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Psicosi e fattori di rischio cardiometabolici: una forte relazione

Irene Rossi

FLASH NEWS

Livelli molto alti di fattori di rischio cardiometabolici, in particolar modo obesità addominale, sono stati riscontrati in persone affette da psicosi, grazie ad una ricerca condotta come parte di un più ampio studio controllato e randomizzato per la promozione della salute in pazienti psicotici (IMPaCT RCT). 

Lo studio ha coinvolto i team di cinque centri di sanità mentale del sistema sanitario nazionale inglese, collocati in diversi centri urbani e rurali dell’Inghilterra, raccogliendo dati di un campione composto da 450 persone affette da psicosi, con età compresa tra 18 e 65 anni.

Dallo studio è emerso che quasi la metà del campione era affetto da obesità (48%), caratterizzata da un indice di massa corporea (BMI) maggiore di 30. In particolar modo quasi tutte le donne (95%) e molti degli uomini (73%) avevano la circonferenza del tronco, misurata all’altezza della vita, superiore a quella indicata dalla Federazione Internazionale del Diabete (IDF) come soglia per la diagnosi di obesità addominale (central obesity). L’obesità addominale si riferisce ad una condizione caratterizzata da eccesso di massa grassa attorno alla zona dello stomaco e dell’addome, tale da costituire un fattore di rischio significativo per la salute della persona.

La maggior parte dei partecipanti testati (57%) soddisfacevano anche il criterio individuato dall’IDF per le sindromi metaboliche, ovvero un gruppo di anomalie biochimiche e fisiologiche associate allo sviluppo di disturbi cardiaci, ictus e diabete mellito di tipo 2. Nello specifico un quinto del campione soddisfaceva già i criteri per il diabete e il 30% era a rischio per il suo sviluppo nel futuro.

La ricerca, pubblicata sul giornale Psychological Medicine, ha inoltre posto l‘accento su due condotte dannose che si associavano e sommavano significativamente ai rischi cardiometabolici: il 62% del campione fumava e l’88% non faceva attività fisica con costanza.

Nonostante numerosi studi precedenti avessero già sottolineato come i pazienti affetti da psicosi abbiano un’aspettativa di vita di 10-25 anni inferiore alla media, dovuta a fattori di rischio cardiovascolare, tale studio ha registrato alcuni dei valori di rischio cardiometabolico più alti di quelli mai individuati a livello mondiale. Dunque in Inghilterra la prevalenza di tali fattori di rischio in soggetti con psicosi è ancora maggiore di quanto osservato a livello internazionale.

Questi dati rinforzano la necessità di porre attenzione alla valutazione e la gestione dei rischi cardiometabolici e del peso nei percorsi di cura delle persone affette da psicosi, ponendo l’accento sulla necessità di attività fisica e di percorsi che aiutino ad abbandonare il vizio del fumo per le persone affette da malattie mentali, facendo in modo di intervenire sin dalle primissime fasi della malattia con un’azione di tipo preventivo.

Ulteriore elemento aggiuntivo del presente studio rispetto ai dati già noti, consiste nel fatto che non è stata trovata alcuna differenza significativa tra persone che assumevano psicofarmaci di diversa tipologia, slegando quindi l’aumento di peso e i rischi cardiovascolari dall’assunzione della terapia farmacologica, elemento centrale per poter impostare percorsi di cura integrati.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Manuale di terapia cognitiva delle psicosi – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Il confronto tra dominio e cooperazione – VIDEO

Lo spirito collaborativo è fondamentale per il raggiungimento di obiettivi, non necessariamente comuni.

Due buffi e panciuti animali, un alce e un orso, si incontrano a metà di un ponte molto stretto e quindi non percorribile da entrambi. I due personaggi reagiscono con prepotenza, nella speranza di accaparrarsi con orgoglio il passaggio. Si sbeffeggiano, si urtano, ma alla fine nessuno riuscirà ad avere la meglio. L’arrivo di due piccoli animaletti dispettosi porrà fine al loro litigio, in un abbraccio comune che li accompagna in una fine infausta.

Questo esilarante video di animazione, nella sua semplicità mostra quanto lo spirito collaborativo sia fondamentale per il raggiungimento di uno scopo, non necessariamente comune. I piccoli animali capiscono in fretta che la loro cooperazione può permettere a entrambi il passaggio sul ponte, pur andando in direzioni opposte.

Un video educativo e divertente rivolto sia ai bambini che agli adulti, utilizzabile in diversi ambiti: nelle scuole, per sensibilizzare gli alunni al sostegno reciproco, o in contesti lavorativi, nei quali la cooperazione diventa un tratto decisivo per il raggiungimento di scopi sia aziendali che individuali.

 

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Avrò fatto la cosa giusta? Non chiedetelo ai vostri amici!

Quando ci sentiamo insicuri, una delle prime reazioni che si tende a mettere in atto è il confidarsi con un amico o con il proprio partner e, alle loro prime parole di conforto, ci sentiamo subito capiti e accettati…ma sarà davvero così? 

Le insicurezze fanno parte dell’essere umano: dal non sentirsi in grado di svolgere un compito al non vedersi come la persona giusta per quel ragazzo che tanto ci piace, il dubbio sul nostro essere all’altezza delle situazioni è sicuramente spesso dietro l’angolo. Ovviamente il pensiero di sentirsi inadeguati non genera emozioni positive e ci ritroviamo frequentemante a fare i conti con tristezza, vergogna e senso di colpa.

Una delle prime reazioni che si tende a mettere in atto è il confidarsi con un amico o con il proprio partner e, alle loro prime parole di conforto, ci sentiamo subito capiti e accettati…ma sarà davvero così?

Secondo una ricerca condotta nel 2008 da Edward Lemay e Margaret Clark della Yale University, il confidare le proprie insicurezze a un caro amico o a un partner non farebbe altro che influire negativamente non solo su chi si confida ma anche sull’intera relazione.

Il modello che i ricercatori tentano di supportare empiricamente è più o meno il seguente: sento di aver fatto un’enorme gaffe davanti al ragazzo che mi piace e decido di confidarmi con la mia migliore amica, la quale mi conforta con frasi e gesti rassicuranti.

La stessa situazione si ripete altre volte fino al punto in cui comincio a domandarmi: e se adesso anche la mia amica pensa che io sia una persona insicura con un disperato bisogno di approvazione? (primo pensiero disfunzionale); Se fosse così, allora non è sincera quando mi dice quelle parole tanto carine e rassicuranti, le dice solo per farmi sentire meno inetta (altro pensiero disfunzionale); dunque, mostrandomi così indifesa con la mia amica non ho fatto altro che confermare quanto già temevo, che sono una persona insicura (ennesimo pensiero disfunzionale). Se ne ricava che, in questo turbinio di pensieri disfunzionali, non sono solo i poveri insicuri a rimetterci: anche la figura del confidente è vista come poco affidabile in quanto ci sta dicendo solo delle ovvietà.

Pensare di disconfermare tale modello non sembra cosa facile: gli autori hanno effettuato ben sei studi (di cui uno anche longitudinale su vere coppie di amici o partner), ognuno dei quali sembra confermare una parte del circolo vizioso di cui sopra!

Tuttavia non è il caso di allarmarsi: delle soluzioni a tutto questo ci sono e sono riportate nell’articolo consigliato. Nel frattempo, se leggere queste poche righe vi ha reso meno sicuri, be’… non riferitelo assolutamente ai vostri cari!

 

One seemingly obvious solution might be to reveal your insecurities to someone you’re close to — such as a friend or a romantic partner — so that this person could help you to feel better. However, recent research has revealed a way that this approach can sometimes fail to work, and can even backfire.

 

Avrò fatto la cosa giusta? Non chiedetelo ai vostri amici!Consigliato dalla Redazione

Avrò fatto la cosa giusta? Non chiedetelo ai vostri amici! - Immagine: 59541789
Secondo una ricerca condotta nel 2008, il confidare le proprie insicurezze a un caro amico o a un partner non farebbe altro che influire negativamente non solo su chi si confida ma anche sull’intera relazione. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Stereotipi e pregiudizi – Introduzione alla Psicologia nr. 16

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA Nr. 16

 

 

Uno stereotipo è una scorciatoia mentale usata per incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Sono delle valutazione rigide, inflessibili, che si riferiscono a concetti mai appresi in maniera diretta, ma mediati dal senso comune.

 

Il termine stereotipo, nacque in ambito tipografico molto tempo fa, e indicava gli stampi di cartapesta usati per le lettere. La caratteristica che li rendeva unici era di poterli utilizzare più volte perché molto rigidi e resistenti.

Lippmann (1992), per primo introdusse questo concetto nelle scienze sociali asserendo che il processo di conoscenza non è diretto, ma mediato da immagini mentali costruite in relazione a come ognuno di noi recepisce e percepisce la realtà.

Gli stereotipi, dunque, sono delle particolari rappresentazioni mentali, o idee sulla realtà, che se dovessero essere condivise da grandi masse in determinati gruppi sociali, prenderebbero il nome di stereotipi sociali.

Gli stereotipi, dunque, sono molto simili a degli schemi mentali e per questo sono considerati affini alle euristiche.

Uno stereotipo, quindi, è una scorciatoia mentale usata per incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Sono, grossomodo, delle valutazione rigide, inflessibili, che si riferiscono a concetti mai appresi in maniera diretta, ma mediati dal senso comune.

Permettono di attribuire, senza nessuna distinzione o critica, delle caratteristiche a un’intera categoria di persone, non curanti delle possibili differenze che potrebbero, invece, essere rilevate. Per questo, gli stereotipi sono spesso delle valutazioni o giudizi grossolani non del tutto corretti. Si tratta di idee difficilmente criticabili (rigidità degli stereotipi), in quanto ancorate alla provenienza culturale o alla personalità.

Insomma, lo stereotipo non è nient’altro che un giudizio che si forma su una determinata cultura o classe sociale. Questo giudizio può diventare pregiudizio quando non deriva da una conoscenza diretta, ma appresa. Il più delle volte si tratta di valutazioni spicce legate sempre a giudizio negativo non sottoponibile alla critica.

Non si tratta di un concetto errato, sbagliato, ma di un pregiudizio vero e proprio. Un pensiero, dunque, diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze.

Il pregiudizio su alcune categorie di persone, spesso, induce a modificare il proprio comportamento sulla base a queste credenze. Si creano, così, condizioni tali per cui le ipotesi effettuate sula base di pregiudizi ineluttabilmente si manifestano e la conseguenza è andare a confermare gli stereotipi.

Quindi, se si è convinti che i milanesi sono delle persone costumate allora, anche l’atteggiamento che si assume nel momento in cui si ha a che fare con uno di loro sarà molto controllato. L’altro che recepisce questo modo un po’ affrettato di interloquire tenderà ad essere ancora più accorto nei comportamenti messi in atto e così facendo chiaramente si rinforzerà il pregiudizio sui milanesi.

È possibile eliminare i pregiudizi? Non è qualcosa di immediato, perché i pregiudizi hanno delle basi molto solide confermate da credenze fortuitamente verificatesi.

Solo una grossa forza di volontà e intenzione di entrare realmente in contatto con l’altro potrebbe portare, alla lunga, a mettere in discussione queste forme di rigidità di pensiero.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Un excursus storico sul rapporto dell’Italia con la guerra

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 24/05/2015

 

In Italia, naturalmente, l’argomento è totalmente tabù. Esperienze positive poche. Sappiamo bene che nel Risorgimento non ce l’avremmo fatta senza Napoleone III e i francesi e l’innegabile valore di testimonianza della Resistenza non nasconde che militarmente non ce l’avremmo fatta senza gli anglo-americani.

L’Italia e la guerra? Bel tema e bel problema. Anche perché il direttore rifiuta programmaticamente di darmi chiarimenti. Come un direttore d’orchestra jazz, pensa che il bello stia nel dare il minimo di istruzioni agli umili orchestrali. Alla mia richiesta: Italia in guerra con chi? Con se stessa o con gli altri? Mi risponde che già questa domanda è un bell’inizio. Sta bene, accetto l’imbeccata. È vero. L’Italia ha un problema con la guerra, sia che la faccia agli altri che a se stessa.

Tuttavia, chi ormai non ha un problema con la guerra? L’ultima generazione che si sia sognata di avere una visione eroica della guerra furono i giovani che si slanciarono nella fornace della prima guerra mondiale. Poi venne Ypres e la guerra di trincea. La gioventù tedesca entusiasta di precipitare in battaglia assaggiò il Kindermord bei Langemarck, la strage degli innocenti di Langemarck: quattro corpi d’armata tedeschi costituiti di giovani volontari si lanciarono alla carica per tre giorni e per tre giorni furono falciati a mucchi dalle mitragliatrici. Erano tutti volontari e molti studenti, interi battaglioni composti da compagni di classe di poco più che vent’anni, con la testa piena di romanticismo e ardore eroico e patriottico. Il trauma penetrò nella coscienza collettiva e dissolse l’aura romantica della guerra.

La guerra non piace a nessuno, non solo agli Italiani. Conta il trauma della guerra moderna, con il suo inaudito gettito di sangue e distruzione, ma non facciamoci illusioni. Conta anche il più egoistico fatto che i paesi europei sono tutti usciti con le ossa rotte dalle guerre del ‘900. Quando scrivo paesi europei escludo il Regno Unito. Nei paesi anglo-sassoni le cose potrebbero essere parzialmente diverse. Basta sostare in un qualunque aeroporto e gironzolare nelle librerie dei gate per notare il ricco scaffale dei libri di storia militare dei vari paesi di lingua inglese.

