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Trattamento sanitario obbligatorio per l’anoressia nervosa: esiti e problemi da affrontare

Riccardo Dalle Grave1 e Simona Calugi2

1Medico, psicoterapeuta, specialista in scienza dell’alimentazione ed endocrinologia.
2Psicologo, psicoterapeuta, dottore di ricerca in scienze mediche generali e scienze dei servizi.

Trattamento sanitario obbligatorio per l’anoressia nervosa: esiti e problemi da affrontare

L’anoressia nervosa è un grave disturbo mentale con un elevato tasso di mortalità. Il suo tasso grezzo di mortalità è di circa il 5,1% per decade [1], mentre il tasso standardizzato è attorno al 6,2% [2]. Gli studi longitudinali di esito hanno evidenziato che solo il 50% delle persone adulte affette da anoressia nervosa raggiunge una remissione completa, mentre il 30% ha una remissione parziale e il 20% rimane gravemente ammalata [3].

Nonostante i danni fisici e psicosociali determinati dall’anoressia nervosa, le persone che ne sono colpite spesso non vedono il basso peso e la restrizione calorica estrema come un problema e sono ambivalenti nei confronti del trattamento. Alcune arrivano a rifiutare le cure o non rispondono ai trattamenti disponibili, mettendo a serio rischio la loro salute fisica. Come gestire queste situazioni è ancora fonte di incertezza e dibattito aperto, sebbene nel Regno Unito e nei Paesi del nord dell’Europa i casi più complessi che rifiutano qualunque intervento siano spesso gestiti con il trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

L’utilizzo del TSO nell’anoressia nervosa è un tema dibattuto da molti anni. Alcuni autori hanno sostenuto che sottoporre il paziente a una nutrizione forzata può minare la relazione terapeutica e avere un impatto incerto sul decorso e sull’esito a lungo termine dell’anoressia nervosa [4], mentre altri hanno affermato che il TSO va considerato come un trattamento compassionevole ed è per tale motivo giustificato [5]. Altri autori, infine, hanno concluso che il TSO dovrebbe essere raccomandato come ultima risorsa terapeutica disponibile, per salvare vite umane [4]. Le diverse opinioni riguardanti il suo utilizzo sono emerse in modo evidente dalle conclusioni diametralmente opposte recentemente raggiunte da due giudici della Corte Suprema del Regno Unito, dove da molti anni è vigente il Mental Health Act per il TSO dell’anoressia nervosa.

Un giudice ha sentenziato che l’alimentazione forzata non è nel “migliore interesse di una donna affetta da anoressia nervosa”, un altro, al contrario, ha “ordinato di nutrire forzatamente” una persona affetta dallo stesso disturbo.

 

È da sottolineare che tutte le argomentazioni a favore o contro il TSO nell’anoressia nervosa sono state principalmente basate su principi etici, filosofici e legali, ma non su dati empirici.

Il tema del TSO dell’anoressia nervosa è diventato di estrema attualità anche in Italia perché in data 10 marzo 2015 è stata presentata dall’onorevole Moretto la proposta di legge 2944 in “materia di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per la cura di gravi disturbi del comportamento alimentare”  (Proposta di Legge scaricabile in PDF cliccando qui)

La proposta stabilisce che il TSO possa essere attuato per fare fronte a necessità urgenti di trattamenti salvavita che il paziente, a causa della patologia psichica, rifiuta. Il TSO dovrebbe avvenire presso i servizi psichiatrici di diagnosi e cura o presso specifiche strutture ospedaliere deputate al trattamento dei disturbi dell’alimentazione in fase di acuzie che ogni regione dovrebbe individuare nella dotazione di posti letto ospedalieri esistenti. Infine, i TSO dovrebbero essere gestiti da una équipe multiprofessionale costituita, almeno, da medici psichiatri, medici esperti in nutrizione clinica e pediatri.

Scopo di questo articolo è quello di fornire informazioni basate sulla ricerca scientifica riguardo al TSO nell’anoressia nervosa e stimolare il dibattito tra i lettori su questo controverso argomento. A tale scopo è riportata una breve sintesi dei risultati degli studi empirici che hanno valutato gli esiti dei pazienti trattati con il TSO e alcune considerazioni riguardanti i problemi non ancora risolti sull’applicazione di questo intervento.

 

Qual è l’esito dei pazienti con anoressia nervosa trattati con il TSO?

Elzakkers e colleghi hanno recentemente pubblicato una revisione sistematica della letteratura sul TSO nell’anoressia nervosa [6]. Gli autori hanno identificato solo cinque studi che hanno confrontato l’esito del trattamento volontario e involontario alla dimissione ospedaliera e due anche al follow-up, di cui solo uno ha dati di buona qualità. Riassumendo i risultati dei cinque studi, gli autori hanno trovato che, al momento del ricovero, il gruppo trattato con il TSO ha sintomi più gravi sia per la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione sia per la comorbilità (per es. un numero maggiore di ricoveri, una maggiore frequenza di comportamenti autolesionistici, una più frequente storia di abuso riferito, più alti livelli di depressione e una durata più lunga di malattia). I risultati alla dimissione indicano che la durata del ricovero è stata più elevata nel trattamento involontario, rispetto a quello volontario, sebbene il peso corporeo sia stato simile nei due gruppi. Infine, in nessuno degli studi è stato riferito un peggioramento della relazione terapeutica nei pazienti trattati involontariamente.

Gli autori della revisione concludono che, sebbene rimanga un tema controverso, il TSO nei soggetti con anoressia nervosa potrebbe essere un intervento a breve termine benefico e da prendere seriamente in considerazione, soprattutto nei soggetti a rischio di vita.

Gli effetti a lungo termine del TSO non sono stati ben studiati. Nello studio di Ramsay e coll. la mortalità dopo 5 anni è stata del 12,7% nei pazienti trattati in modo involontario e di solo il 2,6% in quelli trattati volontariamente [7]. Lo stesso gruppo inglese ha pubblicato recentemente gli esiti dopo 20 anni di 81 pazienti trattati in modo involontario e di 81 pazienti in modo volontario presso il Maudsley Hospital a Londra negli anni 1983-95. Tra questi pazienti sono state rilevate complessivamente 27 morti (16,7%) senza alcuna differenza nel tasso standardizzato di mortalità tra i due gruppi [8]. Gli autori, commentando questi risultati, hanno concluso che sebbene la mortalità a 5 anni sia molto più elevata nei pazienti trattati in modo involontario, questa differenza si attenua nel tempo e che, in ogni caso, il tasso standardizzato di mortalità, indipendentemente dal trattamento ricevuto, rimane elevato nell’anoressia nervosa [8]. Infine, in un altro studio eseguito sugli adolescenti, Ayton e coll., non hanno trovato esiti diversi tra i due gruppi un anno dopo dalla dimissione [9].

 

Trattamento Sanitario Obbligatorio per Anoressia: Problemi non risolti

Il TSO nell’anoressia nervosa, sebbene possa essere utile per salvare a breve termine la vita delle pazienti affette da gravi forme di anoressia nervosa, è associato a numerosi problemi non ancora risolti che dovranno essere affrontatati dalle ricerche future.

 

TSO per Anoressia e tasso di mortalità.

Primo, purtroppo nessuno studio ha finora dimostrato che il TSO riduce il tasso di mortalità nell’anoressia nervosa. Questo è un problema che pone molte sfide ai ricercatori perché non è immaginabile poter eseguire studi randomizzati e controllati su questo tipo di intervento. L’unica alternativa per avere informazioni attendibili è eseguire, come è stato fatto al Maudsley Hospital di Londra, degli accurati studi longitudinali per valutare gli esiti a breve e a lungo termine di pazienti trattati volontariamente e involontariamente [8]. Poiché l’obiettivo principale del TSO è salvare la vita dei pazienti e secondariamente ingaggiarli in una cura che affronti anche la loro psicopatologia, solo i risultati di questi studi potranno dare una risposta definitiva sull’utilità o meno di fornire, in un sottogruppo di pazienti con anoressia nervosa, questo trattamento coercitivo, costoso e complesso.

Indicazioni per il TSO nell’ anoressia nervosa.

Secondo, non esiste ancora un consenso sulle indicazioni per il TSO nell’anoressia nervosa. Se guardiamo i pazienti inclusi nei cinque studi di esito descritti sopra, si conclude che all’entrata in ospedale esiste un’ampia variabilità dell’Indice di Massa Corporea (IMC), delle diagnosi (dall’anoressia nervosa alla bulimia nervosa) e della psicopatologia specifica e generale associata [6]. In genere sembra che, almeno nel Regno Unito, il TSO venga applicato sia per affrontare le condizioni di rischio fisico sia per gestire la presenza di una grave psicopatologia in assenza di rischio fisico. In mancanza di dati certi su rischio fisico e psichiatrico derivati dalla ricerca, è auspicabile che, se la proposta di legge sul TSO in Italia sarà approvata, verrà costituto un gruppo di lavoro di esperti per stabilire delle linee guida “cliniche” condivise sulle indicazioni e controindicazioni riguardanti questo tipo di trattamento.

 

Un protocollo di intervento per il TSO nell’anoressia nervosa

Terzo, non si è ancora raggiunto un consenso sul protocollo di intervento da applicare durante il TSO. Nella maggior parte dei casi il trattamento utilizza la nutrizione forzata attraverso il sondino naso-gastrico o altri metodi invasivi. In altri casi è utilizzata la procedura dei pasti assistiti da parte di un dietista o un infermiere. Purtroppo, non ci sono dati che indichino quali delle due strategie sia più efficace nel lungo termine. Inoltre, poca o nessuna attenzione è data agli aspetti psicologici della motivazione del paziente e al nucleo psicopatologico centrale dell’anoressia nervosa, cioè la necessità di controllo in generale e in particolare sull’alimentazione, il peso e la forma del corpo [10] che, inevitabilmente, viene minacciata durante il TSO.

Infine, non sono ancora state sviluppate strategie e procedure efficaci per aiutare i pazienti che concludono il TSO a prevenire il deterioramento dopo la dimissione. Al contrario, gli interventi ospedalieri di maggiore efficacia nel trattamento dell’anoressia nervosa hanno dato particolare importanza a tutti questi aspetti, prevedendo una fase di preparazione al ricovero, il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura, il costante lavoro sulla motivazione al trattamento e lo sviluppo condiviso di specifiche procedure per prevenire la ricaduta dopo la dimissione [11, 12].

 

Trattamento Sanitario Obbligatorio nell’anoressia: quando applicarlo?

Quarto, non esiste ancora un consenso se applicare o meno il TSO precocemente nel corso dell’anoressia nervosa per prevenire il deterioramento dei pazienti e non esistono studi che abbiano confrontato un TSO precoce o tardivo sull’esito a lungo termine. Un argomento a favore di un intervento precoce è che potrebbe favorire un accorciamento della durata del disturbo e influenzare positivamente la prognosi – se si fa un’analogia con la schizofrenia la durata della psicosi non trattata è un importante fattore prognostico.

Tuttavia, l’autonomia del paziente non deve essere limitata con leggerezza perché, anche se il risultato a breve termine del TSO potrebbe sembrare favorevole, gli esiti a lungo termine non sono ancora stabiliti con certezza.

 

TSO per anoressia: dove e come eseguire il trattamento sanitario obbligatorio?

Quinto, il luogo dove eseguire il TSO per l’anoressia nervosa è tuttora fonte di molte discussioni. Per esempio, nel Regno Unito e in Norvegia, i pazienti trattati in modo involontario sono ricoverati in reparti specialistici per i disturbi dell’alimentazione assieme a pazienti che hanno accettato il trattamento volontariamente. Questa scelta presenta vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono che i pazienti in TSO sono trattati da un’équipe specializzata nella cura dei casi gravi di anoressia nervosa. Gli svantaggi sono che i pazienti in TSO possono influenzare negativamente l’adesione al trattamento dei pazienti ricoverati volontariamente.

Il primo autore di questo articolo ha potuto constatare di persona questo problema nelle supervisioni che esegue presso i reparti per i disturbi dell’alimentazione dell’Haukeland University Hospital di Bergen in Norvegia – – nel box il dr. Stein Frostat spiega come è organizzato il TSO dei disturbi dell’alimentazione in Norvegia – e del Warneford Hospital di Oxford in Inghilterra dove i pazienti volontari e involontari sono trattati nello stesso reparto e curati da un’unica équipe. Per far fronte a questo problema le due équipe inglesi e norvegesi stanno pensando di dividere il reparto in due sezioni non comunicanti, una per i ricoveri volontari e una per quelli involontari, dove però lo stesso personale cura entrambi i gruppi di pazienti.

 

Anoressia nervosa, TSO e capacità mentale dei pazienti

Infine, non è ancora stata risolta la questione riguardante la ”capacità mentale” dei pazienti affetti da anoressia nervosa di prendere decisioni sul trattamento. Questo aspetto è fondamentale perché è strettamente legato alla discussione riguardante i pro e i contro del TSO. Fino ad ora, la capacità mentale dei pazienti con anoressia nervosa è stata affrontata per lo più da un punto di vista teoretico, e sono disponibili pochi dati empirici. Solo due studi hanno valutato in modo specifico la capacità mentale dei pazienti con anoressia nervosa, ed entrambi hanno incluso adolescenti e non individui con lunga durata di malattia.

