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Attualità in tema di trattamento psicoterapico delle psicosi

Carmela Mento, Amelia Rizzo

Una pietra miliare su cui la comunità scientifica sembra aver raggiunto un pacifico accordo superando vecchie rivalità è l’importanza dell’approccio integrato, che prevede cioè il trattamento farmacologico, la terapia individuale e la terapia familiare.

La psicosi schizofrenica, come sappiamo, ha un tasso di incidenza nella popolazione di circa 1 – 1,5 casi su 1000 abitanti. Spesso, per la gravità dei sintomi con cui si manifesta, rappresenta per i clinici una vera e propria sfida.
In questo senso l’evidence based medicine e gli studi clinici, hanno contribuito ad incrementare una serie di conoscenze da tradurre nella pratica clinica. Ad esempio, negli ultimi decenni si è sottolineata abbondantemente l’importanza dell’identificazione precoce della fase pre-psicotica, in cui l’intervento tempestivo costituisce un fattore fondamentale nel decorso della patologia agendo efficacemente sulla riduzione dello sviluppo di sintomi positivi, sui sintomi negativi e sul funzionamento globale (Ruhrmann, Shultze Lutter e Klosterkotter, 2007).

Un’altra pietra miliare su cui la comunità scientifica sembra aver raggiunto un pacifico accordo superando vecchie rivalità è l’importanza dell’approccio integrato, che prevede cioè il trattamento farmacologico, la terapia individuale e la terapia familiare.

Nel 2008 sono stati pubblicati i primi risultati di un’indagine sul territorio nazionale (il progetto SIEP DIRECT’S) coordinata dal gruppo di ricerca di Lora, Semisa e Ruggeri, Università di Verona, e promosso dalla Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica allo scopo di verificare l’effettiva applicazione delle conoscenze scientifiche nei protocolli di cura dei pazienti schizofrenici.
Questo gruppo di ricercatori ha raccolto dati su 19 Dipartimenti di Salute Mentale rispetto a 41 parametri. Sarebbe interessante elencarli tutti, ma per rispondere al quesito in particolare sull’identificazione precoce e l’approccio integrato ci basta sapere che:
dei pazienti che si presentano ai Servizi di Salute Mentale ai primi segni di psicosi il 50% riceve cure inappropriate, il 28% riceve cure generiche, il 22% riceve le cure indicate dalle linee guida NICE (National Institute for Clinical Excellence), e solo il 16% viene preso in carico da personale ad hoc.

Le linee guida NICE prevedono infatti paramentri specifici quali:
(1) il monitoraggio dello stato di salute fisica del paziente (esami di medicina generale) – dal 26 al 50% sono monitorati per pressione arteriosa e glicemia, meno del 10% per colesterolo ed ECG;
(2) protocolli per pazienti multiproblematici (che hanno avuto più ricoveri, abbandonano il trattamento e vivono in condizioni di disagio sociale) – più del 50% riceve un piano specifico di assistenza sociale;
ma anche
(3) interventi psicologici individuali;
(4) attività rivolta alla famiglia;
(5) trattamenti farmacologici;
(6) schizofrenia resistente al cambiamento;
(7) il lavoro.

In particolare, come psicologi clinici, abbiamo voluto approfondire il peso degli interventi psicoterapici nel trattamento della psicosi osservando, grazie agli autori dell’indagine, che i pazienti che ricevono cure psicoterapiche nel nostro territorio sono ancora pochi. Il 60% dei centri infatti ha dichiarato che i pazienti non vengono trattati con psicoterapie individuali, mentre il restante 40% dei centri di Salute Mentale dichiara di trattare meno del 10% dei pazienti con psicoterapie individuali sia a breve termine, ovvero con almeno 3 sedute l’anno o a lungo termine cioè con 10 o più sedute l’anno.

Ci auguriamo che dal momento dell’indagine i dati siano cambiati, anche perchè negli ultimi cinque anni, gli strumenti a disposizione degli operatori di salute mentale come Psichiatri e Psicologi si sono moltiplicati, offrendo un più ampio ventaglio di possibilità di intervento.
Dagli studi più recenti infatti sono state dimostrate le evidenze di efficacia di trattamenti psicoterapici individuali di diversi orientamenti e che agiscono a differenti livelli, di cui faremo una breve carrellata, citandone i più rappresentativi.

Un primo cluster di studi riguarda la psicoterapia focalizzata sul benessere.
Uno study protocol pubblicato nel 2014 da Schrank, ad esempio, ha dimostrato sperimentalmente l’efficacia della WELLFOCUS – POSITIVE PSYCHOTHERAPY. La Psicoterapia positiva, già proposta da Seligman nel 2006, nasceva infatti come trattamento per la depressione e si è sviluppata dall’osservazione clinica sulla maggiore efficacia dell’incremento di emozioni positive, del coinvolgimento e dell’attribuzione di senso rispetto all’intervento sui sintomi depressivi.

Il tentativo di Schrank è stato quello di valutare se questo tipo di intervento potesse essere altrettanto valido per le psicosi ottenendo che, in un campione di 80 pazienti psicotici, il gruppo sperimentale otteneva alla valutazione finale maggiori livelli di benessere ma anche livelli più elevati di sollievo dai sintomi, emozionalità positiva, forza dell’Io, coerenza e significato.
Brownell (nel 2015) ha trovato inoltre che in un gruppo di 11 settimane, i pazienti psicotici apprendevano ad incrementare le esperienze piacevoli rafforzando i loro punti di forza, focalizzandosi su esperienze come il perdono e la gratitudine.

Un secondo cluster si è concentrata invece sugli aspetti cognitivi e metacognitivi.
Un recente studio (2015) di Mènon e colleghi ha affrontato quei casi di schizofrenia resistente al cambiamento in cui il trattamento farmacologico dimostra purtroppo una scarsa efficacia. L’autore ha sperimentato sia la Cognitive Behavioural Therapy for Psychosis sia il Meta-cognitive Training ottenendo un miglioramento nel funzionamento globale dovuto alla maggiore comprensione da parte del paziente dei meccanismi psicologici legati ai sintomi come deliri ed allucinazioni, attraverso l’incremento di strategie di esame di realtà e valutazione critica delle credenze. Anche Bargenquast (2015) in uno studio su caso singolo, con una psicoterapia individuale durata due anni, ha ottenuto che il miglioramento delle capacità di metacognizione hanno agito su una maggiore coerenza del senso del sé, diminuendo, fra le altre cose, la frequenza dei ricoveri.

Un terzo cluster si è concentrato invece sugli aspetti simbolici e di relazione.
Knafo (2015) sottolinea ad esempio su Psychoanalitic Psychology, come sia importante evitare che il trattamento sia medicalizzato. L’importanza data ai sintomi del paziente ed alla sua realtà di sofferenza sarebbe di per sé un atto terapeutico, nel riconoscimento dello stato emotivo e nella credibilità data alla realtà del soggetto.

Uno dei modelli psicoterapici contenuti in un volume pubblicato recentemente intitolato INNOVATION IN PSYCHOSOCIAL INTERVENTIONS FOR PSYCHOSIS, suggerisce infatti l’importanza di alcuni incontri preparatori alla psicoterapia, per facilitare il coinvolgimento e la motivazione del paziente al trattamento ed espone un modello di trattamento psicoterapico incentrato sulla Compassione. La Compassion Focused Therapy sarebbe infatti uno strumento elettivo nel ridurre i sentimenti di vergogna e la tendenza autocritica che caratterizzano l’esperienza psicotica.

In conclusione, il vantaggio di questi cluster di studi consiste indubbiamente nell’ampliamento delle possibilità terapeutiche del clinico, ma come tale non deve trasformarsi in un’ arma a doppio taglio. L’adesione rigida ad un protocollo o ad un’area esclusiva, sia essa affettiva, cognitiva o simbolica, rischia di incrementare proprio quella scissione su cui si cerca di intervenire.
Il clinico, come tale, è quindi il primo a dover compiere uno sforzo di integrazione, non solo come modello di lavoro (ovvero con l’intervento integrato) ma anche in quanto sano processo psichico.

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Più umani degli umani? Il senso della società negli scimpanzé

Tra i ricercatori biologi che hanno dedicato la loro carriera allo studio dei primati non umani vi è Frans de Waal. Leggere i risultati delle sue ricerche, che affrontano soprattutto il tema dei comportamenti sociali, vi lascerà a bocca aperta.

Sul fatto che gorilla e scimpanzé fossero molto simili a noi e avessero comportamenti spesso identici ai nostri, non avevamo dubbi! Eppure venire a conoscenza delle nuove scoperte in campo dell’etologia di questi primati è sempre sorprendente e affascinante.

Tra i ricercatori biologi che hanno dedicato la loro carriera allo studio dei primati non umani vi è Frans de Waal. Leggere i risultati delle sue ricerche, che affrontano soprattutto il tema dei comportamenti sociali, vi lascerà a bocca aperta.

Spesso, nel corso dei convegni, de Waal ama mostrare un vecchio video del 1936 in cui due scimpanzé, rinchiusi in una gabbia, devono tirare insieme una corda per portare una scatola con del cibo nella loro direzione. Ma cosa succede se uno dei due non ha fame o non è abbastanza motivato al compito? Viene subito riportato all’ordine dall’altro scimpanzè e si rimette a lavoro!

Seppur il video risalga a ricerche di quasi un secolo fa, i successivi studi, tra cui quelli di de Waal, non hanno fatto altro che confermare questo spiccato senso di cooperazione e organizzazione sociale tra i primati non umani.

Per esempio: sapevate che esistono delle somiglianze tra la nostra politica e la gerarchia dei primati? anche i maschi alfa hanno bisogno della loro coalizione, spesso formata dai due membri più anziani (e più saggi?) del gruppo. Ancora, si può parlare di conformismo non solo facendo riferimento al gruppo di pari giovani e ribelli in piena crisi adolescenziale, anche le scimmie sono esseri altamente conformisti: difronte a due modi diversi per risolvere lo stesso compito, i primati non umani tenderanno a optare per quello utilizzato dalla loro donna alpha e dal resto del loro gruppo.

E per quanto riguarda invece etica e moralità? de Waal mostra, attraverso un video, le reazioni delle scimmie cappuccino nel corso di uno studio sul senso di equità: come premio dopo aver svolto lo stesso compito, una scimmia cappuccino riceve un chicco d’uva (che le scimmie adorano) mentre l’altra riceve un pezzo di cetriolo (cibo che le scimmie mangiano ma senza esserne ghiotte). Come reagirà la seconda scimmia a tale inequità? Sarà chiaro anche per loro (al contrario di molti esseri umani) il concetto dell’importanza di essere trattati in modo equo e giusto?

Per conoscere i dati e avere maggiori informazioni sulle ricerche di de Waal vi consigliamo la lettura dell’articolo originale, nel frattempo divertitevi e meravigliatevi dinnanzi alla reazione della povera scimmia cappuccino che riceve il pezzo di cetriolo.

 

Now we’re getting very close to the human sense of fairness – he said – If you now ask me is the sense of fairness of a chimp different than the sense of fairness of humans, I really don’t know what the difference is.

Più umani degli umani? Il senso della società negli scimpanzé Consigliato dalla Redazione

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Numerosi studi, tra cui quelli di de Waal, confermano l’esistenza di uno spiccato senso di cooperazione e organizzazione sociale tra i primati non umani. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori. Gioco d’azzardo ma non solo – Report dal convegno (Parte III)

 

L’approccio sociale dei gruppi nasce con il metodo Hudolin e con l’applicazione nell’ambito dell’alcol, per poi essere trasposto a più situazioni di disagio: tabagismo, obesità, gioco d’azzardo, ecc.

Nella prima giornata del convegno: “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori”, al pomeriggio, c’è stata la possibilità di scegliere tra tre diversi workshop:
“Gioco d’azzardo ma non solo: le dipendenze comportamentali” (con Mauro Croce, Valeria Zavan, Paolo Jarre e Miriam Vanzetta)
“Rendere possibile il cambiamento: il Colloquio motivazionale con i clienti difficili” (con Gian Paolo Guelfi e Valerio Quercia)
“Alcol e tabacco, droghe legali: esperienze e strategie” (con Giovanni Aquilino, Antonio Mosti, Giovanni Forza, Federica Tognazzo, Giuliana Dell’Agnolo e Fausto D.P.)

Io ho partecipato al workshop “Gioco d’azzardo ma non solo: le dipendenze comportamentali” ed è questo che vi racconterò.
L’introduzione al workshop è stata di Paolo Jarre (Dipartimento Dipendenze ASL3, Piemonte) che parla di diversi tipi di dipendenze comportamentali e non, elencando numerosi articoli scientifici e diversi spunti tratti dall’attualità, tra i quali uno molto recente, ossia la prima sentenza di non imputabilità per sex addiction che risale al 20/05/2015.

Valeria Zavan (SerT di Novi Ligure), la seconda ad intervenire, non porta questioni scientifiche, pone invece un’attenzione critica verso il concetto di “nuove dipendenze comportamentali”. Le suddette dipendenze attualmente non beneficiano né di letteratura, né di classificazione, tantomeno di diagnosi nosografica. Il rischio pertanto è quello di patologizzare qualcosa che patologico non è. La relatrice è anche critica verso l’idea di “love addiction“, considerata come una nuova dipendenza ma che in effetti si accomuna in tutti gli aspetti al vecchio (risalente al 1987) concetto di codipendenza o dipendenza relazionale. Le caratteristiche della codipendenza, definite nel 1992, sono ad oggi in tutto e per tutto applicabili all’idea di love addiction: prendersi cura dell’altro; escludere il sè, la propria identità e centrare la vita sull’altro; sacrificare le proprie opinioni nella relazione; ecc. In questo senso quindi si può affermare che non vi è definizione condivisa nè accettata di dipendenza affettiva. Per di più, la relatrice sottolinea, quello della codipendenza è un problema trasversale a tutte le dipendenze ed anche per questo motivo tutti i gruppi di auto-mutuo-aiuto la dovrebbero considerare e trattare.

Di gruppi di auto-mutuo-aiuto ne parla più a fondo Miriam Vanzetta (Associazione AMA, Trento). L’approccio sociale dei suddetti gruppi nasce con il metodo Hudolin e con l’applicazione nell’ambito dell’alcol, per poi essere trasposto a più situazioni di disagio: tabagismo, obesità, gioco d’azzardo, ecc. Si tratta di piccole strutture gruppali volontarie, formate da pari, che operano per mutua assistenza. All’interno di questi gruppi chi ha il problema è portatore di risorse e ciò che si auspica è il cambiamento dell’individuo e del suo contesto. Tra gli obiettivi dei gruppi AMA vi è la possibilità di trovare un luogo di ascolto e di condivisione (senza giudizio), di ristabilire le relazioni familiari spesso sgretolate, di accettare le perdite subite e di creare una nuova rete sociale e amicale.

