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I terapeuti piangono da soli: come può reagire un terapeuta alla morte di un suo paziente?

Cosa succede al terapeuta che perde un suo paziente? Nell’articolo consigliato la psichiatra Robin Weiss, trovatasi di fronte alla difficile esperienza di avere in terapia un paziente che riceve una diagnosi infausta, mette a nudo se stessa, i suoi sentimenti e pensieri, riflettendo sul tema della morte dei propri pazienti.

Ricevere la notizia di qualcuno a noi vicino, ahimè, venuto a mancare è una delle esperienze più tristi e inspiegabili che ci possa capitare.

John Bowlby ha elencato quattro fasi del lutto che colpiscono chi subisce la morte di una persona importante, colui che resta solo ad affrontare l’amarezza e la disperazione, che è la prima fase appunto; segue poi un intenso desiderio e la ricerca della persona perduta. Nella terza fase vi è spesso disorganizzazione: la persona affranta si chiude in se stessa, provando a volte delusione verso una realtà fatta solo di ricordi dell’altro e non della sua presenza. La fase finale prevede una riorganizzazione della propria vita: il dolore man mano si riduce e si comincia ad avvertire un ritorno alla normalità. La persona deceduta viene ora ricordata con un senso di gioia, mista comunque sempre a tristezza.

Cosa succede però al terapeuta che perde un paziente?

Alcuni lettori avranno, purtroppo, già vissuto questa esperienza: qual è stato il vissuto? Nell’articolo consigliato la psichiatra Robin Weiss, trovatasi di fronte alla difficile esperienza di avere in terapia un paziente che riceve una diagnosi infausta, mette a nudo se stessa, i suoi sentimenti e pensieri, riflettendo sul tema della morte dei propri pazienti. La psichiatra giunge alla conclusione che i terapeuti piangono da soli.

La relazione terapeutica prevede un rispettare i limiti, non si può diventare amici dei pazienti e condividere con loro aspetti al di fuori della terapia, eppure, come sottolinea Weiss, nell’arco di quei 50-60 minuti di seduta, il terapeuta diventa per il paziente il winnicottiano genitore sufficientemente buono.

La stessa psichiatra sottolinea come pochi incontri sono così profondamente onesti, e quindi intimi e questo genera profondi sentimenti, un particolare tipo di amore per il cliente.

Eppure, ai funerali del suo paziente, Weiss è lì in ultima fila, munita di fazzoletti. Vede davanti a sé tutti i personaggi che ha conosciuto dai racconti del suo paziente, non sono più solo parole e aneddoti, sono persone vere adesso, che piangono e si consolano per la morte del loro amico. Weiss si sente sola, non c’è nessuno per lei con cui condividere i ricordi del suo paziente e insieme riderne o piangerne…ma del resto i terapeuti piangono da soli.

I pull open my file cabinet drawer and extract several charts: patients who’ve died while I was treating them over the last 20 years that I’ve been in private practice as a psychiatrist. I am gathering material to write about how therapists feel when a patient dies. I make a couple of observations.

How Therapists Mourn?
Consigliato dalla Redazione

I terapeuti piangono da soli: come può reagire un terapeuta alla morte di un suo paziente? - Immagine: 10761605
Our grief happens alone, behind closed doors.

Tratto da: New York Times

 

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La Camera ha approvato la legge sull’autismo, ma si attende il sì del Senato

Con 296 voti favorevoli e 6 contrari la Camera ha approvato la legge sull’autismo, ma al momento si attende il Sì definitivo da parte del Senato.

Il provvedimento fornisce delle disposizioni rispetto alla diagnosi, cura e abilitazione delle persone che presentano un disturbo nell’ambito dello Spettro autistico. Gli interventi previsti, secondo l’articolo 1, dovrebbero essere finalizzati a tutelare e a migliorare le condizioni di vita degli autistici, promuovendo anche un maggiore inserimento sociale. L’articolo 2 sottolinea, invece, l’importanza di aggiornare le Linee Guida sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico, tenendo conto dei fattori fisiologici e terapeutici specifici dell’evoluzione del disturbo. L’articolo 3 ribadisce l’importanza della diagnosi precoce e del trattamento individualizzato, mentre l’articolo 4 attiene l’aggiornamento continuo delle linee di indirizzo per il miglioramento degli interventi assistenziali per i disturbi dello spettro autistico. Infine, gli articoli 5 e 6 concernono i progetti di ricerca e la clausola di invarianza degli oneri finanziari. 

Nei confronti di questo disturbo il Ministero della salute ha avuto, e continuerà ad avere, una forte attenzione: nell’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza che il Ministero ha presentato, e che attualmente è all’esame della Conferenza Stato Regioni, sono stati previsti infatti interventi per i minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e quindi anche per chi soffre di autismo, con nuove possibilità nelle varie aree dell’assistenza: territoriale, domiciliare e anche farmaceutica. Ora non resta che applicarli. Sicuramente quella approvata oggi – ha concluso De Filippo – è una legge programmatica, basata su queste nuove possibilità e sono certo che renderà un servizio importante e costituirà un punto di riferimento rilevante per le politiche regionali su questa materia.

 

Autismo. Anche la Camera approva la legge. Ma il testo deve comunque tornare al Senato per il sì definitivo. Ecco cosa prevede punto per punto – Quotidiano SanitàConsigliato dalla Redazione

La Camera ha approvato la legge sull'autismo ma si attende il sì del Senato

L’Aula di Montecitorio con 296 voti favorevoli e 6 contrari ha approvato la proposta di legge sull’autismo. Nel corso dei lavori sono stati respinti tutte le proposte emendative. Il testo approvato è dunque quello già licenziato dalla commissione Affari Sociali. De Filippo: “Si potranno dare risposte ai bisogni di salute di tante famiglie”. IL TESTO DELLA CAMERA (…)

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Autoregolazione del comportamento: scopi e processi di controllo reattivo (2004) – Recensione

Secondo gli autori, le persone vivono identificando scopi e antiscopi, perseguendo i primi e tenendosi lontani dai secondi. Alcuni scopi sono l’espressione di un programma biologico, altri il frutto di una ponderazione cosciente di possibili alternative, altri ancora derivano da sogni e fantasie, ma i più importanti sono quelli fondamentali per il sé.

Rosario Esposito

Il libro di Carver e Scheier sull’autoregolazione del comportamento è al tempo stesso molto interessante e molto complesso, un vero manuale di 400 pagine sul funzionamento della mente umana con tantissime conclusioni contro-intuitive e altrettante possibili applicazioni cliniche.