I due studi hanno raggiunto conclusioni opposte: uno ha riportato mancanza di ragionamento astratto e riflessione in pazienti adolescenti con anoressia nervosa, in confronto ai controlli sani che può, secondo le opinioni degli autori, influire sulla capacità di ragionare sulle opzioni di trattamento [13], l’altro, uno studio qualitativo di analisi delle interviste, ha trovato, invece, che pazienti con anoressia nervosa hanno una buona competenza e capacità di rifiutare un trattamento [14]. Questi risultati vanno interpretati con cautela perché gli studi hanno bassa numerosità campionaria, uno dei due è qualitativo e l’altro retrospettivo, e non hanno valutato la capacità mentale di prendere decisioni sul trattamento in momenti clinici rilevanti.

 

Conclusioni

Ad oggi non sappiamo se la proposta di legge sul TSO per l’anoressia nervosa sarà approvata o no. In caso affermativo, la scelta di eseguire un TSO non andrà mai presa alla leggera perché sono ancora molte le domande aperte su questa forma coercitiva di trattamento. In particolare, non sappiamo ancora qual è l’esito a lungo termine del TSO in relazione ai parametri dell’IMC e della psicopatologia.

Inoltre, non è chiaro e non ci sono ancora criteri clinici condivisi su quando e dove sia necessario eseguirlo. Infine, dobbiamo migliorare la nostra conoscenza sulle capacità mentali delle pazienti con anoressia nervosa. È auspicabile che queste aree di incertezza riguardanti il TSO possano essere affrontate da ricerche rigorose e accurate e che le conclusioni di questi studi possano guidare le future scelte terapeutiche che troppo spesso ancora oggi sono fatte su basi teoriche, personali ed emotive ma non empiriche.

 

(Appendice) Il trattamento sanitario obbligatorio: l’esempio della Norvegia

In Norvegia il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) per i pazienti con disturbi psichiatrici è regolato da una legge chiamata Psykisk Helsevernloven (tr. it Protezione della Salute Mentale). Una modifica a questa legge, implementata nel gennaio 2007, ha descritto il TSO per i disturbi dell’alimentazione. Se il paziente ha deliri o convinzioni comparabili con la psicosi e in aggiunta ha una situazione medica che minaccia la sua vita può essere indicato il TSO. Un medico di famiglia può inviare il paziente a un ospedale psichiatrico per essere valutato da uno psichiatra o da uno psicologo entro 24 ore e per determinare se soddisfa i criteri per il TSO. Il paziente può opporsi a questa decisione presentando una denuncia a una commissione di controllo che è indipendente dall’ospedale.

Quando il paziente è in TSO può ricevere l’alimentazione forzata, come indicato da una sezione separata del Psykisk Helsevernloven (Sezione 4-4b).

Il TSO è svolto prevalentemente in una delle quattro unità regionali della salute in Norvegia e rappresenta un importante passo avanti nel trattamento di pazienti con disturbi dell’alimentazione che hanno una condizione che minaccia la loro vita. Il totale di pazienti trattati con TSO in Norvegia è basso, sebbene non se ne conosca l’esatto numero. Se il paziente ha avuto bisogno di numerosi trattamenti in reparti di terapia intensiva le commissioni di controllo, in alcuni casi, hanno accettato il TSO anche in pazienti di peso normale.

Sigrid Bjoernelv ha recentemente presentato i dati di 11 pazienti di sesso femminile, di età compresa tra 16,5 e 26 anni e IMC tra 8,2 e 19,3, trattati con il TSO prima del gennaio 2013 presso il Levanger Hospital, che è l’unità regionale di una delle quattro regioni della salute della Norvegia. In quattro dei pazienti è stata usata anche l’alimentazione forzata. Dopo il TSO, ai pazienti è stato offerto un trattamento presso l’unità regionale per i disturbi dell’alimentazione. Al follow-up uno dei pazienti era morto, sei pazienti avevano avuto un esito buono e quattro continuavano a mantenere un disturbo dell’alimentazione attivo.

Dr. Stein Frostad

Section for Eating Disorders, Department for Psychosomatic Medicine

Haukeland University Hospital

Bergen, Norvegia

 

ARGOMENTI CORRELATI: 

DCA Disturbi del Comportamento AlimentareAnoressia Nervosa

 

REFERENZE:

  1. Hoek HW. Incidence, prevalence and mortality of anorexia nervosa and other eating disorders. Curr Opin Psychiatry. 2006;19(4):389-94. doi:10.1097/01.yco.0000228759.95237.78.
  2. Arcelus J, Mitchell AJ, Wales J, Nielsen S. Mortality rates in patients with anorexia nervosa and other eating disorders. A meta-analysis of 36 studies. Arch Gen Psychiatry. 2011;68(7):724-31. doi:10.1001/archgenpsychiatry.2011.74.
  3. Keel PK, Brown TA. Update on course and outcome in eating disorders. Int J Eat Disord. 2010;43(3):195-204. doi:10.1002/eat.20810.
  4. Goldner E. Treatment refusal in anorexia nervosa. Int J Eat Disord. 1989;8(3):297-306.
  5. Tiller J, Schmidt U, Treasure J. Compulsory treatment for anorexia nervosa: compassion or coercion? Br J Psychiatry. 1993;162:679-80.
  6. Elzakkers IF, Danner UN, Hoek HW, Schmidt U, van Elburg AA. Compulsory treatment in anorexia nervosa: a review. Int J Eat Disord. 2014;47(8):845-52. doi:10.1002/eat.22330.
  7. Ramsay R, Ward A, Treasure J, Russell GF. Compulsory treatment in anorexia nervosa. Short-term benefits and long-term mortality. Br J Psychiatry. 1999;175:147-53.
  8. Ward A, Ramsay R, Russell G, Treasure J. Follow-up mortality study of compulsorily treated patients with anorexia nervosa. Int J Eat Disord. 2014. doi:10.1002/eat.22377.
  9. Ayton A, Keen C, Lask B. Pros and cons of using the Mental Health Act for severe eating disorders in adolescents. Eur Eat Disord Rev. 2009;17(1):14-23. doi:10.1002/erv.887.
  10. Fairburn CG, Shafran R, Cooper Z. A cognitive behavioural theory of anorexia nervosa. Behav Res Ther. 1999;37(1):1-13.
  11. Dalle Grave R, Calugi S, El Ghoch M, Conti M, Fairburn CG. Inpatient cognitive behavior therapy for adolescents with anorexia nervosa: immediate and longer-term effects. Front Psychiatry. 2014;5:14. doi:10.3389/fpsyt.2014.00014.
  12. Dalle Grave R, Calugi S, Conti M, Doll H, Fairburn CG. Inpatient cognitive behaviour therapy for anorexia nervosa: a randomized controlled trial. Psychother Psychosom. 2013;82(6):390-8. doi:10.1159/000350058.
  13. Turrell SL, Peterson-Badali M, Katzman DK. Consent to treatment in adolescents with anorexia nervosa. Int J Eat Disord. 2011;44(8):703-7. doi:10.1002/eat.20870.
  14. Tan J, Hope T, Stewart A. Competence to refuse treatment in anorexia nervosa. Int J Law Psychiatry. 2003;26(6):697-707. doi:10.1016/j.ijlp.2003.09.010.

Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza domestica. Come prevenire?

Alice Bartozzi, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Gli ultimi dati sconcertanti riguardanti le violenze fisiche o sessuali e gli episodi di femminicidio gettano luce sull’esigenza di avere operatori sempre più formati in tutto il territorio nazionale e capaci di valutare il rischio di recidiva e di prevenire l’escalation della violenza, al fine di evitare il perpetuarsi di questo fenomeno.

I maltrattamenti in famiglia sono un fenomeno che tende a svilupparsi soprattutto nell’ambito dei rapporti familiari, tra coniugi. Un fenomeno completamente trasversale, che coinvolge donne di tutti i Paesi, di ogni estrazione sociale, di ogni livello culturale e che copre tutte le fasce d’età, provocando importanti danni fisici e gravi conseguenze per la salute sia mentale che psichica di chi li subisce.

La violenza domestica è stata definita, dalle Nazioni Unite nel 1993, come

qualunque atto di violenza che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che in quella privata.

Le ultime statistiche, pubblicate dall’EU.RE.S (European Employment Service – ricerche economiche e sociali) a novembre 2014, relative a dati elaborati per l’anno 2013, fanno notare che una donna su tre in Italia subisce violenze fisiche o sessuali, nella maggioranza dei casi da parte del partner o di un familiare. Sempre nel 2013, sono 179 le donne uccise per mano di uomini, una vittima ogni due giorni, rispetto alle 157 del 2012. Il fenomeno del femminicidio, dal 2012 al 2013, è aumentato del 14%, gli omicidi in ambito familiare sono aumentati del 16,2%.

Anche nel 2013, rispetto agli anni precedenti, in 7 casi su 10, pari al 68,2%, i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare o affettivo. Con questi numeri, l’anno 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% delle uccisioni totali (179 sui 502): un processo particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, basti pensare che le donne nel 1990 rappresentavano appena l’11,1% delle vittime totali.

Per questi dati sconcertanti si sente l’esigenza di avere operatori sempre più formati in tutto il territorio nazionale e capaci di valutare il rischio di recidiva e di prevenire l’escalation della violenza, al fine di evitare il perpetuarsi di questo fenomeno.

Diventa di fondamentale importanza individuare i fattori che portano una persona ad agire violentemente, e determinare se questi stessi fattori o altri potrebbero portare questa stessa persona, in futuro, a riattivare comportamenti simili.

Gli ambiti in cui è importante eseguire una valutazione del rischio sono principalmente due: l’ambito clinico e l’ambito peritale.

In ambito clinico è molto importante, quando una paziente porta la sua storia di violenza, concentrarsi su alcuni aspetti fondamentali, ad esempio comprendere come e perché una persona ha scelto di agire in maniera violenta, quali siano stati i fattori specifici in quel contesto. È importante aiutare la donna a raggiungere un sufficiente livello di consapevolezza della sua situazione in quanto, animata dalla speranza che la sua condizione migliorerà, si autocolpevolizza per le violenze che subisce, ritiene che la pazienza e il silenzio siano un buon metodo per sperare nel miglioramento della situazione, minimizza i comportamenti violenti del suo partner. Patrizia Romito descrive tre tipi di risposte disfunzionali che l’ambiente può dare alle richieste di aiuto di una donna vittima di violenza domestica:

  • il non riconoscimento e la minimizzazione della violenza;
  • il rifiuto, quando si prende atto che le violenze sono presenti ma se ne dà la colpa alla donna;
  • lo psicologizzare abusivamente il fatto, quando si ricercano le cause delle difficoltà della donna nella sua psicologia patologica.

Invece, come continua a dirci Patrizia Romito, dalla spirale della violenza da sola, una donna, non riesce ad uscire. Sono necessarie consapevolezza, scelte coraggiose, impegnative e figure competenti. È fondamentale scrivere un progetto di riacquisizione della propria autonomia, fortemente compromessa dalla violenza, costruire un nuovo pensiero su di sé come immagine positiva. Instaurare una relazione partendo dalla ricerca e dalla valutazione delle risorse interne per dare forza alla donna, la stessa che dovrà utilizzare per confrontarsi con le proprie vulnerabilità e con i propri fallimenti.

Questo lavoro di valutazione del rischio è un percorso che viene pianificato con la donna perché permette di valutare la possibilità di una recidiva di violenza e determinare quali fattori (ad esempio il desiderio di esercitare un dominio totale sulla propria partner, distruggendone l’autonomia materiale e psicologica) o altri (ad esempio possibili disturbi di personalità, psichiatrici o di dipendenza patologica) possano indurre il maltrattante a riattivare comportamenti violenti in futuro.

Dopo di che, se il rischio risulta molto elevato, mettere a punto un sistema d’intervento per la gestione del rischio, pianificando, ad esempio, un percorso di messa in sicurezza della vittima.

Per effettuare una valutazione del rischio che sia il più possibile valida e attendibile, è stato messo a punto in Canada nel 1996, ad opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, uno strumento che ha funzione predittiva e preventiva rispetto a se e quanto un uomo (è il caso di gran lunga più frequente), che ha agito con violenza nei confronti della propria partner o ex-partner, sia a rischio, nel breve o nel lungo termine, di usare nuovamente violenza. Questo strumento, indicato con l’acronimo S.A.R.A. (Spousal Assault Risk Assessment), viene inteso, letteralmente, come valutazione del rischio di violenza interpersonale fra partner, ed è stato sperimentato per la prima volta in Canada, poi applicato con successo in altri Paesi, quali Stati Uniti ed Europa (in particolare Svezia e Scozia), mentre in Italia se ne è iniziato a parlare solo da pochi anni.

Il S.A.R.A., nella versione originaria costituito da 20 items, poi snellito nella versione screening di S.A.R.A.-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità. L’operatore che effettua la valutazione del rischio con il metodo S.A.R.A.- S procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori, allo stato attuale (ultime quattro settimane) e nel passato (prima di un mese). Questo significa che quando una donna riporta le violenze subite, analizzando i dieci fattori di rischio proposti dallo strumento, sarà compito del valutatore identificare se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata e se sia nell’immediato (entro 2 mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi). Al valutatore viene anche chiesto di verificare se ci fosse un rischio di violenza letale e se esiste un’evoluzione della violenza, un’escalation.

Ci sono inoltre alcune circostanze più critiche di altre per quel che riguarda la gravità del rischio di recidiva, in particolare quando:

  • la vittima riferisce la sua intenzione di interrompere la relazione con il maltrattante;
  • la vittima ha una nuova relazione contrariamente alla volontà dell’autore delle violenze, estendo il rischio anche al nuovo partner;
  • ci sono delle dispute per quanto riguarda la fase di separazione: affidamento dei figli, mantenimento, assegnazione della casa;
  • il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per il reato di maltrattamenti.