L’esito felice e (diciamolo) giusto della seconda guerra mondiale ha ridato un po’ di onore alla guerra in quei paesi, producendo un’abbondante letteratura, accademica e divulgativa. La crescente tendenza poi della cultura di lingua inglese alla leggibilità, alla suspence e al coinvolgimento emotivo rende questi libri particolarmente attraenti. La complessiva positività delle figure storiche, a cominciare da Churchill, facilita le cose. Infine Hitler, il cattivone perfetto, rende il tutto definitivamente appetibile.

Le cose si complicano di nuovo con le guerre successive. I regimi comunisti –malgrado Stalin e i Gulag- non furono mai del tutto il cattivo perfetto. Il loro idealismo li protegge e le limitazioni alla libertà di quei paesi non hanno mai assunto l’aura luciferina dei nazisti, con buona pace della grandezza di Solgenizin. Anzi, tutte le ingiustizie dei paesi comunisti (raccapriccianti, a leggere sul serio Arcipelago Gulag) fanno sempre la figura di un pasticcio di una banda di incompetenti trovatisi al potere. Nulla di confrontabile con l’assassina efficienza dei nazisti.

Andando avanti sempre peggio: le rivolte coloniali, il Vietnam, Cuba, insomma cattivi sempre meno antipatici, sempre più simpatici, etnici e tropicali. E poi tutto il cinema dalla parte degli indiani pellerossa contribuiva a insinuare dubbi perfino negli innocenti ragazzoni americani. Infine la crisi finale con l’inestricabile pasticcio medio-orientale in cui ormai tutti sono e non sono tutto e niente. Tutti buoni e tutti cattivi, nessuno simpatico e nessuno nemmeno irreparabilmente odioso come un nazista: arabi e israeliani, musulmani e non musulmani, americani e non americani.

Un grande regista come Clint Eastwood riesce ancora a trovare accenti omerici e pensosi, ma la guerra è ormai un argomento di conversazione out. Il che vuol dire che è anche un argomento out nella nostra coscienza. Forse è stato così da sempre; forse anche tra i greci antichi se la cantava Omero bene, altrimenti parliamo d’altro.

Insomma forse, molto forse, nei paesi anglo-sassoni alcune esperienze positive ed eroiche in qualche modo rendono l’argomento guerra ancora affrontabile. O forse no, sono tutte balle che ci raccontiamo: l’anno scorso ero al congresso psicologico americano e finii a cena con i soliti colleghi italo-americani che, per nostalgia etnica, sono meno difensivi con me e –mi pare- non mi considerano uno straniero con il quale non parlare troppo male del loro paese. Il discorso finì sul Vietnam e fu una cosa penosa, diventò una cena a base di t-bone e senso di colpa. Dopo un po’ tornammo a parlare dei loro nonni italiani.

In Italia, naturalmente, l’argomento è totalmente tabù. Esperienze positive poche. Sappiamo bene che nel Risorgimento non ce l’avremmo fatta senza Napoleone III e i francesi e l’innegabile valore di testimonianza della Resistenza non nasconde che militarmente non ce l’avremmo fatta senza gli anglo-americani (senza contare il dettaglio che avevamo iniziato dall’altra parte).

Rimarrebbe la prima guerra mondiale, evento militare in cui in fondo siamo andati benino. Il problema è che la prima guerra mondiale è stata per tutti i paesi europei un suicidio, un irrazionale storico, un buco nero che, lungi dall’entrare nell’immaginario, lo distrugge ed è incapace di creare coscienza comune. Ogni comune italiano (e credo anche europeo: ne ho visti in Francia e in Germania) ha il suo monumento ai caduti, ed è anch’esso un buco nero di pietra bianca nella piazzetta del paese. Sta lì, a ricordare l’inutile strage alla quale nessuno voleva partecipare e che si portò via tanti uomini mai tornati, i cui nomi se ne stanno scolpiti lì, a raccontare tristi storie che nessuno ricorda più.

A Gravedona sul lago di Como ho visto scolpito sul monumento un nome incredibile: “Troppo Tardi”. Proprio così: questo caduto, quest’uomo si chiamava Troppo Tardi. Questo giovane italiano morto chissà dove, chissà se sul Piave o sulle Alpi, era evidentemente nato inaspettatamente da genitori in età avanzata che, spiritosamente, lo avevano chiamato Troppo Tardi. Forse una coppia di eccentrici un po’ anarchici come se ne trovavano in Romagna. Poi Troppo Tardi era morto presto, a poco più di vent’anni.

Di mio nonno che aveva il mio stesso nome e che partecipò a quella guerra non so nulla se non che fu chiamato diciassettenne al fronte sul Piave a fermare gli austriaci dopo Caporetto. So anche un’altra cosa: che decenni dopo, negli anni ’50, dopo averne passate tante come soldato e poi carabiniere, avrebbe voluto raccontare qualcosa di quegli anni ai suoi figli: mio padre e i suoi due fratelli e miei zii.

E loro niente, appena accennava a parlarne lo zittivano. Come faccio a saperlo? Me lo raccontò mio padre, pentendosene. Pentendosi di non aver voluto mai ascoltare i racconti di quel vecchio che aveva combattuto nelle trincee sul Piave. Come dicevo la Grande Guerra è un buco nero che non genera memoria ma la fa sparire. Chissà quante storie voleva raccontare mio nonno a mio padre, storie tristi e terribili, ma forse anche allegre.

Come magari di un commilitone lombardo che, pensa un po’, si chiamava Troppo Tardi, proprio così! Divertente, no? Può darsi, ma poi che succedeva? Avrebbe potuto chiedere mio padre. Niente, poi Troppo Tardi è morto. Forse mio padre sapeva che le storie del nonno finivano così. Chiaro che poi non aveva voglia di starlo a sentire.

Un unico ricordo di guerra è sopravvissuto alla strage della memoria. Una licenza di pochi giorni, un viaggio lunghissimo in treno dal fronte fino a Sessa Aurunca, luogo di origine della famiglia Ruggiero. E trenta chilometri a piedi dalla stazione di Capua fino a casa sua percorsi da mio nonno nella notte della campagna. Spero per lui che la licenza non fosse nel periodo invernale e che quindi quel soldato meno che ventenne percorse quei trenta chilometri nel tepore della notte estiva, nel silenzio della campagna e finalmente lontano dai colpi di cannone che probabilmente lo rintronavano al fronte.

Lasciamo da parte la guerra agli altri, che non sappiamo fare (ed è meglio così, lasciamo da parte questa abilità che è tutta satanica), e passiamo alla guerra a noi stessi. Campo nel quel si dice siamo bravi. Almeno questa è la vulgata. Si sa: l’Italia dei liberi comuni, i guelfi e i ghibellini, l’eterna discordia, l’incapacità di fare squadra, la difficoltà a fare sistema. Sappiamo, solite cose. E sicuramente in parte è vero. O forse no.

Una mia piccola convinzione me la sono fatta, in questi anni in cui ho collaborato con vari gruppi stranieri. Non ho visto tutta questa spontanea capacità di comprendersi e capirsi. Ho visto, questo sì, una volontà di organizzarsi. E quando? Ebbene, dopo una guerra dura, senza quartiere e senza prigionieri. Sto parlando di guerre tra gruppi scientifici, sia chiaro. Niente sangue. Dicevo, ho visto una volontà di organizzarsi dopo guerre spietate con un gruppo scientifico vincitore che stabiliva un paradigma indiscusso. Di qui poi la cosiddetta volontà di collaborare e così via.

In Italia, per ragioni storiche o anche perché è andata semplicemente così (che poi questo significa il parolone “ragioni storiche”: è così perché è andata così; e tanti saluti alle inesistenti cause esplicative) il vincitore unico spesso manca. Il paese è policentrico, ingombro di ostacoli geografici e culturali. I guelfi e i ghibellini ci sono perché nessuno infine prevalse, non per un’atavica tendenza alla divisione. Altrove non ci sono perché qualcuno vinse definitivamente la guerra tra potentati e stabilì il governo unitario: i Tudor o i Borbone o quel che volete.

Da noi il conflitto non è sfociato in un esito chiaro. Conta anche il terrore che il vincitore unico sia poi per sempre, che sclerotizzi la sua vittoria blindandola, come poi è effettivamente accaduto nel ventennio fascista. Ci si accontenta di compromessi al ribasso, il cui svantaggio è la carenza di regole comuni, di capacità di fare squadra. E poi si sopravvaluta la politica come mezzo per affrontare tutti i problemi e, ancora peggio, e si sopravvaluta l’appartenenza politica come mezzo per capire e giudicare le persone.

Almeno finora è stato così. Anche questa parziale verità, però, rischia di diventare luogo comune. Più che tra loro, gli italiani hanno l’abitudine di fare la guerra a se stessi. Ogni italiano é arrabbiato forse soprattutto con se stesso e con le sue insoddisfazioni. Cerchiamo nella politica un compenso alle nostre insoddisfazioni e quando non troviamo questo compenso rischiamo di andare in guerra, contro gli altri ma ancor di più contro noi stessi.

 

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Religione: credenti e non credenti di fronte alla guerra

L’adolescente e il suo psicoanalista: i nuovi apporti della Psicoanalisi dell’adolescenza – Recensione

Il testo ben evidenzia come gli adolescenti rappresentino la cartina di tornasole di un’epoca. La fragilità narcisistica, la rabbia e lo spaesamento che caratterizzano “i giovani di oggi” sono figli di un contesto che ha pian piano smantellato i propri garanti sociali (Stato, Chiesa, Partito) e modificato i propri riti di passaggio, con il rischio anche di annullare la distanza tra le generazioni.

L’Adolescenza per lungo periodo è stata considerata – per citare Anna Freud – “la Cenerentola della Psicoanalisi”. Nè bambini nè ancora adulti, gli adolescenti rappresentano una categoria a se stante e che forse sfugge alle regole di ogni qualsivoglia catalogazione. Recentemente, però, gli studi e i gruppi di ricerca si sono sempre più concentrati su questa fase specifica della vita, caratterizzata – come lo stesso R. Cahn sottolinea – da mutamenti e scombussolamenti che entrano nella stanza d’analisi e che quindi necessariamente mettono in gioco anche il terapeuta. Forse proprio perché gli adolescenti chiamano all’azione e spesso faticano a sostare in una condizione sospesa di attesa, sono “illustri sconosciuti” per buona parte dei terapeuti.

Le condizioni di disagio che nascono in adolescenza rischiano di cristallizzarsi in forme di pensiero o di comportamento patologiche, ma è anche vero – data la grande elasticità dell’apparato psichico in quel periodo di vita – che possono facilmente riorganizzarsi riscattando del tutto le sorti della persona. Adolescenza come seconda nascita è ormai un concetto piuttosto noto, ed è proprio su questo assioma che prende il via il libro curato da Cahn, ormai da decenni impegnato nel lavoro con gli adolescenti.

Lo psicoanalista sottolinea come nel rapporto di cura che si instaura con l’adolescente si debba e si possa essere garanti sì di un Setting, ma flessibile e adattabile il più possibile alla capacità riflessiva e comunicativa del ragazzo, pena la perdita del legame e la conseguente interruzione del percorso.

Il libro, scritto in modo chiaro e conciso, fornisce molte vignette cliniche puntuali che aiutano a “tradurre” la teoria in pratica. Il libro rappresenta anche a mio avviso un po’ lo stato dell’arte attuale sulla ricerca/cura in adolescenza. Non a caso, infatti, sono citati più volte e collegati tra loro autori italiani (Senise, Novelletto, solo per citarne alcuni) che hanno contribuito allo sviluppo della ricerca e del pensiero sulla clinica in adolescenza.

Ciò che accomuna la ricerca e la clinica sia italiana che francese (di cui Cahn può essere considerato uno dei maggiori esponenti) in adolescenza è la considerazione dell’esistenza di un processo specifico, con meccanismi a sè stanti, che necessariamente impongono un cambio nell’impostazione della cura e del percorso psicologico.

Essendo l’Adolescenza quella fase della vita in cui sono primari e prioritari i cambiamenti, ma forse sarebbe meglio dire gli sconvolgimenti, sia fisici (l’ingresso della pubertà, la nascita di spinte sessuali), sia mentali (la nascita del pensiero del futuro, la ricerca di una propria etica), sia sociali (l’uscita dallo status di bambini e la ricerca di una propria posizione nel mondo anche in contrapposizione con gli adulti di riferimento), come terapeuti ci viene richiesto di essere altrettanto mutevoli ma al contempo fermi in una posizione di adulto accogliente.

Il testo ben evidenzia come gli adolescenti rappresentano la cartina di tornasole di un’epoca. La fragilità narcisistica, la rabbia e lo spaesamento che caratterizzano “i giovani di oggi” sono figli di un contesto che ha pian piano smantellato i propri garanti sociali (Stato, Chiesa, Partito) e modificato i propri riti di passaggio, con il rischio anche di annullare la distanza tra le generazioni.

Cahn riflette e ci porta a riflettere sul ruolo terapeutico e genitoriale, che non devono essere confusi, ma che a volte siamo chiamati a difendere. Nelle vignette cliniche proposte viene evidenziato come il terapeuta debba rappresentare un adulto sufficientemente buono e saldo, presente ma contemporaneamente capace di farsi da parte quando necessario. L’adolescente, infatti, ha bisogno di incontrare qualcuno che dia voce alla sua sofferenza, che la accolga e la ascolti, senza necessariamente dare ad essa un’etichetta o un nome.