Il discorso parte da lontano e necessita di una piccola premessa che non si trova nel libro, ma che risulta fondamentale per capirne la portata. Nel 1943 il Consiglio Nazionale delle Ricerche della Difesa degli Stati Uniti d’America portò a lavorare insieme tre scienziati con lo scopo di trovare una soluzione alla imprecisione dei cannoni nel colpire gli aerei in movimento: Norbert Wiener, matematico, Arturo Rosenblueth, fisiologo e Julian Bigelow, ingegnere elettronico (Rosenblueth era collega di Walter Cannon e Bigelow andrà poi a costruire la macchina IAS con von Neuman). I tre scienziati conclusero che la soluzione consisteva nella capacità del cannone di correggere continuamente se stesso, colpo dopo colpo, e per fare questo inventarono un sistema che tenesse continuamente conto del feedback (retroazione) dell’esito dei proiettili. Il sistema si basava su un radar che forniva informazioni a un calcolatore sulla rotta dell’aereo nemico da abbattere, della velocità e del tempo impiegato dal proiettile a raggiungerlo. Dopo ogni colpo, il radar comunicava al sistema l’entità dell’errore di tiro, in modo che il calcolatore potesse effettuare le necessarie correzioni, il ciclo continuava finché l’obiettivo non veniva colpito. Con la conclusione di questo progetto si introdusse il concetto di causalità circolare e si gettarono le basi per quella che poi venne chiamata la teoria cibernetica.

Norbert Wiener utilizzando questa teoria cercò di fondare una scienza generale del funzionamento della mente umana (Wiemer, 1948) e tra il 1943 ed il 1956 vennero organizzate a New York, su iniziativa dello psichiatra Warren McCulloch e della Josiah Macy Jr. Foundation, dieci incontri, chiamati poi Macy Conference, proprio per poter condividere questa possibilità tra i diversi scienziati dell’epoca. Il concetto di feedback era già stato usato in precedenza (vedi il meccanismo di feedback per regolare i motori a vapore di Clerk Maxwell oppure il concetto di omeastosi di Walter Cannon), ma ora, per la prima volta, si cerca di applicare il concetto direttamente alla comprensione della mente umana.

 

Rosario Esposito Recensione Carver

 

C’erano proprio tutti a quegli incontri: Gregory Bateson, Margaret Mead, John von Neuman, Heinz von Foerster, Ralph Gerard, Kurt Lewin tra gli altri. Tra loro, ovviamente, c’erano anche Norbert Wiener e Arturo Rosenblueth che si soffermarono proprio ad illustrare il concetto di controllo a retroazione. Tra i partecipanti Gregory Bateson, antropologo e sociologo, intuì subito la possibile applicazione della causalità circolare per sottolineare l’importanza del contesto nella comprensione del comportamento umano; nacque così la teoria sistemica (Bateson, 1977). Il libro di Carver e Scheier, frutto di 35 anni di lavoro sull’argomento, vuole sottolineare l’altra faccia della medaglia, l’applicazione degli stessi concetti di causalità circolare direttamente alla comprensione dei processi mentali.

Secondo Carver e Scheier il modello cibernetico non è una metafora di come funziona la mente umana, è proprio il modo di funzionare degli esseri viventi autoregolati, compresa la mente umana. Secondo gli autori attraverso la descrizione di questi processi si descrive come l’individuo realmente si comporta e si autoregola, si colgono cioè le reali relazioni logiche fra le funzioni svolte dagli elementi.

Infatti il processo comune a tutti gli esseri viventi consiste proprio nella loro capacità autoregolatoria e questo è consentito da un costante confronto tra uno scopo (il valore di riferimento) ed i risultati del comportamento (target). Il meccanismo è chiamato controllo a retroazione ed, in questo modo, gli autori recuperano un concetto spesso trascurato dalla psicologia cognitivista, quello di motivazione. L’approccio e gli autori non si soffermano nel descrivere quali sono le peculiari motivazioni degli esseri umani (fame, sonno, riproduzione, esplorazione, attaccamento, rango, etc.), ma provano a descrivere il meccanicismo astratto che li caratterizza; più che rispondere alla domanda perché l’uomo si comporta, vogliono rispendere alla domanda quali sono le regole che segue nel comportarsi.

Provate ad immaginare il comportamento di un paziente e provate a considerare quali scopi importanti ha, provate ad ipotizzare se con il suo comportamento si sta avvicinando ad essi oppure no. Il comportamento che osservate è un continuo tentativo di riduzione (o ampliamento) di una discrepanza tra gli scopi e il risultato ottenuto. Interessante vero? Interessante perché più si descrivono i dettagli della teoria più ci sono margini di intervento. Secondo gli autori gli scopi sono organizzati gerarchicamente dove l’esito di processo può essere il valore di riferimento (un altro scopo) di un altro processo gerarchicamente inferiore (si evita così il famigerato homunculus). I feedback, d’altra parte, possono essere veritieri, ma anche distorti, veloci, ma anche ritardati o intermittenti, sensibili o poco sensibili. Le cose si complicano perché a rendere più complessa la cosa si consideri che l’insieme di scopi, feedback ed i loro parametri (sensibilità, latenza, intermittenza, velocità) possono modificarsi nel corso del tempo. La teoria più che un fotogramma che cristallizza gli elementi, appare come un video di danzatori che regolano la loro danza l’uno sui movimenti dell’altro. Se il comportamento è visto come un avvicinamento (oppure ad un allontanamento) ai valori di riferimento (gli scopi o antiscopi) tenendo conto dei feedback, gli “affetti” compaiono quando c’è una accelerazione (o decelerazione) verso il raggiungimento dello scopo. Riguardano la velocità di raggiungimento più che il raggiungimento in sè (vi dice qualcosa sui rapporti d’amore?).

Ma cosa succede se il raggiungimento di uno scopo è ostacolato? É molto importante per la salute mentale essere capaci di capire quando disimpegnarsi lì dove è necessario e impegnarsi, invece, lì dove si possono ottenere risultati, rimanere a metà strada, nella terra di nessuno, è fonte di problemi. Da quanti anni avete uno scopo che non riuscite a raggiungere? Che vogliamo fare? Nel caso lo scopo è ostacolato gli autori elencano diverse strategie: ridurre i tentativi, abbandonare il contesto comportamentale, disimpegnarsi mentalmente oppure disimpegnarsi in modo limitato. Rimandando al libro la descrizione di queste possibilità, basti qui dire che è molto importante avere delle alternative (un piano B) per gli scopi costitutivi del sé.

