Insomma, ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori. Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente se ci pensiamo bene ancor oggi è così.
La teoria del capro espiatorio è un modello antropologico che spiega alcune fasi del passaggio dalla violenza generalizzata delle società antiche a quella più limitata delle società post-classiche. Secondo Girard e Fornari il problema principale dell’agonismo rivalitario è che non c’è mai tregua. Il vincitore vive nell’ansia dello spodestamento e della detronizzazione. Finché si tratta di conflitti non sanguinari, poco male, o quasi. La competizione emulativa, come si sa, è anche alla base delle società moderne basate sullo sviluppo professionale e sulla concorrenza (ma anche sul supporto sociale fornito dallo stato e sulla solidarietà umana, beninteso).
Nelle società antiche, e in particolare nell’antichissima vita tribale che precede i primi imperi orientali e le prime città-stato greche e italiche, il conflitto era altamente sanguinario. Il vincitore si elevava al rango di capo tribù, di re-sacerdote, di eroe e perfino di semidio, ma era continuamente a rischio di essere spodestato e ucciso.
Nei miti classici gli eroi fanno spessissimo una morte violenta, con rarissime eccezioni: in questo momento mi viene in mente solo Odisseo, unico eroe antico morto nel suo letto sazio di giorni e beato. O almeno così gli profetizza Tiresia nell’Ade. In realtà anche Odisseo muore ucciso da suo figlio, non Telemaco, ma Telegono, figlio dei suoi amori con Circe. Telegono era venuto a Itaca per conoscere il padre. Lo incontra, non lo riconosce, ha un diverbio e lo uccide. A pensarci bene, allo stesso modo Edipo fa fuori suo padre Laio. Da notare che molti di questi eroi sono capi politici e vengono uccisi. Edipo sovrano di Tebe, Agamennone re di Micene, Odisseo re di Itaca. Romolo primo re di Roma. Romolo fu assunto in cielo durante una tempesta, ma altre tradizioni mitologiche più oneste dicono che fu fatto a pezzi, ossia linciato, dai senatori.
Per Girard non si tratta di un caso. Il linciaggio periodico e rituale era proprio il modo in cui le società antiche digerivano conflitti diventati ormai insostenibili. Insomma, ogni capo politico, ogni eroe è anche il punto di convergenza di speranze, aspettative, delusioni e infine rancori. Ovvero di odio. Questa parabola è inevitabile. Ed effettivamente se ci pensiamo bene ancor oggi è così. Pensiamo ad Obama: dopo le speranze eccessiva, la disillusione eccesiva. Che, per Girard prelude al linciaggio. Per fortuna solo simbolico ai giorni nostri.
Nel linciaggio, dice Girard, il legame sociale e la solidarietà di gruppo, che si era deteriorata in diffidenza di tutti contro tutti nel momento della crisi e della disillusione, si ricompone. Naturalmente il vero e proprio linciaggio del capo oggi non avviene più (o quasi. Ricordiamo Gheddafi?) mentre un tempo era, per Girard, lo sbocco inevitabile della parabola del potere. Anzi, il linciaggio del re-sacerdote era istituzionalizzato. In molte società tribali era previsto che il re regni per un periodo predeterminato, dopo il quale venga ritualmente ucciso. Non metaforicamente. Un linciaggio rituale e previsto invece dello scoppio imprevisto e terribile e probabilmente, sanguinoso per tutti, avvenendo in condizioni di guerra civile e scontri tra bande rivali. Come forse accadde per Romolo e poi sicuramente per Cesare.