Potrebbe sembrare paradossale tale affermazione: fornire ad una persona alla ricerca di domande “solo” ascolto e non risposte. Si deve però sottolineare che ciò che serve al giovane non è un terapeuta muto e distante, l’analista-caricatura che “uccide” con il proprio silenzio, bensì un terapeuta umano, comunicativo e raggiungibile, che agisca come un adulto e che si assuma anche la responsabilità di prendere tempo, di far comprendere che su un’emozione, un dolore, una situazione si può anche sostare senza necessariamente agire.

Introdurre un pensiero, insomma. Una modalità relazionale nuova e che si adatta al canale comunicativo dell’adolescente che non sempre è in grado di distinguere l’extrapsichico dall’intrapsichico, e quindi a volte è puntato sul registro del fare più che del pensare.

Altro concetto chiave del testo e della teorizzazione di Cahn è il concetto di Soggettivazione, il compito più grande nel quale è impegnato l’adolescente. Farsi soggetto, costruire la propria identità potremmo dire, arredare una casa – per usare una metafora – in cui alle pareti rimangono appese fotografie del passato. Non avrebbe senso, nè sarebbe possibile, radere al suolo e costruire ex novo; il geometra adolescente va alla ricerca di un’armonia, è il terapeuta potrebbe aiutarlo in questo.

È importante sottolineare, infatti, che spesso la sofferenza dell’adolescente è rappresentato da un’incagliarsi del processo di soggettivazione, che comporta anche il coraggio e la possibilità di assumersi il rischio dei propri desideri, in un conflitto dialettico con le figure di riferimento, capendo che il confronto può essere costruttivo e liberatorio e non necessariamente annullante o distruttivo. Imprescindibile, ovviamente, il ruolo delle figure adulte che la persona incontra lungo il cammino. Ma niente è irreparabile e l’incontro con un terapeuta che agisce da adulto, occupandosi anche di “cose concrete” se necessario, può rappresentare una finestra su una modalità di essere e vivere differente e nuova.

Quello che infatti sembra emergere spesso nella seduta con l’adolescente, è il suo bisogno di “essere con”, di non sentirsi abbandonato, ma soprattutto di sentirsi capito. Imprescindibile per un ragazzo in consultazione o terapia è sentire la fiducia del terapeuta, la convinzione di non spaventarlo con pensieri o emozioni non capite è troppo forti.

Terapeutica, infatti, sembra essere la consapevolezza che il terapeuta reggerà agli scossoni, ammettendo anche la propria umanità. A tal proposito il libro fornisce anche spunti di riflessione sul mutamento del ruolo dello psicoanalista negli anni (da muta sfinge onnipotente a compartecipe attivo della seduta) fornendo così una interessante panoramica storica.

Per concludere, di questo testo ben scritto ma sicuramente specifico e tecnico e pertanto seppur chiaro poco adatto ai “non addetti ai lavori”, portiamo a casa il messaggio che per lavorare bene con un adolescente è opportuno non aver paura di ammettere di esserlo (o non esserlo) stati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Catatonia nella sindrome di Down

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

La catatonia è una sindrome neuropsichiatrica che si presenta tipicamente a livello motorio e risponde ad un trattamento con benzodiazepine e terapia elettroconvulsiva (ECT).

La sindrome di Down (DS) è il più comune disturbo genetico negli Stati Uniti ed è causato dalla trisomia del cromosoma 21 che può essere una conseguenza della non disgiunzione dei cromosomi o, meno spesso, della traslocazione.

Molti soggetti con DS sembrano subire una regressione nel comportamento, nell’umore, nelle attività quotidiane, nelle capacità motorie e intellettuali durante l’adolescenza o da adulti. Spesso sono stati considerati responsabili di questa regressione la depressione, l’esordio precoce del morbo di Alzheimer, o semplicemente l’evoluzione della stessa sindrome di Down. I medici sono generalmente inconsapevoli che la vera responsabile di questa regressione potrebbe essere la catatonia, la quale infatti può causare questi sintomi.

Questa inconsapevolezza può essere causata dal fatto che storicamente la catatonia è stata diagnosticata solo all’interno della diagnosi di schizofrenia. Solamente con la pubblicazione del DSM-5 si è dato spazio alla diagnosi di “catatonia aspecifica” che risulta essere utile quando non c’è una diagnosi neuropsichiatrica o medica sottostante. Purtroppo, il DSM-5 non è riuscito a sottolineare che la condizione può verificarsi in tutto l’arco di età, anche in bambini e adolescenti.

La catatonia è una sindrome neuropsichiatrica che si presenta tipicamente a livello motorio e risponde ad un trattamento con benzodiazepine e terapia elettroconvulsiva (ECT).

I sintomi principali sono cambiamenti nell’attività motoria (riduzione o meno spesso aumento dell’attività), movimenti inusuali (stereotipie, boccacce, congelamento, tic motori o vocali…), cambiamenti nel discorso, riduzione dell’appetito, declino delle attività giornaliere, incontinenza, negatività e deficit nell’area cognitiva. Le manifestazioni iniziali sono la disregolazione dell’umore, del sonno e la comparsa di preoccupazioni di tipo ossessivo, psicotico o quasi psicotico.

A differenza della demenza che mostra un progressivo e irreversibile declino della memoria, del funzionamento intellettuale e della personalità, i pazienti DS con catatonia rispondono al trattamento e se trattati in modo appropriato possono anche ritrovare il funzionamento iniziale.
Il dipartimento di Psichiatria nell’Università del Michigan ha condotto uno studio per valutare la presenza di catatonia in 4 adolescenti con sindrome di Down in fase di regressione.

Anche se erano presenti sintomi in molteplici domini è stata fatta una diagnosi di catatonia in base alla predominanza di sintomi a livello motorio; inoltre in tutti i ragazzi il trattamento per la depressione non ha ottenuto risultati positivi.
Infatti in 3 dei 4 ragazzi gli antidepressivi hanno fallito nell’ottenere un responso positivo e il quarto ragazzo ha addirittura subito un deterioramento.
I pazienti sono stati dunque curati con il trattamento anti-catatonico ovvero utilizzando benzodiazepine e terapia elettroconvulsiva con risultati positivi in tutti i ragazzi permettendo loro di recuperare il funzionamento di base.

Si sospetta dunque che la catatonia sia una causa comune del deterioramento negli adolescenti e nei giovani adulti con DS. Allertare i medici sulla presenza di catatonia nei DS è fondamentale per fornire una diagnosi e un trattamento adeguato e per l’identificazione della frequenza e del corso di questo disturbo.

 

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Birdman e la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo (2014) – Cinema & Psicologia

 

La sequenza continua ci rende partecipi di quell’ansia che non può essere narrata altrimenti. Entriamo così noi stessi a far parte di un ciclo continuo di umori ed eventi, sottolineati tra l’altro da una efficace colonna sonora.

Birdman, vincitore quest’anno di 4 premi Oscar (miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura originale e miglior fotografia). Di tutti, credo che quello per la regia identifichi al meglio le ragioni della grandezza espressiva dell’opera. Girato come se fosse un unico piano di sequenza, lo scopo di tale coraggiosa scelta è sì quello di rendere meglio l’idea del teatro, in cui è ambientato il film, ma anche un altro molto importante che riguarda il tema psicologico dell’opera.

La sequenza continua ci rende infatti partecipi di quell’ansia che non può essere narrata altrimenti. Entriamo così noi stessi a far parte di un ciclo continuo di umori ed eventi, sottolineati tra l’altro da una efficace colonna sonora. Sicché ci rendiamo conto che è la vita stessa ad essere così e dunque che Birdman è una rappresentazione di essa. Di quella continua e frenetica esistenza che mai si ferma e mai ci attende, di quella spinta interna che mai si arresta e mai ci dà tregua; mai un solo attimo per riflettere su chi siamo e dove stiamo andando.

Così, come nel film, l’ansia sale perché siamo sempre spinti in avanti senza poterci fermare a vivere il presente. Guardando il film assistiamo dunque ad un’opera, in parte simbolica, in parte introspettiva. Vediamo da un lato infatti una rappresentazione della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo, appunto in quella corsa continua, spinta dal desiderio di innalzarsi a chissà quale meta, che mai si raggiunge e mai ci soddisfa; ma vediamo anche il dramma di un uomo in particolare, il protagonista, preso dai suoi sensi di colpa che sfociano in dissociazioni allucinatorie man mano che la trama va avanti e man mano che la meta sembra avvicinarsi.

Vincitore di quattro premi Oscar, voglio dire tutti ben meritati, Alejandro González Iñárritu (l’autore) non è estraneo ai temi dell’esistenzialismo, che anzi lo hanno guidato in tutte le sue opere. Nato in una famiglia inizialmente benestante, ma cresciuto durante un tracollo finanziario della stessa, il regista messicano passò l’adolescenza lavorando da mozzo ad ingrassar motori su una nave mercantile. Prima del suo inizio artistico, questa sua esperienza, che lo ispirò successivamente allo studio dei classici dell’esistenzialismo, si può certamente identificare come la genesi della sua visione registica, del suo modo espressivo così crudo, realista, così vero.

E c’è molto di se stesso in questo film, molta della sua voglia di essere, molto delle sue paure, molta della sua critica al mondo di Hollywood, ma soprattutto c’è molta riflessione sull’attuale condizione dell’esistenza umana, dei nostri limiti e delle nostre ambizioni che alla fine ritornano ad una sola importante richiesta che tutti infondo abbiamo nel cuore: quella di esser visti, di essere apprezzati, di essere amati.

TRAILER:

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Sei una persona generosa? E’ tutta questione di dopamina

Cosa succede a livello neuronale che ci motiva alla generosità e all’offrire qualcosa di nostro agli altri? Un nuovo studio mette ora in luce il ruolo della dopamina nella percezione della iniquità nella distribuzione delle risorse tra individui. 

Chissà…qualcuno di noi potrebbe essere tra quelle persone che hanno sempre detto di no sia da piccoli, alla classica richiesta del compagno di banco Mi dai un pezzo della tua merenda?, che da grandi, alle pressioni di sorelle o fratelli che volevano i nostri cd o le nostre maglie. E in risposta a questo rifiuto gli altri potrebbero averci additato come avidi o ingordi… nessun problema, ora ci si può giustificare grazie ai livelli di dopamina rilasciati dal nostro cervello!

Gli esseri umani, data la scarsa prestanza fisica rispetto alle altre specie viventi, nel corso della loro evoluzione, hanno dovuto fare affidamento ai sentimenti di generosità per consentire un’equa distribuzione delle risorse intra-specie in modo da garantire la sopravvivenza dei propri simili.

Ma cosa succede a livello neuronale che ci motiva alla generosità e all’offrire qualcosa di nostro ad altri? 

Un nuovo studio mette ora in luce il ruolo della dopamina nella percezione della iniquità nella distribuzione delle risorse tra individui: i soggetti dello studio sono stati sottoposti dapprima a un questionario che indagava la sensibilità di ciascun individuo ai temi della disuguaglianza e tolleranza, successivamente sono stati formati due gruppi di soggetti. Ai partecipanti del primo gruppo è stata somministrata una dose di tolcapone (una sostanza che favorisce l’aumento del rilascio di dopamina nel cervello), ai partecipanti del secondo gruppo è stata somministrata una sostanza placebo. I soggetti di entrambi i gruppi hanno poi giocato a una versione modificata di Dictator Game, in cui è stato chiesto loro di scegliere quanti gettoni conservare e quanti invece distribuirne a un partner di gioco anonimo.

Quale ruolo avrà la dopamina in tutto ciò? Favorirà i comportamenti generosi o, al contrario, tenderà ad inibirli? Per scoprirne di più leggete l’articolo consigliato.

 

A research team led by Ignacio Saez of UC Berkeley had study participants play various versions of the Dictator Game — more or less: Here, take these 100 tokens worth a little money and decide how many you want to keep versus how many you want to give to an anonymous partner…

Quanto sei generoso? E’ tutta una questione di dopaminaConsigliato dalla Redazione

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Cosa succede a livello neuronale che ci motiva alla generosità e all’offrire qualcosa di nostro ad altri? Un nuovo studio mette ora in luce il ruolo della dopamina nella percezione della iniquità nella divisione delle risorse. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Obesità: il peso dello stigma fa aumentare di peso

Elena Sirotti, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le persone sovrappeso o obese sono una delle categorie sociali più colpite da discriminazioni, pregiudizi e stereotipi. I pregiudizi negativi derivano dal fatto che comunemente si crede che il comportamento alimentare (e il conseguente peso della persona) sia totalmente sotto il nostro controllo e che, di conseguenza, se si è grassi è colpa della persona stessa.

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità (2011), l’obesità colpisce circa il 10% degli italiani adulti, e circa il 12% dei bambini. Il problema non è naturalmente solo italiano: l’obesità sta assumendo le caratteristiche di una vera e propria pandemia a livello mondiale (OMS, 2007). L’obesità è un fattore di rischio per serie patologie croniche come malattie cardiovascolari, diabete di tipo II e anche alcuni tumori. Le conseguenze di questa malattia non sono solo mediche ma anche psicologiche e sociali (Tomasetto e Privato, 2013).

Le persone sovrappeso o obese sono una delle categorie sociali più colpite da discriminazioni, pregiudizi e stereotipi. Nella cultura occidentale, infatti, è mentalità comune considerare queste persone come pigre, deboli, senza forza di volontà, poco intelligenti e senza disciplina o controllo, queste convinzioni sono già insite nei bambini dai 6 anni (Wadden e Stunkand, 1985).

I pregiudizi negativi derivano dal fatto che comunemente si crede che il comportamento alimentare (e il conseguente peso della persona) sia totalmente sotto il nostro controllo e che, di conseguenza, se si è grassi è colpa della persona stessa. Purtroppo l’aumento di peso non dipende solo dalla nostra volontà ma anche da fattori genetici, sociali e psicologici.

