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Paura: lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia – Recensione

Avere paura è sempre utile? O ci sono casi in cui si rivela più pericolosa del rischio stesso? Il nuovo libro di Daniel T. Blumstein prova a rispondere

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 02 Mag. 2022

Adottare la paura come unico pattern comportamentale non consentirà di evitare le stesse conseguenze disadattive da cui, proprio con un eccesso di prudenza, si cerca di difendersi.

 

In assenza della paura gli istinti di sopravvivenza e autoconservazione risulterebbero senza dubbio meno “garantiti”. La storia, e anche questa opera di Blumstein, lo dimostrano ampiamente. Ma ad onor del vero non è solo l’aspetto opportuno e opportunistico della paura ad essere evidenziato nel testo.

L’intento dell’autore, ben più onesto ed equilibrato, è volto mettere in luce un risultato scientifico che attribuisce alla paura un aspetto dicotomico e tuttavia non contraddittorio: da una parte si tratta di un mezzo di autodifesa utile alla sopravvivenza della specie, e dall’altra di un invalicabile limite alla gratificazione di bisogni primari. A partire da quello riproduttivo e di nutrimento.

L’abilità dell’essere umano, come dell’animale, è proprio quella di accettare questi aspetti senza schierarsi in favore di uno o dell’altro in una sorta di difesa ad oltranza, ma imparando piuttosto a sfruttare gli effetti vantaggiosi di entrambi, massimizzando i guadagni e limitando il più possibile le perdite.

L’aspetto salvifico della paura

Per evidenziare il valore adattivo della paura l’autore si affida ad efficaci esemplificazioni tratte dal mondo animale. Esperienze di vita che si susseguono lungo i dodici capitoli complessivi, dai quali è possibile intravedere non soltanto la pluriennale esperienza di Blumstein in campo etologico, ma anche le numerose affinità, istintuali e genetiche, che ci accomunano al mondo animale.

In primo luogo l’effetto difensivo della paura.

È grazie allo stato di allerta imposto dalla paura che un branco può proteggersi dall’attacco di predatori, mantenersi indenne dai numerosi rischi connessi all’habitat naturale e garantirsi una maggiore possibilità di fitness. Cadere nella trappola del predatore comporta non soltanto la perdita della vita, ma anche della possibilità di riprodursi, assolutamente prioritaria nell’animale come nell’uomo.

Dunque è necessario non solo difendersi, ma farlo prima e meglio possibile.

Per riuscire in questa quotidiana e mai scontata missione di sopravvivenza, anche gli animali si avvalgono di un apparato biologico naturalmente predisposto alla vigilanza, all’arousal, alla risposta ambientale modulante, grazie alla quale una semplice condotta di prudenza può trasformarsi in una fuga salvifica o in un attacco difensivo.

È la scelta imposta del fight or flight, processo che attiva quella serie di competenze muscolari, motorie e circolatorie necessarie ad una fuga o ad uno scontro, inibendo tutte le altre (Alcock, Rubenstein, 1975). E al di là di un efficace supporto sensoriale- un allarme può essere agevolmente identificato anche attraverso l’utilizzo di vista, udito, olfatto-  la paura può contare anche su un apposito substrato mnestico, grazie al quale gli stimoli pericolosi vengono immagazzinati e rievocati al momento opportuno, in una sorta di apprendimento esperienziale in grado di modificare i comportamenti non soltanto hic et nunc, ma anche e soprattutto sul lungo termine.

Ma scappare non è sempre possibile.

Talvolta il predatore è così vicino che sfuggirgli è praticamente impensabile, e l’attivarsi del complesso e dispendioso processo di risposta simpatica causerebbe più perdite che guadagni. Ce lo insegna l’opossum, che per difendersi da una cattura ormai inevitabile utilizza la strategia della tanatosi: in pratica si finge morto, sperando che il predatore non sia disposto a cibarsi della carne di una preda già morta, forse già in putrefazione e potenzialmente tossica (Manning, Stamp Dawkins, 2015). Con un po’ di fortuna l’opossum riuscirà a salvarsi senza aver sprecato preziose energie in una fuga impossibile, se non addirittura dannosa.

Da qui il sorgere della domanda che nel corso del testo si reitera con puntuale frequenza: avere paura è sempre utile? O ci sono casi in cui la paura si rivela più pericolosa del rischio stesso?