Mauro Croce (ASL VCO, Verbania) pone invece l’accento su com’è cambiato il “giocare” e i suoi scenari negli ultimi anni: se una volta il gioco era lento, rituale, sociale, manuale, visibile, contestualizzato, ad alta soglia d’accesso, complesso, la riscossione era differita, e vi era un periodo di sospensione; oggi i giochi sono veloci, consumistici, di solitudine, tecnologici, invisibili, globali, a bassa soglia d’accesso, estremamente semplici, con riscossione immediata e attivi 24 ore su 24. I giochi di oggi sono quindi più attraenti, più accessibili e per tutti questi motivi hanno più potenzialità d’addiction. Croce ci invita a riflettere anche su come le nuove tecnologie abbiano influenzato l’accessibilità del giocare: pensate a Facebook con Farmville, agli smartphone, alle pubblicità di quiz televisivi semplicissimi, e ai videogiochi dei bambini che hanno le sembianze di scommesse camuffate… e gli esempi non sarebbero finiti qui.

Ultimo ad intervenire è Paolo Jarre (Dipartimento Dipendenze ASL3, Piemonte) che espone il progetto “MenoMApiù” attivo presso il suo Dipartimento. Si tratta di un programma ambulatoriale intensivo per il trattamento degli appetiti innati esagerati. I percorsi all’interno di questo progetto non sono strettamente terapeutici ma puntano a fornire all’individuo delle rotte di apprendimento, una borsa per gli attrezzi per navigare nella vita quotidiana. Gli incontri durano una giornata intera e sono settimanali per dieci settimane consecutive. Sono stati proposti tre moduli: “Dal peso alla misura” (per il Binge Eating Disorder), “Guadagnarsi l’amore” (Sex Addiction) e “Amare senza amore” (Love Addiction, attualmente interrotto). Gli strumenti utilizzati sono il lavoro di gruppo, la CBT breve con i suoi strumenti, le terapie espressive (musicoterapia e arteterapia), l’attività corporea e l’educazione sanitaria.

Il workshop si conclude con l’intervento degli uditori che porta ad un interessante e proficua discussione circa i contenuti e i materiali esposti dai relatori.

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Autostima e stile attributivo: in che modo ci autovalutiamo?

OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il processo mediante cui l’individuo si autovaluta è dovuto anche alle attribuzioni causali. Detto in termini più semplici le persone spesso cercano di spiegarsi un evento collegandolo ad una causa. Sovente si tende ad attribuire un successo raggiunto ad una causa esterna alla persona, quale potrebbe essere la fortuna, oppure ad una causa interna, come ad esempio la tenacia.

[blockquote style=”1″]Ci sono due modi di vivere la vita. Uno è pensare che niente è un miracolo. L’altro è pensare che ogni cosa è un miracolo.[/blockquote]
(Albert Einstein)

Il celebre aforisma di Albert Einstein evidenzia il concetto, piuttosto noto, del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, visto da uno dei due punti di vista a seconda del nostro stato d’animo, del nostro umore, della nostra prospettiva personale di vedere le cose, del nostro carattere.
Ricordando anche che il modo personale di percepire gli eventi secondo un’ottica positiva o negativa è in parte influenzato dall’autostima.

Definire il costrutto di autostima non è semplice, in quanto si tratta di un concetto che ha un’ampia storia di elaborazioni teoriche. Una definizione concisa e condivisa in letteratura potrebbe essere la seguente: “Insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994).

Tre elementi fondamentali ricorrono costantemente in tutte le definizioni di autostima (Bascelli, 2008):
1. La presenza nell’individuo di un sistema che consente di auto – osservarsi e quindi di auto – conoscersi;
2. L’aspetto valutativo che permette un giudizio generale di se stessi;
3. L’aspetto affettivo che permette di valutare e considerare in modo positivo o negativo gli elementi descrittivi.

Una prima definizione del concetto di autostima si deve a William James (cit. in Bascelli e all, 2008), il quale la concepisce come il risultato scaturente dal confronto tra i successi che l’individuo ottiene realmente e le aspettative in merito ad essi (autostima = successo / aspettative).
Alcuni anni dopo Cooley e Mead espongono il concetto di autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.

Perché infatti l’autostima di una persona non scaturisce esclusivamente da fattori interiori individuali, ma hanno una certa influenza anche i cosiddetti confronti che l’individuo fa, consapevolmente o no, con l’ambiente in cui vive. A costituire il processo di formazione dell’autostima vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.
Il sé reale non è altro che una visione oggettiva delle proprie abilità; detto in termini più semplici corrisponde a ciò che noi realmente siamo.
Il sé ideale altro non corrisponde che a come l’individuo spera e vorrebbe essere. L’autostima scaturisce per cui dai risultati delle nostre esperienze confrontati con le aspettative ideali. Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di noi stessi.
Un esempio a riguardo potrebbe essere quello di una ragazza che vorrebbe essere alta e magra come una modella, quando invece in realtà è bassa e cicciottella. In questa caso la sua autostima sarà presumibilmente bassa.

La presenza di un sé ideale può essere uno stimolo alla crescita, in quanto induce a formulare degli obiettivi da raggiungere, ma può generare insoddisfazioni ed altre emozioni negative se lo si avverte molto distante da quello reale.
Per ridurre questa discrepanza l’individuo può ridimensionare le proprie aspirazioni, e in tal modo avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).

Possedere un’alta autostima è il risultato di una limitata differenza tra il sé reale e il sé ideale. Significa saper riconoscere in maniera realistica di avere sia pregi che difetti, impegnarsi per migliorare le proprie debolezze, apprezzando i propri punti di forza. Tutto ciò enfatizza una maggiore apertura all’ambiente, una maggiore autonomia e una maggiore fiducia nelle proprie capacità.
Le persone con un’alta autostima dimostrano una maggiore perseveranza nel riuscire in un’attività che le appassiona o nel raggiungere un obiettivo a cui tengono e sono invece meno determinate in un ambito in cui hanno investito poco. Si tratta di persone più propense a relativizzare un insuccesso e ad impegnasi in nuove imprese che le aiutano a dimenticare.

Quando la stima di sé è alta l’individuo passa molto frequentemente all’azione, rallegrandosi di fronte a un successo e relativizzando un eventuale fallimento.  Al contrario, una bassa autostima scaturisce da un’elevata differenza tra sé ideale e sé percepito. Questa discrepanza può condurre a una ridotta partecipazione e a uno scarso entusiasmo, che si concretizzano in situazioni di demotivazione in cui predominano disimpegno e disinteresse. Vengono riconosciute esclusivamente le proprie debolezze, mentre vengono trascurati i propri punti di forza. Spesso si tende a evadere anche dalle situazioni più banali per timore di un rifiuto da parte degli altri. Si è più vulnerabili e meno autonomi. Le persone con una bassa autostima si arrendono molto più facilmente quando si tratta di raggiungere un obiettivo, soprattutto se incontrano qualche difficoltà o sentono un parere contrario a ciò che pensano.

Si tratta di persone che faticano ad abbandonare i sentimenti di delusione e di amarezza connessi allo sperimentare un insuccesso. Inoltre, di fronte alle critiche, sono molto sensibili all’intensità e alla durata del disagio provocato. Quando la stima di sé è bassa, l’individuo passa raramente all’ azione, dubitando di fronte ad un proprio successo e sottovalutandosi di fronte ad un fallimento.

Ma quali sono le fonti dell’autostima? O meglio: cosa concorre a far sì che un individuo si valuti positivamente o negativamente?
Come già detto non sono semplici fattori individuali a costituire l’autostima di una persona, bensì ci si autovaluta in merito a tre processi fondamentali:

1. Assegnazione di giudizi da parte altrui, sia direttamente che indirettamente.
Si tratta del cosiddetto “specchio sociale”: mediante le opinioni comunicate da altri significativi noi ci autodefiniamo.
Pare che gli individui alimentino la propria autostima sulla base della fiducia nelle opinioni di chi li giudica favorevolmente.
Una rilevanza evidente le hanno in questo processo anche le valutazioni indirette, ossia la possibilità di imparare a valutare se stessi a seconda del comportamento degli altri nei propri confronti.

2. Confronto sociale: ovvero la persona si valuta confrontandosi con gli altri che la circondano e da questo confronto ne scaturisce una valutazione.
L’esponente principale in merito a ciò è stato Festinger (1954), il quale ha sostenuto che in ogni individuo c’è un’esigenza di valutare azioni e capacità personali e, nel momento in cui i criteri soggettivi di valutazione sono assenti, si tende a valutare se stessi confrontandosi con altri, solitamente soggetti ritenuti simili.

3. Processo di autosservazione: la persona può valutarsi anche autosservandosi e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri. Kelly (1955) considera ogni persona uno “scienziato” che osserva, interpreta e predice ogni comportamento, costruendo così una teoria di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.

Il processo mediante cui l’individuo si autovaluta è dovuto anche alle attribuzioni causali. Detto in termini più semplici le persone spesso cercano di spiegarsi un evento collegandolo ad una causa.
Sovente si tende ad attribuire un successo raggiunto ad una causa esterna alla persona, quale potrebbe essere la fortuna, oppure ad una causa interna, come ad esempio la tenacia.

Weiner, nel 1994, ha affermato che le attribuzioni possono essere distinte in base a tre dimensioni:
Locus of control: ossia se la causa di un successo (o di un fallimento), sia interna o sterna alla persona;
Stabilità: per cui le cause possono essere stabili o instabili nel tempo (per esempio la facilità del compito è stabile, al contrario la fortuna è instabile);
Controllabilità: non tutte le cause possono essere controllate dal soggetto.

Pare che l’attribuzione a cause stabili, controllabili e interne all’individuo abbia, in caso di raggiungimento di un successo, un innalzamento dell’autostima nell’individuo.
Di contro l’attribuzione a cause esterne a sé, instabili e poco controllabili portano ad un calo dell’autostima e della fiducia in se stessi.

Naturalmente avere un’alta stima di sé è piacevole ed aiuta a vivere meglio.
Maslow percepisce l’autostima come uno dei cinque bisogni fondamentali dell’individuo. Per egli il bisogno di autostima deve essere appagato affinché non vengano ostacolati i bisogni più elevati di autorealizzazione.
Pertanto le percezioni di sé sono importanti fonti motivazionali.

Svariate ricerche hanno messo in luce che gli individui tendono a svolgere tutte quelle attività che consentono di avvicinare il più possibile il sé reale al sé ideale. Per esempio, un ragazzo che aspira a diventare un culturista palestrato, sarà motivato in tutta quell’attività fisica che gli consentirà di divenire ciò (Baumeister e all, 2003).
Una discrepanza fra le personali valutazioni del sé reale e del sé ideale si viene a creare quando la persona si valuta e si concepisce meno adeguato rispetto a ciò che vorrebbe essere. In questo caso l’autostima è bassa con conseguenti emozioni associate di tristezza e insoddisfazione. Ciò potrebbe condurre ad uno scarso entusiasmo, che si concretizza in demotivazione e disinteresse.

Beck (1967) mette in luce che proprio la bassa autostima è una caratteristica tipica dei depressi. Essi infatti sperimentano vissuti legati al timore di fallimento, hanno basse aspettative di riuscita che conducono scarsa tenacia e demoralizzazione. Si tratta della visione del cosiddetto “bicchiere mezzo vuoto”.

Alla luce di queste considerazioni si evince quindi che l’autostima è un concetto complesso che viene a formarsi sulla base di varie fonti, sulla base delle quali l’individuo si valuta e si attribuisce un voto. Senza dimenticare che si tratta di un costrutto multidimensionale, nel senso che il soggetto può valutarsi differentemente anche in merito alle situazioni in cui si trova a vivere; per esempio è possibile che un individuo abbia un’alta stima di sé sul luogo del lavoro, dove ciò che egli realmente è si avvicina notevolmente al sé ideale, di contro potrebbe valutarsi negativamente nell’ambito dei rapporti interpersonali, dove magari potrebbe aspirare a volere qualcosa di più rispetto a ciò che egli possiede realmente .

In conclusione appare chiaro che l’autostima si sviluppa tramite un processo individuale ma anche interattivo – relazionale e può essere concettualizzata come uno schema cognitivo – comportamentale che viene appreso man mano che gli individui interagiscono con gli altri e con l’ambiente (Bracken, 2003).

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La mia autostima: come svilupparla nei bambini? – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze: il cervello degli adolescenti sovrappeso alla vista del junk food

FLASH NEWS

Uno studio pubblicato su Cerebral Cortex dimostra che spot televisivi che pubblicizzano cibi non salutari (fritti e grassi) sono in grado di attivare esageratamente negli adolescenti in sovrappeso alcune aree cerebrali legate alla ricompensa, al gusto e addirittura parti della corteccia somatosensoriale deputate al controllo della bocca.

L’ipotesi supportata dallo studio dunque suggerisce che i soggetti – in sovrappeso- simulino mentalmente abitudini alimentari non sane.

Utilizzando la risonanza magnetica funzionale, i ricercatori hanno esaminato le attivazioni cerebrali alla vista di spot pubblicitari di cibo in un gruppo di adolescenti (dai 12-16 anni di età) sovrappeso e in un gruppo di adolescenti normopeso. I risultati hanno mostrato che vi sarebbero attivazioni comuni a entrambi i gruppi (normopeso vs. sovrappeso) alla visione di spot riguardanti il cibo rispetto a spot di altra natura (ad esempio, le regioni cerebrali coinvolte nella regolazione dell’attenzione e della ricompensa). Tuttavia il risultato degno di interesse è nel confronto tra gruppi di soggetti: gli adolescenti in sovrappeso presentano attivazioni maggiori nella corteccia orbito-frontale e nelle regioni associate alla percezione del gusto.

E inoltre, in questo gruppo gli spot pubblicitari di cibo attiverebbero anche la regione somatosensoriale deputata al controllo dei movimenti della bocca.

In altre parole, tali risultati supportano l’ipotesi simulativa secondo cui gli adolescenti in sovrappeso simulano mentalmente abitudini alimentari non salutari in risposta a determinati stimoli visivi. In tal senso se pensiamo che l’alimentazione non salutare comporta sia un desiderio iniziale che un piano motorio mentale per attuare poi effettivamente il comportamento disfunzionale (assumere alimenti dannosi), allora ha senso ipotizzare di lavorare non solo sul desiderio ma anche sulla seconda componente di questo complesso processo.

Studi futuri potrebbero considerare l’intervento su questi meccanismi simulativi disfunzionali in generale nella pianificazione delle diete e nel trattamento dell’obesità.

 

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Obesità nei bambini: il cervello si attiva diversamente quando il sapore è dolce

 

BIBLIOGRAFIA:

Atterraggio di emergenza a Torino: sfiorata la tragedia. Il racconto del terapeuta

Volo BlueAir Torino-Catania del 7 giugno. Scoppia una gomma in fase di decollo, atterraggio di emergenza.

Consapevolezza e Felicità per il Terapeuta

Atterraggio di emergenza a Torino - Foto La Stampa

Durante il viaggio di ritorno da Torino, verso Catania, ho vissuto un’esperienza che vorrei, sinteticamente, narrare e commentare in quanto molto attinente al tema del Congresso SITCC e, soprattutto a quanto presentato e discusso nell’ultima plenaria (Felicità e Consapevolezza del Terapeuta). Mentre la seguivo, non sapevo che, da lì a poche ore, avrei vissuto una esperienza importante, in grado di costringermi a riflettere sui temi della plenaria stessa.