Le discriminazioni e le critiche per il proprio peso possono condurre a diversi esiti negativi per la salute psico-fisica, per le relazioni interpersonali e affettive e per la condizione socio-economica. In particolare possono portare gravi conseguenze nel benessere psicologico come ansia, depressione, ritiro sociale, bassa autostima e nei casi più gravi suicidio.

Il pregiudizio sul peso si può presentare sotto diverse forme e sfaccettature:

  • derisione o presa in giro verbale (soprannomi negativi, appellativi insultanti o denigratorie),
  • bullismo fisico, psicologico o sul web,
  • vittimizzazione relazionale o isolamento sociale (le persone sovrappeso evitate, escluse o ignorate, Brownell et all. 2005).

Questi pregiudizi sono talmente radicati nella società che favoriscono l’internalizzazione di un modello di corpo eccessivamente magro (Tomasetto e Privato, 2013).

Questo può portare, specialmente durante l’adolescenza, avere una scarsa accuratezza nella valutazione del proprio peso. Molti adolescenti normopeso, per esempio, hanno l’errata percezione di sentirsi sovrappeso (Quick,et all, 2014). Le ricerche in questo ambito hanno sottolineato che questo errore di valutazione è legato a insoddisfazione per le forme corporee, stress psicologico e disturbi alimentari.

Inoltre gli individui che si percepiscono più grossi rispetto alla realtà riportano di seguire ricorrentemente diete e comportamenti estremi per perdere peso come uso di pillole, lassativi o vomito e forti restrizioni alimentari (Eichen, Conner, Daly & Fauber, 2012). Altre ricerche evidenziano come gli adolescenti che si credono in sovrappeso fanno più attività sportiva rispetto ai coetanei, ma allo stesso tempo passano più ore davanti ad uno schermo e sono più inclini ad abbuffarsi.

I dati mostrano quindi che un’errata percezione corporea è associata all’aumento della probabilità di diventare obesi. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta sembra il momento cruciale di questo processo.

Una recente ricerca longitudinale (Sutin e Terracciano, 2015) ha studiato come, durante il periodo tra l’adolescenza e la prima età adulta, la dispercezione corporea sia un fattore di rischio molto importante nello sviluppo dell’obesità.

Lo studio è stato effettuato su 6523 ragazzi di entrambi i sessi di età media di 16 anni. I soggetti sono stati sottoposti alle misurazioni di peso e altezza in modo da ottenere i loro indici di massa corporea, e ad alcune semplici domande su come si sentivano rispetto al loro peso. Gli stessi soggetti sono stati poi ricontattati all’età di 28 anni. È emerso che i ragazzi che si sentivano grassi, nonostante un indice di massa corporea nella norma, dimostravano il 40% di rischio in più di diventare obesi rispetto ai coetanei che avevano una rappresentazione di sé più realistica. Si sottolinea che questa tendenza è stata riscontrata in entrambi i sessi e che sembra, al contrario dell’idea comune, che i ragazzi siano molto più a rischio delle coetanee.

Secondo gli autori ci sono due meccanismi che possono spiegare questi risultati. Il primo è legato alla stigmatizzazione sociale, infatti, le persone che sono state etichettate come grasse nell’infanzia tendono a attuare comportamenti che aumentano le probabilità di diventare obesi, come diete molto restrittive, uso di lassativi, digiuni prolungati (Hunger e Tomiyama, 2014). Il secondo meccanismo è invece legato all’auto-stigmatizzazione e alle ridotte abilità di auto-regolazione e di controllo sui propri comportamenti che queste persone presentano.

Crescendo questi ragazzi interiorizzano i pregiudizi legati al peso e diventano più ansiosi e depressi, questi stati emotivi rendono più difficile intraprendere uno stile di vita salutare, esacerbando la volontà di controllare la propria alimentazione e facilitando l’attuazione di diete ferree per dimagrire che vengono regolarmente infrante aumentando le percezione di poco controllo sull’alimentazione e emozioni negative come tristezza e ansia. Così si entra in un circolo vizioso che è difficile bloccare. Inoltre queste persone pensandosi già grasse fanno più fatica a rendersi conto di quando e quanto ingrassino realmente.

I significativi aumenti di peso possono essere duramente commentati da amici e familiari e pongono ancor maggior attenzione sui comportamenti alimentari della persona sovrappeso (Puhl, Moss-Racusion, Schwartz & Brownell, 2008).

A parità di sovrappeso le esperienze di stigmatizzazione e di discriminazione percepita riducono il benessere psicologico, incrementano il rischio di patologie organiche correlate all’obesità e riducono la probabilità di adottare comportamenti alimentari corretti e un livello di esercizio fisico adeguato.

Lo studio di Sutin e collaboratori fa parte di un recente, seppur molto produttivo e interessante, filone di ricerche. Infatti è stato riscontrato che adolescenti normopeso si percepiscono più grassi rispetto all’indice di massa corporeo reale (Quick et al., 2014) e sembra che la dispercezione corporea sia legata al rischio di insoddisfazione per il proprio corpo, stress psicologico e disturbi alimentari.

In un’altra recente ricerca effettuata (Isomaa, Isomaa, Marttunen, Kaltiala-Heino & Biorkvist, 2011), che ha utilizzato questionari e interviste su un gruppo di 595 adolescenti di 15 anni (283 femmine e 312 maschi), è emerso che il 29% delle ragazze e il 14% dei ragazzi percepivano in modo errato se stessi e il proprio peso. L’errata percezione del peso nelle ragazze era correlata a sintomi depressivi, ansia sociale, disturbi alimentari e bassa autostima; mentre i ragazzi sperimentano più ansia sociale al follow-up rispetto ai loro omologhi con una corretta percezione corporea.

Altre conferme in questa direzione arrivano dall’Olanda. Infatti Ter Bogt e collaboratori (2006), su un campione di 7556 ragazzi delle scuola primarie e secondarie, hanno indagato la correlazione tra l’indice reale di massa corporea, la percezione soggettiva del peso e indicatori di disagio sociale valutati con lo Youth Self-Report di Achenbach che valuta otto tipi di comportamenti problematici. I risultati mostrano che i ragazzi (maschi e femmine) che non hanno una corretta percezione del loro peso riportano maggiori problemi comportamentali legati all’ansia, all’ansia sociale e alla depressione.

L’aumento della popolazione in sovrappeso, l’importanza sociale della magrezza, la diffusione endemica di pregiudizi e stereotipi e i gravi danni che questi possono causare devono quindi porre l’attenzione di educatori, professori, genitori, medici e istituzioni, ovvero tutte le persone che hanno a che fare con bambini e adolescenti, su questo importante tema.

Le percezioni del proprio corpo e delle proprie misure devono essere prese sul serio per tutti gli adolescenti, l’attenzione va posta non soltanto su chi è effettivamente in sovrappeso, ma anche su chi ha una cattiva percezione del proprio corpo, pur rientrando nella norma. Inoltre, da parte degli adulti, sono fondamentali delicatezza e cautela verso gli adolescenti quando si affrontano questioni legate al grasso corporeo, non solo quando si tratta di ragazze.

Anche se Sutin e altri ricercatori sono stati in grado di determinare come le dispercezioni degli adolescenti sono associate ad un aumentato rischio di obesità, una maggiore conoscenza dei processi psicologici che contribuiscono all’obesità potrà migliorare gli sforzi di prevenzione per aiutare gli adolescenti a mantenere un peso sano durante la crescita verso l’età adulta.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Sull’intimità, lontano dal frastuono dell’amore (2014) di François Jullien

Sull’intimità è il titolo di un interessate saggio di François Jullien, che tratta appunto del significato della vicinanza emotiva che porta due persone a definirsi intimi. L’autore ci mostra che essere intimi non significa per forza conoscere i fatti; non significa farsi spazio nella vita dell’altro, ma fare spazio all’altro nella propria vita, facendo un passo indietro piuttosto che un passo avanti.

Il libro è direttamente indirizzato alla figura femminile a partire dalla dedica che recita A colei che vi si riconosce, e prosegue delineando uno scenario di esodo dalla Francia della Seconda Guerra Mondiale (traendo le immagini dal libro di Georges Simenon, Il treno) in cui i protagonisti, sconosciuti fino al momento della partenza del treno, possono costruire un’intimità nel poco tempo che li accomuna, utilizzando un dentro segreto dove rifugiarsi contro un Esterno in disfacimento.

Intimità quindi intesa come spazio che può unire due persone non per forza esperte l’uno dell’altra, né conoscenti di lunga data: intimità piuttosto come spazio mentale dove ognuno è pronto a accogliere l’altro, dove i due possono insieme trovare un’alternativa a un contesto esterno in questo caso ostile e disperato.

In modo simbolico, estremizzando quello che può accadere a tutti noi nella quotidianità, i due protagonisti del romanzo decidono tacitamente di costruire questo spazio alternativo e privato senza utilizzare parole, ma solo attraverso gli sguardi, dispensando la loro intimità, appunto, dalle chiacchiere.

Ecco allora come l’autore ci mostra che essere intimi non significa per forza conoscere i fatti; non significa farsi spazio nella vita dell’altro, ma fare spazio all’altro nella propria vita, facendo un passo indietro piuttosto che un passo avanti. Spesso, secondo l’autore, c’è un vizio di forma che ci porta a concepire l’intimità come la capacità di due persone di mettersi una di fronte all’altra: secondo lui, al contrario, la vera intimità sta nel mettersi dalla stessa parte di fronte al Fuori del mondo e della vita errante […] fianco a fianco a sentire, a guardare. In questo senso, l’intimità si configura come l’alternativa alle relazioni con il mondo convenzionale, come cioè quella relazione in cui annullando la distanza tra di loro, possono rimettere a distanza il mondo.

Intimità però vuole dire anche condivisione di uno spazio comune costruito dalle due persone, che non sarebbe stato possibile senza l’intenzione di entrambi, e che adesso sottostà a regole nuove e idiosincratiche di quello spazio interiore.

Jullien procede dunque con uno studio dell’etimologia della parola intimità, e del suo senso nelle diverse lingue antiche, per arrivare al significato religioso dell’intimità e a come questa sia apparsa con significati diversi nei diversi culti. Coerentemente con il sottotitolo del libro (lontano dal frastuono dell’amore), l’autore prosegue con un’analisi approfondita di cosa significhi l’intimità nelle relazioni di coppia, spesso ridotte (dal punto di vista di Jullien) alla parola amore.

Come dicevamo, l’intimità viene perseguita per sottrazione: in questo senso, togliere uno scopo alla relazione e eliminare un obiettivo che interessa la controparte è necessario perché la relazione diventi intima:

ciò che rende possibile l’intimità […] è che non ci siano più mire né progetti sull’Altro; in altri termini, che non si voglia né ci si attenda nulla da lui; che si liberi la relazione da qualsiasi finalità e interesse.

Ecco allora che il concetto stesso di intimità si svincola dalle relazioni amorose, per caratterizzare anche quelle relazioni di amicizia in cui, appunto, non ci si muove nel rapporto con una precisa finalità o con un obiettivo che interessa l’altro, ma avendo il rapporto stesso come unico interesse.

Uno degli aspetti più interessanti e innovativi che permea tutto il saggio di Jullien è la revisione del concetto di intimità, che non è concepita per nulla come qualcosa di delicato e di fragile:

non è sdolcinata, dolciastra, placida, ma la cosa più esigente. Mentre ce la si presenta spesso e volentieri come una comodità dei sentimenti, un ritiro lontano dalle aggressioni del mondo esterno, la messa al riparo dai suoi colpi e dalle sue violenze […], l’intimità è in sé sconvolgente.

In questo senso, un rapporto intimo non è visto come qualcosa da tutelare per la sua fragilità, ma piuttosto come qualcosa di strabiliante, che permette un ribaltamento della prospettiva e che spiazza i protagonisti del rapporto. Ma quand’è che un rapporto diventa intimo? Per rispondere a questa domanda l’autore chiama in causa Stendhal, che nell’Amore scrive l’intimità non è tanto la felicità perfetta, quanto l’ultimo passo per raggiungerla: questo passo scandisce inevitabilmente un prima e un dopo, che cambia in modo irreversibile l’identità stessa delle parti coinvolte.

Sull’intimità è un saggio interessante dove le tematiche filosofiche (campo privilegiato da Jullien) fanno spazio, se applicate alle relazioni che tutti noi ci troviamo a vivere, a considerazioni anche molto pratiche e argute su quello che significa stare vicino all’altro e costruire con lui uno spazio che non sia un rifugio da un mondo difficile (come siamo portati a credere per quanto riguarda le relazioni di coppia), ma piuttosto un varco che emerge in modo spontaneo ma netto in cui sia possibile guardare insieme in una direzione sospendendo il giudizio sull’altro e mantenendo il rapporto stesso come unico obiettivo della relazione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Jullien, F. (2014). Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore. Raffello Cortina: Milano.
  • Simenon, J. (2008). Il treno. Adelphi: Milano.
  • Stendhal (1980). L’amore. Mondadori: Milano.

Transessualità, omosessualità e bisessualità: possibili fattori di rischio per patologie legate all’alimentazione

FLASH NEWS

La ricerca in questione si è posta l’obiettivo di testare l’associazione tra l’identità di genere, l’orientamento sessuale e la diagnosi di patologie alimentari così come la presenza di comportamenti compensatori, come l’uso di pillole dietetiche, lassativi o vomito autoindotto.