E la clinica? L’ansia da esame, ad esempio, può essere vista come un tentativo infruttuoso di disimpegnarsi dal compito; la depressione, invece, è connessa a una mancanza generale di disimpegno mentale dagli scopi; il comportamento disorganizzato può dipendere da diversi fattori che agiscono sulla autoconsapevolezza: la persona smette di monitore i suoi valori e le sue intenzioni (i suoi scopi) riducendo la concentrazione su di sé e causando così una cattiva regolazione del comportamento. A pagina 335 gli autori descrivono anche le regole per la costruzione e la rottura delle relazioni intime. Gli interventi clinici possono essere innumerevoli e riguardare direttamente i processi mentali (chiarire gli scopi, la loro gerarchia, la rinuncia, chiarire la qualità dei feedback, spostare l’attenzione su sé o da sé, etc.), oltre che i contenuti (rappresentazioni mentali).

In conclusione, secondo gli autori, le persone vivono identificando scopi e antiscopi, perseguendo i primi e tenendosi lontani dai secondi. Alcuni scopi sono l’espressione di un programma biologico, altri il frutto di una ponderazione cosciente di possibili alternative, altri ancora derivano da sogni e fantasie, ma i più importanti sono quelli fondamentali per il sé. Proprio gli scopi del sé (che può essere desiderato, dovuto, temuto o reale) potrebbero dare vita ad un progetto di ricerca per una teoria della personalità normale e patologica (si veda lo spunto per il narcisista a pagina 118). Proficuo in tal senso sarebbe, come già tentato da Bowlby (1980), l’integrazione tra principi della cibernetica e teoria cognitivo-evoluzionista (Liotti, 1994): nell’un caso si descrive il meccanismo generale, nell’altro si sottolineano le singole motivazioni interpersonali. Questo consentirebbe di integrare scopi psico-biologici descritti dalla teoria evoluzionista, con altrettanti importanti scopi più astratti come identità, libertà, incertezza, tra gli altri.

Il libro è molto bello e molto complesso, spesso è appesantito dal continuo soffermarsi degli autori dal confronto con le altre teorizzazioni, meglio sarebbe stato sottolineare di più le conseguenze pratiche e l’utilità della teoria. Sicuramente non è da tenere sul comodino.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Teen dating violence: la violenza nelle relazioni di coppia tra adolescenti

Elena Parise, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Le relazioni sentimentali possono presentare alcuni lati oscuri e di potenziale rischio: ne è un esempio il fenomeno dell’aggressività nelle prime esperienze sentimentali, definito nella letteratura nordamericana “dating aggression” e/o “dating violence”.

È risaputo, le relazioni romantiche e sessuali svolgono un ruolo importante nel corso della pubertà e dell’adolescenza. Esse consentono ai giovani di perseguire tutta una serie di obiettivi come la realizzazione del desiderio di intimità, di sostegno e di esperienze sessuali, nonché l’acquisizione di uno status. Le relazioni amorose favoriscono poi lo sviluppo dell’autonomia personale dal momento che i giovani possono così soddisfare il loro bisogno di comprensione e sostegno al di fuori del rapporto genitore-figlio. Spesso, la costruzione di una relazione amorosa avanza di pari passo con un rafforzamento dell’autostima e con un’immagine positiva della propria attrazione.

Certo, finora, ho presentato gli aspetti positivi delle relazioni sentimentali, sottolineando l’importante valore che esse assumono per lo sviluppo dell’adolescente e per il suo adattamento socio-relazionale. Accanto a questa dimensione, però, le relazioni sentimentali possono presentare alcuni lati oscuri e di potenziale rischio: ne è un esempio il fenomeno dell’aggressività nelle prime esperienze sentimentali, definito nella letteratura nordamericana “dating aggression” e/o “dating violence” (Wekerle & Wolfe, 1999; Menesini e Nocentini, 2008; Xodo, 2011).

Sebbene se ne parli ancora poco e, nella maggior parte dei casi, si veda approfondito per lo più il tema della violenza nelle relazioni di coppia “adulte”, si possono identificare alcuni importanti elementi che accomunano entrambi i fenomeni menzionati:
– esiste un legame emotivo tra l’autore di violenza e la vittima;
– esiste un divario di potere all’interno del rapporto di coppia;
– gli atti di violenza avvengono in un contesto che, di norma, dovrebbe infondere sicurezza e protezione.

Oltre a questi elementi in comune, però, i rapporti di coppia fra giovani si differenziano da quelli tra adulti in parte per la loro dinamica, nonché per i modelli comportamentali, sia individuali – specifici dell’età – sia indotti dalla dinamica del gruppo di riferimento (Ely, Dulmus & Wodarski, 2002).

Da un’indagine di Telefono Azzurro e Doxa (2014) su più di 1500 adolescenti italiani (52% maschi, 48% femmine) tra gli 11 ed i 18 anni, emerge come al 22,7% del campione sia capitato che il/la proprio/a partner urlasse contro di lui/lei. Il 13,9% riferisce di essere stato/a oggetto di insulti da parte del/della partner, mentre il 32,8% degli intervistati conosce qualcuno che è stato insultato dal/dalla partner.
Inoltre, un dato interessante emergerebbe in termini di epidemiologia di genere, in quanto, da tale indagine, risulta che il 7,9% dei maschi intervistati ha dichiarato di essere stato picchiato almeno una volta dal partner, a fronte del 3,3% dichiarato dalle femmine. Coerentemente con una serie di recenti studi internazionali, risulta anche in Italia una maggior percentuale di aggressioni fisiche da parte delle ragazze nei confronti dei maschi all’interno delle relazioni di coppia.
Dalla stessa indagine, poi, si evidenzia come la natura della “teen dating violence” possa essere fisica, sessuale e/o psicologica/emotiva. Vediamole nello specifico.

Fisica: avviene nei casi in cui il/la partner che ne è vittima, viene picchiato, strattonato o qualsiasi altra forma di aggressione fisica da parte del perpetratore. Il 5,7% dei ragazzi intervistati nel corso dell’indagine afferma di averne subìta.

Sessuale: avviene quando si fanno pressioni o si minaccia il/la partner per avere rapporti sessuali senza il suo consenso, nonché tutti quei casi in cui uno dei partner cerca di imporre di non usare un certo tipo di contraccettivo. È capitato al 5,7% degli adolescenti intervistati e più di 1 adolescente su 6 afferma di conoscere amici a cui è capitato.