In ambito peritale, poi, la valutazione del rischio può essere usata in diversi contesti:

  • Prima del processo, in fase di indagini. Quando qualcuno viene arrestato per un reato legato ai casi di maltrattamento, è importante capire quale tipo di misura cautelare applicare: se il presunto autore del reato può costituire un pericolo per la presunta vittima o per i figli, e quindi prevedere qualche forma restrittiva, oppure se può essere lasciato in libertà, eventualmente con un ordine di divieto di dimora o con un ordine di allontanamento.
  • Durante un procedimento. Una valutazione del rischio può essere a volte richiesta quando un caso viene rinviato a giudizio. Se l’imputato non è ancora stato condannato, la valutazione del rischio è utile per i giudici che devono stabilire se applicare forme alternative come la libertà vigilata, gli arresti domiciliari.
  • Nel periodo detentivo. Dopo la condanna, la valutazione del rischio può essere utile per coloro che si occupano del detenuto e del suo eventuale progetto di recupero (educatori, psicologi, assistenti sociali).
  • Nel rilascio. Per gli autori di reato che sono stati sottoposti a un regime carcerario, la valutazione del rischio può essere di aiuto per il tribunale se ci si trova ancora in regime di misure cautelari, in attesa di giudizio, per mettere a punto una strategia programmatica che risponda alle esigenze del caso specifico. Per un autore di reato in regime di libertà, che sta per terminare il suo periodo di supervisione da parte dei servizi sociali della giustizia, una valutazione del rischio può servire per indicare se disporre ordini restrittivi prima di chiudere definitivamente il caso.

I dieci fattori di rischio

Entrando nel dettaglio, i fattori di rischio possono essere divisi in sezioni separate: violenza da parte del partner o ex partner; adattamento psico-sociale.

Violenza da parte del partner:

  • Gravi violenze fisiche/sessuali: questo stato comprende quelle violenze che mettono in serio pericolo la vita della vittima, quelle violenze che causano gravi lesioni e che richiedono cure mediche. Si parla quindi di violenze effettivamente già messe in atto dal maltrattante, includendo anche le minacce dell’uso delle armi.
  • Gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza: si tratta di pensieri omicidi o di impulsi di violenza verso la vittima. Le minacce devono essere effettuate in una modalità tale da creare paura, terrore alla vittima che le subisce e devono essere perturbanti nel tempo.
  • Escalation sia della violenza fisica/sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di agire tali violenze: questa voce serve a notare se c’è un incremento temporale della violenza o delle intimidazioni. L’escalation può essere riconducibile a un uso strumentale della violenza per intimorire la partner, e più si riesce nell’intento, più sarà difficile bloccarla. È importante prendere in considerazione almeno tre o quattro episodi e stabilirne l’aumento di gravità e di frequenza nel tempo.
  • Violazione delle misure cautelari o interdittive: in questo fattore si fa riferimento esclusivamente alle violazioni delle disposizioni giudiziarie date al presunto carnefice in relazione al comportamento violento.
  • Atteggiamenti negativi nei confronti delle violenze interpersonali e intrafamiliari: il potenziale autore della violenza manifesta atteggiamenti che incoraggiano, o giustificano, o minimizzano il comportamento abusivo, di controllo e violento.

Adattamento Psico-sociale:

  • Precedenti penali: serve a far emergere eventuali condanne o imputazioni del maltrattante sia per reati simili avvenuti in passato sia per altri reati non legati alla violenza domestica sempre già avvenuti.
  • Problemi relazionali: qui viene valutata la qualità delle relazioni che l’abusante è riuscito a costruire intorno a sé nell’arco della sua vita. 
  • Status occupazionale e problemi finanziari: con questo parametro si verifica la condizione di occupazione/disoccupazione o la capacità/incapacità di mantenere un lavoro. Ad esempio un improvviso inaspettato cambiamento dello status di lavoro può determinare un aumento del rischio di violenza.
  • Abuso di sostanze: il far uso di sostanze può essere un fattore che segnala la presenza, indirettamente, di un disturbo di personalità, e può anche indurre uno stato di alterazione della coscienza dell’individuo che potrebbe portare alla messa in atto di comportamenti violenti.
  • Disturbi mentali: possono essere inclusi in questo parametro sia disturbi di personalità che problematiche psichiatriche. La violenza domestica non può sempre essere spiegata soltanto con la presenza di disturbi mentali, ma è possibile un’associazione e in questo caso c’è un aumento dell’indice di rischio, dettata dall’imprevedibilità del soggetto.

Un altro strumento, che parte dai dieci criteri proposti dal S.A.R.A.-S, messo a punto da ricercatrici di Differenza Donna, associazione di donne che combatte la violenza domestica di Roma, è il questionario ISA. Si tratta di un progetto europeo che l’Associazione ha realizzato, tra il 2008 e il 2010, come capofila con altri tre partner: Scozia, Portogallo, Paesi Bassi.

ISA (Increasing Self Awareness) è un modulo da compilare sulla base della propria situazione per cogliere qual è il livello di pericolo che si sta correndo. Si ottiene un punteggio in base a quello che succede nella relazione violenta e di conseguenza è indicato cosa è opportuno fare. E’ rivolto a tutte quelle donne che ancora non hanno chiamato un centroantiviolenza, non hanno denunciato, forse non ne hanno mai parlato con alcuno. È un questionario autosomministrato presente on-line nel sito del CAV Differenza Donna, e viene usato come punto di partenza per far capire alla donna vittima di violenza quale sia la sua situazione di pericolo quanto sia essa stessa grave.

Per aiutare una donna vittima di violenza domestica è importante intervenire con tutti gli strumenti che si hanno a disposizione: dai colloqui di consapevolezza, al lavoro in rete, alla somministrazione di strumenti quali il S.A.R.A.-S.

Deve essere chiaro a tutti gli attori di questo percorso di riconoscimento e in seguito di uscita dalla violenza che si sta parlando di un fenomeno ben radicato nella cultura della nostra società, dove c’è bisogno di un cambiamento di mentalità profondo ed indispensabile, di una riscoperta di valori essenziali di rispetto reciproco, che si declina su diversi livelli, livelli di cui l’uno contiene l’altro e in continua interazione tra loro, dove la dimensione sociale, la dimensione relazionale e la dimensione individuale abbiano alla base un concetto di parità tra i generi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il dilemma del trolley, il conflitto tra colpa deontologica e colpa altruistico/umanitaria e il disturbo ossessivo

Il dilemma del trolley sembra mettere in conflitto due tipi di morale, una per così dire orizzontale, interpersonale, funzionale a salvaguardare il bene degli altri, dunque una morale essenzialmente umanitaria. L’altra verticale cioè orientata verso il rispetto della autorità morale, riconosciuta autorevole e spesso introiettata, e funzionale a limitare i diritti decisionali del singolo individuo, dunque una morale deontologica.

È pubblicato online, sul JBTEP, un articolo di Mancini e Gangemi (2015), che include due ricerche che corroborano due tesi, già suffragate da studi precedenti. La prima è di psicologia generale, e sostiene l’esistenza di due sensi di colpa: uno altruistico/umanitario e l’altro deontologico. La seconda, invece, è di psicologia clinica e afferma che i pazienti ossessivi siano più preoccupati di evitare colpe deontologiche piuttosto che colpe umanitarie/altruistiche.

Entrambe le ricerche hanno utilizzato il cosiddetto paradigma del trolley, in particolare la versione basica che consente di porre in conflitto i due sensi di colpa. Il conflitto tra i due sensi di colpa non è raro, basti pensare al problema morale posto dalla eutanasia: è giusto aiutare una persona che soffre senza speranza, a morire? O, piuttosto, nessun essere umano ha il diritto di sostituirsi a Dio o al destino, e dunque nessuno ha il diritto di decidere di morire o di aiutare un altro a farlo? Fino a che punto il desiderio altruistico e umanitario di non far soffrire un’altra persona autorizza a mettersi nei panni di Dio?

La storia dice che la prima formulazione del dilemma del trolley, la cosiddetta switch version, fu pubblicata nel 1967 da Philippa Bonsanquet (poi Foot) su Oxford Review. Da allora ne sono state formulate molte versioni dando vita alla cosiddetta trolleylogy che costituisce il paradigma più utilizzato nelle ricerche di psicologia morale e nella experimental phlilosophy (Edmonds, 2014).

La leggenda vuole che la Foot abbia preso spunto da un episodio reale avvenuto durante la seconda guerra mondiale (Edmonds, 2014).
Alle 4.13 am del 13 giugno 1944, Londra fu colpita dalla prima bomba volante, denominata dai nazisti V1. Le V1 erano una sorta di missile lanciate da basi poste nella Francia occupata. Alla prima V1 ne seguirono centinaia che colpirono Londra con effetti devastanti. Erano ordigni potenti ma imprecisi e i tedeschi avevano bisogno di sapere dove cadevano le V1, per adeguarne la traiettoria e colpire il centro di Londra, al fine di causare il maggior numero di vittime e danni. Gli inglesi, tramite agenti segreti doppi, tra i quali Greta Garbo, erano in grado di passare ai nazisti informazioni false sui reali luoghi di caduta delle V1, quindi potevano far modificare le traiettorie delle bombe volanti in modo da salvaguardare le zone centrali di Londra, più abitate e frequentate, a discapito di aree più periferiche e meno affollate della città.

Era possibile, perciò, salvare molti a discapito di pochi, ma era giusto? Il conflitto morale di chi doveva decidere, è evidente. Da una parte c’era l’opportunità di ridurre il numero di morti, e quindi una motivazione sostanzialmente umanitaria, ma dall’altra la responsabilità di decidere quali cittadini sarebbero morti e quali no, e quindi il freno della norma morale intuitiva “not play God” vale a dire: “Chi sono io per decidere chi vive e chi muore?”.

La decisione ultima spettava al primo ministro, Winston Churchill, il quale, già in altre occasioni, sembra che avesse dimostrato di non avere molte remore a mettersi nei panni di Dio. Churchill impartì l’ordine di depistare il nemico e con questo si riconobbe il diritto di decidere quali cittadini far morire e quali salvare. I servizi segreti inglesi fecero arrivare ai nazisti informazioni false. L’operazione ebbe successo e le V1 cominciarono a cadere sui quartieri meridionali di Londra. Furono salvate 10.000 vite ma, dopo la guerra, non fu mai data grande pubblicità alla notizia.

Nel 1967 Philippa Foot formalizzò il dilemma di Churchill: il trolley dilemma. [blockquote style=”1″]Un vagone, completamente fuori controllo, procede a tutta velocità lungo un binario sul quale sono bloccate cinque persone che, sicuramente, saranno travolte e uccise. L’unica possibilità di salvezza dei cinque sei tu che ti trovi vicino a uno scambio. Se muovi lo scambio, dirotti il vagone su un altro binario dove però si trova un’altra persona che non avrà scampo e morirà. Cosa devi fare?[/blockquote].

Studi successivi hanno rilevato che circa l’80 – 90 % delle persone decide di muovere lo scambio (Greene, 2002). Da una ricerca di Gangemi e Mancini (2013) risulta che le persone che decidono di muovere lo scambio, affermano di farlo “perché così si salvano quattro vite”, cioè sono mosse dalla intenzione di ridurre il più possibile la sofferenza degli altri, dunque da una motivazione umanitaria. Diversamente, chi decide di non muovere lo scambio riferisce di non riconoscersi il diritto di stabilire chi vive e chi muore, dunque intende rispettare la norma morale Not play God e lasciare la decisione al destino (Gangemi e Mancini, 2013).

Il dilemma del trolley, pertanto, sembra mettere in conflitto due tipi di morale, una per così dire orizzontale, interpersonale, funzionale a salvaguardare il bene degli altri, dunque una morale essenzialmente umanitaria. L’altra verticale cioè orientata verso il rispetto della autorità morale, riconosciuta autorevole e spesso introiettata, e funzionale a limitare i diritti decisionali del singolo individuo, dunque una morale deontologica.

In una versione modificata del dilemma (Gangemi e Mancini, 2013) era chiesto ai soggetti di immaginarsi accanto allo scambio ma con vicino una autorità autorevole, come ad esempio un giudice. A queste condizioni, la maggior parte dei soggetti non muoveva lo scambio. Ciò suggerisce che a frenare la motivazione umanitaria possa intervenire il riconoscimento del limite della propria libertà decisionale, cioè il rispetto del principio “Not play God”.

Al contrario, tutti i soggetti ai quali era chiesto di vedersi accanto allo scambio ma vicino alle cinque vittime potenziali, ritenevano che fosse giusto muovere lo scambio e salvare i cinque, anche se ciò avrebbe comportato la morte certa di un altro individuo. Sembra quindi confermato che la mente umana tenga conto di due morali che non sempre vanno d’accordo: una umanitaria/altruistica e una deontologica. A conferma di questa differenza c’è la dimostrazione che sia possibile indurre separatamente i due sensi di colpa, ad esempio attraverso l’esposizione a facce e frasi di dialogo interno (Basile e Mancini, 2011).

Per giunta, questo tipo di induzione attiva, alla fMRI, aree cerebrali diverse e, fatto interessante, l’induzione di senso di colpa deontologico attiva le insulae e la paleocorteccia che è anche il substrato neurale del disgusto, mentre il senso di colpa altruistico attiva aree cerebrali normalmente coinvolte nei compiti di teoria della mente (Basile et al., 2011). I due sensi di colpa possono essere indotti pure attraverso l’immedesimazione in storie e la rievocazione di episodi della propria vita.