Ad oggi la maggior parte degli studi sulla patologia alimentare si è concentrata su soggetti che possono essere definiti “cisessuali”, cioè persone che sul piano biologico, personale e sociale si trovano a loro agio con il genere che è stato loro assegnato alla nascita. Quindi pochissime ricerche hanno confrontato i dati sui tassi di prevalenza dei disturbi alimentari nei cisessuali e nei transessuali e nessuno studio ha preso in esame persone che, pur riconoscendo la concordanza tra la loro identità di genere ed il corrispettivo ruolo e comportamento, si dichiarano bisessuali o incerti sul loro orientamento sessuale. Ciò a fronte dell’evidenza che, ad esempio, per le persone transessuali è più frequente provare una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo, aspetto che, come diversi studi hanno rilevato, può aumentare il rischio di disturbi alimentari.

Quindi la ricerca in questione si è posta l’obiettivo di testare l’associazione tra l’identità di genere, l’orientamento sessuale e la diagnosi di patologie alimentari così come la presenza di comportamenti compensatori, come l’uso di pillole dietetiche, lassativi o vomito autoindotto.

A questo scopo sono stati considerati quasi 290 studenti reclutati da 223 università americane di cui, attraverso un’ intervista, si è indagato il genere, l’orientamento sessuale, se nell’ultimo anno hanno ricevuto dei trattamenti professionali per diagnosi di anoressia o bulimia e se negli ultimi trenta giorni hanno fatto ricorso a pillole dietetiche, vomito autoindotto o lassativi (sono state poi considerate anche altre variabili come l’etnia, l’uso di tabacco, le esperienze di binge drinking, il livello di stress, l’attività sportiva ed il prendere parte a comunità sociali).

Relativamente all’identità di genere e all’orientamento sessuale le interviste hanno permesso di suddividere i partecipanti in quattro categorie: transessuali, cisessuali che si dichiarano omosessuali o bisessuali, eterosessuali e insicuri sul proprio orientamento.

I risultati hanno mostrato che i tassi maggiori di patologie alimentari sono riscontrabili tra gli studenti transessuali e in quelli cisessuali che si dichiarano omosessuali o bisessuali, ciò è vero in particolare per i maschi; inoltre gli studenti transessuali presentano anche un numero più elevato di comportamenti compensatori, così come accade per le femmine che dicono di essere insicure del proprio orientamento sessuale, aspetto che le distingue dalle femmine eterosessuali. Infine i maschi eterosessuali sono quelli che mostrano un numero minore di disturbi alimentari e di comportamenti compensatori.

Questi risultati possono trovare diverse spiegazioni. Ad esempio le persone transessuali potrebbero cercare di perdere peso per rendere meno evidenti i caratteri sessuali secondari, oppure nel caso specifico delle donne transessuali i comportamenti tipici delle patologie alimentari possono essere funzionali ad aumentare l’ attrattività e la magrezza tipiche femminili.

Inoltre gli individui che hanno deciso di modificare il loro genere vivono dei livelli più elevati di stress a causa della discriminazione e dello stigma sociali, stress che è comune anche tra le persone omosessuali, bisessuali o incerte del loro orientamento sessuale. Una terza possibilità riguarda il fatto che i transessuali rispetto ai cisessuali presentano più probabilmente delle forme di psicopatologia e ciò li rende inclini a ricercare più spesso dei trattamenti professionali; quest’ultimi vengono anche richiesti per l’implementazione delle terapie funzionali al cambiamento di genere.

Nonostante i limiti che caratterizzano la presente ricerca, come ad esempio il fatto che considera solamente le diagnosi di anoressia e bulimia, la difficoltà di generalizzare i risultati dato che è stata condotta su studenti universitari o i confini non così netti tra disturbi alimentari, identità di genere ed orientamento sessuale, essa ha contribuito a mettere in evidenza l’importanza e la necessità di un intervento precoce su questa popolazione a rischio.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Omosessualità: perchè le terapie riparative sono inutili (e dannose)  

BIBLIOGRAFIA:

Quando addormentarsi a scuola è una malattia: Piperita Patty e la Narcolessia – Peanuts Nr.5

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA Nr. 5

Piperita Patty è nota tra i personaggi dei Peanuts per le difficoltà scolastiche, infatti è spesso ritratta per i suoi problemi di attenzione, difficoltà di lettura, scrittura e improvvisi attacchi di sonno.

Piperita Patty & Narcolessia - PeanutsCome spesso accade anche nella realtà scolastica, Piperita Patty è vista come una bambina pigra, svogliata e poco motivata, tutti aspetti che giustificherebbero lo scarso apprendimento e il livello mediocre delle sue prestazioni.

Questa situazione è frequente ed è figlia della difficoltà a riconoscere in modo tempestivo i primi sintomi della narcolessia. Si tratta di una malattia rara, di origine neurologica e difficilmente diagnosticabile. In Italia sono stimate circa 25000 persone affette dalla patologia, delle quali solo 2000 hanno una diagnosi accertata, e tra queste pochissimi sono bambini e adolescenti.

Come riporta l’Associazione Italiana Narcolettici e Ipersonni (AIN), la diagnosi viene fatta in media dopo 7 anni dalla comparsa dei sintomi e in questo lasso di tempo le diagnosi erronee più frequenti sono l’epilessia, disturbi dell’apprendimento o altri disturbi del sonno. Quando la presa in carico è nulla, gli adolescenti vengono invece scambiati per abusatori di sostanze o amanti delle “ore piccole”, mentre gli adulti per persone inaffidabili e incostanti sul lavoro.

Le conseguenze sul piano psicologico di una mancata comprensione del problema sono notevoli perché minano la qualità della vita dei soggetti in tutte le aree, da quella scolastica a quella relazionale e lavorativa. Infatti, i sintomi caratteristici della narcolessia spesso si accompagnano vissuti di inadeguatezza e frustrazione, ansia, depressione e senso di colpa e di fallimento.

 

La diagnosi di Narcolessia

Secondo il manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali quinta edizione (DSM 5), i criteri che soddisfano la diagnosi di narcolessia sono:

A) Periodi ricorrenti di irrefrenabile bisogno di dormire, di attacchi di sonno o di sonnellini che si verificano nello stesso giorno. Questi devono essersi verificati almeno tre volte la settimana negli ultimi tre mesi.

B) La presenza di almeno uno dei seguenti:

  1. Episodi di cataplessia, definiti come in a) o in b), che si verificano almeno qualche volta al mese:
    a) Negli individui con malattia di lunga durata, brevi episodi di perdita bilaterale improvvisa del tono muscolare con conservato livello di coscienza, precipitati da una risata o da uno scherzo.
    b) Nei bambini o negli individui entro 6 mesi dall’esordio del disturbo, smorfie spontanee o episodi di apertura della mascella con protrusione linguale o ipotonia globale, senza evidenti stimoli emozionali.
  2. Carenza di ipocretina in assenza di danno cerebrale acuto, infiammazione o infezione.
  3. Polisonnografia del sonno notturno che mostra una latenza del sonno REM minore o uguale a 15 minuti.

L’ambiente scolastico è il contesto in cui il narcolettico incontra le prime gravi difficoltà e dove è messo a dura prova.

La Narcolessia colpisce le persone in modo diverso e con diversi gradi di intensità: c’è chi ha più attacchi di sonno improvvisi e repentini, chi ha più cataplessie, chi ha più allucinazioni in fase di addormentamento (allucinazioni ipnagogiche) o di risveglio (allucinazioni ipnopompiche). Quindi non esiste una terapia univoca, ma diversi approcci a seconda dei casi specifici.

Al fine di sensibilizzare la scuola nel riconoscimento tempestivo dei sintomi, l’Associazione Italiana Narcolessia insieme all’Associazione Francese hanno messo a punto una brochure che aiuta a comprendere le difficoltà scolastiche dell’alunno, con l’obiettivo di formulare un piano personalizzato di scolarizzazione. I soggetti narcolettici infatti possono migliorare i propri livelli di apprendimento e la propria qualità di vita attraverso delle strategie comportamentali efficaci, come fare piccoli intervalli di sonno durante il giorno, e attraverso una terapia farmacologica adeguata.

Per approfondimenti sul tema, e visionare i questionari di auto-somministrazione, visitare il sito www.narcolessia.it

 

 

 

RIFERIMENTI UTILI:

  • Bruni O, Novelli L, Verrillo E (2007). I disturbi del sonno nella prima e seconda infanzia: valutazione e diagnosi. In “Psicosomatica in età evolutiva” a cura di Rita Cerutti e Vincenzo Guidetti. Il Pensiero Scientifico Editore
  • American Psychiatric Association (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione. Raffaello Cortina Editore pp 433-439

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Burnout: un modello teorico per capire il ruolo delle risorse psicologiche personali

Qualsiasi impiegato modello torna a casa un po’ (o tanto) stressato dal lavoro, capita a volte però che vi siano lavoratori che presentano livelli di stress e disagio psicologico di gran lunga superiori rispetto alla media.

Da molto tempo ormai è conosciuto in Psicologia, e non solo, il fenomeno del Burn-out: il termine, la cui traduzione è Bruciato, descrive una sindrome dovuta a un processo stressogeno che colpisce le persone in ambito lavorativo, causando una perdita della motivazione e del raggiungimento degli obiettivi nelle proprie mansioni. Si presenta come un lento logoramento psichico ma anche fisico dovuto alla mancanza di energie utili per affrontare e scaricare lo stress accumulato.

Il burnout è stata definita una Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo prolungato (Tomei, Tomao e Sancini, 2003) .

Un modello influente nella letteratura sul burnout è il modello Job Demands–Resources (JD–R) che identifica due componenti principali del luogo di lavoro nel manifestarsi del burnout: le richieste lavorative (aspetti del lavoro che richiedono costi fisici e psicologici) e le risorse lavorative (che comprendono aspetti fisici, psicologici o sociali del posto di lavoro che aiutano le persone a realizzare i loro compiti). L’interazione tra queste due componenti può influenzare i livelli di stress.

In questo modello però poco spazio viene dato alle risorse psicologiche personali, per es. l’autostima, e come queste possono entrare in relazione alle due componenti del modello JD-R.

In un articolo pubblicato su European Journal of Work and Organizational Psychology, gli autori (Fernet et al.), sulla base di un’analisi dei dati condotta su 356 lavoratori, hanno integrato il ruolo delle risorse psicologiche nel burnout, attingendo inoltre ad aspetti della teoria dell’autodeterminazione (SDT).

Per saperne di più, vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato.

 

The authors used occupational data from 356 school board employees and found that the three SDT-based psychological resources mediated the impact of job demands (role overload and ambiguity) and job resources (job control and social support) on aspects of burnout. Adding psychological resources to the model helped explain how certain job demands and resources differently predict specific aspects of burnout.

 

Burn out: un nuovo modello teorico per capire il ruolo delle risorse psicologiche personaliConsigliato dalla Redazione

Burn out: un nuovo modello teorico per capire il ruolo delle risorse psicologiche personali - Immagine: 48218874
In un articolo pubblicato su European Journal of Work and Organizational Psychology, gli autori, sulla base di un’analisi dei dati condotta su 356 lavoratori, hanno integrato il ruolo delle risorse psicologiche nel precedente modello teorico del burnout. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Psicopatologia e psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità

Melania Marini

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOCP) si caratterizza (DSM-5) in base ad alcuni specifici tratti di personalità: preoccupazione per i dettagli, perfezionismo, eccessiva devozione per lavoro e produttività, estrema coscienziosità, difficoltà a delegare compiti, difficoltà a gettare oggetti inutili, avarizia, testardaggine e rigidità.

Questo disturbo è associato ad una difficoltà nel funzionamento psicosociale e ad una ridotta qualità della vita.

Gli individui con questo disturbo mostrano un moderato livello di difficoltà nel funzionamento della personalità che si manifesta nelle seguenti aree: identità, intimità, empatia, capacità di autodirezione. Oltre un rigido perfezionismo, possono essere presenti due o più dei seguenti tratti psicopatologici di personalità: perseveranza, affettività ristretta, evitamento dell’intimità.

Gli individui con DOCP si sentono continuamente obbligati a raggiungere obiettivi e faticano a dedicarsi a momenti di piacere e rilassamento. Controllano gli altri e se gli altri sfuggono al controllo diventano ostili e possono avere esplosioni occasionali di rabbia sia a casa che al lavoro.

Il DOCP nella popolazione psichiatrica è il terzo disturbo di personalità più comune (Zimmerman, Rothschild, Chemlinski, 2005; Rossi, Marinangeli, Butti, Kalyvoka, Petruzzi, 2000). Co-occorre con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) (De Reus, Emmelkkamp, 2012; Cain, Ansell, Simpson, Pinto, 2015) ma i due disturbi non si sovrappongono, per esempio il DOCP è ego-sintonico al contrario del DOC e nel primo possono essere assenti ossessioni e compulsioni (Pinto, Eisen, 2011). Il DOCP co-occorre con disturbi d’ansia (Grant, Mooney, Kushner, 2012; Grant, Hasin, Stinson, Dawson, Chou, Ruan, et al., 2005) 23%, disturbi affettivi 24%, dipendenza da sostanze 25%, disturbi alimentari 13% (Halmi, Tozzi, Thornton, Crow, Fichter, Kaplan, 2005), depressione unipolare 14% (Schiavone, Dorz, Conforti, Scarso, Borgherini, 2004). In base a molti studi (Stuart, Pfohl, Battaglia, Bellodi, Growe, Cadoret, 1998; Rossi, Marinangeli, Butti, Kalyvoka, Petruzzi, 2000; Hummelen, Wilberg, Pedersen, Karterud, 2008) co-occorre frequentemente con i Disturbi Schizotipico e Paranoide di Personalità.