Psicologica/emotiva: avviene nei casi in cui il/la partner aggressivo/a minaccia il/la partner o danneggia la sua autostima. Esempi di questo tipo di “dating violence” sono: chiamare con nomi che possono provocare un senso di vergogna di imbarazzo o di vittimizzazione in modo voluto e provocato;
tenere lontano il/la partner dall’affetto degli amici e dei familiari; le umiliazioni e le minacce verbali, molestie per telefono, sms, e-mail o attraverso le reti sociali (Korchmaros et al., 2013); il controllo e la limitazione della libertà di movimento del partner. A tal proposito, un terzo dei ragazzi intervistati dichiara che il/la proprio/a partner vuole sempre essere informato/a su tutto, dice loro cosa devono o non devono fare o, addirittura, vieta loro di incontrare altre persone. In questo caso, la problematica risiede nel fatto che spesso i giovani interpretano un’attenzione e un attaccamento eccessivi come una vera e propria prova di amore (Paludi, 2011).

Menzione a parte meriterebbe il fenomeno dello stalking, il quale si verifica nei casi in cui il perpetratore ricorre a minacce o molestie che causano principalmente paura nella vittima. La letteratura scientifica, infatti, definisce lo stalking come “un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza, di controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi” (Mullen & Pathé, 1994; Caretti, Ciulla & Schimmenti, 2011).

Successivamente, O’Keefe (2005) identifica quelli che possono essere considerati nell’individuo adolescente fattori di rischio, che possono portarlo a perpetrare il “teen dating violence” con il partner:
Abusare di sostanze stupefacenti e alcol;
– Aver avuto importanti problemi di natura comportamentali tendenti all’aggressività e al bullismo;
– Essere soggetti irascibili, in cui lo scoppio di rabbia e ira è frequente ed è difficoltoso gestirlo;
– Pensare che sia normale minacciare e manifestare comportamenti aggressivi per ottenere ciò che vogliono;
– Aver subìto esperienze negative durante l’infanzia: tra queste rientrano innanzitutto l’abuso sessuale durante l’infanzia, le esperienze dirette di violenza fisica o psichica, che comprendono anche il fatto di crescere in un contesto di violenza domestica fra genitori o fra persone di riferimento.
– Sottostare a e/o condividere norme “sbagliate” o “disfunzionali” del gruppo dei pari (ne sono un esempio i casi di amicizie con coetanei con precedenti penali).

Per quanto concerne le conseguenze della “teen dating violence”, esse possono essere molteplici, in quanto essere vittime di comportamenti violenti, offensivi o minacciosi all’interno della coppia può provocare negli adolescenti effetti negativi sia a breve sia a lungo termine: le vittime di violenza all’interno della coppia hanno, infatti, maggiori probabilità di sviluppare a loro volta comportamenti violenti, abusare di sostanze o di aver timore di rapporti stabili e duraturi. Inoltre, minare la fiducia in se stessi può portare a difficoltà psicologiche di tipo ansioso o depressivo e, nei casi più gravi, si può arrivare a tentativi di suicidio. In particolare, quindi, per quanto riguarda i ragazzi prevalgono le reazioni di tipo esternalizzante, con manifestazioni di rabbia e di collera; al contrario, per le ragazze, aver subito violenza raddoppia il rischio di andare incontro a disturbi del comportamento alimentare, depressione, attacchi di panico, nonché ideazione suicidaria (Romito, Beltramini & Escribà-Agüir, 2013).

Con la crescita, dunque, le relazioni sentimentali acquisiscono un valore più complesso: se da un lato divengono sempre più supportive, dall’altro possono connotarsi di elementi sempre più conflittuali. La trasformazione delle relazioni, che acquistano qualità come intimità, serietà e impegno, configura parallelamente anche un incremento di caratteristiche ed aspetti problematici, quali il coinvolgimento dei giovani partner in dinamiche aggressive.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Segnali facciali statisti e dinamici influenzano in modo diverso la coerenza di valutazioni sociali

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

Gli individui sono molto sensibili a diversi aspetti del volto quando devono formare valutazioni sociali. Gli aspetti riguardanti la sfera emotiva si basano sulla muscolatura facciale che è dinamica, mentre gli aspetti della struttura del volto sono relativamente statici.

Un team di ricercatori della New York University esamina la distinzione tra questi tipi di segnali facciali indagando la consistenza delle valutazioni sociali derivanti dagli spunti dinamici contro gli spunti statici. In particolare, attraverso quattro studi con volti reali, generati digitalmente, e le decisioni comportamentali a valle, hanno dimostrato che le valutazioni sociali basate su segnali dinamici, come le intenzioni, hanno una maggiore variabilità rispetto alle valutazioni sociali basate su spunti statici come la capacità. Così, anche se la valutazione delle intenzioni varia considerevolmente attraverso differenti cues del segnale facciale, la valutazione delle abilità è relativamente fissa.

I risultati suggeriscono che utilizzando la foto di un viso, si può influenzare la valutazione che gli altri hanno dell’affidabilità di quella persona, ma la percezione della capacità del viso difficilmente viene cambiata. Questa distinzione è dovuta al fatto che il giudizio di affidabilità è basata sulla muscolatura dinamica del volto che può essere leggermente modificata: una faccia neutra che assomiglia più ad un’ espressione felice è probabilmente vista come degna di fiducia mentre una faccia neutra simile ad un’ espressione arrabbiata è più probabile venga vista come inaffidabile, anche quando i volti non sono apertamente sorridenti o arrabbiati. La percezione della capacità è tratta dalla struttura scheletrica del volto che non può essere modificata.

Nello studio sono stati impiegati quattro esperimenti in cui soggetti maschi e femmine hanno esaminato sia le foto che le immagini generate dal computer di adulti maschi.

Nel primo esperimento i soggetti hanno esaminato cinque foto distinte di 10 adulti maschi di diverse etnie. Qui la percezione di affidabilità dei soggetti varia in modo significativo: le facce dall’aspetto felice venivano viste come facce più affidabili mentre quelle dall’aspetto più arrabbiato erano viste come inaffidabili. Tuttavia la percezione di capacità o la competenza dei soggetti è rimasta statica, i giudizi erano gli stessi indipendentemente dalla foto presentata.

Il secondo esperimento replica il primo, ma qui i soggetti valutano quaranta volti generati dal computer che lentamente evolvevano da un “po’ felice” a un “po’ arrabbiato” determinando 20 diverse istanze neutrali di ogni singolo viso che poco assomigliava ad un’ espressione felice o arrabbiata. Come per il primo esperimento la percezione di affidabilità dei soggetti avveniva in parallelo all’emozione dei volti cosicché se il volto appariva leggermente più felice era più probabile venisse catalogato come più affidabile e viceversa per le facce che apparivano un po’ arrabbiate. Ancora una volta la percezione delle capacità è rimasta invariata.