Come riscontrato nella ricerca di Mancini e Gangemi (2015), l’induzione di senso di colpa deontologico implica scelte prevalentemente omissive, vale a dire una preferenza per il rispetto del principio Not play God, mentre l’induzione del senso di colpa altruistico implica la scelta di muovere lo scambio per salvare il maggior numero possibile di vite, cioè prevale lo scopo altruistico/umanitario.

Nello stesso articolo, assieme a questa ricerca che ha coinvolto soggetti non clinici, è stata pubblicata una seconda ricerca con pazienti ossessivi. Il risultato è stato che i pazienti ossessivi risolvono il dilemma decidendo di non muovere lo scambio e dunque di rispettare il principio Not play God, al contrario di altri pazienti con disturbi d’ansia e di soggetti non clinici. Dunque i pazienti ossessivi sembrano più preoccupati di prevenire una colpa deontologica che una colpa umanitario/altruistica.

Questo dato arricchisce e rende più precisa la tesi “morale” del disturbo ossessivo, vale a dire che alla base della sintomatologia ossessiva vi sia lo scopo di prevenire una colpa. Non si tratterebbe quindi di una colpa qualsiasi ma di una colpa deontologica. Questa tesi è suffragata da ricerche precedenti, in particolare dal fatto che l’induzione di senso di colpa deontologica attiva il cervello degli ossessivi, come risulta dalla fMRI, in modo diverso da quanto accade nei soggetti non clinici, mentre non ci sono differenze se è indotto senso di colpa altruistico (Basile et al., 2013). Altro sostegno alla tesi viene dalla dimostrazione che l’induzione di senso di colpa deontologico in soggetti non clinici implica controlli e lavaggi simil ossessivi mentre ciò non accade se è indotto senso di colpa altruistico (D’Olimpio e Mancini, 2014).

Per giunta è nota la tendenza dei pazienti ossessivi a essere ossessionati da pensieri che suscitano il sospetto di essere persone perverse o blasfeme anche se ciò non implica in alcun modo danni o sofferenze per alcuno, ed è altresì ben dimostrato che la riduzione della responsabilità, e dunque della possibilità di essere colpevoli, implichi riduzione della sintomatologia ossessiva, anche se alla riduzione di responsabilità non si accompagna la riduzione del rischio per gli altri. Ad esempio la riduzione della responsabilità di un’eventuale fuga di gas implica la riduzione dei rituali di controllo, pur se il rischio per le potenziali vittime rimane lo stesso (Lopatcka e Rachman, 1995; Shafran, 1997).

In conclusione, i due esperimenti appena pubblicati aggiungono prove a favore della tesi che distingue due sensi di colpa, uno altruistico/umanitario e l’altro deontologico, e anche della tesi secondo la quale alla base del disturbo ossessivo vi sarebbe un timore particolarmente grave di essere colpevoli in senso deontologico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Piccolo manuale sui disturbi del comportamento alimentare – Recensione del libro di A. Marchisella

L’obiettivo del libro è stato quello di creare una guida facilmente consultabile e comprensibile anche dai non esperti del settore e che, seppure di brevi dimensioni, fornisse un primo approccio al problema.

Lei non aveva nulla da dirsi né domande da farsi: era semplicemente viva. Quella farfalla non possedeva pensieri ed era leggera. Io invece ho dovuto faticare per raggiungere una simile condizione di leggerezza, almeno apparentemente. Dovevo vomitare, piangere, non mangiare e poi ancora piangere. Per poi guardarmi nello specchio e non vedermi mai sufficientemente magra.

Si tratta di un manuale composto da una serie di interventi, presentati al lettore in forma di interviste realizzate dall’autrice stessa, che vede il contributo di diversi specialisti che operano nell’ambito dei Disturbi del Comportamento alimentare: psicologi, medici, nutrizionisti. L’obiettivo è stato quello di creare una guida facilmente consultabile e comprensibile anche dai non esperti del settore e che, seppure di brevi dimensioni, fornisse un primo approccio al problema.

Se si pensa ai disturbi alimentari quello a cui più comunemente si fa riferimento per la drammaticità della condizione psioco-fisica che comporta è l’anoressia nervosa. In un’ottica più psicodinamica, il dott. Testani, psicologo, spiega come si tratti di un vero gioco con la morte, la persona cioè non percepisce il pericolo a cui va incontro con la negazione del cibo, come se allontanasse da sé il pensiero di morte. Ciò che comunica l’anoressica con il proprio corpo, percepito erroneamente, è la ricerca di unicità, un attacco al falso sé, richiamare le attenzioni e l’aiuto dei genitori. Il corpo viene cioè percepito come un’entità separata dal Sé e l’anoressia spesso sembra un tentativo di cura, per arrivare attraverso la disciplina e il controllo del cibo, ad una individualità e differenziazione dalla figura materna.

 

Anche in una prospettiva cognitivo-comportamentale lo stile genitoriale avrebbe un ruolo chiave nello sviluppo di disturbi del comportamento alimentare. Secondo la dott.ssa Della Morte, psicologa psicoterapeuta, spesso sono i comportamenti rifiutanti o al contrario iperprotettivi dei genitori a costituire uno dei principali fattori di rischio per l’esordio dei disturbi del comportamento alimentare insieme all’auto e etero criticismo presente tra gli adolescenti e all’influenza che la competizione tra compagni di classe esercita sull’insoddisfazione corporea.

Come sottolinea il Dott. Saita, psicologo, l’anoressia e la bulimia rappresentano la faccia della stessa medaglia sebbene la prima comporti un’astensione dal mangiare e la seconda consista nel mangiare in modo eccessivo. Sebbene non tutti gli esperti concordino su una stretta correlazione tra entrambi i disturbi, il costrutto di base che accomuna le persone con bulimia e anoressia è la percezione netta di non essere amati o apprezzati.

Il dott. Roviglio, medico specialista in dietologia e scienza dell’alimentazione definisce il Binge Eating Disorder come un comportamento caratterizzato dal desiderio di dimagrire e da contemporanee perdite di controllo sul cibo, determinate dalla percezione di emozioni negative. Alla base paiono esserci scompensi affettivi (familiari, di coppia..). Come tutte le personalità dipendenti anche le persone con Binge Eating Disorder ricorrono a un elemento, in questo caso al cibo, per creare una realtà fittizia. Le abbuffate provocano conseguentemente fenomeni di alterazione della fame e sazietà (la dieta ipocalorica porta un aumento di fame), blocco delle emozioni negative che si ripresentano, secondo un circolo vizioso, in abbuffate che a loro volta determineranno emozioni altrettanto spiacevoli.

 

Quali differenze tra Binge Eating disorder e bulimia?

Come sottolinea la dott.ssa , nutrizionista e Speciliasta PNEI, a differenza degli altri disturbi del comportamento alimentare, la bulimia viene spesso trascurata. Ne soffrono persone insospettabili e che apparentemente conducono una vita normale, anche se esprimono un forte bisogno di amore, riconoscimento, approvazione che non bastano per riempire il vuoto emotivo che sentono. Mentre come osserva il dott. Roviglio le bulimiche sono normopeso e la restrizione alimentare precede la comparsa delle abbuffate, le pazienti con Binge Eating Disorder sono sovrappeso e non utilizzano mezzi di compensazione (vomito, lassativi, attività fisica), non hanno comportamenti dietetici restrittivi poiché non riescono a limitare l’introito calorico.

Due sono le tipologie di organizzazione del Binge Eating Disorder per Roviglio: un quadro giovanile caratterizzato da una visione di sé che oscilla tra elevata stima di sé e autocritica estrema, timore di biasimo e di deludere l’altro e con alla base una famiglia caratterizzata da ambiguità e madri ansiose poco attente alle esigenze emotive della figlia, e un quadro adulto con un’origine del disturbo più tardiva dovuta a una crisi esistenziale e un conseguente vuoto interno interpretato erroneamente come fame, colmata con una perdita di autocontrollo sul cibo.

 

Una patologia a sé stante rispetto ad anoressia e bulimia è il vomiting.

Il Vomiting si definisce come una sorta di anoressia mascherata: nell’anoressia il piacere dato dal cibo viene anestetizzato attraverso il controllo e l’astinenza, nel vomiting il cibo mantiene la sensazione di piacere nell’alternanza abbuffata-vomito. Nasce dapprima come mezzo per gestire il timore di ingrassare come nell’anoressia o il desiderio di svuotarsi dopo una grande abbuffata tipico della bulimia ma come sottolinea il Dott. Algeri, psicologo e psicoterapeuta, tale pratica diventa ben presto una perversione piacevole, spesso solitaria e segreta e si alterna all’abbuffata, diventa il problema stesso per la persona.

Proprio per il forte grado di dolore che il disturbo del comportamento alimentare comporta e che veicola attraverso il controllo-non controllo del cibo, tutti gli esperti ma anche chi come la scrittrice Chiara Ciavatta, meglio conosciuta come Chiara Sole, il disturbo lo hanno vissuto direttamente, sottolineano l’importanza di una presa in carico psicoterapeutica.

Dal momento che i disturbi del comportamento alimentare si inseriscono spesso come problematiche legate all’età adolescenziale, nel processo di aiuto a questi pazienti occorre ricordare come i genitori possano svolgere un ruolo essenziale nella cura del figlio/a. Infatti, secondo il dott. Testani, psicologo, una volta compreso il disagio, il genitore dovrebbe condividere con il figlio il problema senza forzature e con un’apertura alla comprensione. Come sottolinea anche la Dott.ssa Della Morte, psicologa, psicoterapeuta sarebbe opportuno che anche i genitori ricevessero un aiuto psicoterapeutico al fine di ottenere sostegno e direttive utili a favorire il cambiamento.

Tra le organizzazioni che si occupano della cura e dei disturbi del comportamento alimentare vi è ABA, divenuta punto di riferimento poichè accoglie la richiesta di aiuto di chi soffre di questi disturbi attraverso azioni di ricerca, prevenzione e assistenza. Fondata da Fabiola De Clercq nel 1991, ABA ha avuto una diffusione capillare sul territorio italiano ed è tuttora presente in 16 città italiane dove diversi specialisti lavorano in equipe per garantire un processo di cura efficace adatto al singolo paziente.

Ancora non amore è il significato che io, Antonella, voglio attribuire ad Ana. Ancora non amore è quella condizione di vuoto e di solitudine interiore che cerchiamo di colmare e di comunicare agli altri tramite il nulla, che in questo caso è la mancanza di peso corporeo, sperando disperatamente di essere ascoltate. Ecco quello che ti sto chiedendo adesso per mezzo di Ana: un po’ d’amore. Perché se sono magra sono più bella e ho il diritto di essere amata. Perché se sono magra ti verrà voglia di proteggermi e nel contempo ti mostrerò la mia grandezza, la perfezione che io so possedere. Perché se sono magra l’inverno sarà per me soltanto una carezza.

 

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La scrittura e il linguaggio orale fanno riferimento a differenti aree cerebrali

FLASH NEWS

Anche se la nostra abilità nello scrivere si è evoluta a partire dal linguaggio orale, scrivere e parlare si possono considerare, a livello cerebrale due sistemi indipendenti.

In un articolo pubblicato su Psychological Science un team di ricercatori americani ha dimostrato che è possibile mantenere intatta la funzionalità dell’area deputata alla scrittura seppure viene danneggiata l’area responsabile del linguaggio orale e viceversa; questo fenomeno si verifica anche per le componenti più piccole del linguaggio, i morfemi.

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Per comprendere come il cervello organizza la conoscenza del linguaggio scritto e se lo scrivere fosse indipendente dal parlare, il team ha studiato cinque pazienti afasici colpiti da ictus con difficoltà comunicative. Quattro di essi presentavano difficoltà nello scrivere delle semplici frasi, ma nel momento in cui era chiesto loro di riprodurle oralmente non avevano alcun problema. Mentre un individuo aveva il problema opposto: difficoltà nel parlare ma non nello scrivere la stessa frase.

Quindi ai pazienti sono state mostrate delle figure ed è stato chiesto loro di descrivere l’azione raffigurata oralmente o per iscritto: di nuovo emergono esempi per cui vi sono errori grammaticali nello scritto ma non nel parlato, o viceversa.

I risultati dello studio neuropsicologico dunque dimostrano che la scrittura e il parlato fanno riferimento a diversi sistemi di aree cerebrali, non solo in termini di esecuzione motoria e riproduzione fonetica ma anche a un livello più elevato di costruzione della frase.

 

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Neuroscienze: l’apprendimento di nuovi termini attraverso l’associazione a simboli visivi

Come è possibile per il nostro cervello imparare nuove parole? L’ascolto e la ripetizione non bastano…

Come è possibile per il nostro cervello imparare nuove parole? L’ascolto e la ripetizione non bastano: secondo una nuova ricerca condotta alla Georgetown University e pubblicata sul Journal of Neuroscience, impariamo nuove parole solo se associate ad un simbolo visivo.

L’area cerebrale addetta all’apprendimento di nuovi termini linguistici è la Visual Word Form Area (VWFA), area coinvolta nell’individuazione di parole a partire da un livello più basso di manipolazione di immagini. Le immagini o i simboli vengono prima manipolati da quest’area e poi associati alla fonologia e alla semantica del termine da apprendere.

Una spiegazione evoluzionistica della funzionalità di quest’area è data dal fatto che le lettere e l’alfabeto hanno fatto recentemente il loro ingresso nell’evoluzione umana e, dunque il cervello, per apprendere nuove parole, ha bisogno di far riferimento a oggetti e simboli del suo ambiente naturale (proprio come i nostri antenati, prima dell’utilizzo dell’alfabeto).

Oltre al riconoscimento delle parole, la VWFA è coinvolta nell’elaborazione a livelli superiori del significato di una parola.

