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Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?

La mindfulness promuove l’accettazione intesa come maggiore distanza dalle esperienze interne e generale disinvestimento dagli scopi. Ma è sempre giusto?

Di Redazione

Pubblicato il 18 Giu. 2015

Claudia Perdighe, Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC Roma

 

Non per fede, ma basandomi sulle evidenze che vengono da un certo numero di studi (per una rassegna critica si può vedere Baer, 2012), considero la mindfulness e in generale tutte le procedure che facilitano il distanziamento e decentramento dagli stati interni, potenti strumenti terapeutici.

Mi piacerebbe, però, condividere alcune riflessioni sulla mindfulness e in generale sulle terapie basate sull’accettazione.
Le più conosciute tra queste sono la Mindufness Based Stress Reduction (MBSR), la Mindufness Based Cognitive Therapy (MBCT), la Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Dialectical Behavior Therapy (DBT).

Una prima osservazione riguarda il fatto che anche se si parla in generale di terapie basate sull’accettazione, “accettazione” non è affatto un termine dal significato univoco.
In linea di massima, l’accettazione riguarda sempre una rinuncia a opporsi, anche solo psicologicamente, a un evento interno o esterno (ad es., non contrasto una perdita o i sentimenti di tristezza o i pensieri dolorosi). L’oggetto può essere lo stato del mondo o gli stati interni.  Ci sono, però, almeno due modi diversi in cui questo può accadere e, ciascuno collegato a due accezioni differenti del concetto di accettazione.

La prima accezione riguarda l’accettazione come costruzione di un atteggiamento di maggiore distanza dalle esperienze interne e di generale disinvestimento dagli scopi; la focalizzazione è sulla presa di distanza dall’esperienza interna dell’evento, che in ultimo si risolve idealmente nell’abbandono dello scopo.

Il focus dell’accettazione è la gestione degli affetti intesi come reazioni a un evento, accaduto o atteso (non l’evento in sé e le sue implicazioni esistenziali). È ciò che gli stoici, e fra loro, ad esempio, Epitteto, hanno descritto come “il distacco dagli affetti”, o i buddhisti come abbandono dell’attaccamento alle cose del mondo. La massima realizzazione di questo modello è rappresentato dall’isolamento dell’asceta.

La seconda accezione è accettazione come dis-investimeno dagli scopi compromessi (o minacciati) e sostengo dell’investimento sugli scopi ottenibili: la focalizzazione è da un lato sulla presa di coscienza della mancanza di un potere, di un dovere o un diritto alla soddisfazione dello scopo compromesso e dall’altro sulla messa a fuoco degli scopi sovraordinati o di altri domini su cui la persona ha un potere.

La differenza tra i due significati è che nel primo caso il disinvestimento è totale e preventivo, anche rispetto a investimenti positivi e non solo difensivi (non soffrire e non gioire), mentre nel secondo è selettivo, cioè riguarda solo gli scopi compromessi o minacciati di compromissione.
La seconda accezione riguarda più l’accettazione come intensa in terapia cognitiva (Mancini e Perdighe, 2013), dove l’oggetto sono sia gli stati interni (problema secondario) ma soprattutto gli eventi in sé e i significati per l’individuo implicati dalla compromissione o minaccia allo scopo.

La mindfulness, invece, promuove soprattutto l’accettazione come intesa nella prima accezione e l’oggetto privilegiato dell’accettazione sono gli stati interni. L’ACT come le altre terapie basate sulla mindfulness ha per oggetto le esperienze interne, ma il disinvestimento dagli scopi è selettivo.

Detto ciò, uno dei grandi meriti della mindfulness, sia come RSBM sia come TCBM, è aver posto l’attenzione sulla possibilità e sull’utilità di ridurre il disagio non solo modificando i determinanti psicologici degli stati emotivi (i contenuti cognitivi, cioè scopi e rappresentazioni), ma anche attraverso il cambiamento della loro funzione, con l’addestramento a un decentramento intenzionale e radicale dagli stati interni.

Ci sono, però, alcuni aspetti che a mio parere meritano qualche riflessione in più tra noi clinici. Un primo punto, riguarda cosa renda la mindfulness un intervento di psicoterapia (o, in che senso lo è di più che fare sport o fare yoga, attività di cui si conoscono bene gli effetti benefici e duraturi sul benessere psicologico). È evidente che questo apre la questione su cosa qualifica un intervento come psicoterapeutico, e la questione è certamente assai complessa e di non facile soluzione.

Uno degli aspetti che, però, mi sembra qualificante è il fatto di essere una risposta specifica a un problema specifico; la mindfulness mi sembra, che non abbia sempre questa qualità (almeno in alcune forme in cui è proposta). È evidente che sto ipersemplificando, ma mi sembra utile per riflettere su come noi terapeuti a volte siamo talmente presi dal trovare soluzioni efficaci per i nostri pazienti, che rischiamo di “prendere tutto”, applicandolo senza tener conto di ciò che dovrebbe qualificarci e differenziarci, in altre parole la concettualizzazione del caso e l’individuazione di strategie e procedure adattate al singolo caso.