 

La dinamica dell’incidente in fase di decollo

I fatti (in estrema sintesi), sono i seguenti. Durante il rullaggio, per il decollo, esplode un pneumatico ed i frammenti schizzano verso l’ala dell’aereo, danneggiandola. Il carrello rientra nel suo alloggiamento, con fragore e vibrazioni. L’aereo non prende quota e continua a girare in tondo sopra Torino.

Sono un appassionato ed esperto di volo, di aerei, di avionica ed un patito di serie tv sul tema, quali indagini ad alta quota. So tutto dei maggiori disastri e, quindi, attuo subito una ricostruzione mentale. Dinamica dell’incidente simile a quella dell’ultimo volo del Concorde. Aeroporto Charles De Gaulle, un pneumatico esplode ed i frammenti colpiscono l’ala; i serbatoi prendono fuoco e… il resto, purtroppo, è ben noto!

 

Allora comincio ad annusare l’aria. Come un cane da caccia, allargo le narici e aspiro molecole con particolare intensità; non avverto alcun odore di bruciato! Bene!

Guardo dal finestrino (lato del botto) e non si vedono fiamme. – Benissimo! – Allora mi dico: –Il nostro problema sarà, dunque, “solo” l’atterraggio di emergenza!- A questo punto, in grave ritardo rispetto agli eventi, il pilota si fa vivo, gracchiando nell’interfono: – Abbiamo avuto un problema tecnico e dobbiamo rientrare a Torino! State calmi è tutto sotto controllo-. –Balle!- Mi dico e ho ragione! Infatti, dopo poco, due imbranatissime hostess si buttano a quattro piedi, in cabina e, carponi, cominciano a cercare qualcosa, sollevando lembi di moquette, sotto i piedi dei viaggiatori che devono spostarsi. Gli altri passeggeri inorridiscono ma io li rassicuro, almeno  quelli vicini a me  (le hostess non spiegano nulla, sono confuse ma non certo felici, per citare Carmen Consoli, mia cantantessa preferita, come me, catanese doc!).

Così tocca a me spiegare che stanno cercando (ma dovrebbero saperlo a colpo sicuro, quindi, mi dico, – Deficit di addestramento, speriamo i piloti siano meglio!-) la botola per l’ispezione del carrello ed eventualmente il martinetto per la discesa a mano del carrello stesso. Ebbene non riescono a trovare la botola e così arriva il secondo pilota, cereo e alterato. Va a colpo sicuro (meno male!) apre la botola e poi se ne torna, correndo, in cabina. Ci dice che atterreremo entro 15 minuti. Ancora balle!

Infatti giriamo intorno per altri 80 minuti, prima di attuare un passaggio radente sulla pista dove vedo schierati tantissimi automezzi dei pompieri e gente in tuta che ci fotografa. Non era per voyeurismo; stavano fotografando quel che restava del carrello per dare al pilota informazioni sull’assetto da tenere all’atterraggio (praticamente caricando la maggior parte dell’impatto sul carrello indenne).

Il punto ora  è che io sapevo e capivo, quindi ero consapevole. Mi rappresentavo l’ipotesi concreta che potevamo morire!

Quando un carrello è danneggiato, può succedere di tutto. Dal collasso dell’ala che striscia sulla pista e prende fuoco al crash della carlinga. La gente a bordo, invece, non sapeva nulla e si limitava ad essere terrorizzata, non riuscendo ad immaginare nulla di preciso, in merito a cosa ci attendesse. Nessuno dell’equipaggio ci diceva niente!

Ecco allora una domanda, in merito, di interesse scientifico: cosa si dovrebbe fare a riguardo? Io credo che sarebbe giusto informare, sottolineando le notevoli possibilità di passarla liscia ma anche i rischi dell’impatto. Infatti io e Wiola siamo stati gli unici ad assumere la corretta posizione anti-crash mentre gli altri (per meglio dire alcune “altre”) se ne restavano con tacchi a spillo ed occhiali inforcati guardandoci sbalordite/i e, alla fine, imitandoci per pura scaramanzia. Se avessimo dovuto abbandonare in fretta l’aereo, i tacchi a spillo vi sembrano una buona opzione?

Fortunatamente l’atterraggio avviene positivamente. Il carrello danneggiato tiene, il contatto col suolo è abbastanza morbido, nessuna scintilla e nessun focolaio di incendio, anche se siamo inseguiti e subito attorniati, sulla pista, dalle autopompe dei pompieri che salgono velocemente a borgo. Pericolo di incendio scongiurato!

 

Brevissime riflessioni sui temi di interesse psicologico:

Consapevolezza: sapevo che potevo morire e questa è un condizione interessante perché ti stimola intense attività di auto-osservazione, metacognizione e ricostruzione narrativa. Sai che c’è? Scopro (ma non è la prima volta che mi accade) di non avere nessuna paura di morire! Sono soddisfatto di quello che ho realizzato e di quanto vissuto. Figlie grandi, un nipote alle elementari, un altro nipote in arrivo; Wiola al mio fianco. Va bene così! Forse mi evito il Parkinson e l’arteriosclerosi!

Scopro, grazie a questa esperienza, che cosa realmente mi fa più paura, e cioè ferite e/o ustioni che mi blocchino a letto con tutte le cose da fare. Allora i miei pensieri automatici (disfunzionali ??) sono: o illeso o morto, preferirei così! Non sono credente e quindi non posso appellarmi a nessun Potere Superiore. Come ricercatore, penso alle statistiche che mi danno almeno un 50% di chances, come alla roulette, quando punti sul rosso. Mi limito alla speranza (basata sul calcolo delle probabilità) e punto tutto sull’uscirne illeso. Quindi siamo al secondo tema.

Speranza: E’ uno sballo! La speranza (da ricercatore, appassionato di computo della probabilità e di “p”) di non lasciarci le penne, sulla base del calcolo statistico (almeno il 50% di probabilità) mi ha sostenuto ed incoraggiato. In fondo era come essere al casinò: il rosso vince, il rosso perde! Bene io punto sul rosso e…

Felicità: In questo caso è stata raggiunta semplicemente col rimettere i piedi a terra, dopo aver temuto di finire al cimitero o in ospedale. Felicità perfetta essere vivi, sentirsi di nuovo proprietari di un futuro da spendere in sogni e progetti, accanto ad una donna meravigliosa, stella dell’Est, che mi ama e che, con coraggio e dignità, ha vissuto con me la stessa esperienza (c’erano persone, uomini e donne, che piangevano con lacrimoni e singhiozzavano!) . Si, questo è stato un momento di felicità, la felicità delle cose normali (essere vivi, in salute, avere conoscenza, soldi – pochi- ma sufficienti) e farsi una risata liberatoria. Still alive, caz…!

Amore: Beh lo so, questo non era il tema dell’ultima tavola rotonda plenaria ma c’era, al Congresso,  un workshop di Francesco Aquilar. L’amore per Wiola e la sua presenza sono stati il mio must. Un uomo vale quanto la donna che le sta accanto, credo! Vederla serena, composta, riservata ma anche lei consapevole (appassionata come me di volo e di viaggi, segue anche lei, indagini ad alta quota), è stato troppo bello e mi ha reso ancora più innamorato ed orgoglioso di Lei!

Condivisione ed amicizia: Sullo stesso volo c’era Michele Spada, neo didatta SITCC e vecchio amico siculo. Questa esperienza ci ha fatto sentire più vicini e solidali. Patire insieme incrementa l’empatia (simpatia, in greco antico, letteralmente; quindi, siamo diventati più simpatici l’uno all’altro!).

Narratizzazione

Dalla notte dei tempi, raccontare i pericoli, affrontati e scampati (certo, se si muore, c’è poco da narratizzare!) è un esercizio che gli uomini amano attuare e che ha dato luogo a lunghe serate di racconti intorno al fuoco, a partire dal paleolitico, confluiti poi nei poemi, come quelli omerici, e, in Sicilia, più recentemente, per esempio, nella chanson de geste, che sono alla base della cultura occidentale, ma, anche, di molte orientali. In fondo, questo schema narrativo è semplice ma perfetto e, soprattutto, molto efficiente. C’è un eroe, un grave pericolo ed una donna (possibilmente dagli occhi azzurri ed i capelli biondi, perché quelle con i capelli scuri e gli occhi verdi, stile Circe, sono maliarde pericolose da scansare e da cui guardarsi! Colleghe escluse, naturalmente! Sto parlando  di miti ed archetipi, non di realtà!). Con questi pochi ingredienti sono state scritte migliaia di storie di successo!

Però, ora parliamo di narrativa in psicoterapia. Narrare quel che si è patito, magari con un po’ di enfasi epica, e valorizzazione del proprio ruolo, aumenta l’autostima, la mastery e mette al riparo dagli esiti post-traumatici negativi.

Così, ma ci è venuto spontaneo, nei due giorni successivi all’incidente, non abbiamo fatto altro, con Wiola, di parlare di quanto successo, di quanto provato, di quanto osservato nei nostri compagni di avventura, di come abbiamo reagito et cetera, per non parlare dei racconti e condivisioni con gli amici, sui social e sulle mailing list!

 

In conclusione, dunque, penso che, quando sei nei guai, avere informazioni, le più accurate possibile, aiuti. Accettare l’ipotesi di poter morire o subire lesioni, durante un evento traumatico e/o, quando meno te lo aspetti, è un importante goal della vita.

Si vis pacem para bellum– dicevano i nostri saggi antenati Romani. Vorrei parafrasare in: Si vis bonam vitam noli mortem timere! Spero che il mio latino regga ancora!

 

Tullio Scrimali

Università di Catania e Scuola ALETEIA, Enna

 

 

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Intervista con Tullio Scrimali - Psicoterapia Psichiatria Psicoterapia: intervista a Tullio Scrimali – I Grandi Clinici

Manipolare la realtà onirica: il fenomeno dei sogni lucidi

Nei sogni lucidi il soggetto che dorme è consapevole di sognare e riesce così a esercitare un controllo mentale sulle azioni e sulle situazioni oniriche.

Quante volte ci siamo trovati in situazioni dalle quali era difficile scappare, o eravamo inseguiti da malintenzionati armati o, ancora, quante volte abbiamo svolto l’esame di maturità senza essere preparati? Ci siamo però poi svegliati e abbiamo pensato Per fortuna era solo un sogno!

Il sogno è un fenomeno psichico legato al sonno, in particolare alla fase REM, caratterizzato da immagini e suoni che per il soggetto sognante sono vissuti come reali.

Capita a volte, infatti, di vivere situazioni oniriche così intensamente che quasi ci è difficile distinguerle dalla realtà e, talvolta, le emozioni provate durante il sogno influenzano l’umore della nostra intera mattinata o giornata. Ci sono persone però che riescono a controllare le loro azioni nei sogni, perché consapevoli di star sognando: questi soggetti sono dunque in grado di poter effettuare qualsiasi azione desiderino nel loro mondo onirico tra cui volare e usare poteri sovrannaturali.

Questo fenomeno viene indicato con la definizione sogni lucidi: quei sogni, dunque, in cui il soggetto che dorme è consapevole di sognare e riesce così a esercitare un controllo mentale sulle azioni e sulle situazioni oniriche.

Vi sono soggetti che ammettono anche di riuscire a combattere i loro problemi d’ansia grazie ad esperienze di sogni lucidi: attraverso la volontaria e controllata esposizione, durante il sogno, a situazioni di vita temute, queste non saranno più fonte di stress nella loro vita reale.

Insomma…se Freud sosteneva che il sogno fosse la realizzazione allucinatoria, durante il sonno, di un desiderio rimasto inappagato durante la vita diurna, i sognatori lucidi sanno molto bene come soddisfare il loro inappagato desiderio!

Come emerge da alcuni studi, gran parte della popolazione dichiara di aver fatto esperienza di sogni lucidi almeno una volta nella vita. Tra i più importanti ricercatori sul tema vi è lo psicofisiologo Stephen LaBerge, il quale ha effettuato studi, non privi di numerose controversie, sulle esperienze di sogni lucidi in appositi laboratori del sonno.

Per saperne di più, soprattutto dal punto di vista di chi vive queste esperienze, vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato, in cui è riportata un’interessante intervista a un sognatore lucido. Chissà potreste scoprirvi dei sognatori lucidi anche voi! 

 

When I’m asleep, I’m aware that I’m dreaming. I find myself flying, running, exploring, or playing in a virtual reality where I have some control over aspects of the scene and setting. This dream leaves impressions that are as strong or even stronger than anything I experience when I’m awake. It’s fascinating and it’s extremely powerful and it’s all in my own mind.

Manipolare la realtà onirica: il fenomeno dei sogni lucidi Consigliato dalla Redazione

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Nei sogni lucidi il soggetto che dorme è consapevole di sognare e riesce così a esercitare un controllo mentale sulle azioni e sulle situazioni oniriche. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Infinite diversità nello spettro autistico – Report dal Congresso

Il 28 e 29 maggio si è svolto presso il collegio internazionale Seraphicum, Roma, un viaggio di andata e ritorno alla scoperta delle persone con disturbi che rientrano nello Spettro Autistico.

Questo viaggio è stato guidato sapientemente da Tony Attwood, psicologo clinico inglese, di scuola cognitivo-comportamentale, che esercita a Brisbane, in Australia. Attwod negli ultimi 30 anni si è specializzato nel trattamento delle persone Asperger e dello Spettro Autistico. In questi due giorni Attwood ha utilizzato un linguaggio semplice e diretto e si è preso cura del suo pubblico fatto di familiari, educatori, psicologi e logopedisti traghettandolo alla scoperta di strategie e modalità di intervento per poter rendere un bambino con autismo un adulto indipendente. Il lavoro di questi giorni ci ha permesso di apprendere diversi strumenti da mettere nella nostra cassetta degli attrezzi per poter supportare i bambini e i ragazzi autistici nel miglioramento delle loro capacità comunicative e delle loro abilità sociali.

Diversi sono gli aneddoti raccontati da Attwood in questi due giorni tra cui il racconto di un ragazzo ormai adolescente che in colloquio dice : “Non si lancia il cane dalla finestra!”….. Frase apparentemente senza senso che per il ragazzo ha oggi il valore di regola e norma da rispettare assolutamente. Ma da dove arriva questa regola? Quello che serve è forse cambiare prospettiva e tutto diventerà più chiaro. New York, grattacielo, appartamento al 5 piano, peluche di animali e un bambino curioso che li prova a lanciare dalla finestra per vedere che cosa accade, e la madre che arriva in cucina proprio mentre sta lanciando il cane di pezza e allora da qui “Non si lancia il cane dalla finestra”, che da frase legata ad un episodio specifico per quel bambino è diventata una regola assoluta di vita, che il ragazzo asperger ripete ad anni di distanza dal fatto accaduto.