La risposta si genera da sola, gradualmente, attraverso l’analisi di dati che si susseguono in una sorta di maieutica socratica, latrice di una verità già molto evidente.

L’altra faccia della medaglia

La paura genera una risposta neurochimica altamente adattativa che coinvolge parti specializzate del cervello, una serie di circuiti neuronali specializzati e un mix di molecole – ormoni e altre sostanze chimiche – che viaggiano tra le cellule nervose tramite le sinapsi e attraversano il sistema circolatorio per modulare un’ampia gamma di risposte (Blumstein, p. 25).

I correlati biologici della paura ne convalidano l’innato valore adattivo; ma testimoniano anche come, nel corso dei millenni, gli esseri viventi siano stati oggetto di mutamenti genetici imposti dal trasformarsi delle condizioni ambientali, in una sorta di selezione darwiniana che ha garantito la possibilità di fitness soltanto alle caratteristiche genetiche maggiormente flessibili.

Appare chiaro che, di fronte a questa mutevolezza di scenari e contesti, la paura debba mostrarsi egualmente flessibile. Per continuare a mantenere il proprio valore opportunistico, essa non deve risultare una risposta massiva o aprioristica, ma un pattern reattivo da attuare soltanto nei casi di necessità, quando la sua assenza costituirebbe un autentico rischio per la sopravvivenza.

Contrariamente gli effetti potrebbero risultare dannosi. Specie sul lungo termine. Uno stormo di rondini che, spaventato dall’arrivo del predatore lascia indietro il cibo, si garantirà forse una possibilità di sopravvivenza, ma volerà via a stomaco vuoto. E se questa scelta prudenziale si ripeterà troppo spesso, la fame diventerà un sicario non meno spietato di un rapace bramoso. Riprodursi sarà difficile per coloro che, nel tentativo di approvvigionarsi, verranno attaccati dal predatore. Ma sarà altrettanto complicato per quegli animali che sceglieranno di scampare il pericolo predatorio rinunciando continuamente ad occasioni di nutrimento.

Adottare la paura come unico pattern comportamentale non consentirà di evitare le stesse conseguenze disadattive da cui, proprio con un eccesso di prudenza, si cerca di difendersi. Se un individuo scappa troppo presto, perde un’opportunità. Se scappa troppo tardi, il predatore potrebbe riuscire nel suo intento (Blumstesin, p. 115). Il risultato non è mai garantito, né il rischio sempre evitato. È un gioco di equilibri che coinvolge prede e predatori, e comporta valutazioni di natura prettamente economica: quando il costo della fuga è maggiore dei benefici dalla stessa apportati, non è il caso di mettersi a correre. Sarebbe un inutile spreco di energia.

La specie animale, come quella umana, deve prediligere un comportamento volto a massimizzare in ogni circostanza le risorse vitali e riproduttive:

In altre parole, gli animali dovrebbero scappare quando i benefici della fuga superano i costi del rimanere. Più in generale, gli ecologi comportamentali considerano ottimale il comportamento di un individuo che, davanti a un insieme di possibili strategie, selezioni quella che produce la massima fitness, che si tratti di fuggire immediatamente quando si accorge di un predatore, aspettare dieci secondi prima di fuggire, o fuggire quando i benefici sono massimi rispetto ai costi ( p. 116).

Una gestione consapevole della paura

Attivare una strategia di paura comporta un costo enorme, in termini di energie vitali. Correre per avvertire i propri simili dell’arrivo di un predatore, emettere un segnale di richiamo (la marmotta può emetterne anche più di 1800 in un breve lasso di tempo!), ma anche semplicemente fiutare la presenza del cacciatore a miglia di distanza, richiede un considerevole dispendio di energie e causa la perdita di occasioni di nutrimento.

Una mancata parsimonia nell’utilizzo della paura e uno spreco di comportamenti difensivi avranno ripercussioni dannose sulla salute, anche sul lungo termine. Un carico stressogeno eccessivo debilita l’immunitario e la sua funzione difensiva da agenti patogeni, rendendo possibile l’insorgenza di malattie, e forse una morte precoce. Questo corrisponde ad una perdita di fitness, e dunque ad un’impossibilità riproduttiva che impedisce, di per sé, il tanto ambito “vantaggio evolutivo”.

