cui è garantita una maggiore sicurezza all’individuo e alla popolazione con effetti sulle energie dedicate a ogni figlio, sull’età di riproduzione e sull’aspettativa di vita.

Come gli animali, anche noi cerchiamo di gestire costi e benefici, basandoci sulle nostre percezioni rispetto ai rischi e alle ricompense. In questo tipo di valutazione possiamo contare sull’esperienza dei nostri antenati, che hanno saputo prendere le giuste decisioni e hanno permesso alla nostra specie di prosperare sul pianeta, ma la nostra capacità di giudizio è fallibile e spesso commettiamo errori. Siamo fin troppo sensibili alla manipolazione di chi alimenta le nostre paure irrazionali, come quella verso chi è diverso da noi, o chi, per ottenere consensi politici, pone eccessiva enfasi su fatti veri ma meno rilevanti, sostenendo per esempio la nostra erronea percezione che gli autori di reati siano prevalentemente stranieri.

Siamo una specie straordinariamente irragionevole e le nostre valutazioni del rischio non sono per nulla obiettive, ma sono influenzate da vari fattori, come l’età, il fatto di essere soli o in gruppo, la probabilità che un evento occorra, l’entità dei danni e in generale il tipo di conseguenza, compresi i benefici attesi. La percezione del rischio, inoltre, è soggetta a veri e propri bias: siamo molto più colpiti dal perdere 100€ che dal guadagnare la stessa cifra (bias di avversione alla perdita); è più probabile che a farci paura sia qualcosa di ignoto, piuttosto che qualcosa per noi molto familiare; siamo più propensi ad accettare (e a sottovalutare) i rischi se li scegliamo volontariamente rispetto a quelli che ci sono imposti e siamo portati a sopravvalutare le nostre capacità di tirarci fuori da un problema.

La valutazione del rischio, inoltre, è influenzata dall’esperienza.

Il disturbo da stress post-traumatico è l’esempio più clamoroso di come sia sufficiente una sola brutta esperienza per influenzare profondamente il nostro senso di sicurezza e di benessere.

Anche l’apprendimento sociale è un potente amplificatore che permette la diffusione rapida e ampia di conoscenze che possono aumentare la probabilità di sopravvivenza.

Come ben argomenta Blumstein, gli animali, umani compresi, funzionano secondo una logica bayesiana (dal teorema del matematico Bayes), ovvero possiedono una qualche conoscenza a priori della probabilità che un evento accada e modificano poi questa previsione in base alle esperienze, adattando di conseguenza il loro comportamento. Ma animali ed esseri umani possono lasciarsi sopraffare dalla paura se imparano a temere le cose sbagliate e, se è vero che in linea di massima un approccio prudenziale e conservativo è adattativo, è anche vero che vedere un predatore in ogni cosa ha dei costi esorbitanti, che superano notevolmente i benefici. Pensiamo ad esempio alle malattie autoimmuni, in cui il sistema immunitario identifica come pericolosi stimoli innocui, attaccando il nostro stesso organismo, o le reazioni eccessive a una minaccia che portano all’intensificarsi progressivo di violenze sempre più fuori controllo e distruttive. Siamo molto sensibili a messaggi che fanno leva sulla nostra paura, che siano messaggi plausibili oppure no: la nostra percezione della verità può essere modificata dalla ripetizione continua di falsi messaggi, anche quando le persone sono consapevoli che si tratta di messaggi non veritieri. E’ il fenomeno della “verità illusoria” e ne siamo stati testimoni per esempio nel 2003 quando il governo statunitense accusò ripetutamente l’Iraq di Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa: non era vero, ma condusse comunque a una guerra devastante.

Forse mai come ora, almeno per chi di noi ha meno di 80 anni, sentiamo così forte e presente la paura. Da un paio d’anni è uno spettro con cui abbiamo dovuto convivere ogni giorno, che ha minato la sicurezza che la tecnologia aveva progressivamente garantito alla nostra specie.

Nelle ultime settimane, poi, le terribili notizie della guerra in Ucraina hanno ulteriormente destabilizzato il nostro fragile equilibrio e ci hanno portati a doverci necessariamente confrontare con la paura e la precarietà della nostra stessa sopravvivenza.

E’ un libro di forte impegno “politico”, quello di Blumstein, non nella sua accezione propagandistica, ma in quella più letterale e profonda, legata al promuovere valori e impegno sociale attraverso la diffusione di conoscenze e l’attivazione di una riflessione critica.

La paura è un forte motivatore in situazioni più lineari, ma occorre molta attenzione nelle situazioni più complesse, in cui siamo chiamati ad andare oltre il nostro desiderio di relazioni causali semplici e dunque soluzioni semplici.

Stiamo vivendo un’epoca piena di sfide complesse a cui la nostra storia evolutiva non ci ha preparati a rispondere. Il repentino e progressivo cambiamento climatico è un esempio di come il nostro comportamento abbia modificato l’ambiente in cui viviamo in un modo estremamente rapido, se valutato in termini evolutivi, e radicale. Non abbiamo gli strumenti per valutare appieno questo impatto sulle nostre vite e su quelle delle generazioni successive, perché la nostra specie non ha avuto abbastanza tempo per generare risposte adeguate a una molteplicità di nuove minacce che essa stessa ha creato. Tuttavia, rileva l’autore, se i nostri comportamenti sono stati la causa di questi nuovi problemi, possiamo cambiare i nostri i comportamenti nella direzione di nuove soluzioni.

A partire dallo studio del comportamento di altre specie, con cui condividiamo larga parte del nostro sistema neurofisiologico, Blumstein avanza le sue interessanti ipotesi su come si possa sfruttare la conoscenza delle risposte animali ad eventi spaventosi per imparare a convivere meglio con la nostra paura e a migliorare i nostri processi decisionali in condizioni di minaccia reale o percepita.

La paura è un elemento inevitabile e non eliminabile della nostra vita. Non solo è impossibile annullare i rischi o la paura che ne consegue, ma da qualche parte dentro di noi conserviamo il desiderio di sfidare noi stessi e andare alla ricerca di nuovi rischi che risveglino un po’ di adrenalina anche quando potremmo vivere una vita più sicura.

Dobbiamo dunque imparare ad accettare e a gestire le nostre paure, valutando i dati e le fonti d’informazione, invece di reagire secondo un riflesso condizionato. La paura, quando mediata dalla riflessione critica, può aiutarci a progettare sistemi resilienti e a trovare soluzioni intelligenti e innovative in situazioni complesse.

Può essere una compagna di viaggio fastidiosa e talvolta intollerabile, ma la paura è anche “una bussola che, se ben tarata, ci allontana dal pericolo e ci dirige verso l’opportunità” [p. 251].

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Blumstein, D. T. (2022). Paura. Lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia. Raffaello Cortina Editore
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