Dunque, solo quando il cervello associa visivamente un termine a un’immagine di senso compiuto, si può dire appreso il nuovo termine. Come si è arrivati a queste conclusioni? Come è stato possibile studiare il fenomeno in laboratorio? Proseguite con la lettura dell’articolo consigliato per saperne di più sulla ricerca condotta alla Georgetown University.

 

Si può ripetere un termine all’infinito, lo si può ascoltare per sempre, ma solo quando il cervello lo associa visivamente a un senso compiuto lo capisce. Lo stesso meccanismo viene usato anche dalle persone non vedenti che, pur non avendo simboli visivi di riferimento, associano la parola (sia essa sonora che in braille) a qualcosa che la loro mente possa codificare.

Psicologia: capiamo le parole quando le associamo a un simbolo visivoConsigliato dalla Redazione

Grazie a una nuova ricerca, il Journal of Neuroscience ha potuto indagare l’ultima frontiera della parola. Come facciamo ad apprendere la lingua che parliamo? Attraverso l’associazione a delle immagini. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Tradimento e amore a ostacoli – Tracce del Tradimento nr. 10

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – X: Tradimento e amore a ostacoli

In ogni storia d’amore i grandi drammi e i fuochi di passione più accesi esistono esclusivamente in presenza di difficoltà, di impossibilità, di scale da salire, mariti gelosi, grandi distanze da percorrere o difficoltà istituzionali da affrontare e risolvere.

Laddove queste difficoltà si sciolgano tutto cambia in modo ineluttabile: immaginate Giulietta e Romeo con i consuoceri felici di frequentarsi e in attesa di un nipotino. Noia mortale, nessuno avrebbe scritto una riga e Romeo prima o poi avrebbe insidiato la governante o Giulietta si sarebbe lamentata con le sue sorelle.

Il don Giovannismo di cui abbiamo parlato nel nono articolo di questa serie non appare quindi come una caratteristica solo maschile o personologica ma come una forma del comportamento umano che va alla ricerca di minacce o di difficoltà per sentire il sapore forte delle emozioni che queste accendono.

Se don Giovanni non trovasse delle difficoltà, delle resistenze non ci sarebbe una storia da raccontare. Eppure in fondo questa operazione non riesce mai pienamente e va costantemente, inutilmente ripetuta. Don Giovanni non è che un collezionista, un passionale freddo, un tecnico raffinato del sesso che tiene il conto delle sue innumerevoli avventure, un freddo raccontatore di storie che evita in tutti i modi di coinvolgersi e si appassiona soltanto all’aspetto misterioso delle nuove storie, alle difficoltà e agli ostacoli godendosi poco il resto.

Questo spiega anche una sua melanconica attitudine metafisica. Anche in Casanova troviamo, nonostante la vitalità della sua autobiografia, un distanziamento, una tendenza a trovare in tutti i bivii affettivi la scelta che lo allontana, lo lascia solo, che conferma la sua impossibilità ad una vicinanza solidale effettiva nel tempo, condotta con grande intelligenza e lungimiranza.

Il suo scopo è quello di arrivare alla vecchiaia e scrivere la sua autobiografia ma dove emotivamente egli sia effettivamente rimane segreto. Di certo sembra non essere nei letti che frequenta. Il demonio che spingeva Casanova e Don Giovanni a non potersi mai fermare ancora si aggira tra noi e lo vedete spuntare ogni qual volta qualcuno, all’ennesimo giro di giostra, vi confessa con aria sognante di aver trovato la persona ideale che gli ha fatto perdere la testa e per la quale si sta mettendo in un mare di guai.

Stupisce che vi siano ancora persone che -in età non più giovanissima- lasciano un buon matrimonio per il sogno di un’unione perfettamente armonica e passionale come quella che hanno in clandestinità, poche ore alla settimana. L’illusione di trovare nell’altro una intesa sessuale perfetta è difficilmente paragonabile con la affettuosa routine che si ha con il proprio vicino di spazzolino. L’amante è appassionato, focoso con una passione e una dedizione sessuale assoluta, spesso è anche molto più disinibito e esperto sessualmente. Ama in modo prepotente e rivitalizzante, fa sentire belli, forti, potenti. Con lui non si deve concordare la spesa per la cena o chi andrà alla posta per ritirare le bollette o dal dentista con i figli e chi cambierà l’olio alla macchina.

Ciò che si ha in casa appare improvvisamente inutile, vano, noioso, mancante di senso e poco desiderabile e così si lascia la vecchia intesa pantofolaia e noiosa per la nuova situazione appassionante e incerta, magari con un po’ di malcelato imbarazzo e con un partner pronto ancora a credere alla pietosa bugia secondo cui si ha bisogno “di trovare se stessi”, “di una pausa di riflessione”, di un momento di ripensamento” mentre in realtà sempre, assolutamente sempre, tutto ciò ha un nome preciso: tradimento.

Il problema è che è tutta l’operazione è drammaticamente ingannevole, e il protagonista ne è la prima vittima. Si stanno paragonando due cose che non hanno nulla in comune. Due forme dell’amore entrambe esistenti in questo nostro mondo ma diverse una dall’altra. Forse cronologicamente conseguenti ma non necessariamente perché si può amare senza essere stati prima innamorati e viceversa molto spesso l’innamoramento esaurendosi non necessariamente si trasforma in amore.

L’unico errore è scambiare l’uno per l’altro dando punteggi a esperienze emotivamente imparagonabili. Naturalmente queste cose in astratto sono facili da definire, mentre nello scorrere del reale divengono difficili da differenziare e necessariamente intricate e spesso confuse.

La ricerca di tracce si delinea nell’amore passionale maggiormente che in quello coniugale. Mentre è nei matrimoni apparentemente stabilizzati che l’irrompere di una traccia non voluta, la ricevuta di un teatro, una traccia informatica, crea il casus che altrimenti non si riusciva a trovare e che lo fa sembrare un incidente, un intoppo.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

La musica triste solleva l’umore. Ma è davvero così?

Numerose ricerche hanno messo in luce che molti individui, di fronte ad un pensiero che li rende tristi, si distraggono. Detto in altri termini: cercano di pensar meno a quell’evento che genera loro tristezza. E per distrarsi spesso si accende lo stereo e si sceglie un brano musicale da ascoltare.

La quotidianità è un susseguirsi di eventi, con conseguenti significati soggettivi che noi attribuiamo ad essi. Spesso viviamo degli eventi che noi percepiamo come positivi con relative belle emozioni, che ci fanno star bene; ma sovente ci ritroviamo anche ad esperire emozioni spiacevoli: talvolta siamo arrabbiati e viviamo la sensazione di aver subito un’ingiustizia; altre volte siamo divorati dai sensi di colpa con la percezione di non poter rimediare all’errore commesso che ci affligge; altre volte ci sentiamo tristi.

La tristezza è un’emozione, e scaturisce dal significato personale che noi attribuiamo a qualcosa che stiamo vivendo. Sicuramente essere tristi non è piacevole. Ci manca qualcosa, le cose non vanno come noi vorremmo; talvolta la tristezza può dare origine a un senso di impotenza e di inutilità.

Molti soggetti di fronte a questa emozione si attivano poco, attendendo che il tempo porti via da solo questo stato d’animo sgradevole.  Altri individui di fronte ad un’emozione sgradevole si muovono affinché possano star meglio.

Numerose ricerche hanno messo in luce che molti individui, di fronte ad un pensiero che li rende tristi, si distraggono. Detto in altri termini: cercano di pensar meno a quell’evento che genera loro tristezza. E per distrarsi spesso si accende lo stereo e si sceglie un brano musicale da ascoltare.

La scelta ricade su un brano triste, o per lo meno che il soggetto in questione percepisce come triste, per la tonalità musicale, oppure per le parole esposte nel testo; in ambedue i casi si tratta di una canzone malinconica, strappalacrime, talvolta anche deprimente. Ma quel brano triste viene scelto con una certa intenzionalità.

Come mai? Possibile che si tratti di una strategia atta a farsi intenzionalmente del male? Una sorta di autolesionismo?

Perché la musica genera emozioni. Ognuno di noi ha i suoi gusti musicali personali e ad un brano viene attribuito un significato, un nostro pensiero. A tale pensiero è associata la nostra conseguente emozione.

Ma quindi: che pensiero c’è dietro quell’atto di scegliere di ascoltare un brano triste? Perché proprio quel brano, e non uno più allegro? Che significato gli attribuiamo?

umerose ricerche dimostrano che il tono dell’umore influenza la selezione della musica da ascoltare (Hunter e Schellemberg , 2010), e nella maggior parte dei casi la scelta ricade su un brano che sia coerente con il nostro stato d’animo.

I motivi per cui scegliamo una canzone triste che ci tenga compagnia nei momenti di tristezza sono vari, e il medesimo studio di Hunter del 2010 ha constatato che non  è detto che si tratti di una strategia volta a farsi intenzionalmente del male.

Questo perché molti dei soggetti coinvolti dichiarano che un brano triste viene scelto nei momenti in cui si è giù di corda affinché si possa in qualche modo condividere la propria sofferenza: è come se accanto a noi ci fosse qualcuno che sta vivendo le nostre esperienze. Senza dimenticare il fatto che il nostro modo di pensare e di vivere gli eventi viene percepito in questo modo come normale, non sbagliato, in quanto abbiamo l’impressione che c’è qualcuno che la pensa come noi.

Condividere le nostre emozioni negative con qualcuno che possa capirci è un buon rimedio per stare psicologicamente meglio. Ciò però non sempre è possibile, in quanto chi vorremmo vicino a noi nei momenti di sconforto non sempre è a nostra disposizione. Altre volte si ha la percezione di non essere capiti da nessuno.

Questo per vari motivi, ma soprattutto perché spesso nei momenti di tristezza vogliamo dagli altri sentirci dire quello che piacerebbe a noi, e non ciò che l’altro realmente pensa. Ciò spesso non accade, perché ogni individuo vive gli eventi in modo diverso, a seconda del significato soggettivo che viene ad essi attribuito. In momenti come questi, nei quali vi è un’alta percezione di scarsa comprensione da parte degli altri, la musica ci aiuta.

Sono i casi in cui la musica comunica qualcosa di soggettivo e spesso, a seconda dell’esperienza emotiva che noi stiamo vivendo, ci trasmette ciò che noi vorremmo sentirci dire nei momenti di difficoltà.

Ma il motivo per cui con intenzionalità si sceglie un brano dalla tonalità triste non sempre è una strategia volta a sentire comprensione attorno.

Un ulteriore studio messo a punto da Lundqvist e all (2009), volto ad esplorare in che misura l’ascolto della musica evoca emozioni nei soggetti coinvolti, ha evidenziato che (anche mediante l’analisi delle espressioni facciali messe in atto dagli ascoltatori) la risposta emotiva è coerente con i brani ascoltati, e quindi una canzone triste da luogo a un’emozione di tristezza.

Anche i risultati dello studio di Hunter mettono in luce che l’ascolto di una canzone, che sia triste oppure allegra, genera un’emozione coerente con il brano ascoltato, e quindi una musica malinconica stimola tristezza. Il medesimo risultato si evince anche in un ulteriore studio, dove i brani non venivano scelti intenzionalmente dai soggetti bensì venivano attivati a discrezione dello sperimentatore, ed anche in questo caso emerge che una canzone triste dà luogo ad un’emozione analoga di tristezza (Zentner e all, 2008)

Ulteriori motivazioni relative al perché si cerca una musica malinconica da ascoltare nei momenti in cui l’umore è basso sono le seguenti (Konečni, 2008):

  • C’è chi ammette di non voler sollevare il proprio morale a seguito di un evento ritenuto triste, piuttosto si cerca di restare il quanto più possibile sintonizzati con la propria emozione, al fine di analizzarne bene il motivo per cui ci si sente così giù. E l’ascolto di una musica triste permette questo.
  • Altri soggetti dichiarano che un brano malinconico aiuta in un certo modo a sfogare e ad esperire al meglio la propria emozione. Ad esempio potrebbe condurre ad un pianto liberatorio, al termine del quale ci si sente meglio.
    In questi casi una canzone triste non solleva il morale. Tutt’altro: fa sì che l’umore resti giù, con possibilità che si abbassi ulteriormente.

Quindi l’intenzionalità di ascoltare una canzone malinconica nei momenti in cui ci si sente giù di corda non sempre porta con sé una conseguenza positiva al malessere emotivo.

Ciascun individuo ha la propria strategia con la quale affrontare i momenti da lui percepiti come difficili, e l’ascolto della musica viene concepito come un buon rimedio alla tristezza, per i vari motivi sopra esposti.

Ma è pur vero che spesso canzoni tristi non rialzano l’umore, anzi, al contrario, inducono tristezza.

Una tristezza che molti individui percepiscono in parte come positiva, perché si sentono maggiormente compresi; perché quella canzone permette un’analisi più approfondita del proprio stato d’animo; perché consente un ottimo sfogo del proprio dispiacere; o infine perché potrebbe trasmettere un messaggio di speranza relativo al fatto non si è soli nell’affrontare una personale difficoltà.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Supercondriaco: ridere fa bene alla salute (2014) – Cinema & Psicologia

Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute (2014).

Regia di Dany Boon. Interpretato da Dany Boon, Alice Pol, Kad Merad.