Riguardo al funzionamento interpersonale di individui con DOCP, Cain e colleghi (2015) hanno esaminato un campione di 25 individui con DOCP, un campione di 25 individui con DOCP in co-morbilità con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) ed uno di controllo di 25 soggetti. I soggetti con DOCP hanno evidenziato elevate difficoltà interpersonali in merito alla ostilità-dominanza ed un’alta estroversione. I soggetti con DOCP e DOC hanno mostrato maggiori tendenze alla sottomissione e maggiore introversione. Individui con DOCP, con e senza DOC, hanno riportato una minore abilità nel tenere in considerazione il punto di vista altrui in modo empatico.

Sempre considerando il dominio delle relazioni interpersonali, la qualità dell’attaccamento è compromessa nel DOCP. Emerge che spesso non si è formato un attaccamento sicuro e i pazienti hanno ricevuto poche cure ed un eccesso di protezione durante l’infanzia con un successivo fallimento nello sviluppo emotivo ed empatico (Nordhal, Stiles, 1997; Perry, Bond, Roy, 2007).

È altresì importante (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) tenere in considerazione anche circostanze relativamente recenti che possano comunque aver contribuito alla cristallizzazione di uno schema patogeno. Lo schema interpersonale patogeno è una struttura procedurale intrapsichica consolidatasi nel tempo attraverso le esperienze, una rappresentazione soggettiva del destino a cui andranno incontro i nostri desideri nel corso delle relazioni con gli altri.

Un soggetto con DOCP può avere il desiderio di autonomia ed esplorazione ma immagina che se mostra spontaneamente le sue emozioni e propensioni, l’altro si mostrerà critico, aggressivo, punitivo ed impositivo; in risposta, il soggetto prova paura e soggezione e controlla emozioni (inibizione emotiva) e comportamento, rinuncia all’esplorazione bloccando i piani spontanei autogenerati e si conforma alle aspettative dell’altro, sperimentando un senso di costrizione unitamente ad un senso di inefficacia personale, al quale segue un’ipertrofia della rilevanza delle regole (tratto ossessivo); può anche immaginare di mostrare le sue emozioni e propensioni, ma prevede che l’altro rimarrà deluso e soffrirà; in risposta, la persona prova colpa e perde convinzione nel desiderio, rinunciando all’esplorazione e bloccando i piani spontanei autogenerati. Si crea così un circuito di mantenimento dei problemi interpersonali.

È interessante sottolineare come sia possibile rintracciare nel soggetto più schemi interpersonali e come, all’interno di uno stesso schema, possano coesistere più motivazioni, ad esempio la persona desidera essere accettata, considerata degna perseguendo mete autonome, ma si rappresenta l’altro deluso, giudicante, rabbioso, che invia un messaggio del tipo “Ti accetto soltanto se ti conformi alle regole, ai valori di cui io mi faccio portavoce”; in risposta, la persona può decidere di scegliere trasgredendo i valori, le regole, le norme sociali di cui l’altro si fa rappresentante sentendosi in colpa e indegno innanzi alla reazione negativa dell’altro.

Le strategie che il soggetto sviluppa nel tempo per adattarsi all’aspettativa su come l’altro tratterà i suoi desideri elicitano, a loro volta, nell’altro delle risposte emotive e comportamentali che spesso, inconsapevolmente, confermano le credenze negative iniziali della persona, generando, in tal modo, un ciclo interpersonale patogeno che contribuisce a mantenere il disturbo. Si pensi, ad esempio, alla tendenza comune nel DOCP a sovraccaricarsi di impegni, di compiti, con grande difficoltà a delegare o a chiedere aiuto. A quel punto, non vedendosi aiutato (non avendolo chiesto) il paziente percepisce l’altro come disattento, senza la volontà di fornirgli aiuto.

L’altro da parte sua, non ascoltando le richieste d’aiuto, e anzi fronteggiando l’autosufficienza obbligata del paziente con personalità ossessivo-compulsiva, preferisce tenersi a distanza sentendo il proprio aiuto inutile e i propri interventi come inadeguati e criticabili. Il paziente però in alcuni momenti, sovraccarico dal lavoro e irritabile per la fatica, scoppia rabbiosamente alla vista dell’altro che non lo supporta e protesta per il supporto che, immoralmente, gli è stato negato. L’altro a questo punto si sente facilmente criticato ingiustamente e reagisce alle accuse in modi che diminuiscono la sua disponibilità a dare l’aiuto stesso. 

Coerentemente con le informazioni raccolte dall’esperienza clinica, è possibile delineare nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità una serie di schemi interpersonali che muovono da motivazioni diverse:

– motivazione dominante: attaccamento. In questo caso lo schema porterà la persona verso il desiderio di essere vista, amata, apprezzata, ma si rappresenta l’altro come freddo, rifiutante, disattento. In risposta si attiva il sistema del rango sociale: queste persone sperano che verranno amate se il loro valore sarà considerato adeguato dalle figure di riferimento. A quel punto quindi si impegnano, si organizzano, pianificano, cercano di farsi trovare sempre preparate, di dare il massimo, di essere impeccabili, perfette, e aderenti alle regole;

– motivazione: autostima. La persona desidera essere capace, adeguata, ma si rappresenta l’altro come critico, invalidante; in risposta, la persona prova rabbia, si sente triste, fallimentare e sviluppa il tratto ossessivo come strategia volta a sopperire al senso di inefficacia personale. Ne conseguono stati di sovraccarico, di affaticamento fisico e psichico che spesso si esprimono attraverso una serie di sintomi psicosomatici piuttosto rilevanti a cui si abbinano preoccupazioni ipocondriache e che includono, ad esempio, gastrite, sindrome del colon irritabile, dolori addominali e intercostali;

– motivazione: autonomia/esplorazione: le azioni e le scelte della vita quotidiana non sono associate alla sensazione di essere internamente generate. I soggetti con DOCP, infatti, sono guidati, perlopiù, dai loro standard elevati e inflessibili di etica e performance, ma hanno difficoltà a riconoscere che hanno desideri, intenzioni, scopi che nascono dalle loro più intime inclinazioni e a lasciarsene guidare senza giudicarsi. Ne consegue un’inibizione del sistema esploratorio e una carenza di agency. Una possibile origine storica, dedotta dai racconti di molti pazienti con DOCP è che quando provavano ad esplorare e a perseguire piani autonomi, abbiano dovuto confrontarsi con figure genitoriali invalidanti, facilmente deluse,  critiche o aspramente punitive. In risposta, hanno provato paura, hanno perso convinzione nel desiderio, rinunciando all’esplorazione e bloccando i piani spontanei autogenerati.

I pazienti con DOCP, inoltre, a causa della difficoltà a stabilire priorità tra i propri compiti, spesso si sentono come bloccati, sospesi, ritenendo che il tempo non sia mai sufficiente e l’impegno profuso mai abbastanza e come conseguenza faticano a rispettare le scadenze.

Dal punto di vista emotivo, i soggetti con DOCP sono convinti che le proprie sensazioni e le proprie emozioni debbano essere sempre controllate, fondamentalmente perché considerate come intrinsecamente sbagliate, un segno di debolezza morale.

L’idea di sperimentare qualcosa che ritengono indegno li espone, nella loro mente al rischio di biasimo, accuse e alla fine, abbandono da parte degli altri o punizione. Nel complesso quindi tentano di controllare i loro affetti e appaiono, rigidi, formali e difficilmente si lasciano andare, tanto da essere definiti “freddi” e  “poco espansivi”.

L’esperienza soggettiva di tali pazienti è caratterizzata da senso di colpa all’idea di avere agito irresponsabilmente e avere quindi arrecato danno a sé e/o agli altri; senso di inefficacia, ansia, paura di essere criticati e/o puniti per eventuali errori commessi. Spesso provano rabbia verso se stessi quando non rispettano gli standard o verso gli altri quando non si comportano con il dovuto zelo. La loro rabbia non è esplosiva, è più trattenuta, controllata, affiora nel viso e nel tono di voce più ancora che nel linguaggio. Il dovere guida la loro vita e quando affiorano desideri di giocare e rilassarsi, da un lato si criticano e si sentono in colpa, dall’altro si sentono costretti e tendono a ribellarsi a chi impone dall’esterno i doveri.

La comprensione dei propri pensieri, di quelli degli altri e delle proprie emozioni oscilla, nella stessa persona, al variare della qualità delle relazioni. Ricordiamo che nei pazienti con disturbi di personalità la metacognizione dipende in larga parte dal contesto emotivo e dalla qualità della relazione (Dimaggio et al., 2013).

La metacognizione è la capacità di un individuo di sintetizzare vari aspetti della conoscenza mentale in un quadro complessivo che permetta di dare significato alle nostre azioni; si riferisce all’insieme di abilità che permette all’individuo di:

– identificare e attribuire, a sé e agli altri, stati mentali,

– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri (autoriflessività) e pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali altrui (comprensione della mente altrui). L’autoriflessività comprende la capacità di identificare i propri pensieri e le proprie emozioni (monitoraggio), la capacità di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni e di comprendere che i nostri desideri hanno un impatto limitato sulla realtà (differenziazione) e l’abilità di mantenere una visione unitaria di sé, indipendentemente dal fluire e alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi o contraddittori, e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti (integrazione), 

– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sugli stati mentali propri e altrui per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (mastery) (Semerari et al., 2003).

Nei pazienti con disturbi di personalità, mancando l’abilità necessaria ad identificare e a riflettere sugli stati mentali, vi è una marcata difficoltà a formare delle strategie di problem-solving basate sulle informazioni mentali: negoziano i loro desideri ed i loro scopi attraverso la relazione con colleghi, amici, parenti o ne fanno fronte con notevole stress (Carcione et al., 2010; Dimaggio & Lysaker, 2011).

In generale, nei pazienti con disturbi di personalità la metacognizione è disfunzionale e vi sono difficoltà nell’autoriflessività, per esempio nella consapevolezza emotiva, nell’abilità di distinguere tra fantasia e realtà e nell’integrazione di molte, e spesso contraddittorie, rappresentazioni di sé e degli altri; nella comprensione della mente altrui, per esempio il formarsi delle idee su cosa l’altro pensa e prova anche attraverso il comportamento non-verbale; nella capacità di mastery, ossia l’abilità di utilizzare le conoscenze mentalistiche per formare delle strategie adattive ed efficaci per far fronte allo stress e risolvere problematiche sociali. Le persone con disturbi di personalità anticipano mentalmente le reazioni negative degli altri, hanno un’attenzione selettiva ai segnali di giudizio e di rifiuto e costruiscono dei cicli negativi in cui le reazioni degli altri confermano le loro aspettative negative (Safran & Muran, 2000).

In uno studio di Semerari e colleghi (2014) che ha analizzato la correlazione tra specifiche difficoltà metacognitive e specifici stili di personalità, le difficoltà metacognitive possono essere considerate un fattore patogenetico comune per i disturbi di personalità.

Pazienti con DOCP correlavano con gli stili di personalità rigido e che aderisce inflessibilmente alle regole. Lo stile rigido correlava con problemi metacognitivi nelle aree di differenziazione e integrazione, ma in modo inverso rispetto alle attese, ovvero una maggiore presenza di queste caratteristiche era legata a migliore metacognizione.

Secondo Baron-Cohen (2006), un modo per esplorare le funzioni interpersonali è attraverso il meccanismo di sistematizzazione e la capacità di empatia. La sistematizzazione permette al cervello di predire che un evento X occorrerà con una probabilità P. Dal momento che il cuore della patologia del DOCP include il perfezionismo e le sue associazioni con la rigidità e l’aggressività che portano alle difficoltà di interazione con gli altri (Hemmelen, Wilberg, Pederen, Sigmund, 2008) e alla difficoltà di predizione degli eventi: gli individui con DOCP dovrebbero presentare un’alta sistematizzazione ed una bassa empatia.

In effetti Aycicegi-dinn, Dinn, Caldwell-Harris (2009) hanno osservato che vi è un decremento nell’attività del sistema di empatizzazione, sistema che abilita alla comprensione della motivazione intenzionale relativa al comportamento umano, e un incremento nel meccanismo di sistematizzazione, sistema che abilita alla comprensione delle cause e degli eventi non intenzionali. Sembra quindi che siano necessari studi più approfonditi per comprendere se esistono difficoltà metacognitive nei pazienti con DOCP e quali esse siano, anche se lo studio sulla ridotta empatia suggerisce che esista un problema nel comprendere gli altri e risuonare con loro.

 

La psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità

Le implicazioni cliniche, di tutti questi studi, sono molto interessanti poiché è possibile lavorare, a livello terapeutico, incrementando la capacità di tenere conto del punto di vista altrui e aumentare la capacità di rispondere agli stati emotivi in modo fluido ed appropriato (Dimaggio et al., 2011).

Molti studi (Ekselius, von Knorring, 1998; Ng, 2005; Strauss, Hayes, Johnson, Newman, Brown, Barber, 2006) hanno osservato l’efficacia di una Terapia Cognitiva che riduce considerevolmente la gravità dei sintomi del disturbo di personalità, l’ansia e la depressione. La Terapia Cognitiva-Comportamentale riduce la sintomatologia ansiosa, aumenta l’estroversione, l’assertività e la stabilità emotiva (Enero, Soler, Ramos, Cardona, Guillamat, Valles, 2013).