Nel terzo esperimento i ricercatori hanno implementato uno scenario reale. Ai soggetti sono stati mostrati una serie di volti generati dal computer e sono stati invitati a rispondere a due domande: “Che faccia avrebbero scelto come loro consulente finanziario (fiducia), e con chi pensano ci fosse più probabilità di vincere una competizione di sollevamento pesi (capacità)?” In questa condizione i soggetti erano significativamente più propensi a scegliere come loro consulente finanziario volti che presentavano espressioni più positive o felici. Per contro, la somiglianza emotiva non ha avuto alcun effetto nella selezione dei soggetti per la vincita di sollevamento pesi, anzi, erano più propensi a scegliere volti con una forma particolare: quelli con una struttura facciale comparativamente più ampia, che studi precedenti hanno associato con abilità fisica e testosterone.

Nel quarto esperimento i ricercatori hanno utilizzato una tecnica di correlazione inversa per scoprire come i soggetti rappresentano visivamente un volto affidabile o competente e come essi rappresentano visivamente il volto di un consulente finanziario di fiducia o del campione di sollevamento pesi competente. Questa tecnica ha permesso ai ricercatori di determinare quale di tutti i possibili segnali facciali guida queste distinte percezioni senza specificare nessun segnale in anticipo. Qui, la somiglianza con espressioni felici o arrabbiate hanno guidato l’affidabilità e quindi la scelta di un consulente finanziario immaginario, mentre la più ampia struttura del volto ha veicolato la capacità ed è stato utilizzato nella scelta dei volti per un campione di sollevamento pesi immaginario.

Questi risultati hanno confermato i risultati dei tre precedenti studi, consolidando la conclusione dei ricercatori che le percezioni di affidabilità sono malleabili mentre quelle di capacità e competenze rimangono immutabili.

 

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Un buon sonno è il nuovo elisir di buona salute!

FLASH NEWS

Il nuovo elisir di lunga salute starebbe in un buon sonno.

Secondo una ricerca danese il mantenimento di una buona qualità del sonno è fondamentale per la nostra salute futura, anche perché influenza in una certa misura il nostro stile di vita: è il sonno disturbato a predire abitudini di vita non salutari, e non solo il contrario.

Il rapporto tra sonno e stile di vita è un rapporto intricato e interdipendente, e questo studio ha dimostrato che il sonno può influenzare la capacità di mantenere uno stile di vita sano. Se il sonno inizia a deteriorarsi è più probabile assumere comportamenti negativi per la nostra salute.
Ad esempio, è stato riscontrato che i fumatori che mantengono una adeguata durata del sonno hanno una maggiore probabilità di smettere di fumare negli anni successivi rispetto ai fumatori che presentano un sonno più disturbato.

E trend simili sono stati osservati riguardo ad altri aspetti dello stile di vita, tra cui una scarsa qualità del sonno sarebbe predittiva di un maggior rischio di inattività fisica e di sovrappeso.

Lo studio epidemiologico ha coinvolto un esteso numero di partecipanti (circa 35.000) dei paesi nordici seguendoli per otto anni monitorando le diverse variabili in ogni fasi di rilevazione.

 

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Perché non mi parli? Il conflitto tra genitori e figli adolescenti (2015) – Recensione

Con questo testo John Coleman, attraverso la sua vasta esperienza di lavoro con adolescenti e genitori, propone un modello per coloro che cercano consigli o sperimentano serie preoccupazioni di fronte “all’atteggiamento” del figlio quattordicenne o quindicenne.

Basato su autorevoli e recenti ricerche, “Perché non mi parli?” vuole dare un senso al mondo dell’adolescente. Le nuove conoscenze sullo sviluppo del cervello, sui pattern del sonno e sulla comunicazione si integrano con i punti di vista di ragazzi e genitori. E’ proprio grazie alle loro coinvolgenti voci che vengono trattate concretamente tematiche tipiche quali: il mondo digitale con pro e contro che ne conseguono, le amicizie e la centralità del gruppo dei pari, la sessualità, i comportamenti a rischio, il divorzio e le famiglie ricostituite, il fumo, l’alcol, la droga, l’alimentazione, l’attività fisica e altri aspetti legati alla salute.

Il testo fornisce consigli pratici e chiare indicazioni per attraversare insieme ai ragazzi questa fase di transizione e di grandi cambiamenti diventando genitori resilienti. Il messaggio dell’autore che vuole trasmettere è alquanto chiaro: una genitorialità efficace è impossibile senza la comunicazione e perché quest’ultima si possa considerare tale l’ascolto è importante tanto quanto il parlare.

Ogni lettera del modello STAGE qui descritto, rappresenta uno dei cinque elementi fondamentali della genitorialità individuati dall’autore.

– S sta per la Significatività dei genitori. Molti di loro pensano di non contare più molto, di non essere più importanti. Studi dimostrano, invece, che la loro presenza in questi anni è importante tanto quanto durante l’infanzia. Essi contano in maniera diversa, è necessario permettere la ricerca dell’indipendenza da parte dei ragazzi, processo importante per la loro crescita, ma anche essere consapevoli che i genitori rimangono le persone più significative nella vita dei giovani.

– T sta per Two-Way Communication – Comunicazione a due vie. E’ proprio assumendo un ruolo più attivo durante la conversazione (volendo parlare solo in alcuni momenti, irritandosi con le domande, volendo discutere anziché ascoltare, decidendo quali tematiche affrontare e quali no ..) che l’adolescente esprime la sua indipendenza. Egli assume il controllo della comunicazione tanto quanto i genitori ed ha bisogno della loro comprensione e del loro supporto per apprendere questa competenza.

– A sta per Autorevolezza, uno stile genitoriale interessato e coinvolto che trova il giusto equilibrio tra promuovere l’autonomia appropriata all’età e il porre i giusti limiti e confini. Il giovane ha bisogno da un lato di sentirsi apprezzato e rispettato con calore e amore e che i suoi bisogni vengano accolti, ma da un altro necessita anche di regole ragionevoli che gli diano una struttura e quindi un senso di sicurezza e contenimento in famiglia. I genitori, dovrebbero essere irremovibili e sostenersi a vicenda su poche regole sensate e non dovrebbero permettere al figlio di intromettersi tra loro. Gli adolescenti altrimenti tenderanno a sfruttare ogni divergenza tra loro!