Tempi differenti, modalità diverse di espressione delle emozioni, tipo di pensiero che si allontana dagli standard dei normotipici sono tra le peculiarità di chi vive la sindrome di Asperger. Vive perché, come fa notare A. Attwood, non si soffre di sindrome di Asperger, si soffre delle difficoltà che si incontrano nell’essere capiti e accolti dagli altri. Nel quadro che l’americano, ormai di adozione Austrialiana, dipinge la terapia di maggiore successo risulta essere quella cognitivo comportamentale.

Grazie all’approccio tipico della CBT diventa infatti immaginabile e possibile intervenire sugli apprendimenti che costano maggiore fatica a soggetti Asperger. Durante gli anni ’90 la CBT (Cognitive Behaviour Therapy) è stata adattata da Tony Attwwod allo spettro autistico. [blockquote style=”1″]Le terapie cognitive-comportamentali sono disegnate per le persone tipiche e quelli con l’Asperger hanno un cervello collegato in modo diverso, non sbagliato, ma diverso. Queste psicoterapie sono state elaborate per persone tipiche che hanno l’abilità di esplorare, descrivere e analizzare i propri pensieri e sentimenti in modo intuitivo, ma per le persone Asperger non è così facile. Quello di cui c’è bisogno sono psicoterapeuti che realmente comprendano questo diverso modo di pensare e le diverse esperienze di vita e come adattare queste terapie per gli Asperger[/blockquote] in questo modo Attwood spiega come adattare gli intevernti CBT alle persone con caratteristiche Asperger.

Muoversi in contesti sociali, capire le emozioni e leggere i segnali non verbali sono infatti abilità che non si sviluppano in modo innato o grazie ad apprendimenti per esperienza. I soggetti Aspie hanno bisogno di essere istruiti, hanno bisogno che gli sia spiegato come interagire con gli altri. Il cambiamento dei comportamenti istintivi riesce a consentire, a soggetti ad alto funzionamento, un inserimento reale e concreto nelle realtà sociale. Il costo, in termini di fatica vera e propria, rimane però alto. La tentazione di rispondere alla moglie che chiede se è grassa con un: “non sei grassa, sei obesa, il tuo indice di massa corporea supera…..” richiede uno sforzo cognitivo. È necessario ricordarsi che le norme sociali alle volte si scontrano con l’estrema schiettezza ed onestà e richiedono la capacità di prendere in considerazione l’effetto che le nostre parole hanno sugli altri.

E allora partiamo proprio da qui, dalle dieci cose essenziali che un adulto che si relaziona con un bambino che soffre di questo disturbo dovrebbe tenere a mente:

Io sono un bambino
I miei sensi non si sincronizzano
Distingui fra ciò che non voglio fare e non posso fare
Interpreto il linguaggio letteralmente
Fai attenzione a tutti i modi in cui cerco di comunicare
Fammi vedere! Io ho un pensiero visivo
Concentrati su ciò che posso fare, non su ciò che non posso fare
Aiutami nelle relazioni sociali
Identifica che cos’è che innesca le miei crisi
Amami incondizionatamente

Nella prima giornata di lavori Attwood si è soffermato sulle caratteristiche e sulle difficoltà che un soggetto Asperger incontra, in particolare si è soffermato su 8 dimensioni centrali, portando esempi clinici e racconti di vita, che ci hanno permesso davvero di comprenderne il significato e il senso:

La Comprensione sociale

Le Abilità comunicative

La Sensibilità sensoriale

L’ Ansia (come affrontarla? Impariamo insieme le tecniche cognitive, il rilassamento, la mindfulness e a fare attività fisica)

La resistenza al cambiamento

Il Livello di sviluppo cognitivo

Il Profilo di apprendimento

I Disturbi motori

Il taglio dei capelli è sempre stato un evento cruciale. Facevano male! Per cercare di calmarmi i miei genitori dicevano che i capelli sono morti e non avevano sensibilità. Era impossibile per me comunicare che la trazione del cuoio capelluto stava causando il disagio” Stephen Shore
intensamente assorta, con il movimento di una moneta o un coperchio che ruotava non vedevo o sentivo nulla. Le persone intorno a me erano trasparenti e nessun suono si intromettava nella mia compulsione. Era come se fossi sorda”, ecco alcune frasi tratte dall’esperienza clinica di Attwood.

La giornata si è conclusa ragionando sulle difficoltà e sui punti di forza della persona con Asperger nell’intrattenere relazioni sociali, e nel gestire le relazioni amicali. Per fare questo abbiamo visto come e in che modo i soggetti normotipici intrattengono e mantengono le relazioni interpersonali e per ogni blocco di età l’abbiamo confrontato con le modalità delle persone Asperger.

Durante la seconda giornata Tony Atwood ci ha presentato poi il programma e la struttura clinica del suo centro raccontandoci in dettaglio e con strumenti operativi e pratici alcuni dei progetti e dei programmi attualmente attivi, ci ha portato a ragionare sull’area tematica e sui contenuti dei singoli incontri. I temi principali sono: depressione, relazioni amicali e bullismo, affettività e sessualità e gestione dell’ansia.

Durante la mattina c’è stato anche il tempo di ragionare sulla sessualità dei ragazzi Asperger, sui rischi, sul mancato confronto coi pari come strumento protettivo e orientativo rispetto alle scelte, sull’uso della pornografia come “ tutor” e come attività che risponde alla caratteristica di isolamento sociale e di rifugiarsi nell’immaginazione tipica di questi soggetti.

Il pomeriggio di venerdì è stato dedicato al trattamento della depressione secondo il protocollo CBT adattato per soggetti Asperger. Come nella giornata precedente molto utili sono stati gli strumenti operativi e gli esempi di casi clinici. Si parte da questa definizione [blockquote style=”1″]la depressione è la sorella gemella dell’ansia, giocano insieme nella mente, raccogliendo energia mentale rubandola alle cose che vogliamo fare e pensare[/blockquote] per passare alla descrizione dei programmi CBT per i bambini e gli adulti con Sindrome di Asperger, che si dividono in più fasi.

La prima fase riguarda l’educazione cognitiva e affettiva, durante la quale i partecipanti imparano a conoscere le emozioni, ed è strutturata in discussioni ed esercizi sulla connessione tra cognizione, sentimento, comportamento, sensazioni fisiche ed il modo in cui ogni individuo concettualizza le emozioni e percepisce le varie situazioni. La fase successiva riguarda la ristrutturazione cognitiva ed include un programma di attività per mettere in pratica le nuove abilità acquisite. La ristrutturazione cognitiva modifica concetti e credenze disfunzionali. I partecipanti vengono incoraggiati a stabilire ed esaminare le prove sia contro che a favore delle proprie emozioni e dei propri pensieri per poi creare una nuova percezione di un evento specifico. Viene fornito un programma di attività con difficoltà crescente che permette ai partecipanti di esercitare le nuove abilità acquisite.

Ma quali sono le ragioni per una persona Asperger di sentirsi triste? Solitudine, essere rifiutati, essere vittima di bullismo, sentirsi sempre in ansia, essere annoiato, troppi cambiamenti nella propria vita, non avere abbastanza strategie per essere di nuovo felice sono solo alcuni dei motivi rintracciati da Attwood. Inoltre fattori come l’isolamento sociale, la mancanza di relazioni amicali significative, la bassa autostima, la difficoltà ad esprimere emozioni e pensieri, la disconnessione tra mente e corpo e la difficoltà a rispondere alla felicità altrui, prolungano lo stato depressivo e ne aumentano l’intensità. Anche in questo caso Attwood ci descrive il programma di esplorazione alla depressione attivo nel suo centro e ce ne spiega le fasi operative.

1. Qualità e abilità: quali sono le caratteristiche positive della persona, quali i punti di forza e di vulnerabilità?
2. Che cos’è la depressione? Dove introduce il concetto di contabilità energetica, facendo ragionare i partecipanti su quali sono le attività che a loro costano in termini di energia e quali attività li ricaricano.
3. Strumenti per combattere la depressione. Quali strumenti è possibile mettere dentro la nostra cassetta degli attrezzi personale? Strumenti di autoconsapevolezza, fisici, di pensiero, di rilassamento e di mindfulness che vengono insegnati ai partecipanti.
4. L’arte come forma espressiva
5. Avere un piano di emergenza: in questa fase i partecipanti ragionano e costruiscono la loro rete di sicurezza, si creano un piano operativo rispetto a cosa fare in caso di estrema difficoltà, quali sono le persone da contattare, cosa posso fare per stare subito meglio?
6. Il tuo futuro: nell’ultima fase si ragiona sugli obiettivi raggiunti, si consolidano gli strumenti della cassetta degli attrezzi e soprattutto si incentivano i contatti tra i partecipanti come rete di auto-supporto reciproco.

Entrambe le giornate si sono concluse con la testimonianza di alcune persone con sindrome di Asperger, che hanno condiviso con il pubblico la loro storia di vita e le loro esperienze, apportando alla conferenza un grande valore aggiunto, sentire la loro storia raccontata, vedere quali passi hanno fatto nell’acquisizione di una teoria della mente complessa, permette di collegare con un filo rosso le due giornate di lavori, quando la teoria si sposa bene con l’applicazione.

 

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Ispectrum, un serious game per l’autismo

Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori – Report dal Convegno (Parte II)

 

La seconda sessione plenaria e conclusiva del convegno “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori” si è svolto nel pomeriggio del 23 maggio 2015.

Il primo intervento, di Marina Davoli (Dip. di Epidemiologia del S.S.R. del Lazio, Network Cochrane e Osservatorio Europeo delle Tossicodipendenze di Lisbona E.M.C.D.D.A.), aveva per titolo “Dalle evidence alle politiche sulla droga: può il progetto europeo DECIDE dare un contributo?”. Com’era deducibile dal titolo, la relazione è stata costruita attorno alle evidenze scientifiche nel campo delle dipendenze, partendo dalla letteratura e quindi dalla “storia” di queste evidenze. Marina Davoli si è soffermata sull’importanza di poter (e dover) valutare anche gli inteventi di prevenzione che vengono implementati in tutto il mondo: anche la prevenzione può infatti portare a risultati negativi rispetto all’uso di una determinata sostanza, andando ad aumentare la curiosità dei giovani rispetto alla stessa.

Ad oggi, la maggior parte degli inteventi di prevenzione non vengono valutati. La relazione prosegue toccando anche altre tipologie di studi, come le revisioni sistematiche, gli studi osservazionali e le ricerche che hanno portato alla creazione delle linee guida. Viene poi presentato il progetto europeo DECIDE (Developing and Evaluating Communication Strategies to Support Informed Decisions and Practice Based on Evidence) che ha lo scopo di produrre delle strategie di comunicazione delle evidenze scientifiche di modo che tutti le possano utilizzare per la pratica professionale. Si tratta di uno strumento per i clinici che ha come risultato la creazione di un framework concettuale che rende le informazioni subito accessibili, e, di conseguenza, rende più facile la presa di decisioni circa il trattamento da proporre e da concordare con l’utente, responsabilizzandolo.

Successivamente è intevenuto Salvatore Giancane (SerT di Bologna) che ha raccontato in maniera molto coinvolgente ed interessante i contenuti del suo libro “Eroina, la malattia da oppioidi nell’era digitale”. Giancane ha spiegato come la gran parte dell’eroina che arriva in Italia venga prodotta in Afghanistan, che nel 2014 aveva una superficie pari a 224.000 ettari coltivati ad oppio (dove ci lavora circa il 25% degli afghani). In Afghanistan viene prodotta sia l’eroina che il cloridrato di eroina, ossia l’eroina bianca (da iniezione). Altri paesi coinvolti nella produzione di oppio sono: Messico, Iran e Egitto (precisamente la penisola del Sinai). Data l’ingente produzione di oppio, si assiste oggi ad una riduzione del 50% circa, rispetto agli anni ’90, del prezzo di mercato dell’eroina. Al contempo, ovviamente, si assiste ad un marcato aumento del consumo di eroina, soprattutto negli USA che importano in grandi quantità dal Messico.

In Italia la situazione non è meno preoccupante: l’eroina afghana giunge nel nostro Paese soprattutto attraversando i Balcani (Turchia, Albania) e raggiungendo principalmente l’Italia centrale dove attualmente si riscontrano il maggior numero di fenomeni di overdose. Il consumo di eroina ha subito tuttavia un grosso cambiamento negli anni: se fino a non molti anni fa l’eroina era da iniezione (con l’uso della siringa, che connotava fortemente chi la utilizzava), oggi si inala, e per farlo sono sufficienti un pezzo di carta stagnola, un accendino e un foglio di carta. L’odierna maggior facilità d’uso ha portato, negli abusatori, ad una percezione ridotta del rischio con tutto ciò che ne consegue.

Al momento perciò in Italia sono presenti due filoni di consumatori di eroina: i vecchi eroinomani, iniettori, invecchiati precocemente e che sono in carico ai Servizi da una vita; e i nuovi abusatori, inalatori, che non si recano ai SerT per moltissimi motivi, tra i quali la diminuita percezione del rischio. In quest’ultima categoria rientrano ragazzi italiani ma soprattutto spacciatori magrebini, ormai anch’essi divenuti consumatori. Il relatore conclude denunciando il fatto che il dibattito in Italia circa l’eroina è oscurato e che nella realtà la situazione è molto complessa e in continua evoluzione.

Purtroppo Riccardo de Facci (CNCA) non era presente, a causa di problemi personali, per esporre la sua relazione dal titolo “Tra comunità e servizi territoriali: un sistema che cambia”.

Per concludere il convegno è intervenuto Gian Paolo Guelfi del coordinamento scientifico con una relazione conclusiva e riassuntiva delle due intense giornate trascorse a Trento. E’ stato un convegno molto interessante, ricco di temi e di spunti importanti ed originali, e che è riuscito nel suo scopo principale ossia quello di dimostrare che, anche per quanto riguarda la dipendenza da sostanze, la relazione tra le persone è fondamentale.

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Impatto psicologico della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) sui figli dei pazienti: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Impatto psicologico della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) sui figli dei pazienti: uno studio empirico

Autrice: Francesca Bianco (Università degli Studi di Padova)

Abstract

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (ALS) è una patologia neurodegenerativa rara, che conduce a morte in 3-5 anni dall’esordio. La drammatica reazione psicologica dei caregiver di tali pazienti è stata descritta in letteratura; tuttavia, nessuna indagine empirica è stata attualmente volta ad identificare l’impatto psicologico sui figli in età evolutiva. Il presente studio si prefigge pertanto di gettare luce su tale realtà apparentemente negletta dall’interesse della clinica e della ricerca. Materiali e Metodi: Hanno partecipato allo studio 25 figli, tra i 5 e i 16 anni di età, di un genitore affetto da SLA. Il profilo psicologico è stato valutato con: 1) test di Rorschach secondo il Sistema Comprensivo di Exner; 2) test del Disegno della famiglia (Corman, 1985); 3) Children Depression Inventory (Kovacs, 1977); 4) Youth Self Report (Achenbach, 2001). Ad entrambi i genitori sono stati proposti i seguenti strumenti self-report: 1) Child Behaviour Checklist (Achenbach, 1991). I dati sono stati raccolti in modalità di visita domiciliare e confrontati con le variabili epidemiologie e neurologiche che caratterizzano la fase di malattia del genitore affetto. Risultati e Conclusioni: Nei figli dei pazienti terminali affetti da SLA emerge un profilo di sofferenza psichica caratterizzato da ansia, depressione, bassa autostima, difficoltà nell’adattamento e spunti psicotici. Descrivere il quadro psichico reattivo alla malattia del genitore, che si configura come peculiare rispetto a quelli tipicamente descritti da studi condotti sui figli di pazienti affetti da altre patologie terminali, e di vulnerabilità alla psicopatologia, favorisce lo sviluppo di linee guida di intervento psicologico mirato alla peculiarità della SLA.