La Terapia Interpersonale ha successi nella riduzione della sintomatologia depressiva (Barber, Muenz, 1996). In ogni modo, un’alleanza terapeutica buona tra paziente e terapeuta, la gravità degli stati ansiosi così come anche la variabilità dell’autostima, costituiscono fattori predittivi importantissimi dell’efficacia del trattamento del DOCP.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013) è stata manualizzata negli ultimi anni per trattare vari disturbi di personalità incluso il DOCP. La TMI pone costantemente l’attenzione sulla relazione terapeutica al fine di lavorare in una atmosfera estremamente cooperativa con le minime rotture nell’alleanza, sull’assunto fondamentale che tutto ciò dovrebbe aiutare il paziente ad utilizzare pienamente i propri schemi metacognitivi. Con il progressivo aumento della metacognizione, è più facile per il paziente ed il terapeuta avere una comprensione reciproca delle proprie menti e lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi condivisi.

Se una persona ha difficoltà nella comprensione delle proprie emozioni è poco utile aiutarla immediatamente a comprendere gli schemi relazionali internalizzati nella vita di tutti i giorni e nelle relazioni sociali, è invece molto importante indagare le variazioni di arousal che sono emotivamente correlate e che poi sfociano negli stati somatici. La consapevolezza di come e perché il paziente pensa, prova ed agisce è fondamentale per la promozione del cambiamento di pensiero e dei pattern comportamentali sviluppando così una diversa prospettiva di pensiero, di emozione e di azione.

I miglioramenti nella metacognizione sembrano essere segni che portano ad un buon esito terapeutico (Dimaggio, Procacci, et al., 2007; Lysaker, et al., 2010). Quando in terapia emergono le emozioni, ma i loro antecedenti sono opachi al narratore è impossibile per il terapeuta interrompere il processo cognitivo-emotivo disfunzionale perché le credenze non sono chiare: le rappresentazioni disturbate di sé e degli altri lasciano le persone con disturbi di personalità senza un punto di vista alternativo. La TMI cerca inizialmente di rendere i pazienti dei propri schemi ricorrenti di significato ed aiutarli ad adottare nuove prospettive mentre cercano di accedere ai desideri. Il terapeuta, insieme con il paziente, cerca di comprendere come vedere da una diversa angolazione le diverse rappresentazioni disfunzionali di sé e dell’altro ed utilizza la conoscenza metacognitiva per far fronte alla sofferenza e per trovare nuove strade percorribili nella vita quotidiana.

I soggetti con DOCP, a causa della difficoltà a scaricare le proprie tensioni interne e della tendenza a reprimere le proprie emozioni, spesso cercano una terapia a causa di disturbi di natura psicofisiologica, come, ad esempio, attacchi d’ansia, impotenza sessuale, senso di stanchezza e sovraccarico. Per il trattamento del DOCP esistono vari approcci che prendono in considerazione aspetti diversi del disturbo. La Terapia Metacognitiva Interpersonale inizia di solito dal trattare i sintomi che portano i pazienti in terapia (ansia, attacchi di panico, depressione, somatizzazioni). Durante il trattamento dei sintomi il terapeuta inizia a raccogliere episodi narrativi dettagliati che illustrano come si svolgono le relazioni con gli altri, in modo da aiutare i pazienti a riconoscere le sfumature della propria esperienza soggettiva nel contesto dell’interazione sociale.

Questi pazienti hanno spesso uno stile narrativo intellettualizzante, teorizzante, il che rende difficile accedere alla loro esperienza soggettiva e alle loro emozioni. Il terapeuta quindi li invita a raccontare episodi narrativi, che li vedono relazionarsi con gli altri, demarcati nello spazio e nel tempo, e grazie a questi racconti esplorare insieme cosa il paziente abbia provato e pensato in quel momento e per quali motivi, e a dare i nomi alle emozioni in un contesto in cui queste sono accettate, riconosciute valide, non giudicate, parte inevitabile dell’esperienza degli esseri umani. Il terapeuta, pertanto, starà attento a che il paziente si senta “visto” in seduta; e si sintonizzerà con il mondo interno del paziente; coglierà nella struttura del racconto di questi eventuali cambiamenti delle espressioni facciali, del tono della voce e ricostruirà insieme a lui lo stato emotivo sperimentato in quel momento; normalizzerà e validerà i vissuti emotivi del paziente, giovandosi di un uso accurato dello svelamento.

Una volta raccolta una base di episodi che permettano a paziente e terapeuta di ricostruire la mappa del mondo interno del paziente, si tenta insieme di promuovere il cambiamento. I terapeuti che utilizzano la TMI sono attenti a qualsiasi segno di povera alleanza e devono essere veloci nel riparare o prevenire rotture nell’alleanza stessa; essi adottano una validazione costante e sono pronti ad analizzare qualsiasi segnale relazionale negativo mentre indagano sul loro contributo alla creazione di qualsiasi problema.

Tra gli obiettivi della TMI per il DOCP, molti dei quali coerenti con i principi della Terapia Cognitiva-Comportamentale, ci sono quelli di riconoscere come gli standard perseguiti siano solo tentativi di guadagnare l’accettazione da parte degli altri a condizione di essere perfetti, e lentamente sperimentare la possibilità che queste siano solo idee.

I pazienti sono guidati nello scoprire che è come se continuassero senza fine a cercare quasi ovunque l’approvazione delle loro figure genitoriali, e che esiste una via diversa, in cui possono pensare di essere accettati anche se sono imperfetti e commettono errori.

Allo stesso tempo i pazienti vengono guidati progressivamente ad esplorare stati di benessere, rilassamento, gioco e a capire come questo sia stato finora impedito dai sensi di colpa che li vessano. Identificare l’importanza del senso di colpa e aiutare i pazienti a metterlo da parte, non lasciarsene guidare è un altro elemento centrale della terapia. Il terapeuta presterà grande attenzione ad ogni segnale spontaneo, o guidato dalla conversazione terapeutica, in cui il paziente sia rilassato, provi benessere senza criticarsi e lo aiuterà a prestare attenzione a questo stato, sostandoci il più possibile durante la seduta.

Quando il paziente avrà colto come tale stato sia benefico e possa essere perseguito a buon diritto, lo si inviterà a ricercarlo nella vita quotidiana e a sperimentarlo. Durante gli esperimenti il paziente verrà facilmente preso da sensi di colpa e autoaccuse e questi verranno nuovamente ripresi in seduta e li si riconoscerà come non più segno di verità (sono indegno) ma di un riemergere degli schemi (penso di essere indegno ma mi rendo conto che è un mio schema: posso rilassarmi). L’obiettivo complessivo è aumentare l’espressione emotiva e utilizzare le proprie inclinazioni e desideri come sistema di scelta, dismettendo progressivamente il costante ricorso agli imperativi morali.

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Empathy: the self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Empathy: the self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy

Autore: Claudio F. Bivacqua – Università di Palermo, Italy

Abstract

The neuroscience makes an important distinction between emotional empathy and cognitive empathy (Shamay-Tsoory,2011). Emotional empathy refers at an immediate emotional sharing, while cognitive empathy refers to a cognitive system that involve understanding of the other’s perspective.
Saxe and colleagues (2005) show the role of right temporo-parietal junction (rTPJ) in the perspective taking when our point of view is different from other, establishing an incongruence about the different states of mind.
Other studies demonstrate that TPJ allows to elaborate and to integrate sensorimotor and cognitive information from self and other.
This study investigates the role of rTPJ in emotional empathy, through its inhibition by a train of Trancranial Magnetic Stimulation (TMS), demonstrating a major skill to discriminate an emotional expression of other when this is incongruous with own emotional state.
This brain area would function to establishing a border between self and other allowing an integrating emotional elaboration about the different emotions.
These results show the importance of TPJ not only in a cognitive perspective taking task but also in an emotional task.

Keywords

Empathy, emotional contagion, emotion recognition, temporo-parietal junction

Introduction

Empathy is the main social function that allows us to receive important information about other people in terms of mental state, emotion, sensation and thought.
Neuroimaging, lesion and behavioural studies support a model of two separate system for empathy: an emotional system and a cognitive system. The capacity of sharing and recognition an other’s emotion has been described as emotional empathy (Shamay-Tsoory,2011). The term cognitive empathy refers empathy as a cognitive role-taking ability, or the capacity to engage in the cognitive process of adopting another’s psychological point of view (Frith and Singer 2008).
This system allows to make inferences about other’s affective and cognitive mental states (Shamay-Tsoory and other 2009).
These two system are philogenetically different. It was reported emotional contagion in rodents (Langford et al.,2006), while chimpanzees, possess rudimentary traits of cognitive aspect of empathy such as theory of mind (Call and Tomasello 2008).
The distinction between the two system may also related to different neurochemichal systems. In a recent study, intranasal administration of the neuropeptide oxytocin increase emotional, but not cognitive, empathy (Hurlemann and others 2010). On the other hand, it has been recently suggested that dopaminergic functioning is associated with cognitive aspects of empathy in preschool students (Lachner and other 2010).
An important study with patients confirm the hypothesis of two separate system for empathy through a double dissociation. Patients with Ventromedial prefrontal cortex (VMPFC) damaged show consistent and selective deficit in cognitive empathy and Theory of Mind (ToM), while presenting with intact emotion recognition and emotional empathy. Patients with inferior frontal gyrus (IFG) lesions, on the other hand, displayed extremely impaired emotional empathy and emotion recognition (Shamay-Tsoory,2009).
This two brain area are respectively involve in both system but not only these.

Neuron mirror system and simulation

Recent studies about mirror neuron, localized in Inferior frontal gyrus (IFG; Brodmann’s Area [BA] 45/44/6 ) and in inferior parietal lobe (IPL; BA 39,40) mainly in right hemisphere, have given evidences about immediate sharing of experience between two or more individuals, through an innate function which allows to simulate on own neural circuit the observed action and to understand it without complex cognitive process (Rizzolatti 1996, Gallese et al., 1998, Rizzolatti and Craighero, 2004).
In particular, the mirror neuron system (MNS) encodes the aim of the action and for this reason they are activated when the observed action is contained in own behavioural repertory (Rizzolatti and Sinigaglia, 2006; Keysers and Gazzola, 2006).
So, an emotion expresses from a face, from body posture or from a movement dynamic, could be considers a communicative action about emotional state [Preston and deWall,2002].
This “emotional action” is encodes through the mirror neurons and the simulated motor information is sent at limb system (specialized in emotional response) through insula that makes feel the same emotion observed (Iacoboni,2008).
This process would be the neural base of the simulation theory (Gallese, 2007). The perception of a behaviour in another automatically activates one’s own representation for the behavior and output from this shared representation automatically proceeds to motor areas of the brain where responses are prepared and executed (Preston and de Waal’s, 2002).
This process is reasonable related with emotional contagion because understanding of another’s emotion makes feel the same emotion. In fact the overt facial mimicry (as measured by an electromyography or through observation) is related to emotional contagion and emotion understanding (Niedenthal,2007).
In human, neuron mirror are situated manly in the IFG, in fact there are many studies which show the correlation between emotional contagion and role of IFG.

Empathy and self-other discrimination

A mature empathic experience needs to a higher level of consciousness and of a good mentalizing that allows to discriminate self and other experience. In contagion experience the subject hasn’t the consciousness that his emotional state comes from other subject. (Bonino, 1998).
This distinction allow to act an altruistic behaviour directs to other emotional regulation because the subject understands the origin of emotion.
This function is related with perspective taking. Mentalizing other emotion require recognizing of difference about self and other (Fonagy et al.,1997).
Self recognition and self/other differentiation is a fundamental aspect of social interaction and emotional and cognitive experience ( Brass et al. 2009).
The neural process involved in self/other discrimination at the sensorimotor level is involved, in part, in cognitive level (Giardina et al., 2011) and in emotional level , for example in the emotional incongruence between two subject.
Many studies investigating the neural correlates of self-recognition and self/other differentiation focused on temporo-parietal junction (TPJ). This area extends from superior temporal sulcus to the inferior parietal lobe. Previous studies show the role of this brain area in different cognitive function.
Corbetta and Shulmann (2002) reported the activation of TPJ on a exogenous attention task when the stimulus is not awaited on a field of view. This shows the role of this brain area in a incongruence state between self and the environment.
Another important function of TPJ is the self body location. TPJ is directly connected with Extrastriate body area (EBA) which responds selectively to human body part.
Data from neurological patients suffering from out-of-body experiences (OBEs) provide such evidence, showing that focal brain damage may lead to pathological changes of the first-person perspective and self-location (Blanke et al., 2002; De Ridder et al., 2007), due to interference with the integration of multisensory bodily information at the TPJ. It was argued that such changes in first-person perspective and self location are due to a double disintegration of bodily signals,
a disintegration between somatosensory (proprioceptive and tactile) and visual signals combined with an additional visuo-vestibular disintegration (Blanke et al., 2004; Lopez et al.,2008).
The right TPJ is more active during the attribution of actions to another agent than during first-person motor imagination and imitation (Costa et al., 2008; Decety et al., 2002; Ruby et al.,2004).When another subject imitates our actions by translating his/her bodily perspective to ours, right TPJ activation is reported; on the other hand, if we translate our bodily perspective to that of other people this activation is not shown (Ruby et al.,2004).
However, in such an early processing stage, attribution of the observed behaviour to the self might only occur if the observed behaviour is congruent to the planned behaviour, whereas observing an incongruent movement leads to an attribution of the observed behaviour to another person (Brass, 2009).
TPJ is involved also on higher level cognitive function as ToM and perspective taking.( Saxe, Wexler; 2005).
This functions allow us to create a theory about other state of mind taking other perspective.
Theory of mind may be defined as the ability to put oneself into someone else’s shoes, imagine their thoughts and feelings (Baron-Cohen 2009). ToM, also known as mentalization , enables one to extract and understand the goals of others by drawing on the capacity to understand the other’s thoughts, intentions, emotions, and beliefs and predict their behavior (Amodio and Frith 2006).
In particular, inhibition of right TPJ through TMS, results a social neglet that refers to lack of consideration of the real intention of other and to attributions of hostile intentionality to their behaviour (Giardina, Oliveri; 2011). The attribution of hostile intentionality to the behaviour of others is a complex process involving visuo-spatial perspective taking, theory of mind, intention understanding and expression of emotions.
An interesting point of view considers TPJ as a modulator of aggression. A recent study reported that when adolescence with aggressive conduct disorder viewed situations in which pain was intentionally inflicted, those showed no activation of the right TPJ compared with control subject (Decety, 2008)
This different finding demonstrates that TPJ is implicated in different levels of experience, sensorimotor, cognitive and affective.
The aim of the present study is that application of rTMS on the right TPJ, should result in a interference of emotional recognition in another face in a situation of emotional incongruence between self and other.
In particular we assume that inhibition of right TPJ leads a quickly emotional recognition in another face when this is incongruent with own emotion than control subjects.
We hypothesize that in baseline session (before rTMS) there is a RT significant different between congruent and incongruent stimuli, while after rTMS this difference will be cancelled.
In a experimental condition, information about other expression would be elaborated as if they were own because inhibition of TPJ does not allow elaboration of both point of view.
Subjects with mirror-touch synesthesia show higher level of emotional empathy than control subjects (Banissy and Ward, 2007). In particular it was demonstrate that subject with mirror-touch synesthesia have reduced matter grey within the right TPJ ( Holle et al., 2013) suggesting that this brain area is important to put a sensorimotor and emotional boundary between self and other.