– G sta per Gap generazionale, la diversità dell’epoca in cui sono cresciuti genitori e figli e la diversità della fase della vita che stanno vivendo. E’ inoltre molto difficile a posteriori ricordarsi di come si ha vissuto quel periodo e quindi è facile incappare in giudizi rischiando così di allontanare il giovane e di perdere influenza su di lui.

– E sta per emozioni. E’ tipico da ragazzi avere difficoltà nel gestire le proprie continue oscillazioni emotive ed è normale e comprensibile da genitori provare di conseguenza rabbia, senso di perdita, vergogna e senso di colpa. Riconoscere le proprie emozioni e saperle gestire può fare una differenza significativa nel modo in cui ci si comporterà con il proprio figlio.

E cosa dire sull’amore dei genitori per i propri figli? Parlare di amore viene molto più facile quando si pensa ai bambini piccoli e molto più difficile quando si pensa agli adolescenti. Un altro messaggio chiaro di questo libro però è che i ragazzi hanno bisogno di amore tanto quanto i bambini, anche se hanno bisogno che venga espresso in modo diverso. Per cui è fondamentale che i genitori trovino le risorse per sostenere al meglio il proprio figlio in questa fase così significativa seppur provvisoria. Sapere che altri genitori stanno attraversando queste difficoltà e soprattutto essere consapevoli con certezza di essere comunque importantissimi per i propri figli può essere un valido sostegno per non cadere nel tranello del senso di impotenza e di perdita del controllo.

 

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Terapia cognitivo-comportamentale. Approccio ai problemi relazionali e sessuali – Report dal seminario dell’Istituto Beck

Come mai, si chiede e ci chiede il prof. Mehmet Sungur provocatoriamente all’inizio del seminario, il matrimonio rimane, ancora oggi, un’istituzione popolare? In altre parole per quale motivo le persone decidono di sposarsi nonostante numerosi matrimoni finiscano in un divorzio e le predizioni di successo siano scarse, statisticamente parlando? Questo rende l’istituzione matrimoniale “la forma di istituzione volontaria più popolare nonostante gli esiti deludenti e catastrofici”.

Il matrimonio è uno status contraddistinto da vantaggi e da costi, da diritti come anche da responsabilità. Anche quando le cose non funzionano diventa difficile tirarsi fuori da un progetto in cui si è investito, specie se sono trascorsi degli anni; accade anche che alcune persone decidano, nonostante abbiano alle spalle un matrimonio fallito, di ripetere l’esperienza.

Guardando alla cosa da un altro punto di vista, vi sono anche statistiche che mostrano come le persone sposate, ovviamente nel caso di un matrimonio soddisfacente, siano più longeve, godano di miglior salute e benessere psicologico.

Per alcuni aspetti l’amore, nella sua fase iniziale, rappresenta una sorta di “disturbo visivo” che ci porta ad idealizzare l’altra persona, senza vederne i difetti; ma cosa accade quando l’incantesimo finisce? Come passare, citando Erich Fromm dall’amore romantico -ti amo perché ho bisogno di te- all’amore maturo -ho bisogno di te perché ti amo-?

Generalmente, noi impariamo a costruire la nostra relazione di coppia dai genitori, da modelli di coppie che conosciamo e dai codici culturali. Le coppie felici non coltivano l’aspettativa irrealistica che una relazione positiva sia priva di difficoltà, affrontano i problemi di coppia come una squadra, senza attribuirne la responsabilità unicamente all’altro partner, e hanno fiducia nella propria capacità di approdare ad un esito positivo. Una buona relazione di coppia necessita di momenti di separazione, in cui ogni partner ha il suo spazio distinto, di momenti di contatto e di momenti di fusione; i momenti di fusione sono particolarmente importanti quando la coppia deve fronteggiare una minaccia esterna alla relazione.

Cosa possiamo fare, in qualità di terapeuti, quando prendiamo in carico una coppia? In primo luogo, abbiamo il compito di infondere, basandoci su premesse realistiche, la speranza che la relazione di coppia possa essere migliorata. In altro modo, si tratta di veicolare l’idea che valga la pena di investire ancora nel rapporto, per quanto esso versi in una fase di crisi, piuttosto che mettere la parola fine. In linea di massima bisogna offrire una terapia che si focalizzi il più possibile sui fatti, sulle situazioni concrete, piuttosto che sul cercare delle spiegazioni al malfunzionamento della relazione; ci si concentra sul “cosa”, in modo pragmatico, non sul “perché”. Si incoraggiano i membri della coppia a smettere di cercare di analizzare e/o cercare di cambiare la personalità del partner, andando, invece, ad intervenire sulle azioni, sui modelli di comportamento ripetitivi e disfunzionali messi in atto da entrambi. È, inoltre, importante focalizzarsi sul presente e su obiettivi a breve termine nel futuro, piuttosto che sulle esperienze passate e imparare a definire con chiarezza ciò che si “vuole”, piuttosto che ciò che “non si vuole” rispetto all’altro e alla relazione di coppia.

Per quanto riguarda la formulazione degli obiettivi, è importante che essi siano concreti e verificabili, definiti in modo collaborativo da entrambi i partner, in modo che ci sia consenso reciproco. Si vuole condurre la coppia ad individuare modalità nuove, più gratificanti, di interagire.

La terapia può essere impostata:
– a livello comportamentale, cercando di migliorare la comunicazione di coppia, le abilità di problem solving e la capacità di negoziazione in modo da accrescere la flessibilità dell’interazione all’interno della relazione;
– a livello cognitivo, identificando e sottoponendo ad esame critico i pensieri automatici e le credenze disfunzionali;
– a livello sistemico, agendo sulla mancanza di cooperazione tra i partner e portando alla luce il significato latente dei pattern ripetitivi di comportamento all’interno del rapporto.

Il terapeuta si pone in una posizione esterna e decentrata rispetto alla coppia e cerca di potenziare le abilità di comunicazione di entrambi i partner, in modo da renderli migliori oratori ed ascoltatori; si chiede ai partner di comunicare tra loro in presenza del terapeuta senza coinvolgerlo nella discussione, in modo da osservare le dinamiche di coppia e da evitare di essere “triangolato”, cosa che spesso entrambi i membri della coppia cercano di fare, facendo richieste e cercando di esporre la propria personale versione del problema.

Il terapeuta, inoltre, dà dei feedback cercando di potenziare i comportamenti positivi, ad esempio : “Siete bravi a descrivere le rispettive abitudini irritanti. Siete in grado ora di descrivere cosa vi piace l’uno dell’altro?”.