Trama

Romain Faubert vive a Parigi ed è ipocondriaco. Il suo medico curante, Dimitri Zvenka, diventa il suo unico amico. Il medico che non sopporta le eccessive preoccupazioni per le malattie cerca di liberarsi del fastidioso e invadente paziente in tutti i modi. A seguito di vari tentativi risultati inutili pensa bene di metterlo a contatto con i profughi provenienti da un paese dell’Europa dell’est che fuggono da una feroce dittatura militare. Per Romain che teme anche di scambiare un bacio durante il capodanno è una prova estrema. Nel centro d’accoglienza, dove Dimitri presta servizio come volontario, viene scambiato per il leader della resistenza del paese di provenienza dei rifugiati politici. Anna, sorella di Dimitri, lo aiuta a scappare, lo ospita a casa e se ne innamora. Il falso Anton Miroslav, eroe della resistenza, viene riconosciuto e riportato in patria. Incarcerato dovrà convivere con scarafaggi e topi in una galera dalle condizioni igieniche pessime. Anna e Dimitri si mobilitano con le forze di polizia francesi e riescono a liberare il falso rivoluzionario, che tornato in patria si sposa con la sorella del suo medico curante. La sua ipocondria sembra si sia finalmente risolta ma il finale del film riserva una sorpresa.

Motivi d’interesse

Dany Boon, dopo il successo di Giù al Nord, presenta una descrizione didascalica di una persona che avverte su di sé ogni sintomo di quasi tutte le malattie e riversa la sua ansia sulle persone a lui vicine. Persino scambiarsi un bacio a capodanno è un rito barbaro, le norme igieniche vanno rispettate per evitare possibili contagi infettivi.

La narrazione si snoda grottesca, con il protagonista vittima di qui pro quo che lo espongono a situazioni in cui il suo bisogno di controllo non può esercitarsi. La sua solitudine – impossibile essere amico di un ipocondriaco lamentoso, ansioso con un unico interesse, le malattie – gli impone di ripiegare sull’unica persona con la quale negli anni ha intrattenuto rapporti, il suo medico curante. Non che il medico sia molto felice di queste attenzioni, anzi prova in tutti i modi a liberarsi del fastidioso incomodo ma non ci riesce, escogita una serie di espedienti ma Romain gli è sempre appiccicato addosso, alla ricerca di rassicurazioni.

Tra fraintendimenti psicosomatici, finte emicranie, fobie per batteri e virus e uso smodato di amuchina il film ripropone ad oltranza lo stesso tema: l’eccessiva preoccupazione dovuta alla convinzione di avere una malattia causata dalla lettura errata di sensazioni corporee che persiste nonostante un’accurata valutazione medica escluda la presenza di una condizione patologica, tale da giustificare la preoccupazione ipocondriaca.

Gli studi dei medici sono pieni di pazienti eccessivamente preoccupati del loro stato di salute che richiedono continuamente la prescrizione di esami diagnostici e di farmaci facendo innalzare il debito pubblico della sanità nel nostro paese. Tentano di essere certi di non avere malattie e hanno bisogno di un controllo continuo che possa rassicurarli. La preoccupazione comporta importanti compromissioni sociali, lavorative e in altre aree importanti della vita di questi soggetti.

Il DSM5 (APA, 2014) ha definito una nuova categoria, il disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati, dove sono stati inseriti il disturbo da sintomi somatici e il disturbo da ansia di malattia. Il primo ricomprende il 75% degli ipocondriaci diagnosticati con i vecchi criteri del DSM IV-TR (APA 2000), mentre il secondo copre il restante 25%.

Il nuovo manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha risposto alla necessità di disporre di un numero maggiore di “categorie” per classificare i disturbi ipocondriaci messa in evidenza da diversi autori (Taylor e Asmundson, 2004; 2009).

I criteri elencati per il disturbo da sintomi somatici sono:

A) Uno o più sintomi somatici che procurano disagio o portano ad alterazioni significative della vita quotidiana.

B) Pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi correlati ai sintomi somatici o associati a preoccupazioni relative alla salute, come indicato da almeno uno dei seguenti criteri:
1. Pensieri sproporzionati e persistenti circa la gravità dei propri sintomi;
2. Livello costantemente elevato di ansia per la salute o per i sintomi;
3. Tempo ed energie eccessivi dedicati a questi sintomi o a preoccupazioni riguardanti la salute.

C) Sebbene possa non essere continuativamente presente alcuno dei sintomi, la condizione di essere sintomatici è persistente (da più di 6 mesi) (DSM5 – APA, 2014, p.359).

I criteri del disturbo da ansia di malattia sono:

A) Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.

B) I sintomi somatici non sono persistenti o, se presenti, sono di lieve intensità. Se è presente un’altra condizione medica o vi è un rischio elevato di svilupparla la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.

C) E’ presente un elevato livello d’ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo al proprio stato di salute.

D) L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute (per es., controlla il corpo) o presenta un evitamento disadattivo (per es. evita visite e ospedali)

E) La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi, ma la specifica patologia temuta può cambiare in tale periodo di tempo.

F) La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale, come il disturbo da sintomi somatici, il DAP, il DAG, il BDD, il DOC, o il disturbo delirante tipo somatico (DSM5 – APA, 2014, p.364).
In definitiva, il disturbo da sintomi somatici viene diagnosticato quando sono presenti significativi sintomi somatici, al contrario, gli individui con disturbo da ansia di malattia hanno sintomi somatici minimi e sono preoccupati principalmente dall’idea di essere malati.

Il nostro Romain sarebbe diagnosticato come disturbo da ansia di malattia.
Sperimenta molti “falso allarme” dicendo a se stesso “Stavolta è andata bene. La prossima volta potrebbe essere una cosa seria!”. Consolida così le credenze disfunzionali.

Attiva coping maladattivi: raccoglie molte informazioni che aumentano l’incertezza; chiede aiuto e così rinforza l’idea di essere debole e fragile; si sottopone a numerose indagini diagnostiche che acuiscono l’ansia; riceve spiegazioni parziali e non accurate dai medici che non escludono l’assenza di malattie; ricerca la diagnosi sicura al 100%.

L’immagine di sé è caratterizzata dall’assunzione di essere una persona fragile, vulnerabile, debole, facile alle malattie. L’immagine di debolezza è sul piano fisico (vulnerabilità alle malattie, faticabilità) e sul piano psicologico (tendenza a provare emozioni esagerate, ad avere difficoltà nel controllarle). Gli scopi che persegue sono di non essere malato, di non essere debole e ansioso, di rispettare una regola di prudenza.
Una caratteristica che mette in evidenza il finale del film è che il decorso di questo disturbo è cronico, persiste per anni nel 50% dei casi (APA, 2014).

Romain, agitatissimo, vestito del solo accappatoio, porta al pronto soccorso il figlio perché ha messo i piedi nel pediluvio della piscina, anziché saltarlo.

 

Indicazioni per l’utilizzo

Può essere una traccia ironica per ingaggiare il disputing con il paziente sulle sue credenze disfunzionali e i suoi circoli viziosi di mantenimento, quando però la sofferenza del paziente sia stata validata e la relazione terapeutica consolidata.

 

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L’ipocondria, l’ansia per la propria salute

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 4th ed, Text Revision. Washington, DC: American Psychiatric Association.
  • American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 5th ed. Arlington VA. Tr. it. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM 5. Milano: Cortina, 2014.
  • Taylor, S., Asmundson, G.J.G. (2004) Treating Health Anxiety. A Cognitive-behavioral approach. New York, Guilford Press.
  • Taylor, S., Asmundson, G.J.G. (2009) “Hypochondriasis and Health anxiety” in Martin, M.A., Stein, M.B. (a cura di) Oxford Handbook of Anxiety and Related Disorders, Oxford University Press.

 

Un programma di training psicologico per il trattamento della sindrome del colon irritabile

FLASH NEWS

Uno studio pilota condotto presso il Massachusetts General Hospital e pubblicato in questi giorni su PLOS ONE ha dimostrato che un programma di training psicologico per promuovere una risposta di rilassamento può avere un significativo impatto clinico nel trattamento della sindrome del colon irritabile e della sindrome del colon infiammato.

Il training impatterebbe inoltre nell’espressione dei geni deputati alla risposta del corpo agli genti infiammatori e allo stress.

In letteratura molti studi hanno già dimostrato il ruolo dello stress nell’ esacerbare i due disturbi gastrointestinali sopracitati e come fattore di mantenimento di un circolo vizioso tra sintomatologia somatica e psicologica (ansia e stress). Altri studi hanno dimostrato l’efficacia di interventi a carattere psicologico in grado di interrompere il circolo vizioso e migliorare la sintomatologia in questo tipo di disturbi gastrointestinali.

Lo studio pilota ha reclutato 48 soggetti- 19 dei quali con diagnosi di disturbo del colon irritabile e 29 dei quali con diagnosi di disturbo del colon infiammato- che hanno partecipato a un programma di intervento psicologico di 9 settimane finalizzato alla riduzione dello stress che includeva anche 20 minuti di training di rilassamento.

I partecipanti sono stati testati ripetutamente utilizzando un’ampia varietà di strumenti standardizzati che consideravano sia i sintomi gastrointestinali, che le variabili psicologiche (ansia, stress, dolore percepito); inoltre sono stati raccolti campioni di sangue per lo studio dell’espressione genica e dei fattori infiammatori. Al termine dell’intervento i pazienti dunque hanno avuto un miglioramento nei sintomi gastrointestinali, nella sintomatologia ansiosa e nell’autoefficacia percepita (ad esempio, si è notato che i soggetti si sentivano più in grado di affrontare il dolore, con un decremento della variabile definita “catastrofizzazione del dolore”).

Soprattutto dalle analisi è emerso un cambiamento dell’espressione di molti geni direttamente coinvolti nelle modalità di risposta allo stress e ai fattori infiammatori: il cambiamento a seguito del training di riduzione dello stress consisterebbe in un decremento della loro espressione. In particolare il pathway controllato dalla proteina NF-kB sembra essere uno di quelli maggiormente influenzati dal training di rilassamento.

Pur essendo uno studio pilota non controllato, nel senso che non vi è alcun gruppo di controllo, e con un numero esiguo di soggetti, i risultati sono meritevoli di attenzione per la prospettiva multidisciplinare tra biologia, medicina e psicologia.

 

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La fibromialgia: un’esperienza di gruppo – Psicoterapia 

 

BIBLIOGRAFIA:

La ricetta per la felicità esiste: basta riconoscere d’esser tristi!

E’ assolutamente importante non scambiare le emozioni per dei fini ma vederle più come dei mezzi: è dunque sbagliato utilizzare le sole emozioni positive come misuratori della qualità delle nostre vite.  

Tutte quelle volte in cui alla domanda Quali sono i tuoi obiettivi nella vita? abbiamo risposto Mi basta essere felice, non abbiamo fatto altro che allontanarci dalla felicità…o almeno questo è quanto afferma Todd Kashdan, professore di Psicologia presso la George Mason University.

Nell’articolo consigliato, Kashdan viene intervistato sul suo ultimo libro The Upside of Your Dark Side: Why being your whole self – not just your good self – drives success and fulfillment. Secondo l’autore infatti, è assolutamente importante non scambiare le emozioni per dei fini ma vederle più come dei mezzi: esistono tanti fattori, al di fuori del nostro controllo, che possono influenzare i nostri pensieri e le emozioni, è dunque sbagliato, secondo Kashdan, utilizzare le sole emozioni positive come misuratori della qualità delle nostre vite.  

Ma non finisce qui…Kashdan offre delle strategie e dei messaggi, basati sui risultati delle sue ricerche, per insegnare come gestire le emozioni e non lasciarci da queste condizionare nel raggiungimento delle nostre mete. Un esempio? Si può iniziare con il distinguere le emozioni negative dagli eventi negative e le emozioni positive dagli eventi positivi: non è detto quindi che la felicità sia migliore della tristezza, dipende solo dalle situazioni!

In fin dei conti, qualunque sia il nostro obiettivo, dal diventare un buon genitore al realizzarci nel mondo del lavoro, dovremmo pur essere consapevoli che le salite non sono sempre facili e che possiamo concerderci dei momenti di tristezza…l’importante è non perdere di vista il traguardo, anche se con una lacrimuccia in più.

 

One of the most important things that we’ve discovered – the message that we should always feel good and try not to feel bad, ends up being a toxic message that doesn’t work well as a strategy for going through life.

 

La ricetta per la felicità esiste: basta riconoscere d’esser tristi!Consigliato dalla Redazione

La ricetta per la felicità esiste: basta riconoscere d'esser tristi! - Immagine: 83039315
Spesso, nel raggiungimento dei nostri obiettivi, corriamo il rischio di lasciarci sopraffare dalle emozioni negative: meglio riconoscerle e accettarle. (…)

Tratto da: Washington Post

 

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Algoritmi e psicoterapia contemporanea

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta il 17/05/2015

 

Parlare di algoritmi in psicoterapia è un invito a nozze. La psicoterapia cognitiva, che io pratico, fonda il suo successo su questo: sulla possibilità di ridurre il processo terapeutico a procedure formalizzate e replicabili. Non più un imprevedibile percorso di scoperta come nella psicoanalisi, ma un rigido addestramento a modificare i propri pensieri seguendo regole definite.

Come è avvenuto questo? E che significato ha per il mondo moderno questa concezione antiromantica della psicoterapia? Ripercorriamo brevemente la storia di questo movimento. La psicoterapia cognitiva non ha un unico padre fondatore, come ha la psicoanalisi in Freud. Ne ha vari. Tra tutti, quello che meglio incarna lo spirito concreto della terapia cognitiva è stato Albert Ellis. Ellis, nato nel 1913 a Pittsburgh negli Stati Uniti, possedette in massimo grado l’attitudine pratica e concentrata sul conseguimento degli obiettivi, nonché la volontà di scovare e descrivere in poche procedure condensate quali siano i modi migliori e le tecniche che permettano di realizzare questi obiettivi: insomma, degli algoritmi.