Un secondo aspetto, più rilevante, è: che tipo di stato mentale stiamo promuovendo nei nostri pazienti quando offriamo la mindfulness? La mindfulness, infatti, è fortemente caratterizzata dal punto di vista ideologico/valoriale, ovvero è inerente alla terapia il fatto di passare un preciso sistema di valori.

Negli scopi dell’accettazione come intesa dalla mindfulness (e, più in generale, da buona parte della tradizione meditativa e filosofica orientale), infatti, se da un lato si enfatizza l’importanza del vivere nel qui e ora, dall’altra si favorisce una generale accettazione dello stato delle cose e un disinvestimento anche dagli scopi perseguibili (è chiaro che questa è ora un po’ una semplificazione che si applica più alla mindfulness legata alla meditazione vipassana e meno alla mindfulness come intesa nella TCBM).

Tralasciando le questioni etiche legate al passaggio di valori in terapia, peraltro in modo tacito, il punto è la qualità e funzionalità/adattività di questi valori. Il valore che si passa, per usare un’immagine di Schopenhauer, è che si vive meglio guardando il mondo dal lato sbagliato del telescopio, distaccandosi dagli affetti e facendosi guidare/condizionare meno dai propri stati interni (che tanto passano se non si fa niente e ci si limita a osservarli). Che poi è quello che si afferma nelle verità del Buddha.

In questo mi sembra ci sia un aspetto critico, riassumibile nell’osservazione di un paziente: [blockquote style=”1″]Capisco che imparare a prendere le distanze dalle mie ruminazioni e dalle mie ansie mi faccia star meglio, ma non è un ostacolo all’impegno massimo per i miei scopi? È sicura che sia meglio per me mirare alla riduzione dell’infelicità piuttosto che al perseguimento dei miei scopi?[/blockquote] In altri termini, il paziente sta ponendo una questione molto seria, riassumibile in: che tipo di sistema di valori mi sta passando?

In questo mi sembra ci sia un aspetto critico, riassumibile in quella che è forse la vera obiezione, sia a parere degli stoici che della filosofia alla base del buddhismo e di gran parte delle forme di meditazione orientale: siamo sicuri che nella vita sia meglio ridurre l’attaccamento agli affetti (ovvero scopi, motivazioni, passioni) per garantirsi una minore infelicità che mirare a darsi una vita ricca di significato perseguendo i propri scopi? Il problema è: siamo sicuri che sia un sistema di valori vincente? Se guardiamo all’India, viene in mente che forse tanta povertà e ingiustizia sociale ancora oggi forse, almeno in parte, è figlia di questa filosofia (sopporto con distacco) e che, invece, una maggiore adesione ai propri stati d’animo magari fa soffrire di più ma spinge anche a combattere di più per cambiare le cose.

Del resto i migliori anni di Schopenhauer, che per tutta la via ha praticato l’autoterapia del distacco avendo come riferimento sia gli stoici sia le filosofie orientali, sono stati quelli in cui si sono infine realizzati gli stessi “effimeri sogni di gloria da bipede” da cui ha tanto cercato il distacco. Questo suggerisce che forse, anche quando ci si impegna tanto, non è davvero possibile per la maggior parte degli esseri umani distaccarsi da tutti gli affetti e che, comunque, si rischia di pagare un costo molto alto.

Un ultimo aspetto critico riguarda l’appiattimento dell’intervento sulla focalizzazione dell’esperienza soggettiva degli eventi, negandone quasi l’oggettività. Questo riporta alla tradizionale critica agli stoici, così espressa da Cicerone:

Dionisio di Eraclea, dopo aver imparato da Zenone a essere coraggioso, lo disimparò per via del dolore. Soffrendo di reni, gridava tra i gemiti che era falsa la sua precedente opinione sul dolore. E poiché il condiscepolo Cleante gli chiedeva per quale motivo avesse abbandonato la sua opinione, rispose: “Perché era convenuto che se dopo aver dedicato tanto tempo alla filosofia non fossi in grado di sopportare il dolore, sarebbe stato provato che il dolore è un male. Ora io ho dedicato molti anni alla filosofia e non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male” (da: Esempi di sopportazione del dolore, Tusculanae disputationes II, 58-61)

Come clinici siamo alla continua ricerca di procedure e tecniche che aumentino le nostre capacità di cura; inevitabilmente, come in parte accade anche in medicina, sperimentiamo le procedure nuove che sembrano efficaci anche quando non ci sono del tutto chiari i meccanismi in gioco. Credo, però, che per sfruttare al meglio le “nuove cure”, sia sempre utile capire cosa e come curano e gli eventuali effetti indesiderati, così da farne un uso strategico e specifico ed evitare di elevare ogni nuova procedura o tecnica a “terapia per quasi tutti i mali”.

LEGGI IL COMMENTO DI ANDREA BASSANINI

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Mindfulness e tratti associati: un contributo empirico

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Baer A.R. (2012). Come funziona la mindfulness (a cura di). Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Mancini F., Perdighe C., (2012). Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva. Cognitivismo Clinico, 9, 95-115.
  • Yalom I.D. (2005). La cura Schopenhauer. Neri Pozza, Vicenza.
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