Da dove siamo partiti? Il significato complessivo del testo

Il libro non insegna ad evitare la paura, né a provarla sempre. Piuttosto mostra come sia necessario utilizzarla con parsimonia, modulandola con astuzia e persino con un po’ di cinismo, per non lasciarsene immobilizzare totalmente.

È necessario operare una scelta ponderata tra rischio e prudenza, ispirata da una politica di bilanciamento tra costi e benefici che, qualsiasi sia l’opzione di preferenza, comporteranno un prezzo da pagare. Il coraggio avrà la sua contropartita, e in egual modo la prudenza. In mezzo sta tutto il resto. Quella terra di confine costruita su sottili equilibri che, se gestiti adeguatamente, restituiranno alla paura il suo significato salvifico, privandola di ogni controvalore paralizzante. Del resto, i sistemi di difesa più efficaci ed affidabili sono quelli flessibili e adattivi, non quelli statici e atrofici. La storia e l’esperienza non si stancano di dimostrarcelo.

L’opera di Blumstein offre un’importante lezione di vita senza averne la pretesa, e – valore aggiunto- lo fa senza alcun intento retorico:

Non dobbiamo soltanto imparare a convivere con la paura, ma anche a capire quando e come utilizzarla, cercando di discriminare ciò che costituisce un pericolo da ciò che non lo è affatto, e comportarci di conseguenza.

E quando il pericolo sembra inevitabile, dobbiamo essere tanto astuti da scegliere il male minore. Quello che, in pratica, ci comporterà un minor prezzo da pagare. In termini di rischi e di energie.

Anziché strutturare un contesto di lettura complesso e cattedratico, Blumstein si rivolge al lettore esponendo le sue esperienze di ricerca con tono chiaro e diretto, reso comprensibile anche per quei fruitori che non possono vantare una consolidata preparazione in materia.

I dati scientifici non languiscono mai in un tecnicismo lezioso e inaccessibile, proprio perché espressi con uno stile colloquiale che, con la complicità degli aneddoti biografici inseriti, conferisce al testo la piacevole foggia di un romanzo. E forse proprio di questo si tratta; di un racconto di vita scritto per comprendere e decifrare i segreti della vita stessa, in tutte le sue forme, in tutti i suoi  aspetti. Nel tentativo di renderci quanto più possibile capaci di viverla al meglio. Un po’ da aquile, un po’ da marmotte.

Al termine di una lettura oltremodo gradevole la paura apparirà sotto una veste diversa, spesso messa in ombra, o comunque sconosciuta ai più. Magari qualche lettore cesserà di aver “paura” della paura, qualcun altro inizierà a valutarne l’insospettabile valore salvifico, altri apprenderanno a dosarla opportunamente, riducendo gli sprechi; la maggior parte, presumibilmente, si limiterà a beneficiare dei numerosi spunti psicoeducativi offerti dal testo, per renderli, con un po’ di fortuna, preziosi “investimenti esistenziali”.

Da applicare nel presente e nel futuro.

…È consolante sapere che la mia paura deriva da un lungo lignaggio di antenati, umani e non umani. È un tesoro che ho ereditato, una potente alleata. Eppure, è anche una compagna fastidiosa e talvolta insopportabile. È una bussola che, se ben tarata, ci allontana dal pericolo e ci dirige verso l’opportunità. Da certi punti di vista, il nostro rapporto con la paura è un insegnamento che ci deriva dalla vita. Essendo impossibile eliminare del tutto i rischi, paure e ansie ci aiutano a prendere le decisioni giuste. Dato che non possiamo cancellare le nostre paure, dobbiamo accettarle e affrontarle. Come scrisse nel 1997 Mary Schmich, giornalista del Chicago Tribune: “Ogni giorno fa’ una cosa che ti spaventa.” ( Blumstein, p. 251).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Alcock, J., Rubenstein, D.R. (1975) Etologia, Un approccio evolutivo, Zanichelli, Torino;
  • Blumstein, D.T. (2022), Paura. Lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia, Raffaello Cortina, Milano;
  • Manning, A., Stamp Dawkins, M. (2015) Il comportamento animale, Bollati Boringhieri, Torino.
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