È una storia che lo stesso Ellis, in “Reason and Emotion in Psychotherapy” (1962), uno dei suoi libri più famosi, ha raccontato. È un racconto interessante, in cui scopriamo che, all’inizio della sua carriera Ellis era uno psicoanalista. La tecnica analitica, però, lo lasciava perplesso. Dover tacere –come spesso richiedeva la tecnica analitica- quando, con poche domande opportunamente piazzate, si potevano chiarire alcuni punti oscuri rendeva Ellis scettico e insoddisfatto.

In crisi, Ellis reagì passando a una tecnica meno ortodossa. Spogliatosi della tonaca monacale della psicoanalisi nel gennaio 1953, denominò il suo nuovo approccio Rational Therapy (RT) e in seguito Rational-Emotive Therapy (RET). Ellis aveva modificato non solo la sua tecnica di lavoro, ma anche la concezione che aveva del funzionamento della mente umana. Era nato un nuovo modello teorico, modello che concettualizzava la mente come un elaboratore di informazioni e l’attività mentale come un insieme di conoscenze. Per il terapeuta cognitivo la mente è, dunque, prima di tutto gestione di informazioni. E quindi trattabile e modificabile attraverso algoritmi che gestiscono l’informazione.

La componente di fatto terapeutica del trattamento diventa l’esplorazione degli errori mentali che tutti noi possiamo fare in stato di perfetta consapevolezza, vere e proprie scempiaggini. La patologia è generata da queste scempiaggini, istruzioni che ci somministriamo e che insieme vanno a comporre il poema della stupidità umana, e che generano disagio e sofferenza.

E qual è la razionalità predicata da Ellis? Essa è una razionalità di tipo economico e utilitaristico, agnostica, strumentale e avaloriale, che non crede di poter definire o fondare un bene sommo a cui indirizzare le proprie idee. Si serve di valori che sono però considerati provvisori e individuali. Unico valore assoluto è il valore negativo e minimale dell’evitamento della sofferenza. Non è un caso che l’azione del terapeuta cognitivo, soprattutto nella forma datagli da Albert Ellis, tenda piuttosto alla critica dei valori che alla loro costruzione.

Per razionalità strumentale e avaloriale (value-free) si intende la sfiducia nella possibilità di definire scopi e credenze con un valore veritiero intrinseco e assoluto, presenti sia nella razionalità umana come nell’ordine naturale delle cose. L’unico scopo condiviso accettabile diventa l’evitamento individuale della sofferenza e il divieto della sofferenza altrui.

Non è difficile trovare nell’utilitarismo il precedente filosofico della visione del mondo proposta dalla terapia cognitiva. La riduzione di ogni superstizione sociale, morale o religiosa, la critica di ogni malessere che non sia riducibile al dolore puramente fisico sono concetti utilitaristici. Per esempio, la critica di Ellis a ciò che egli chiamava la “doverizzazione”, la convinzione irrazionale che certe cose vadano fatte assolutamente in un certo modo, per un senso del dovere e del rispetto della regole che trascendono il calcolo utilitario e si dispongano come valore in sé, e quindi propriamente sacro.

Allo stesso modo, nel pensiero utilitaristico di Bentham ogni idea e convinzione umana è priva di valore intrinseco ed è strumentale al benessere e all’evitamento del dolore. In Bentham, come in Ellis, conferire ad alcune convinzioni un valore assoluto significa disconoscerne la relatività e la pieghevole flessibilità, rendendole indebitamente rigide. Razionale è dunque il pensiero che meglio sa adattare i suoi propri processi valutativi, le credenze (beliefs) ai suoi scopi, e gli scopi alle proprie potenzialità e agli ostacoli posti dalla realtà.

Lo scopo della ragione non è la scoperta e il riconoscimento di una realtà ultima, ma solo l’uso migliore, cioè più conveniente e strumentale, delle proprie idee. La ragione usa se stessa ed è strumento di se stessa, quasi disconoscendo se stessa. La sofferenza dipende da pensieri irrealistici negli scopi o nei processi di pensiero che dovevano portare alla realizzazione degli scopi.

In breve, Albert Ellis fu soprattutto un pragmatico. La sua terapia propone una visione del mondo disincantata e pragmatica, al fondo utilitaristica. Ellis è un erede dell’utilitarismo di Bentham. A differenza di Freud, non coltivò l’ambizione di scavare nelle viscere nascoste della mente, e non sviluppò mai un modello complesso del funzionamento psichico. Il suo razionalismo non aveva nulla di epico. Egli partì da un problema pratico: l’intervento tecnico dello psicoanalista di fronte alla sofferenza mentale era poco efficace. Nella psicoanalisi il trattamento non era inteso come un intervento tecnico di accertamento e rieducazione degli stati psichici, ma come una profonda esperienza di cambiamento, in cui il paziente era portato a diventare cosciente dei suoi stati inaccessibili alla coscienza.

Nulla di tutto ciò in Ellis. Per Ellis la sofferenza non era dovuta a forze inconsce e misteriose, che emergevano alla coscienza dopo lunghi anni di faticoso trattamento condotto secondo regole rigide, in cui il terapeuta non rispondeva mai alle sollecitazioni del paziente su un piano paritario, ma si manteneva (almeno teoricamente) distaccato e distante. Per Ellis la sofferenza era invece dovuta a semplici, banali errori di ragionamento da parte del paziente. Errori definibili facilmente secondo criteri procedurali e trattabili mediante interventi descrivibili in maniera dettagliata. L’intera terapia diventava un algoritmo.

Qualche parola sull’altro dioscuro della psicoterapia cognitiva, Aaron T. Beck. Fiorì negli anni ’60, un decennio dopo Ellis. Come teorico, era più consapevole e ferrato di Ellis, e infatti usò una terminologia scientifica più corretta, preferendo qualificarsi come terapeuta cognitivo piuttosto che “razionale” o “razionalista” (Beck, 1964). “Cognitivo” è un termine più agnostico e avaloriale rispetto ai termini utilizzati da Ellis. “Cognitivo” si limita a connotare l’attività mentale come elaborazione di informazioni, senza enfatizzare una razionalità che inevitabilmente finirebbe per contrapporsi a una irrazionalità difficile da definirsi in termini assoluti.

Piuttosto, Beck preferì definire il benessere psicologico come cognizione “funzionale” e non necessariamente “razionale”. In fondo la razionalità a sua volta un valore assoluto, mentre la funzionalità è una qualificazione relativa e relativista, perché strumentale. Insomma, non conta se un pensiero è razionale o meno, ma quanto funziona producendo benessere o malessere. La razionalità di Beck, insomma, appare fin dall’inizio come più relativista di quella di Ellis. Era un ulteriore passo avanti verso quella mentalità utilitaristica che contribuiva a trasformare le terapie in algoritmi.

Negli anni successivi la terapia cognitiva confermò il suo carattere di terapia direttiva, didattica, più breve e leggera della psicoanalisi, molto meno audace nelle interpretazioni, e facilmente testabile in studi controllati. Per queste ragioni, fu la prima a guadagnarsi lo status di terapia dimostrata scientificamente efficace, in giganteschi studi empirici strutturati sulla falsariga dei grandi studi di efficacia dei farmaci.

Dopo Ellis e Beck la tecnica della terapia cognitiva fu ulteriormente elaborata e differenziata per i singoli disturbi d’ansia. Si svilupparono i cosiddetti protocolli di terapia: procedure dettagliate e formalizzate di psicoterapia per disturbi specifici, da applicare come se si trattasse di farmaci. E come farmaci fu verificata la loro efficacia, sempre significativa.

E così la terapia cognitiva si rivelò in grado di diminuire il grado di sofferenza emotiva di un insieme di disturbi psicologici: la depressione e l’ansia (Beck, Rush, Shaw ed Emery, 1979; Beck ed Emery, 1985), il disturbo di panico (Clark, 1986), la fobia sociale (Clark e Wells, 1995), il disturbo post-traumatico da stress (Elhers e Clark, 2000), i disturbi alimentari (Fairburn, Shafran e Cooper, 1999) e il disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985).

Questa visione efficientista e pragmatica, questa concezione per la quale la psicoterapia è riducibile a una serie di procedure formalizzabili, a degli algoritmi, è un bene o un male? Difficile dare una riposta univoca. Il paziente (anzi, il cliente, come non a caso si preferisce dire in terapia cognitiva) che può usufruire di un trattamento definito e mirato a un determinato disturbo ne trae massimo beneficio. Per chi cerca un orizzonte di senso, invece, tutto questo non è bene. La razionalità procedurale e algoritmica è una razionalità utilitaristica, strumentale e –soprattutto- avaloriale.

In questa definizione di razionalità troviamo alcuni principi dello spirito moderno: la negazione di ogni razionalità assoluta e la valorizzazione di una razionalità individuale e strumentale. Non esiste un sommo bene, ma solo scopi individuali. E non esistono mezzi da considerarsi assolutamente razionali, ma solo ipotesi plausibili sui quali mezzi siano più idonei per ottenere quanto desiderato, ipotesi costruite in base a quel che si sa e a quanto si è appreso nel proprio ambiente culturale.

 

Leggi anche: INTRODUZIONE ALLA PSICOTERAPIA

 

Disconnect (2012): oggi che siamo sempre connessi ci sentiamo più soli che mai – Cinema & Psicologia

Diretto dal documentarista Henry Alex Rubin, “Disconnect” è un film drammatico con sfumature thriller, la cui visione è suggerita a tutti per lo sguardo attento e critico che offre rispetto ad una tematica tanto attuale quanto discussa, l’invasione della tecnologia virtuale all’ interno della vita reale.

Partendo da fatti di cronaca interpretati dai protagonisti delle cinque storie raccontate, la pellicola descrive le distorsioni del “mondo cyber”, un mondo invisibile che silenziosamente scorre sotterraneo e insospettabile nei meandri della quotidianità. Le vicende si sviluppano e si intrecciano accomunate da un profondo senso di solitudine, smarrimento ed incomunicabilità che ha l’illusione di appagarsi abbuffandosi di web.

C’è la storia di un padre vedovo, investigatore privato, che scopre gli atti di cyberbullismo compiuti dal figlio e da un suo amico ai danni di un coetaneo che frequenta la stessa scuola; quella della famiglia di Ben, l’adolescente vittima, il cui padre, un avvocato di successo, trascura gli affetti per la carriera salvo accorgersene quando la situazione è ormai compromessa. E ancora, la vicenda di una giovane coppia in crisi, derubata non solo della serenità dopo la perdita del loro primogenito neonato, ma anche del conto in banca con i risparmi di una vita, causa clonazione della loro carta di credito. C’è, infine, l’avventura della giornalista Nina che, alla ricerca di un reportage esclusivo che le possa garantire un maggior riconoscimento professionale, si addentra nell’ esplorazione dell’ universo del cybersesso riuscendo a conoscere e intervistare un ragazzo che sbarca il lunario con delle chat erotiche per adulti.

Tutto avviene davanti ad un pc, tramite privilegiato con l’ignoto, capace di attrarre magneticamente la solitudine dei personaggi che, nel riflesso dello schermo, sembrano cercare quell’ attenzione mancata verso i loro difficili vissuti emotivi.

I finali delle singole storie, forse prevedibili, lasciano un amaro in bocca che si esaurisce lentamente insieme alla suspance del film quasi ad accompagnare i protagonisti nei loro percorsi oltre la pellicola.

Un compendio dei più frequenti crimini informatici che intende evidenziare le subdole trappole della rete e le loro potenziali conseguenze negative in un’ottica preventiva. Una sceneggiatura che invita alla “disconnessione” per dare maggiore spazio alla riflessione, all’ ascolto e al dialogo off-line.

TRAILER:

 

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I colloqui motivazionali: il primo passo per smettere di sfumare

FLASH NEWS

Un nuovo studio pubblicato su Behaviour Research and Therapy evidenzia l’importanza dei colloqui motivazionali come passo fondamentale per favorire il cambiamento comportamentale e smettere di fumare.

53 fumatori con l’abitudine di fumare almeno 10 sigarette al giorno per almeno un anno e senza intenzione di smettere di fumare hanno partecipato alla ricerca.

I ricercatori hanno valutato gli effetti su questo campione di soggetti di un colloquio motivazionale della durata 20 minuti. Nel corso del colloquio si generavano discrepanze tra il comportamento attuale (l’abitudine al fumo) e gli obiettivi futuri a medio-lungo termine dell’individuo. Questo tipo di colloquio motivazionale, è stato confrontato con un gruppo di controllo e con un altro tipo di intervento di carattere non motivazionale. In seguito sono state misurate le reazioni dei soggetti a una serie di immagini spiacevoli riguardanti il tabacco.

Dai dati emerge che mentre prima dell’intervento motivazionale i fumatori reagivano alle immagini riguardanti il fumo in modo non differente rispetto a immagini piacevoli (immagini erotiche), a seguito dei colloqui presentavano emozioni a valenza negativa, similmente alla visualizzazione di immagini violente.

Dunque i colloqui motivazionali sembrano modificare, almeno a brevissimo termine, la risposta emotiva dei fumatori a stimoli associati al tabacco, da piacevole a disgustosa.

Certamente uno degli ostacoli principali al trattamento del tabagismo, come di altre dipendenze, risiede nelle fasi motivazionali iniziali: quindi la progettazione di specifici e dettagliati interventi motivazionali testati come efficaci evidence-based non deve essere sottovalutata, prima ancora delle fasi inoltrate di vero e proprio trattamento per il cambiamento dell’abitudine al fumo.