English abstract

The specific impact of various neurological illnesses of parents on the psychological well-being of their children, until recently, has remained largely underinvestigated, with the exception of multiple sclerosis (Blackford et al., 1992) and Parkinson’s disease (Morley et al., 2011). The few studies focused on children’s responses to parental neurological illnesses have identified some recurrent non-specific developmental outcomes, such as high levels of depression, anxiety, and low self-esteem. Similar reactive features have been observed in children of a parent at the end-life stage (Yahav et al., 2007; Pakenham et al., 2006; Kalb et al., 2007, Bogosian et al., 2010). In contrast, other authors pointed out the peculiarity of how parental medical conditions may affect the children, in terms of specific researches investigating the psychological impact of a devastating, terminal disease like ALS affecting parents on their children.The aim of our study is twofold: the first objective was to investigate the psychological impact of parental ALS on children’s adaptation, in terms of depressive symptoms, adjustment, and personality structure. The second aim was to investigate the adult attachment, parental sense of competence, and children adjustment as perceived by both parents.

Allegato 1

 

Bianco Manoscritto by State of Mind

 

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Etologia: nelle femmine dei pesci il cervello più grande è associato ad una maggiore sopravvivenza

FLASH NEWS

In etologia una delle ipotesi è che un cervello più grande consentirebbe migliori performance cognitive. E di conseguenza dovrebbe favorire un più alto potenziale di sopravvivenza.

Per testare questa idea si è fatto riferimento generalmente a studi comparativi che indagavano l’intelligenza e il potenziale di sopravvivenza di specie con diverse dimensioni cerebrali, non essendo tuttavia in grado di dimostrare una relazione causale tra le due variabili.

Un nuovo studio del Konrad Lorenz Institute of Ethology di Vienna ha studiato alcuni piccoli pesci per verificare l’ipotesi secondo cui investire in un cervello di dimensioni maggiori, e dunque più dispendioso da sviluppare e mantenere, avrebbe un effettivo vantaggio in termini evolutivi.
I ricercatori hanno selezionato diversi pesci della specie Poecilia reticulata, ne hanno valutato e diviso i diversi esemplari in due grandi gruppi a seconda della dimensione cerebrale (grande vs. piccolo). In seguito hanno liberato questi 4.800 pesci in un vasto ambiente semi-naturale, tra le cui acque si aggirava un loro predatore, il luccio. Dopo sei mesi, i ricercatori hanno rilevato una significativa maggiore sopravvivenza dei pesci Poecilia reticulata aventi un cervello più grande.

Ma attenzione: questo è vero solo per le femmine. Il vantaggio evolutivo sarebbe significativo solo per gli esemplari femmine, le quali con dimensioni cerebrali maggiori del 12% rispetto ad altre conspecifiche sono risultate in grado di evitare i predatori più frequentemente (mostrando differenti pattern comportamentali) e dunque di avere maggiori chances di sopravvivenza. Un cervello di dimensioni maggiori nel maschio, invece, non darebbe luogo ad alcun vantaggio evolutivo. Secondo gli studiosi questa differenza di genere si spiega considerando che i maschi di questa specie presentano un notevole limite rispetto alle femmine: hanno squame più colorate e più visibili, variabile rispetto alla quale la dimensione cerebrale non sembra compensare il notevole e oggettivo svantaggio evolutivo.

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ESSPD: Workshops on Personality Disorders, Estonia, 4-6 Giugno 2015

Il congresso è della ESSPD (European Society for the Study of Personality Disorders). Un formato originale, una conferenza inusuale: tutto centrato sulla pratica clinica. Solo sei keynote speakers e poi workshop esperienziali.

Tallin, Estonia, inizi di giugno. Freddo, ventilato, ma con un sole limpido, luce fino a mezzanotte. La città vecchia è incantevole, case colorate, chiese ortodosse, mura medievali alle basi delle quali magliare venute da chissà quale epoca vendono guanti, cappelli, maglioni pesanti. Installazioni di giardini di fantasia subito fuori le mura, una sorpresa. Per i vicoli, un museo di marionette, dichiaratamente steampunk. Roba mai vista, pieno di bambini, pensato per chi ama Tim Burton. Ristoranti eleganti, una sera ceno in un posto, Manna La Roosa, che sembra un incrocio tra un club Burlesque, un film gotico e una fantasia mescolata di Dalì e Niki de Saint Phalle. È come visitare un museo. Questa è la cornice.

Il congresso è della ESSPD (European Society for the Study of Personality Disorders). Un formato originale, una conferenza inusuale: tutto centrato sulla pratica clinica. Solo sei keynote speakers e poi workshop esperienziali. Ogni speaker aveva un’ora di lettura plenaria per illustrare il proprio modello e poi teneva un workshop di 3 ore, ripetuto il giorno dopo. In questo modo i partecipanti avevano modo di ascoltare tutto e di seguire 4 dei 6 workshop in programma. Una vera esperienza di apprendimento. Lo è stata anche per me.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

Anthony Bateman parla degli ultimi sviluppi del Mentalization Based Treatment per il disturbo antisociale di personalità. Per loro una nuova frontiera, dopo anni di lavoro sul borderline. Nella plenaria descrive l’adattamento del modello ai pazienti che seguono, si tratta di gente in libertà vigilata. Hanno in corso un trial multicentrico di efficacia, stanno raccogliendo i dati.

Il workshop di Bateman è molto bello. Poca accademia: invita un partecipante a simulare un paziente antisociale e conduce un breve frammento di seduta con lui. Si focalizza subito sul promuovere l’accesso agli stati interni. Ottimo, funziona. Tra l’altro vedo nella pratica clinica la prevalenza dell’attenzione alla mentalizzazione sul sé, mentre di solito insiste sul mentalizzare sull’altro. Visto all’opera, notevole. Poi un video di un gruppo condotto da lui e un co-conduttore con cinque antisociali. Ottima idea, purtroppo tutta gente che parla un inglese con accenti incomprensibili (fate conto di venire dalla Francia e vedere una seduta con un paziente di livello socio-culturale basso della Sicilia o del Veneto). Però si coglie come sia tutto un lavoro sul passare da descrizioni fattuali: dovevo agire così, a comprensione mentalistica finalizzata alla regolazione emotiva.

Arnoud Arntz parla di Schema-Therapy nella plenaria. Poca teoria e poca clinica, molto centrato sui dati di efficacia. Certo, sapeva di auto-promozione in un certo senso, ma accidenti quante ne stanno facendo. Hanno in giro una quantità di trial in corso che mette paura e per una varietà di disturbi. Il suo workshop invece è tutto esperienziale. Fa vedere due video di sedute vere ricostruite con attori. Pazienti gravi, con esperienze traumatiche: si vede molto bene come passino dalla memoria recente, all’esperienza affettiva, all’associazione al passato.

Lacrime e reparenting: la terapeuta entra attivamente nella scena e difende la paziente dalla madre. Mi chiedo, e chiedo ad Arntz: ma così si attiva l’attaccamento alla terapeuta di brutto. E sono terapie a durata limitata. Che succede poi? La risposta è serena, capisco che lui, come quasi tutti gli speaker, sono completamente immersi in una cultura in cui si dà al paziente quello che il sistema sanitario consente. Un anno, punto fine stop. È consapevole del problema e quindi lavorano sulla fine della terapia. Mi sembra di avere capito che dopo un certo intervallo di tempo il paziente può chiedere altra terapia se serve.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

La plenaria di Ad Kaasenbrood mi vede provato, avevo tenuto la mia poco prima ed ero semi-svenuto. A proposito, c’erano circa 200 iscritti. Comunque interessante: parla del management socio-psichiatrico dei pazienti con disturbi di personalità e solleva temi che spesso vengono ignorati. Coinvolgimento delle famiglie, ricoveri, gestione farmacologica. Vorrei essere più concentrato ma le energie in quel momento sono prossime allo zero. Il rimpianto è che i suoi workshop erano in parallelo al mio e quindi non ho potuto seguirli.

Babette Renneberg, una donna acuta e dallo sguardo tagliente, intelligente, ricercatrice esperta, ha fatto tanto nel campo della rejection sensitivity. Presenta dati di efficacia su terapia di fobia sociale e disturbo evitante, niente di troppo recente in realtà. La relazione è solida, ma un po’ meno nelle mie corde, il modello di terapia per l’evitante reduplica molto quello della CBT per la fobia sociale: esposizione, video-feedback, esperimenti comportamentali. Anche qui il workshop avrebbe aiutato a farmi un’idea più chiara della pratica, ma era in parallelo.

 

La relazione di Martin Bohus, DBT per pazienti borderline con comorbilità con disturbo post-traumatico da stress da abuso sessuale infantile è sorprendente. Spiega perché serviva una nuova terapia, ovvero la DBT adattata. Perché la maggior parte degli studi di efficacia con questi pazienti avevano tra i criteri di esclusione disturbi di personalità e atti suicidari e parasuicidari. Ovvero i pazienti borderline in cui la DBT è specializzata.

Tra me e me penso: cosa risponderebbero quelli della EMDR? A quel punto si chiede: perché adattare la DBT? Non va bene quella classica? No, risponde: perché la DBT non era efficace sui sintomi post-traumatici. Non fa una grinza.

Quello che va a mostrare nei video è impressionante: esposizione ad abuso sessuale infantile, incesto paterno. La paziente su una pedana basculante, il terapeuta le tiene le mani strette mentre lei chiude gli occhi e torna sulla scena. Poi le fa aprire gli occhi. Contatto con il presente. Torna nel passato. Da brividi. Qualcosa di simile a quello che si era visto nel workshop di schema-therapy. L’unico pensiero che resta alla fine della relazione è: questa non è DBT! D’altra parte è lo spirito del seminario, quello che mi è restato: tanti modelli e la possibilità per il clinico di usare in modo intelligente quello che funziona dai vari approcci.

È chiaro che i vari autori negli anni si stanno ispirando o copiando l’un l’altro. E va bene così. È quello che bisogna fare. Scevro da competizione? Neanche per sogno. Ma è la competizione che uno si aspetterebbe: giocata sui dati, sulla ricerca di base e sull’efficacia. Si gioca per vincere, non per segare le gambe all’avversario.

Un siparietto la dice tutta: Bohus dice che presto avranno i dati di efficacia. Chiede a Arntz se anche loro stanno raccogliendo dati di Schema-Therapy per il PTSD. Arntz annuisce sorridendo dalla terza fila: sì sì. Sembra di vedere Bayern-Barcellona. Sfida a viso aperto. Una nota di colore. Bohus descrive come funziona la sua unità. L’esposizione alla memoria traumatica è prescritta dal modello. All’inizio scoprono che solo il 15% dei terapeuti la praticano. Pongono il problema in team, dicono che è necessario esporre il paziente. I terapeuti esprimono 1000 buone ragioni per non farlo. Insiste. Dopo poco il tasso di esposizione passa al 20%. A quel punto, in pieno stile teutonico, cambiano le regole: se il terapeuta non ha esposto il paziente entro le prime quattro sedute, dovrà portare fisicamente il paziente nel team e spiegare di fronte a tutti perché non lo ha esposto. Risultato: il 98% dei terapeuti espone i pazienti. Il pubblico ride. I dati di efficacia arriveranno tra un po’. La lezione comunque è chiara: non abbiate paura di esporre i pazienti al dolore, se avete gli strumenti per gestirlo è la cosa giusta da fare.

Congresso ESSPD, Tallinn, 2015

In mezzo a questa gente ho tenuto la plenaria e il workshop sulla Terapia Metacognitiva Interpersonale. Vantando per prima cosa la quasi totale assenza di dati di efficacia (che potevo fare di fronte a queste corazzate?). Però zitto zitto, dico la verità. Qualcosa si sta muovendo. Una case-studies serie su tre pazienti sta per essere completata al CTMI. In Danimarca stanno raccogliendo dati di efficacia su pazienti con disturbo evitante che afferiscono alla loro unità per i disturbi di personalità. Si pianifica di arrivare a una ventina e poi si scrive. Presso la Queensland University of Technology di Brisbane sta per partire uno studio pilota di efficacia. Si mira a circa 15 pazienti. La formazione dei terapeuti è già iniziata e con la collega che guida lo studio stiamo scrivendo il manuale di aderenza.

Tengo la mia relazione e per la prima mezz’ora faccio di tutto per ottenere una reazione dall’audience. Mi sento un po’ perso: sono prevalentemente estoni e finlandesi. Io ero abituato a danesi e norvegesi e scopro che le espressioni facciali variano anche al nord. Lì comunicano di meno. Nell’ultima mezz’ora però sono coinvolti. Alla fine, mi diranno, applausi e fischi (di approvazione!). Me lo devono dire, sono talmente nel flow che non me ne rendo conto. Poi arrivano i feedback. La TMI è piaciuta molto. Vado a vedere quanti iscritti ci sono ai miei workshop. Spero di raccattare una ventina di persone al giorno, già andrebbe bene. In fondo mi sto confrontando con i più forti nel settore. Resto di stucco. Un totale di 137 iscritti in due giorni. I workshop TMI sono quelli con più partecipanti. Mi dico, ragionevolmente, che Bateman, Bohus e Arntz li avranno già visti tante volte. Comunque son soddisfazioni.

Il workshop lo tengo come mi riesce meglio. Inizio con un video: una parodia del Trono di Spade, cercate Seth Meyers e Jon Snow insieme e lo vedete.

Lo prendo come esempio degli effetti del fare esporre un paziente prima di avere promosso la metacognizione.

Ridono per il video. Il messaggio arriva. Poi quindici minuti di teoria. Poi dico: qualcuno di voi vuole simulare un paziente evitante?

La risposta è sì. Il primo giorno una collega norvegese porta una paziente la cui vita sociale è prossima allo zero. Inizio con una relazione terapeutica lacerata: la paziente si sente che deve fare i compiti di esposizione perché il terapeuta se lo aspetta. Riparo la rottura. La paziente si rilassa. Esploriamo le memorie. A fine seduta la paziente sorride e accetta di pensare a forme di esposizione che senta proprie.