Sul piano cognitivo ci si focalizza sull’assessment dei problemi della famiglia di origine e sui pensieri automatici, puntando alla modifica e ristrutturazione delle credenze disfunzionali; l’analisi dei modelli di interazione presenti nella famiglia di origine è utile per comprendere su che basi le persone hanno appreso il modo in cui entrano in relazione e le credenze implicite che determinano il loro comportamento. Le sedute sono strutturate in modo da tenere la terapia focalizzata sul raggiungimento degli obiettivi e ogni seduta comincia partendo dalla precedente e si conclude con l’assegnazione di compiti a casa.

L’assegnazione dei compiti a casa, in una cornice terapeutica di stampo comportamentale, è a fondamento anche della terapia dei problemi sessuali; il trattamento va calibrato sulle esigenze della coppia e orientato secondo il ritmo dei pazienti. Si fornisce un approccio strutturato che permetta alla coppia di identificare i fattori che mantengono in essere la disfunzione sessuale e di ricostruire la propria relazione sessuale gradualmente, tramite l’utilizzo di tecniche (stop-start, squeeze, penetrazione graduale) mirate ad affrontare problemi specifici.
Il ruolo del terapeuta è particolarmente importante quando sorgono difficoltà durante il trattamento; bisogna assicurarsi che le istruzioni siano chiare e ben comprese e chiedere feedback dettagliati all’inizio di ogni seduta.

 

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Correlati EEG dell’attività proiettiva in pazienti psicotici

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Correlati EEG dell’attività proiettiva in pazienti psicotici

Autrice: Chiara Di Giorgio (Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’)

Abstract

La proiezione è un meccanismo di difesa in cui il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri ed aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso. In linea con questo pensiero, alcuni autori hanno provato a spiegare i fenomeni allucinatori come la proiezione di contenuti spiacevoli e intollerabili per il paziente attraverso gli organi di senso. Un recente lavoro ha indagato in un campione di soggetti normali i correlati neurali del meccanismo proiettivo, riscontrando uno specifico pattern fronto-parietale in risposta a stimoli visivi non strutturati. Partendo dai suddetti risultati il presente studio ha lo scopo di indagare i correlati neurali dell’attività proiettiva in un campione clinico di pazienti con sintomatologia psicotica. L’ipotesi dello studio era che i pazienti psicotici mostrassero una maggiore attivazione delle aree frontali e parietali durante la presentazione di stimoli visivi non strutturati comparati con i soggetti di controllo.  I dati EEG di 8 pazienti con diagnosi di schizofrenia sono stati registrati in modo continuo a 250 HZ con il Geodesic Sensor Net a 256 canali, mentre ai pazienti veniva richiesto di attribuire un significato agli stimoli visivi presentati (strutturati vs non strutturati). Sono state analizzate le componenti temporali dei potenziali evento correlati (ERP) e la tomografia elettromagnetica a bassa risoluzione (sLoreta). L’analisi delle sorgenti (sLORETA) ha mostrato un significativo coinvolgimento delle aree fronto-temporali di sinistra ( 42,43,44 BA) durante la presentazione di stimoli visivi strutturati. I risultati hanno mostrato il coinvolgimento di tre aree specifiche, le stesse aree che risultano essere correlate alle allucinazioni verbali uditive. Le allucinazioni potrebbero venire elicitate da compiti che richiedono un minor impiego di risorse cognitive; al contrario un maggior impiego di strategie cognitive volte a disambiguare uno stimolo non strutturato potrebbero inibire la produzione spontanea allucinatoria dei pazienti con sintomatologia psicotica.

English abstract

Projection is a defense mechanism that involves taking our own unacceptable qualities or feelings and ascribing them to other people. In this context the hallucinatory phenomena could be considered as a projection of content intolerable to the patient through a sense organ. A previous studies showed that projective mechanism in healthy subjects is facilitated with non-structured visual stimuli and that a diffuse activity of frontal and parietal areas is involved during projection activity. The aim of the present study was to investigate the neural correlates of projective mechanism in patients with psychotic symptoms. The hypotheses of the study was that psychotic patients will show a greater activation of frontal and parietal areas during non-structured visual stimuli presentation compared to healthy subjects. The EEG data of 8 patients with a diagnosis of schizophrenia were recorded continuously at 250 Hz with the Geodesic Sensor Net with 256 channels while patients were asked to assign a meaning to visual stimuli presented (structured vs. not-structured). Event related potential (ERP) components and low-resolution electromagnetic tomography (sLoreta) were analysed. Source analyses (sLORETA) showed a greater involvement of the left frontal- temporal areas (left 42, 43, 44 BA) during the presentation of the structured visual stimuli. Findings show the involvement of three areas that seems to be related to auditory verbal hallucinations (AVU). AVU could be elicited by tasks that require less use of cognitive resources; differently greater use of cognitive strategies designed to disambiguate a stimulus un-structured could inhibit the spontaneous production of hallucinatory psychotic patients.

Allegato 1 (Soggetto Clinico)Allegato 2 (Soggetto di Controllo)

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Sindrome da Burn-out – CIM nr. 22 – Storie dalla psicoterapia pubblica

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE #22

Sindrome da Burn-out

Che psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e affini non brillino per sanità mentale è voce comune confermata dalla ricerca epidemiologica. Il CIM di Monticelli aveva già in passato dovuto affrontare la penosa e drammatica vicenda del dottor Altamura psichiatra e direttore generale della ASL conclusasi con l’omicidio annunciato della sua seconda moglie. Quasi sempre nelle improvvise esplosioni di follia tutti i parenti e i semplici conoscenti, intervistati dai giornalisti descrivono il soggetto come assolutamente equilibrato e l’episodio del tutto inaspettato. Si potrebbe pensare che la normalità sia prognosticamente infausta.

Non fu così nel caso di Biagioli che da alcuni mesi aveva peggiorato il suo già scostante carattere. Sempre più chiuso e maniacalmente immerso nel lavoro si avvertiva che covava qualcosa cui nessuno aveva accesso. Si trascurava anche fisicamente ed aveva allontanato persino gli amici storici. Secondo il dottor Irati che lo conosceva da più tempo degli altri senza che tuttavia fosse mai scoccata la scintilla dell’amicizia, assumeva degli antidepressivi sottraendoli dall’infermeria dell’ambulatorio ma a suo avviso avrebbe avuto bisogno di ben altro. Questo dopo lo dissero tutti sentendosi in colpa ma, a onor del vero, prima dei ben noti fatti l’unico a sostenerlo era proprio Irati. Dopo il ricovero all’ospedale di Vontano, ottenuto soprattutto con la paziente opera di Giovanni Brugnoli e Luisa Tigli che per il grande affetto nei suoi confronti volevano assolutamente evitare un T.S.O., il caso venne assegnato al dottor Luigi Cortesi con il pieno accordo dello stesso Carlo che stimava moltissimo il collega.