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Psicologia della bellezza: quanto conta esser belli nella nostra vita

Feliciana Pace

L’impatto che la bellezza fisica ha sulla nostra vita è molto potente: basti pensare alla relazione della bellezza con il benessere, con il successo scolastico o lavorativo. Queste ragioni spingono molte persone a spendere numerose energie e anche denaro per la ricerca di un aspetto fisico più gradevole.

Nonostante vi siano numerosi proverbi che sembrano compensare i difetti con delle qualità: nella botte piccola c’è il vino buono, l’abito non fa il monaco, non è tutto oro quello che luccica, ci sono altrettanti esempi che invece mantengono saldi gli stereotipi legati alla bellezza. La celebre frase la bellezza salverà il mondo, denota un ruolo della bellezza non estetico ma morale.

Non è cosa strana, visto che alla bellezza vengono associate anche altre doti; questo viene definito effetto alone della bellezza. Ad esempio, nell’antichità classica, gli artisti avevano il compito di riprodurre statue di personaggi come imperatori, condottieri, non in maniera fedele, ma idealizzata e con lo scopo di creare corpi non solo attraenti, ma esaltando anche altre doti e virtù.

È interessante notare come ciò sia evidente anche nel linguaggio quotidiano: si parla di ‘bella’ e ‘buona azione’ in maniera indifferente; anche gli aggettivi ‘piccolo’ e ‘piccolezza’ o ‘basso’ e ‘bassezza’ si riferiscono, oltre che al fisico, anche ad esempio, ad una persona con scarse qualità morali e il contrario, invece, per ‘grande’ e ‘grandezza’. Così lo stesso per ‘scherzo pesante’ associato a ‘brutto scherzo’ o ‘finezza’ utilizzato non solo come aggettivo per indicare una persona bella, ma anche in altri contesti come ‘oro fino’, ‘piatto raffinato’, ‘intelligenza fine’.

Nelle donne, rispetto agli uomini, il giudizio sulla propria bellezza appare molto severo. Questo inizia soprattutto con l’adolescenza e nello specifico quando si comincia ad avere come termine di paragone le bambole, come le moderne Winx o la Barbie che ha fatto storia, ma nello stesso tempo è stata oggetto di critica in quanto incarna un modello di bellezza non realistico.

Ad esempio, numerosi studi (Ricci, Fedeli, 2004) suggeriscono che il corpo di una donna risulta attraente se caratterizzato da giuste proporzioni tra seno e vita e vita e fianchi. L’esaltazione della vita molto stretta rispetto ai fianchi larghi risale al passato, quando le donne erano costrette ad entrare in bustini strettissimi e ad indossare gonne molto ampie sui fianchi.

Non è possibile negare l’importanza della bellezza esteriore soprattutto se si pensa al ruolo che ha per la scelta del partner e al fatto che risulta determinante durante una prima impressione, andando quindi ad influire sui rapporti interpersonali.

L’impatto che la bellezza fisica ha sulla nostra vita è molto potente. Questo lo si può riscontrare già in età precoce. Un neonato giudicato attraente, avrà più attenzioni e sarà considerato maggiormente gestibile dai genitori (Costa, Corazza, 2006); anche a scuola, i bei bambini riusciranno ad intrattenere un maggior numero di relazioni, andando ad incrementare il giudizio positivo su loro stessi (Costa, Corazza, 2006). Anche le insegnanti tenderanno a privilegiare i bambini più attraenti e avranno un giudizio positivo su di loro rispetto al rendimento scolastico (Costa, Corazza, 2006).

Non è un mistero il fatto che la bellezza rappresenti un buon predittore anche per il successo lavorativo. Sappiamo tutti ormai, dell’importanza dell’aspetto fisico ad un colloquio di lavoro e non solo: la bellezza è un indicatore importante anche durante l’intera carriera lavorativa.

Un’espressione che si sente spesso dire è ‘faccia da delinquente’: la cosa curiosa è che i lineamenti del volto possono o meno ispirare fiducia e quindi far nascere dei pregiudizi (Costa, Corazza, 2006). E non è una novità se consideriamo come la bellezza, il fascino, rappresentino delle potenti armi anche in ambito politico. Un esempio fu il dibattito televisivo per la presidenza degli Stati Uniti tra Kennedy e Nixon. Il primo parve molto più curato e sicuro di sé del secondo e questo ebbe delle conseguenze: in un sondaggio, emerse che coloro che avevano assistito al dibattito in televisione preferirono Kennedy, mentre chi lo aveva ascoltato alla radio propendeva per Nixon. Ovviamente in tutti questi casi il rischio è quello di far prevalere l’apparenza al programma politico o alla reale preparazione di un individuo.

Per tutte queste ragioni, la relazione della bellezza con il benessere, con il successo scolastico o lavorativo spinge molte persone a spendere numerose energie e anche denaro per la ricerca di un aspetto fisico più gradevole ricorrendo alla cosmetica, alle diete, all’esercizio fisico e alla chirurgia estetica.

Il rischio maggiore poi, è che a causa di criteri sia estrinseci che intrinseci, veniamo indotti a sacrificare la nostra unicità e autenticità restando ossessionati dalla ricerca di una bellezza che non esiste.

Solitamente la percezione che abbiamo di noi stessi rispetto all’aspetto esteriore non combacia con quella che gli altri hanno di noi. Spesso, nel dare un giudizio, sia su noi stessi che sugli altri, soprattutto quando non ne siamo certi, ci rifacciamo al punto di vista socialmente condiviso secondo la teoria del confronto sociale (Costa, Corazza, 2006). Questo è quello che accade anche per l’aspetto fisico, visto che ci atteniamo anche inconsapevolmente a degli standard a cui tutti aderiscono.

 

 

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Crescere è più facile grazie ai consigli di mamma, papà… e dei ricercatori in psicologia

Quanto è difficile crescere!  E chissà quanto vani sono stati i tentativi di genitori e nonni che, dall’alto della loro saggezza, ci hanno dato consigli, ammonimenti e rassicurazioni per affrontare al meglio gli anni a venire.

Quanto è difficile crescere! E questo è ancor più vero se ricordiamo o, per i più fortunati, se viviamo quel delicato passaggio dall’ adolescenza all’età adulta: si viene proiettati in un mondo che sembra più grande di noi e ci si sente impreparati, spesso inetti, a tutti i cambiamenti che ci aspettano.

Chissà quanto vani sono stati i tentativi di genitori e nonni che, dall’alto della loro saggezza, ci hanno dato consigli, ammonimenti e rassicurazioni per affrontare al meglio gli anni a venire. Spesso ne abbiamo fatto certamente tesoro, altre volte invece ci risuonavano come semplici frasi di circostanza dette per rassicurarci sul futuro. Avremmo creduto di più ai loro consigli se fossero stati supportati da prove empiriche?

L’autrice dell’ articolo che vi consigliamo, professoressa di Psicologia, espone tre preziose informazioni da tenere a mente prima di crescere, quasi al pari di una mamma rassicurante. Al contrario di questa, però, conferma la fondatezza di tali informazioni grazie all’aiuto di studi e ricerche in psicologia. Con questi dati a favore come non crederle?

Di certo i giovani troveranno utili questi tre insegnamenti ma anche chi è un po’ più avanti con l’età dovrebbe leggerli perché, si sa, non è mai troppo tardi per imparare a crescere!

 

With peak graduation season just behind us, we’ve all had the chance to hear and learn from commencement speeches — without even needing to attend a graduation. They’re often full of useful advice for the future as seniors move on from high school and college. But what about the stuff you wish you’d been told long before graduation? Here are just three of the many things I wish I’d known in high school, accumulated at various points along the way to becoming a professor of psychology.

Tre cose da conoscere prima di crescereConsigliato dalla Redazione

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Vi sono tre preziose informazioni da tenere a mente prima di crescere, ce lo confermano gli studi e le ricerche in psicologia. (…)

Tratto da: NPR.org

 

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Combattiamo per la nostra privacy… ma prima condividiamolo su facebook!

Nessuno di noi vivrebbe con porte e finestre aperte 24 ore su 24, eppure perchè non sappiamo proprio rinunciare a pubblicare le foto delle nostre ultime vacanze al mare o della serata al pub con gli amici?

 

Facebook, Twitter, Instagram e altro ancora: in un mondo governato dai social network possiamo ancora parlare di privacy? Quest’ultima rappresenta un diritto fondamentale e assolutamente importante per ogni singolo cittadino, nessuno di noi vivrebbe con porte e finestre aperte 24 ore su 24, eppure perchè non sappiamo proprio rinunciare a condividere i nostri dati o a pubblicare le foto delle ultime vacanze al mare o della serata al pub con gli amici?

Tale situazione è alquanto paradossale, e questo viene confermato anche da uno studio del 2012 condotto in Germania: gli individui che tendono a condividere più informazioni personali sui social, sono gli stessi che esigono una privacy maggiore. La prima autrice dello studio, Sabine Trepte, spiega questa contraddizione alla luce di una insoddisfazione dei partecipanti dovuta al non essere ricambiati in modo giusto dagli altri per tutte le informazioni e tutto ciò che invece loro offrono di se stessi.

Altri esperti forniscono ulteriori spiegazioni: Anita L. Allen, per esempio, spiega questo fenomeno come un tentativo, da parte di chi condivide troppe informazioni, di diventare la nuova Kardashian e farne una fonte di guadagno.

Ma non è tutto, vi sono anche dei costi psicologici dovuti alla condivisione di informazioni: secondo alcuni studi, la sola percezione di essere osservati sembrerebbe essere associata a sentimenti di bassa autostima, depressione e ansia. Se osservati da un supervisore sul lavoro o dagli amici di Facebook, le persone sono inclini a conformarsi e dimostrare meno creatività, le loro performances ne risentono e mostrano maggiore impulsività e livelli più alti di ormoni dello stress.

Si può considerare un grande passo avanti il fatto di parlare di privacy non solo in termini legali ma anche in termini psicologici con l’effetto di concentrare l’ attenzione delle persone anche sui costi psichici dovuti a un’eccessiva e a volte avventata condivisione delle proprie informazioni.

L’argomento è molto interessante e ricco di spunti di riflessione, vi rimandiamo dunque alla lettura articolo originale.

 

Imagine a world suddenly devoid of doors. None in your home, on dressing rooms, on the entrance to the local pub or even on restroom stalls at concert halls. The controlling authorities say if you aren’t doing anything wrong, then you shouldn’t mind.

 

Combattiamo per la nostra privacy… ma prima condividiamolo su facebook! Consigliato dalla Redazione

Combattiamo per la nostra privacy... ma prima condividiamolo su facebook! - Immagine: 70612704
In un mondo governato dai social network possiamo ancora parlare di privacy? Perché ci è così difficile non pubblicare informazioni personali? Gli esperti si interrogano. (…)

Tratto da: New York Times

 

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Anoressia: sarà presentata a breve la proposta di legge per il TSO in caso di rifiuto delle cure

La Redazione di State of Mind segnala questo articolo pubblicato su La Repubblica:

 

I Disturbi del Comportamento Alimentare e in particolare l’anoressia nervosa, rappresentano oggi una fonte di allarme sociale data la loro sempre più crescente diffusione.

L’anoressia nervosa spesso presenta un quadro psichico caratterizzato da un confronto compulsivo con le altre persone, un forte bisogno di controllo, odio per se stesse/i, ritiro sociale, umore depresso, ecc. fino ad arrivare a volte anche a comportamenti autolesivi.

Tra le tante conseguenze fisiche dannose c’è un rallentamento del tempo di digestione, del battito cardiaco, della pressione sanguigna e della temperatura e spesso l’ assenza del ciclo mestruale.

E’ dunque evidente la gravità di tale disturbo: chi soffre di Anoressia Nervosa ha una mortalità tra le 5 e le 10 volte maggiore dei loro coetanei. Sembrerebbe dunque necessario intervenire tempestivamente con un trattamento psichico, nutrizionale e psicologico.

La deputata del PD Sara Moretto ha avanzato, a riguardo, una proposta di legge per il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) per i casi di gravi disturbi del comportamento alimentare. Tale proposta sarà presentata domani, 21 maggio 2015, alla Camera dei deputati, alle 14,30.

A detta della Moretto, infatti, c’è un buco normativo nel nostro sistema sanitario per la gestione di casi di bulimia e anoressia nervosa: pur essendo disturbi psichiatrici, non c’è una norma che obbliga i pazienti maggiorenni ad accettare la nutrizione obbligatoria, se questi la rifiutano. La deputata propone un trattamento fornito dal Servizio Sanitario Nazionale, nelle strutture pubbliche di tutta Italia, gestito da una équipe multi professionale includente psichiatri, esperti in nutrizione clinica e pediatri.

 

La proposta – spiega Moretto – nasce dalla constatazione che molte persone affette da disturbi del comportamento alimentare rifiutano, stabilmente o periodicamente, i trattamenti sanitari. In modo particolare c’è spesso un rifiuto dei trattamenti nutrizionali anche quando hanno caratteristiche di cure salva vita o, comunque, in condizioni di grave malnutrizione.

 

Leggi il commento del Dott. Riccardo Dalle Grave, medico, psicoterapeuta ed esperto di Disturbi del Comportamento Alimentare.

 

Anoressia, proposta di legge per combatterla: “Nutrizione obbligatoria se la vita è a rischio”Consigliato dalla Redazione

L’iniziativa della deputata del Pd Moretto. Tso nei casi più gravi. E una task-force di specialisti in strutture pubbliche a costo zero (…)

Tratto da: La Repubblica

 

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