Il secondo giorno un collega finlandese porta il proprio caso. Inizia la seduta. Come si sente? Ho paura? Di cosa? Che lei mi possa aggredire? Come? Fisicamente? Fisicamente, Ovvio. Cavolo, mi dico, questo è un disturbo paranoide ed evitante. Era così difatti. Anche qui parto dalla relazione terapeutica. Poi memorie recenti: una costante tensione fisica nelle situazioni sociali. Azzardo: gli chiedo le memorie associate. Piange. Ricorda di essere stato ripetutamente picchiato dal branco quando aveva tredici anni. Si rilassa. Nella seduta emergono le parti sane. La seduta si chiude come il giorno prima: il paziente penserà a momenti in cui si sente più o meno teso e da lì capiremo in che modo può modulare il suo stato. È piacevolmente sorpreso: allora ho potere su questa sensazione? Sì, rispondo. Finita la simulata il collega mi ringrazia. La gente apprezza. Amici norvegesi, alcuni dei quali li seguo regolarmente in supervisione skype, con cui sono al pub a vedere la finale di Champion’s League (mamma mia quanto bevono!) mi dicono che la reazione del pubblico ai miei workshop è stata entusiasta. E che erano loro ad applaudire e fischiare.
Torno in Italia. Ho un quadro più chiaro di come lavorano negli altri approcci, capisco le similitudini, le differenze, sono consapevole dei punti di forza delle TMI. Imparo molto dagli altri.

 

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Advanced training in terapia metacognitiva interpersonale, Firenze, 23 e 24 Maggio – Report (Parte I)

L’accesso alle parti sane del sé include non solo la promozione nel paziente di sentimenti di buona autostima, efficacia, cauto e ragionevole ottimismo, attitudine alla curiosità e all’ esplorazione, ma anche una parte di lavoro legata alle sue inclinazioni.

Il 23-24 maggio si è tenuta la prima parte dell’Advanced Training in Terapia Metacognitiva Interpersonale organizzato da Scuola Cognitiva Firenze e anche questa volta noi di State of Mind non potevamo certo mancare.

Se il corso base si era focalizzato principalmente sulla formulazione del caso e sulla promozione della differenziazione, il corso avanzato è occasione per illustrare ulteriori step della TMI, a cominciare dall’accesso alle parti sane del sé e la promozione del cambiamento.

L’accesso alle parti sane del sé include non solo la promozione nel paziente di sentimenti di buona autostima, efficacia, cauto e ragionevole ottimismo, attitudine alla curiosità e all’esplorazione, ma anche una parte di lavoro legata alle sue inclinazioni. Ciò implica che all’interno della relazione terapeutica si dedichi del tempo ad indagare e discutere quelle che sono le inclinazioni e le passioni che animano il paziente e che magari sono sopite. Ci si può così ritrovare a parlare in seduta di libri, di musica, di automobili… di argomenti che fanno sentire il paziente vivo: “Il modo migliore per mostrare ad un paziente con DP che è capace di provare fiducia, competenza, rilassamento, entusiasmo, è coglierlo nell’atto di sperimentare questi sentimenti” (Dimaggio et Al., 2013). Obiettivo è mantenere il paziente il più a lungo possibile in questo stato mentale positivo che favorisce il cambiamento delle cognizioni e un funzionamento più adattivo; inoltre è terreno fertile per esplorare i desideri del paziente e di conseguenza programmare esperimenti comportamentali volti alla promozione del cambiamento.

Quando si parla di promozione del cambiamento bisogna tenere a mente che il solo cambiamento procedurale non è sufficiente; dopo averlo reso cosciente è necessario in primis un lavoro di risperimentazione in seduta attraverso ciò che accade nella relazione terapeutica o nel lavoro terapeutico (esperimento in seduta) e successivamente fare in modo che diventi base per la sperimentazione tra una seduta e l’altra (homework).

Il cambiamento quindi avviene su più livelli: attraverso la differenziazione si osserva un cambiamento del punto di vista, mentre attraverso l’accesso alle parti sane di sé si osserva un cambiamento dell’esperienza, che attiva il sistema esploratorio (attivazione comportamentale).

Una volta individuati col paziente i suoi desideri e concordato con lui gli obiettivi e le modalità con cui raggiungerli, il terapeuta promuove nel paziente il cambiamento attraverso l’attivazione del sistema cooperativo: “Proviamo a fare INSIEME…”. È da notare come la pianificazione degli interventi non sia finalizzata al loro completamento, ma all’attivazione del paziente, che deve PROVARE a fare una determinata cosa; se poi non ci riesce non è un problema perché ciò che conta è creare uno spazio per tenere la mente aperta alla novità, provare a fare qualcosa di diverso, andando contro all’evitamento esperienziale che mantiene invece gli schemi.

Quando si progetta l’esperimento in seduta con il paziente bisogna considerare che, trattandosi di esposizione comportamentale, il paziente sperimenterà un aumento dell’arousal, della tensione, della paura; pertanto è opportuno concordare con lui cosa si sente di fare e cosa no. Una volta progettato l’esperimento sarà compito del paziente provare ad eseguirlo e monitorare cosa succede (compito di auto-osservazione) per poi discuterne in seduta attraverso una lettura condivisa di quanto successo.

La prima parte dell’Advanced Training è stata condotta da Giancarlo Dimaggio, che anche questa volta non si smentisce e imposta una lezione fortemente esperienziale, riducendo all’essenziale le spiegazioni teoriche. Il “format” è ormai collaudato: due partecipanti volontari assumono i panni uno del terapeuta, che conduce la seduta secondo il modello TMI, l’altro del paziente, che invece porta una propria problematica. A supervisionare i 50 minuti di seduta Dimaggio, pronto ad intervenire per dare eventuali suggerimenti fuori stanza al terapeuta. Al termine la classe ripercorre la seduta, discute gli interventi effettuati, analizza la relazione terapeutica, riflette sulla conduzione del colloquio, dibatte su eventuali mancanze o errori commessi dal terapeuta.

Dato il tema trattato nel corso del weekend, ovviamente le sedute sono state occasione per osservare dal vivo alcune tecniche di promozione del cambiamento. Tra le tecniche mostrate, particolarmente interessante e potente la tecnica delle due sedie, direttamente dalla tradizione gestaltica, in cui il paziente interpreta più volte il dialogo fra sé e un altro personaggio (o fra due sfaccettature del proprio sé) modificando di volta in volta il proprio atteggiamento su suggerimento del terapeuta. La tecnica permette al paziente di provare ad uscire dallo schema e di articolare ulteriormente le parti del proprio sé attraverso una vera e propria esposizione in seduta in cui gli schemi emotivamente carichi emergono in tutta la loro intensità.

Indubbiamente la scelta di abbandonare uno stile didattico frontale a favore di un’impostazione fortemente partecipativa si è rivelata ancora una volta vincente e particolarmente apprezzata dai presenti che hanno potuto nuovamente sperimentare dal vivo cosa vuol dire FARE Terapia Metacognitiva Interpersonale.

 

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Terapia metacognitiva interpersonale di Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore

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Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori – Report dal Convegno (Parte I)

 

Il primo convegno “Dipendenze. Innovazioni per dirigenti e operatori” si è svolto a Trento, presso il Centro Studi Erickson, nelle giornate del 22 e 23 maggio 2015. Il convegno ha visto la partecipazione di circa un centinaio di partecipanti con 40 relatori che hanno portato il loro contributo.

Dopo una breve introduzione di Giorgio Dossi, presidente Erickson, la prima sessione plenaria del convegno si è aperta con la presentazione della giornata da parte dei due membri del coordinamento scientifico: Gian Paolo Guelfi (Motivational Interviewing Network of Trainers) e Valerio Quercia (Nucleo Operativo Tossicodipendenze e Presidente dell’Associazione Italiana Colloquio Motivazionale). Il discorso introduttivo di Guelfi si è incentrato sulla diffusione del problema dipendenze, che ormai non è solo ascrivibile all’uso di sostanze; inoltre, è stato posto l’accento sulla relazione come tema centrale e filo conduttore del convegno. Valerio Quercia ha introdotto le novità subentrate nella diagnosi delle dipendenze con il DSM-5, dipendenze che ora sono suddivisibili in base alla gravità: lieve, moderata e grave.

Come è noto, è stata inoltre inserita la dipendenza da gioco d’azzardo e in questo senso si assiste alla prima introduzione di una dipendenza comportamentale nel manuale diagnostico. Viene nuovamente posto l’accento sull’importanza della relazione, un fattore aspecifico, e pertanto comune ai diversi approcci, che influisce sulle caratteristiche dinamiche dell’utente (autoefficacia, motivazione, speranza di riuscire, valore del cambiamento) e che quindi lavora nella direzione della collaborazione e dell’alleanza per il successo terapeutico. L’intervento di Quercia si conclude con una citazione: [blockquote style=”1″]Ciò che le persone hanno veramente bisogno è di essere ascoltate bene[/blockquote] M.L. Casey.

Il primo contributo della giornata è di Stefano Canali (SISSA Trieste, area Neuroscienze) e verte sui contributi delle neuroscienze al tema delle dipendenze. Anche Canali sottolinea come nel DSM-5 si assista ad uno slittamento delle dipendenze verso criteri sempre più “comportamentali” (motivazioni, scelte, relazioni e uso del tempo). La dipendenza secondo il relatore è considerabile come un disturbo cognitivo, o meglio, come la perdita del controllo cognitivo volontario del comportamento. Il contributo di Stefano Canali è molto interessante e ricco di spunti provenienti da studi neuroscientifici, che vanno a evidenziare due temi importanti: la dipendenza come scelta e la dipendenza come risultato patologico di un condizionamento operante. Canali sottolinea come: [blockquote style=”1″]per capire le dipendenze bisogna uscire fuori dalla scatola cranica.[/blockquote]

Anche l’intervento di Lorenzo Somaini (SerT Cossato e ASL Biella) è costruito attorno al concetto di relazione. Il relatore definisce la dipendenza come una malattia complessa dell’apprendimento e della memoria, che però coinvolge tutte le strutture cerebrali. Secondo Somaini, non vi è nessuna terapia senza relazione: anche la terapia farmacologica non si ferma alla sola somministrazione ma è veicolata dalla relazione, che ha lo scopo di motivare l’utente e sostenerlo nel percorso di cura. Comunicare con l’utente è molto importante anche per poter definire insieme quali possono essere gli obiettivi del percorso terapeutico: la cessazione dell’uso, la riduzione dei sintomi, avere una vita? L’intervento di Somaini si conclude con alcune “mosse vincenti” per la relazione e per la terapia: la destigmatizzazione del processo terapeutico, la semplificazione delle terapie e lo scopo ultimo dell’autonomia di vita dell’utente. [blockquote style=”1″]Non più una relazione di cura ma una relazione che cura[/blockquote]

L’approccio ecologico sociale secondo il metodo Hudolin è invece presentato da Luigino Pellegrini (Servizio di Alcologia, Rovereto). Si tratta di un tipo di approccio che si focalizza sulla persona, sulla famiglia e sulla comunità, piuttosto che sul concetto di disturbo; sono infatti presenti in gran numero sul territorio le comunità multifamiliari, intese come gruppi di famiglie con difficoltà e fragilità che si sostengono a vicenda. Questo metodo porta avanti due idee importanti: il fatto che la dipendenza sia uno stile di vita appreso, e com’è stato appreso si può anche disapprendere; ed il fatto che il cambiamento sia possibile e anzi sia un’opportunità per tutte le persone. Gli obiettivi dell’approccio ecologico sociale sono così riassumibili: superare i concetti di normale/deviante, demedicalizzare/depsicologizzare, sostituire l’idea di “dipendente da” con quella di “attaccato a”.

Roberta Potente (Sezione Epidemiologia e Ricerca sui Servizi Sanitari, IFC-CNR) incentra la sua presentazione sui dati di due ricerche, IPSAD (Italian Population Survey on Alcohol and other Drugs) e EPSAD Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs). Lo studio IPSAD si basa su un campione nazionale di età compresa tra 15 e 64 anni mentre EPSAD Italia si basa sugli studenti delle scuole medie superiori (15-19 anni). Senza entrare nel merito delle cifre, in generale si può affermare che nell’ambito delle droghe è diminuito l’uso sperimentale delle stesse a favore di un consumo frequente. La cannabis rimane la sostanza maggiormente utilizzata dai giovani, anche se la prevalenza è aumentata dal 2012 ad oggi. Un dato molto interessante riguarda l’aumento del consumo di psicofarmaci senza prescrizione medica che, soprattutto i giovani, acquistano online oppure trovano in casa. E’ stata inoltre indagata la dipendenza da gioco d’azzardo che vede una maggiore prevalenza nei paesi del Sud Italia, di pari passo ad alcuni macroindicatori demografici e sociali legati al territorio in questione (PIL inferiore, maggior tasso di disoccupazione).

L’ultimo intervento della mattinata è quello di Mauro Croce (ASL VCO Verbania e SUPSI, Lugano). Il suo contributo molto interessante parte dall’assunto che la nostra è una società additiva. Croce porta numerosi esempi di pubblicità e spot che vanno nella direzione di favorire l’addiction e di creare disinibizione nelle persone. L’addiction è ormai sdoganata dalla sua connotazione negativa e questo è uno tra i motivi per i quali è avvenuto uno spostamento, negli ultimi anni, dalle vecchie alle nuove dipendenze: da usi illeciti e disapprovati socialmente si è passati ad usi/abusi/dipendenze da comportamenti socialmente approvati e soprattutto incentivanti (sesso, acquisti, internet, gioco, lavoro, amore..). Il relatore prosegue dicendo che ad oggi non esiste più una barriera tra lecito ed illecito, e questo per gli operatori del settore dipendenze deve essere uno spunto per rivedere i paradigmi dell’addiction. L’obiettivo del trattamento delle nuove dipendenze, infatti, non potrà mai essere l’astinenza, come invece poteva accadere per le vecchie dipendenze: com’è possibile astenersi completamente da sesso, amore, acquisti , ecc.?

La mattinata si conclude con un proficuo e partecipato dibattito con il pubblico in quanto purtroppo la partecipazione di Antoni Gual Solé (Unidad de Alcohologia, Hospital Clinic de Barcelona) dal titolo “L’intervento sui problemi alcolcorrelati: una visione europea” non ha avuto luogo a causa di assenza per problemi personali del relatore.

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Disturbi delle condotte alimentari (2014) – Recensione

Loriana Murciano

Nel libro “Disturbi delle Condotte Alimentari” le autrici Adele De Pascale e Paola Cimbolli affrontano la complessa tematica dei DCA seguendo il punto di vista del cognitivismo sistemico post-razionalista, evoluzione del pensiero di V.F.Guidano, e proponendo un raffinato e completo modello di intervento psicoterapico.

Il volume ha una struttura “volutamente didascalica” che permette, sia agli psicoterapeuti in formazione ma anche a tutti coloro che intervengono nella cura di tali disturbi, di comprendere, partendo dalla descrizione degli aspetti sintomatici comportamentali, le idee e le convinzioni che li sottendono fino a poter “cogliere il senso generale delle organizzazioni di significato personale e delle modalità relazionali degli individui che presentano un DCA”.