 

 

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Una prospettiva evolutiva morale sulla testimonianza oculare dei bambini: è importante lo scopo?

Daniela Sorzogni

FLASH NEWS

L’atto di identificare un autore di un reato non si limita a coinvolgere la memoria e il pensiero, ma costituisce anche una decisione morale. Questo perché, con l’atto di identificare o meno qualcuno, il testimone oculare corre il rischio di condannare un innocente o lasciare un colpevole in libertà.

Sono stati condotti due studi in cui bambini e adolescenti di età diverse guardavano un film in cui l’atto di appiccare un incendio assumeva due significati diversi: la scena consisteva nel lanciare una torta di compleanno con la candela accesa in un cestino ma in un primo filmato non vi era l’intenzione di avviare un incendio nel secondo vi era l’intenzione di avviare l’incendio e l’esito, per entrambi i casi, è stato quello di rovinare un ristorante. Il filmato è identico in tutte le condizioni; ciò che è varia è il modo in cui l’atto è descritto da una voce fuori campo che mette in luce l’intenzionalità o meno dell’atto.

Nel primo studio hanno mostrato a 138 bambini, di età compresa tra i 7 e 18 anni, uno o l’altro dei due filmati. Ad ogni bambino sono state mostrate diverse foto del ‘colpevole’, e si è chiesto loro se la persona mostrata era l’autore dell’accaduto e quanta fiducia gli attribuivano su una scala a quattro punti. Le analisi rivelano un’interazione di età e condizione presentata sulla polarizzazione decisionale. Il modo in cui veniva definito l’evento non ha avuto alcun effetto sui bambini di 7-9 anni di età, ma ha avuto un effetto sulla polarizzazione decisionale per le altre fasce di età. La polarizzazione decisionale era più indulgente (indicando più falsi allarmi) nella condizione prevista per 10-12 e 13-15 anni di età, ma è stato più rigoroso (con un minor numero di falsi allarmi) per i 16-18 anni di età.

Il secondo studio è stato condotto per confermare e ampliare i risultati per la fascia d’età di 10-12. Quarantadue bambini hanno osservato lo stesso filmato la cui scena presentava intenzioni innocenti ma in una versione l’incendio procurava un piccolo danno, la seconda versione produceva un incendio vero e proprio. Sono emersi punteggi più bassi di polarizzazione (più falsi allarmi) per i bambini di età compresa tra i 10-12 anni nelle condizioni in cui il danno era peggiore rispetto a quando il danno era minore ma le intenzioni erano malevoli.

Così, da entrambi gli studi, gli autori concludono che la polarizzazione decisionale è più favorevole (con più falsi allarmi) per i bambini di 10-12 anni quando vengono evidenziati le cattive intenzioni o i gravi danni. In entrambi gli studi, è stato chiesto ai partecipanti, in modo consono alla loro età, che tipo di errore, un falso positivo o un falso negativo era il peggiore e perché. Era chiaro che a 7-9 anni non pensano di individuare un autore come una decisione morale.

Dai risultati si può concludere, in generale, che i criteri decisionali implicitamente utilizzati da bambini o adolescenti quando si identifica un autore di reato sono sostanzialmente influenzati dalla natura morale dell’atto in interazione con l’età (stato dello sviluppo) del testimone oculare. La ricerca suggerisce inoltre che un quadro sullo sviluppo morale è utile per esaminare i cambiamenti evolutivi del testimone oculare quando egli è un bambino, la sua comprensione del compito che cambia con l’età e si riflette nella loro strategia decisionale implicita e nelle loro risposte esplicite sul perché i falsi allarmi e la mancanza di giudizio sono peggiori.

 

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EMDR con disturbi dissociativi: intervista a Dolores Mosquera – Congresso Nuove frontiere nella cura del trauma 2015

dolores_mosqueraNella IV edizione del Corso Nuove frontiere nella cura del trauma, Dolores Mosquera prosegue il lavoro iniziato lo scorso anno presentando numerosi esempi di interventi con pazienti dissociativi, orientati principalmente alla stabilizzazione dei conflitti interni, al dialogo e all’integrazione tra le parti e al rinforzo della capacità di autoregolazione emotiva delle parti adulte.

Come descritto già nei precedenti contributi sul tema, Dolores propone un lavoro indiretto con le parti attraverso il coinvolgimento attivo di parti adulte o parti “sane” che possano svolgere il ruolo di guida, di aiuto o di accudimento; il terapeuta non parla mai alle parti, ma conoscendo bene l’intero sistema tiene monitorati i conflitti interni, promuovendo una migliore e più efficace comunicazione tra quelle in conflitto.

Quest’anno Dolores ci ha descritto nel dettaglio come lavorare con le parti aggressive/perpetratrici, che generalmente assumono strategie difensive che imitano l’aggressore e che spesso ostacolano il trattamento e il benessere del paziente. Spesso infatti sono parti che possono attivarsi in momenti di progresso della terapia o in momenti di ritrovato benessere del paziente, ricordandogli di non abbassare mai la guardia! Hanno in genere il ruolo di “paladine della sicurezza” e l’unico modo che abbiamo per aiutare il paziente a stare meglio e chiedere loro di collaborare, di aiutarci a capire il loro ruolo e la loro importanza nel sistema, anziché cercare di eliminarle o peggio esserne spaventati.

Il lavoro che descrive è spesso lento, basato sulla necessità di consolidare piccole strategie di autoregolazione attraverso esperimenti svolti in seduta e raramente diretto alla rielaborazione del trauma. La base imprescindibile del lavoro con pazienti traumatizzati resta la costruzione condivisa di un ambiente che venga percepito come sicuro dal paziente, attraverso la scelta del luogo, della posizione in cui stare e attraverso il continuo orientamento nello spazio e nel tempo presenti.

Lavorare in sicurezza e dentro la soglia di tolleranza, immaginando il ruolo del terapeuta come di una figura che cerca di stare in equilibrio tenendo un piede nel presente e uno nel passato, mentre cerca di costruire un ponte più solido, che consenta nel tempo un passaggio più fluido e armonico da un capo all’altro del ponte, senza barriere, senza vuoti improvvisi, senza terrore, ma con la consapevolezza di essere salvi nel presente, di poter guardare indietro e di conoscere come si è riusciti ad arrivare fin là.

L’EMDR resta un metodo centrale nel lavoro di Dolores, abilmente integrato alle tecniche della terapia sensomotoria; il lavoro EMDR è però qui declinato in modo diverso dal protocollo standard e orientato al lavoro su frammenti piccolissimi del ricordo, che corrispondono a quello che di volta in volta il paziente riesce a tollerare, con una estrema attenzione alla finestra di tolleranza e ai segnali di conflitto che potrebbero aumentare, anche se temporaneamente, la divisione interna.

Il libro in prossima uscita in Italia “Disturbo Borderline di Personalità e terapia EMDR” di Mosquera e Gonzalez, ci offrirà presto una sintesi eccellente della sua esperienza clinica e delle tecniche EMDR specifiche utilizzate nel trattamento di sintomi dissociativi.

 

Intervista a Dolores Mosquera

C: Come prima domanda vorrei chiederti di descriverci come e perché è così importante lavorare prima con le parti perpetratrici invece di prendersi cura delle parti infantili, che a volte è più facile per noi aiutare come psicoterapeuti?

D: Sì, a volte la nostra tendenza sarebbe quella di cercare di togliere il dolore il più velocemente possibile, ma questo non funziona sempre molto bene, perché le parti perpetratrici e aggressive hanno una funzione molto importante, che è quella di proteggere. Anche se a volte queste parti proteggono pazienti in un modo che loro stessi non capiscono, perché hanno imparato dalle figure che hanno percepito come forti nella loro vita e spesso proteggono nell’unico modo che hanno imparato. Quindi è molto importante lavorare con quelle parti e la prima cosa che vorrei dire è che abbiamo bisogno di essere curiosi, abbiamo bisogno di capire davvero cosa sta succedendo all’interno del sistema. Se non capiamo che cosa sta accadendo con queste parti protettive, sarà molto difficile intervenire. Continueranno a disturbare il nostro lavoro, perché potrebbe sembrare loro molto pericoloso.

C: Quali sono le cose più importanti da sapere, secondo la tua esperienza clinica, per lavorare lentamente con queste parti aggressive?

D: Prima di tutto che hanno ottime ragioni per non fidarsi di noi e una delle cose che aiuta è quella di pensare che noi vogliamo ottenere che questa parte inizi a fidarsi di noi. A volte non ci sentiamo bene se i pazienti non si fidano di noi, ma non è una questione personale. Hanno una buona ragione per non fidarsi di nessuno. A volte le persone di cui avrebbero dovuto avere fiducia, non l’hanno meritata. Quindi questo processo richiede tempo, il tempo per creare un ambiente sicuro e per fare in modo che il paziente sappia che cercheremo di capire anche questa parte aggressiva di lui, che siamo curiosi di sapere, che siamo disposti ad accettare gli attacchi, perché cercheremo per esempio per capire che conflitto sta avvenendo all’interno. Tutto quello che facciamo per essere più empatici con queste parti, ci aiuterà nel processo.

C: Un aspetto che ho trovato molto interessante è una capacità di base, ma non scontata: ricordare che abbiamo sempre bisogno di guidare queste parti all’interno del sistema e non di lavorare con loro solo all’esterno. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

D: Sì, questo è importante, ma in ogni caso a volte ci si perde. A volte, quando si parla troppo con alcune parti o si diventa troppo curiosi, perché abbiamo imparato molto sulla dissociazione ed è fantastico e facciamo molte domande sui nomi, sul ruolo, sull’aspetto, … a volte si rischia di promuovere una maggiore divisione! Quindi per andare avanti bisogna sempre verificare lo stato interno del sistema, tenendo in mente che il paziente è una persona unica, con diversi aspetti che sono in conflitto e il nostro obiettivo è soprattutto osservare il processo: capire perché il conflitto è lì e perché ha senso e come possiamo ridurlo. Questa è la chiave.

C: Un nuovo libro sta per essere disponibile in italiano: “Disturbo Borderline di personalità e terapia EMDR”, scritto da te e Annabel Gonzalez. Puoi dirci qualcosa sui contenuti più importanti?

D: Questo è un libro che apprezzo molto, perché è una sorta di sintesi del mio lavoro di 12 anni. Ho iniziato la mia pratica clinica con i pazienti borderline, lavorando molto duramente, così ho iniziato a fare molta psico-educazione, cercando di aiutare i pazienti a capire meglio loro stessi e a trovare modi migliori di aiutarsi. Poi sono entrata in contatto con molti studi e informazioni sulla dissociazione e alla fine quando ho conosciuto meglio il tema del trauma complesso, ho iniziato a mettere insieme i pezzi. E ‘stato molto utile avere tutte le esperienze che ho avuto, dalle primissime ad oggi. E’ stato utilissimo anche aver fatto degli errori. Così ho cercato di mettere tutto questo insieme nel mio libro: come imparare dalle cose che non aiutano molto e come trattare il trauma complesso e la dissociazione nel lavoro con BPD, con una costante attenzione all’attaccamento. Il libro copre uno spettro di situazioni cliniche che vanno da disturbo borderline di personalità, con principalmente difficoltà legate all’attaccamento e a traumi relazionali, a casi di DBP molto più complessi più legati al metodo di lavoro dell’approccio progressivo. Abbiamo inserito molti esempi clinici e trattato diversi aspetti che è veramente importante prendere in considerazione con questi pazienti: la regolazione delle emozioni, l’identità e come lavorare con questo, i confini, l’autolesionismo e il suicidio, come collaborare con la famiglia. Ci sono molte cose diverse che sono interessanti da sapere se si è interessati a questo argomento.

C: C’è qualche parte del libro su come integrare tecniche sensomotorie ed EMDR?

D: Non specificamente, questo è più focalizzato sull’utilizzo dell’EMDR e su come integrare l’EMDR e altri trattamenti specifici per il disturbo borderline di personalità. E come ho detto prima ci sono molte indicazioni per la psicoeducazione ma nella prospettiva dell’EMDR e della teoria della dissociazione strutturale. La terapia sensomotoria è lì, ne sono sicura, perché il corpo è sempre lì, ma questo libro in particolare è sulla terapia EMDR.

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