Partendo dalla considerazione, ormai ampiamente condivisa, che il disturbo alimentare, in qualsiasi forma clinica o subclinica si presenti, esprima sempre un profondo senso di disagio emotivo e di difficoltà di strutturazione della propria identità e del proprio senso di autonomia personale, giocato dal soggetto su un “piano esterno” di rapporto con il cibo e con l’aspetto corporeo, le autrici descrivono nel primo capitolo l’organizzazione di significato personale di tipo D.C.A.:[blockquote style=”1″] la caratteristica distintiva consiste nella percezione vaga ed indistinta di sé che si organizza intorno ai confini antagonisti tra il bisogno assoluto di approvazione da parte delle persone significative e la paura di essere invase, criticate o disconfermate dalle stesse […][/blockquote].

In uno scenario di “reciprocità ambigua e disordinata con le figure di riferimento” durante il periodo evolutivo, il soggetto sviluppa un’incapacità a riconoscere e nominare i propri stati interni, a “gestire e regolare” le emozioni e sensazioni nuove “attraverso un dialogo interno che ne colga il senso ed il significato”, derivandone un profondo senso di vuoto interiore ed una tendenza a “ricercare nell’atteggiamento degli altri significativi una spiegazione di quello che sta succedendo dentro di sé” ed al contempo “una definizione positiva di sé, che sciolga quella terribile sensazione di vuoto esistenziale, col timore di non essere compresi o di essere giudicati negativamente…” (M.A.Reda).

Dal secondo capitolo si entra nel progetto terapeutico: “il compito delle prime sedute è innanzitutto quello di riformulare i temi portati e connessi all’esternalità del giudizio in termini di fenomeni interni al paziente, di attitudini della persona” in un clima terapeutico di relazione empatica e non giudicante; portando così il paziente a stabilire una connessione tra emozioni, cognizioni e significati personali, e “definendo” sin da subito “il contesto terapeutico come un ambito di lavoro, nel quale si dovrà pian piano costruire una diversa comprensione di sé e dei fenomeni significativi della propria vita”.

Il progetto terapeutico è didatticamente proposto dalle autrici, nel corso dei capitoli successivi, muovendoci in una dimensione metaforica mutuata dalla chimica: partendo così dal punto atomico in cui il paziente impara ad individuare le singole unità, si passa poi a cogliere, “con un punto di vista molecolare le connessioni e l’organizzazione degli stati d’animo con i pensieri, le immagini, le aspettative, giungendo alla fine ad apprezzare, ad un livello di astrazione molare, quei nessi che rendono coerenti gli aspetti affettivi, cognitivi e comportamentali di una persona in quell’unicità e stile di vita a cui è attribuibile l’originalità e l’individualità di ogni essere umano”.

Quindi, col procedere delle sedute, il terapeuta insegna al paziente (ed al lettore terapeuta in formazione!) la capacità di autosservazione (applicazione della tecnica della moviola), prendendo poi in considerazione i suoi comportamenti alimentari e di altre aree ad essi correlati (lo stile comunicativo, interpersonale, verbale e non verbale, il comportamento sessuale, etc.), “procedendo verso livelli sempre più astratti ed integrati della loro osservazione mentre apprendono un metodo ed una procedura” di lavoro terapeutico “ordinata e coerente”.

Si arriva così, nella fase ulteriore della terapia, ad approfondire l’analisi delle determinanti interne, personali, dei comportamenti finora descritti fornendo al paziente “quei mezzi e metodi di autosservazione” che lo portano a “rileggere la sua esperienza in termini di maggiore responsabilità ma anche di autonomia”. L’abilità del terapeuta di assumere in seduta l’atteggiamento del “perturbatore strategicamente orientato”, in termini post-razionalisti, consente di “utilizzare indirettamente le emozioni per sviluppare una riorganizzazione di significato” e di muovere nel paziente un diverso modo di vedersi come risultato di “nuove tonalità emotive” inducendo nella persona un processo di cambiamento sicuramente più stabile.

A questo punto della terapia viene affrontato il tema dell’affettività attraverso la ricostruzione dello stile affettivo ossia della “carriera” affettivo/sentimentale della persona a partire dall’adolescenza: “in questa fase avviene la ristrutturazione emotiva di secondo livello” (Guidano). “Le unità emotive principali, distinte sin dall’inizio della terapia, ora vanno messe insieme, fino a riuscire a vedere come queste unità siano sempre state accoppiate in sequenze in un insieme più complesso: si passa così ad un punto di vista molecolare nel quale il reframing (nuovo inquadramento) delle storie affettive rende più chiaro il significato personale del soggetto” ed in cui “gli aspetti fondanti sono e vanno messi sempre in relazione al vissuto emotivo prima ed ai comportamenti alimentari poi”.

L’ultima fase della terapia proposta si focalizza sulla ricostruzione della storia di sviluppo ossia sul comprendere come un soggetto con DCA “abbia imparato a privilegiare il giudizio degli altri e come abbia costruito la sua coerenza organizzativa intorno al tema della inadeguatezza. Con la storia di sviluppo possiamo ottenere una riorganizzazione del range emotivo ancora più intensa (di terzo livello la chiama Guidano)”. Alla fine, quindi, si ripercorre ed analizza il processo dell’alimentazione del paziente, si descrivono e comprendono le dinamiche delle sue relazioni familiari e le caratteristiche dei genitori, dello stile affettivo e sessuale, il momento cruciale del break adolescenziale: tutto questo con l’obiettivo di accompagnare il paziente nel suo progressivo processo di differenziazione e di autonomia.

Nella seconda e terza parte del libro, le autrici descrivono la complessità e criticità di intervento nei soggetti con DCA sia su un piano puramente clinico che su un piano di difficoltà pratico-organizzative confrontandosi con la realtà delle risorse e strutture attualmente disponibili in cui poter intervenire attuando programmi di cura con un’ottica di intervento multidisciplinare integrato, raccomandata dalle linee guida internazionali.
In ultimo Adele De Pascale e Paola Cimbolla propongono una descrizione pratica di cosa ha significato, per loro, lavorare anche nel servizio pubblico secondo una prospettiva cognitivista post-razionalista.

Il libro “Disturbi delle Condotte Alimentari, l’approccio del cognitivismo postrazionalista” rappresenta un originale “manuale post-razionalista” altamente consigliato ai giovani psicoterapeuti, e non solo, vista la capacità, da parte delle autrici, di essere riuscite ad esprimere, con una notevole chiarezza didattica, una metodologia di intervento psicoterapico nell’approccio ai pazienti con DCA, arricchita dalla densità e complessità dei contenuti espressi, dai continui riferimenti alla letteratura internazionale contemporanea e dalla integrazione con le determinanti neurobiologiche nel corso dello sviluppo.

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BIBLIOGRAFIA:

Occhio per occhio o porgi l’altra guancia? Perdono e vendetta a confronto

Martina Lattanzi – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Quando subiamo un’offesa, un insulto o un’ingiustizia proviamo immediatamente emozioni negative di rabbia, risentimento, disappunto e il comportamento che più frequentemente viene messo in atto è quello di vendicarsi per il torto subito.

 La motivazione a vendicarsi è presente e radicata nell’animo umano da un punto di vista biologico, psicologico e culturale. Nel regno animale diversi studi condotti su primati hanno messo in evidenza il comportamento della vendetta tra scimpanzé dimostrando la primordialità del sentimento vendicativo (McCullough et al., 2009). Anche nella storia dell’uomo, anticamente, possiamo rintracciare il comportamento della vendetta codificato nella Legge del taglione secondo la quale chi subisce un danno ha il diritto di rispondere a sua volta con il medesimo comportamento che sia uguale all’offesa ricevuta.

A un’analisi più approfondita vediamo però che la vendetta e la volontà di rivalsa anche se sono sentimenti naturali e istintivi non portano ad un effettivo risarcimento dal torto subito: la vendetta, contrariamente a quanto si possa pensare non aiuta ad alleviare il dolore provato nell’aver subito un’ingiustizia in quanto la vittima si troverà a rimanere focalizzata sull’evento negativo accaduto, a pensare e ripensare continuamente a come potrebbe farla pagare al suo trasgressore, alimentando ulteriormente le emozioni negative sperimentate (rabbia, ostilità, risentimento). Inoltre se anche la vittima risponde a sua volta con un torto verso il trasgressore, per riparare e pareggiare i conti, difficilmente la vittima si sentirà ripagata come sperava ma si andrà invece ad innescare un circolo vizioso sena fine: con la vendetta il trasgressore iniziale si trasforma a sua volta in vittima che, a prescindere da quali sono state le azioni precedenti che possono avere in qualche modo giustificato la reazione vendicativa, sentirà la punizione come eccessiva, poiché il dolore soggettivo è sentito come maggiore rispetto al torto di cui si era reso responsabile inizialmente, innescando così in un circolo vizioso senza fine e inconcludente.

La vendetta quindi non determina una soluzione di un problema né comporta un sollievo ma acuisce ulteriormente la sofferenza psicologica. Un modo per uscire da questa spirale negativa potrebbe essere il perdono.

Cosa significa perdonare?

Definire il perdono non è semplice. Innanzitutto viene definito in relazione a ciò che non è: non si tratta di negare, minimizzare, scusare l’altro o dimenticare (Toussaint et al., 2012).  Si tratta di un costrutto complesso che implica aspetti emotivi, cognitivi e comportamentali (Worthington et al., 2007).

Il perdono è un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale, nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono ridotti, non negando il proprio diritto di sperimentarli, ma guardando al colpevole con compassione, benevolenza e amore (McCollough & Worthington, 1995).

Da questa definizione si può capire come il perdono è un processo che implica la consapevolezza da parte della vittima di aver subito un’ ingiustizia ma si sceglie volontariamente di superare la vendetta e di porsi in una posizione diversa.

Secondo Worthington (2007) due sono le tipologie di perdono: da un lato vi è il perdono decisionale ovvero la presa di decisione da parte del soggetto di controllare i propri comportamenti (aspetto cognitivo), dall’altro il perdono emotivo ovvero le emozioni che entrano in gioco durante il perdono in quanto nel perdonare si attiva una trasformazione delle emozioni: da negative come l’ostilità e la rabbia a positive quali compassione e empatia. Tutto ciò si ripercuote nel comportamento che verrà messo in atto.

La capacità di perdonare in ognuno di noi cambia nel corso della vita e non si mantiene stabile negli anni. Kohlberg (1976) distingue tre stadi di sviluppo del perdono in cui le ragioni per cui una persona è motivata a perdonare si diversificano a seconda del momento di vita (McCullough et al., 2009):

  • il perdono è possibile solo dopo che la vittima ha ottenuto vendetta, quindi ci deve essere prima una restituzione del torto subito che rende possibile il perdono;
  • il perdono è possibile in quanto ci sono delle regole morali, religiose e sociali che creano pressione e condizionano il soggetto nel modo di reagire a un’ingiustizia;
  • il perdono è utile in quanto permette di vivere in armonia nel contesto sociale e perdonare significa esprimere il proprio amore in modo incondizionato.

Quando si parla di capacità di perdonare non si fa riferimento solamente a quel comportamento, atteggiamento di compassione e benevolenza che la vittima di una ingiustizia decide volontariamente di riservare al trasgressore, ma riguarda anche il comportamento e l’atteggiamento che una persona può avere verso se stesso qualora sia il responsabile di un’azione dannosa verso altre persone. Bisogna distinguere infatti il perdono in relazione alla fonte della trasgressione: si può essere vittime di un torto e quindi in questo caso il perdono sarà rivolto verso terzi, ma si può anche essere i responsabili di un torto e sentirsi colpevoli del proprio comportamento, in questo caso il perdono deve essere rivolto a se stessi.

Non bisogna dimenticare che il responsabile di un comportamento dannoso per altri è una persona con emozioni e sentimenti, e spesso ci si può rendere responsabili di arrecare dolore ad altri in modo non intenzionale. In questi casi il trasgressore può sentirsi in colpa per quanto commesso e non perdonarsi di aver causato dolore. Esempi di questi casi si rintracciano proprio nei veterani di guerra i quali al rientro da una missione continuano a rimanere focalizzati sugli orrori della guerra di cui essi stessi sono i responsabili, anche se in maniera indiretta. L’incapacità di perdonare se stessi per aver commesso una trasgressione si associa a sentimenti molto dolorosi di colpa, vergogna, rammarico e imbarazzo mentre nella vittima che subisce un’ingiustizia le emozioni più frequenti sono rabbia e ostilità. Secondo alcuni studi queste due forme di perdono sarebbero connesse ovvero l’incapacità di perdonare gli altri sarebbe legata a una incapacità di perdonare se stessi (Berit et al., 2010).

A prescindere dalla fonte del perdono, diversi studi hanno messo in evidenza gli effetti del perdono e del non perdono sia sulla salute fisica che mentale.

L’interesse della psicologia per il perdono è andato aumentando negli ultimi decenni, in particolare a patire dagli anni ‘90 del secolo scorso quando diversi studi hanno iniziato a rilevare una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico e per questo l’attenzione si è sempre più concentrata proprio sulla comprensione dei possibili benefici del perdono sulla salute psico-fisica. Saper perdonare potrebbe essere un mezzo per favorire il benessere psicologico, riducendo la spirale di emozioni negative che intervengono quando si subisce un torto, ovvero riducendo la ruminazione, il rancore, la rabbia e tutte quelle emozioni negative che non aiutano a superare positivamente un’ingiustizia subita ma al contrario ne peggiorano la salute psico-fisica.

Ovviamente non tutti sono disposti a perdonare. Perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi: cognitivo, emotivo e comportamentale.

Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto che riguarda questo lungo e complesso processo di elaborazione di un evento negativo accaduto.

Essere capaci di perdonare si associa a minori livelli di depressione e di ansia (Touissaint et al., 2012), di ideazione paranoide, di psicoticismo, di senso di inferiorità o di inadeguatezza. L’incapacità di perdonare se stessi si associa invece a un peggior benessere psicologico, disturbo da stress post-traumatico, depressione, ansia (Witvliet et al., 2004; Dixon et al., 2014).

Perdonare l’altro di quanto accaduto aiuterebbe la vittima a superare veramente la trasgressione e il dolore connesso, evitando la ruminazione ossessiva sull’evento accaduto (Thompson et al., 2012). La ruminazione infatti è una strategia di fronteggiamento dello stress maladattiva, che si associa negativamente al perdono, sia di sé che degli altri (Dixon et al., 2014).

Un interessante modello sulla relazione tra incapacità di perdonare, ruminazione e sintomi depressivi è stato avanzato da Touissant & Webb (2005) in cui si suggerisce una relazione indiretta tra non-perdono e scarsa salute psicologica, mediata appunto dalla ruminazione. La ruminazione, il pensare continuamente al passato e ai propri errori gioca quindi un ruolo centrale nel mediare il rapporto negativo tra capacità di auto-perdono e benessere psicologico (Touissaint et al., 2001).

Secondo il modello l’incapacità di perdonare se stessi si associa, in modo indiretto, a maggiori sintomi depressivi, alienazione sociale e mancanza di sostegno da altre persone (Berit et al., 2010) e aumenterebbe il rischio di mortalità (Hirsch et al.,2011).

Tra i meccanismi che sembrano mediare questo rapporto vi sarebbe il perfezionismo e l’incapacità di accettare le proprie imperfezioni. Due forme di perfezionismo, una maladattiva (autovalutazione di se negativa) e una invece adattiva (coscienziosità, scrupolosità), possono essere presenti e associarsi in modo diverso alla psicopatologia. La forma maladattiva si associa a depressione, mentre la seconda è una forma di perfezionismo più positiva e adattiva, ovvero quella che sostiene, ad esempio, la motivazione a raggiungere successi scolastici (Dixon et al., 2014). Il perfezionismo è un costrutto molto complesso che presenta diverse dimensioni e non può essere considerata in modo univoco come una caratteristica totalmente positiva o totalmente negativa.

 Lo studio di Dixon (2014) ha indagato in modo particolare la possibile relazione tra perfezionismo, ruminazione e benessere/malessere psicologico rilevando che la forma di perfezionismo maladattiva correla in modo indiretto con la capacità di perdonarsi, mediato oltre che dalla ruminazione anche dalla accettazione di sé: maggiore è la tendenza al perfezionismo (nel senso di autovalutazione negativa), maggiori saranno i livelli di ruminazione, associato a una minore capacità di auto-accettarsi e auto-perdonarsi.

Come già detto l’incapacità di perdonare se stessi è stata rilevata in diversi studi su soggetti reduci di guerra, veterani che non riuscivano a perdonarsi di aver commesso delle violenze verso altre persone legate al loro impegno in scenari di guerra. Tra i soldati che avevano sviluppato un Disturbo Post Traumatico da Stress si sono riscontrati infatti livelli molto bassi di auto-perdono (Berit et al., 2010), oltre a livelli elevati di depressione e ansia (Witvliet et al., 2004).

La capacità di perdonare oltre a mostrare benefici sul benessere psicologico, sembra avere effetti positivi anche sulla salute fisica. Diversi studi hanno infatti dimostrato come lo sperimentare per lungo tempo emozioni negative quali rabbia, ostilità, risentimento aumenti l’incidenza di disturbi cardiovascolari (Friedberg et al., 2009). Friedman e Rosenman (1974) furono i primi a notare come le persone con un disturbo cardiovascolare fossero accomunate da un aspetto caratteriale, ovvero una ostilità liberamente fluttuante, ostilità pervasiva e duratura che si attiva in risposta anche a stimoli banali in diverse situazioni quotidiane (Grandi et al., 2011). Il modo in cui il perdono potrebbe promuovere la salute psicologica è proprio attraverso la riduzione di rabbia e ostilità favorendo emozioni positive quali compassione, benevolenza e amore.

Se da un lato pensare continuamente la possibile vendetta, rimanendo per lungo tempo focalizzati sull’evento negativo può aiutare il soggetto a nascondere il sentimento di perdita e di depressione che possono emergere quando si viene lesi moralmente, nel lungo termine non aiuta il soggetto a superare il trauma (Stoia-Caraballo et al., 2008).

La depressione infatti può emergere proprio in conseguenza dei sentimenti di perdita e di tristezza provati successivamente la trasgressione, come risultato di valutazioni cognitive negative sull’evento.

La rabbia e l’ostilità rappresentano importanti fattori di rischio per la mortalità a causa dell’aumento della pressione sanguigna che si registra durante tali emozioni negative, aumentando la probabilità di sviluppare, nel lungo termine ipertensione e malattie coronariche. In uno studio sperimentale condotto da Witvliet et al. (2001) sono stati messi a confronto due gruppi di soggetti e a entrambi è stato chiesto di immaginare quale sarebbe stata la loro reazione, la loro risposta ad un torto subito. Nello specifico è stato chiesto loro se avrebbero perdonato o meno il trasgressore: coloro che immaginavano di perdonare colui che li aveva offesi mostravano livelli di stress fisiologici più bassi (frequenza cardiaca e pressione arteriosa) rispetto a chi invece non perdonava il torto subito (Worthington et al., 2007).

La ruminazione continua su un evento in cui si è sperimentato rabbia comporta anche un cambiamento nella qualità del sonno: diversi studi hanno messo in evidenze come tra le persone con disturbi del sonno vi fossero livelli di ruminazione alti (Stoia-Caraballo et al., 2008). Anche una qualità del sonno scarsa va ad incidere negativamente sullo stato di salute generale del soggetto.

Dagli studi analizzati emerge coma la capacità di perdonare rappresenta una modalità positiva e adattiva di affrontare situazioni di vita dolorose ed evitare che tali situazioni intrappolino il soggetto in un vortice di emozioni negative che compromettono poi la salute e il benessere della persona.

Attraverso un percorso di psicoterapia il soggetto può essere aiutato nel modo di affrontare le situazioni e di reagire ad esse: non necessariamente di fronte a un torto subito si deve reagire con la vendetta, così come non necessariamente il soggetto colpevole di avere arrecato dolore deve continuare a colpevolizzarsi e autocriticarsi continuamente. E’ possibile prendere un’altra strada: da un lato cercare di empatizzare e di essere benevoli con il trasgressore, così da superare l’ingiustizia subita e interrompere il circolo vizioso della ruminazione rabbiosa. Dall’altro accettare di essere imperfetti e che nella vita si possono commettere degli errori. Non si può tornare indietro ed evitare quanto accaduto, è possibile solo accettarsi nella propria vulnerabilità e perdonarsi (Petrocchi et al., 2013).

 

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Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

BIBLIOGRAFIA:

Le 4 motivazioni per mangiare carne – Psicologia

Daniela Sorzogni

 

FLASH NEWS
I ricercatori sostengono che i mangiatori di carne, che giustificano le loro abitudini alimentari, si sentono meno in colpa e sono più tolleranti alla disuguaglianza sociale.

Un team di ricercatori della Lancaster University ha esaminato i modi in cui le persone considerano il mangiare carne. Essi hanno scoperto che la maggior parte degli onnivori difendono il loro consumare carne razionalizzando il proprio comportamento ed etichettandolo. I ricercatori sostengono che le relazioni tra le persone e gli animali sono complicate: mentre la maggior parte delle persone godono della compagnia degli animali, e ogni anno spendono milioni di dollari per la loro cura e il loro mantenimento, un’altra parte di persone continua a mangiare carne animale.

Nello studio realizzato da questo gruppo di ricercatori è stato chiesto a degli studenti e a degli adulti degli Stati Uniti se era giusto mangiare carne. Dai dati sono emerse 4 categorie o etichette usate per giustificare questo comportamento:

-Naturale: “Gli essere umani sono carnivori naturali”
-Necessario: “La carne fornisce nutrienti essenziali”
-Normale: “Sono stato cresciuto mangiando la carne”
-Gustoso: “ E’ deliziosa”

Ne risulta che la categoria più utilizzata per giustificare questa scelta è stata quella di considerare “necessaria” questa decisione.
Moralmente i vegetariani motivati, anche se in numero minore, possono servire come fonte di rimprovero morale implicito per molti onnivori, suscitando comportamenti di condanna morale.

Gli uomini approvano maggiormente le quattro categorie rispetto alle donne, mentre le persone che hanno rifiutato queste etichette hanno mostrato una maggiore attenzione per il benessere degli animali.
Le persone che si giustificano attraverso le 4 categorie condividono anche altre caratteristiche: tendono a includere un minor numero di animali nel loro cerchio di preoccupazione morale, e questo era vero indipendentemente dalla dominanza sociale. Sono stati anche meno motivati dalle preoccupazioni etiche nel fare scelte alimentari, meno attivi in rappresentanza degli interessi animali.

Le 4 categorie sono un potente strumento pervasivo utilizzato dagli individui per evitare di diffondere il senso di colpa che si potrebbe sperimentare quando si consumano prodotti animali.
Tuttavia tra le 4, i maggiori livelli di disaccordo sono stati raggiunti su “necessario” e “gustosa”, e questo suggerisce che le credenze sulla necessità di mangiare carne e sul piacere che ne deriva sono le meno convincenti per persuadere un pubblico vegetariano.

L’approvazione della naturalità di mangiare carne (ad esempio, negli esseri umani si sono evolute strutture corporee adatte a mangiare carne) era la più uniforme tra i gruppi alimentari, anche tra i vegetariani. Potremmo ipotizzare che le credenze circa la naturalezza di mangiare carne può essere la più persistente e la più difficile da modificare.

 

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Amare gli animali e mangiare gli animali: come riduciamo la dissonanza cognitiva del “meat paradox”

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Piazza, J., Ruby, M.B., Loughnan, S., Luong, M., Kulik, J., Watkins, A.M., Seigerman, M. (2015). Rationalizing meat consumption. The 4Ns. Appetite; 91: 114

Ridiamoci un po’ su…quanto è utile l’umorismo per far fronte alle avversità?

Sono molte le caratteristiche di una persona che, secondo gli esperti, si associano a una maggiore capacità di mostrarsi resilienti, ma una in particolare è stata oggetto di visioni contrapposte: l’umorismo. Una persona ironica è anche una persona resiliente?

Una vecchia canzone recitava: Riderà, riderà, riderà, tu falla ridere perchè… ha pianto troppo insieme a me … Ma davvero le basterà ridere per stare finalmente meglio?

La ricerca in materia di psicologia del benessere ha cambiato rotta dopo l’ingresso in campo del concetto di resilienza. Prima, soprattutto nello studio sulla qualità della vita e sulla percezione del benessere, si tendeva a focalizzare l’attenzione soprattutto sui fattori di rischio che gli individui incontrano nella loro vita e dell’ovvio impatto negativo sul benessere della persona. Negli ultimi vent’anni il concetto di resilienza ha permesso di studiare anche quale sia l’impatto di fattori e aspetti di vita positivi, ma soprattutto protettivi, sugli individui, in particolare nei momenti di difficoltà.

Con il concetto di resilienza, infatti, si indica quella particolare capicità di far fronte agli eventi negativi e traumatici, in maniera positiva. Non significa infatti solo subire le situazioni stressanti, ma implica una capacità di andare avanti, crescendo e ricostruendosi un nuovo percorso di vita.

Sono molte le caratteristiche di una persona che, secondo gli esperti, si associano a una maggiore capacità di mostrarsi resilienti, ma una in particolare è stata oggetto di visioni contrapposte: l’umorismo. Una persona ironica è anche una persona resiliente? Come si legano questi due costrutti?

Nell’articolo consigliato ci si interroga su quale sia l’effettivo ruolo dell’umorismo nel miglioramento della qualità di vita del soggetto e se questo possa dirsi effettivamente associato all’essere resilienti.

Gli autori hanno studiato il fenomeno analizzando dati di ogni tipo: da indagini statistiche a ricerche qualitative, da meta-analisi a descrizione di casi clinici, con l’intento di comprendere meglio se l’umorismo possa dirsi una strategia funzionale alla crescita e al fronteggiare le avversità o se invece, come altri modelli teorici sostengono, sia una forma di evitamento e dunque non sia funzionale nell’affrontare e superare il problema.

Lo studio è molto interessante e ricco di spunti per future ricerche. 

 

This article considers how humor may fit within a resiliency perspective. Following a brief overview of resiliency approaches, including selected work on positive psychology, several lines of research that provide initial support for resiliency effects of humor on stress and trauma are highlighted. This work ranges from anecdotal case report descriptions of facilitative humor use in extremely traumatic situations (e.g., paramedics), to more rigorous studies examining moderator and cognitive appraisal effects of humor on psychological well-being.

Ridiamoci un po’ su…quanto è utile l’umorismo per far fronte alle avversità?Consigliato dalla Redazione

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Nell’articolo consigliato ci si interroga sul quale sia l’effettivo ruolo dell’umorismo nel miglioramento della qualità di vita del soggetto e se questo possa dirsi effettivamente associato all’essere resiliente. (…)

Tratto da: Psych Open

 

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Le fate ignoranti. Lutto, amore, amicizia e resilienza – Recensione
Nucleo pulsante della serie tv 'Le fate ignoranti' è Eros come amore, sentimento, poesia, sessualità, rappresentata con delicatezza e gioia, libera da tabù
Resilienza: la capacità affrontare le difficoltà ed uscirne più forti- Psicologia
La resilienza: un piegarsi senza spezzarsi
La resilienza non indica l'essere immuni alla sofferenza o l'ignorare l’esperienza dolorosa, ma riuscire ad apprendere da essa
Hardiness: risorse per affrontare il futuro dopo la pandemia di Covid-19
Hardiness. Scegliere il proprio futuro nella normalità post-pandemia
Hardiness è un costrutto che può fornire alcune linee guida per affrontare al meglio il periodo post pandemia Covid-19 in un'ottica di resilienza
Resilienza e salute mentale: prospettiva multisistemica sui fattori associati
Resilienza e Salute Mentale: una prospettiva multisitemica
Diversi studi dimostrano come la resilienza umana dipenda da una serie di sistemi biologici, psicologici, sociali ed ecologici interagenti tra loro
Resilienza e fede: riflessioni sulla relazione tra le due - Psicologia
Fede e resilienza: quale relazione?
Negli ultimi anni, in campo psicologico si è assistito ad un incremento degli studi sul rapporto tra fede e resilienza, in precedenza ampiamente trascurato
Invecchiamento: tra benessere e resilienza ai tempi del Covid-19 - Report
Benessere e resilienza nella longevità all’epoca del Covid-19 – Report dal XIV Convegno Nazionale di Psicologia dell’Invecchiamento
Il XIV Convegno Nazionale di Psicologia dell’Invecchiamento ha affrontato temi relativi al mondo del lavoro, alla reazione al Covid-19 e all'ageismo
Polivittimizzazzione in età avanzata: resilienza e crescita post-traumatica
Resilienza e crescita post-traumatica a seguito di polivittimazione subita in tarda età
In ambito di polivittimizzazione in età avanzata, quale ruolo hanno resilienza, crescita post-traumatica e insorgenza del PTSD?
La mente strategica 2020 di Francesca Luzzi Recensione del libro Featured
La mente strategica. Strategie non ordinarie per vivere felici (2020) di Francesca Luzzi – Recensione del libro
'La mente strategica' spiega e suggerisce come sviluppare una forma mentis che consenta di adattarci in modo funzionale alla realtà e di vivere a pieno
La forza della resilienza 2019 di Hanson e Hanson Recensione del libro Featured
La forza della resilienza (2019) di Rick Hanson e Forrest Hanson – Recensione
Il libro La forza della resilienza la resilienza spiega come essa possa essere raggiunta esercitando un maggiore controllo e potenziando le risorse mentali
Il buco 2016 di Llenas Recensione del libro tra padagogia e psicologia Featured
Il buco (2016) di Anna Llenas – Recensione del libro
Il Buco di Anna Llenas è un libro che affronta non un dolore qualsiasi ma quel dolore, legato ad un lutto o ad un evento traumatico, che lascia il segno
Recensione dei libri per bambini di Luca Mazzucchelli e Giulia Telli 2020 SLIDER
“Tutto è difficile prima di diventare facile” e “La paura che diventa coraggio” (2020) di Luca Mazzucchelli e Giulia Telli – Recensione dei libri
Due libretti dedicati ai piccoli lettori e ai loro genitori che in maniera leggera affrontano grandi temi importanti per il nostro benessere psicologico.
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