L’incertezza su quale diagnosi dichiarare vide fino all’ ultimo in ballottaggio “sindrome da burn out” e “disturbo post traumatico da stress. Entrambe mettevano in connessione la sofferenza di Biagioli con il suo lavoro e forse ne avrebbe avuti dei vantaggi pensionistici. Cortesi però si comportò come con qualsiasi altro paziente andando alla ricerca degli eventi scompensanti che si erano succeduti nell’ultimo anno dell’esistenza del suo capo e lo avevano sprofondato in una depressione delirante. Come al solito gli eventi scatenanti che avevano impattato su una struttura già vulnerabile erano molti. Il primo episodio era stata l’assunzione che aveva fortemente voluto di Carlotta, una sua ex paziente per un disturbo di panico adolescenziale. Si era trattato di un avviso pubblico e contrariamente alle sue abitudini aveva fatto pressioni per l’assunzione a tempo determinato della giovane.

Carlotta, 28 anni, era l’archetipo della fragilità con una storia di abbandoni infantili che l’avevano portata prima in una casa famiglia, poi in due coppie affidatarie che non l’avevano poi adottata ed infine in un collegio di suore che l’aveva ospitata fino ai 18 anni gratuitamente e poi avviata alla professione infermieristica che aveva esercitato in alcune cliniche religiose private prima di tentare l’entrata nel servizio pubblico. Era stata la badessa Suor Renata, sua amica d’infanzia ( per la precisione la prima con cui aveva provato il “gioco del dottore” forse in tal modo innescando il desiderio di consacrare la vita a Dio rinunciando agli uomini), a chiedergli di vedere questa povera ragazza squassata da attacchi di panico e paralizzata dall’angoscia abbandonica.

Fisicamente Carlotta, a dispetto del suo nome tondeggiante da benestante debuttante al ballo, era lunga, asimmetrica e con l’aspetto patito dell’orfanella. Gambe e braccia sembravano troppo lunghe e, nell’insieme, dava l’impressione di un cerbiatto appena nato che stenta a reggersi sulle zampe. Ciò suscitava in Biagioli una fortissima tenerezza e una incontenibile voglia di accudimento che avrebbero dovuto metterlo in allarme. Non era la prima volta che quello fosse il cavallo di Troia con cui erano state aggirate le sue attente difese. Un naso lungo sottile e storto verso destra separava due languidi occhi neri circondati da lisci capelli corvini che si fermavano a metà del collo modiglianesco. Somigliava fortemente, se non fosse stata per l’estrema magrezza, a Rossy De Palma una delle attrici preferite da Almodovar o, meglio ad un “head of woman” di Picasso.

Il giorno stesso che prese servizio al CIM Biagioli si pentì di averla accolta nel tentativo di dare qualche sicurezza alla sua esistenza. Notava tutto quello che faceva e la cercava continuamente con lo sguardo. Anche dopo mesi gli tornava alla mente un flash che con il dottor Cortesi avevano nominato “imprinting 1”. Carlotta si toglieva con un solo armonioso gesto lo zainetto e la giacca di jeans facendo salire improvvisamente la camicetta di cotone a fiori rossi e blu. Inaspettatamente, per una ragazza della sua età, compariva sotto una vera e propria canottiera bianca di cotone ( la maglia della salute delle nonne) che arrotolata e stropicciata di sudore lasciava intravedere in basso una carnagione rosea vellutata da una peluria bionda che si perdeva nei pantaloni larghi di lino trasformandosi di lì a poco in prorompente sedere con fiero atteggiamento antigravitazionale. Questo era solo il più ricorrente dei tanti flash che si erano stampati nella sua mente e si chiedeva se l’EMDR potesse essere utile per cancellare tali immagini ossessive.

Se ci fosse riuscito avrebbe potuto brevettare un protocollo contro le infatuazioni. Sin da adolescente aveva cercato di mettere a punto delle tecniche contro il montare inarrestabile dell’innamoramento. Ciò dimostrava che la stranezza non era conseguente alla professione ma l’aveva preceduta e forse determinata. Dopo appena una settimana notò due segni prognostici nefasti. Ragionava continuamente tra sé e sé sul fatto che non fosse poi un granchè, cercava di concentrarsi sui suoi difetti che però finiva per considerare commoventi e trovava continue somiglianze con lei nelle altre donne. Stava diventando un pensiero intrusivo che si imponeva di allontanare con il risaputo risultato di rinforzarlo. In sua assenza gli tornavano in mente tutti gli scambi che avevano avuto e si accorgeva di porre ai fatti sempre la stessa domanda “Quanto gli interesso?”. La mattina prima di arrivare al lavoro immaginava come sarebbe stata vestita, preparava le frasi che le avrebbe rivolto e cosa le avrebbe raccontato per rendersi interessante.

Ricordava a se stesso che 25 anni di differenza ne facevano il padre e che sarebbe apparso ridicolo e patetico qualsiasi tentativo di avvicinamento. Dall’altra parte sapeva anche che quando si impegnava in questi tentativi di contenimento del sentimento il guaio era già avvenuto. Come un incubo gli tornava alla mente il periodo in cui aveva conosciuto la sua attuale moglie Ornella che aveva fatto precipitare il già zoppicante rapporto con Maria, la prima moglie. Ora però c’erano due meravigliosi figli e non avrebbe retto un’altra separazione. Sarebbe certamente morto di crepacuore. Per questo negli anni si era assestato in un sereno menage che lo vedeva marito, padre devoto e amante attento e prudente di Luisa Tigli interessata quanto lui a tenere nascosta la loro storia dal carattere matrimoniale.

Carlotta era venuta a sparigliare questo consolidato equilibrio. Aveva di nuovo paura e rammentava rassegnato il verso di Lucio Battisti “ come può uno scoglio arginare il mare” preparandosi al peggio. Nella ricostruzione che ne fece con il dottor Cortesi chiamò questo periodo “il nascondimento” che fu caratterizzato soprattutto dall’isolamento. Si vergognava di parlarne persino con il suo amico Giò. Naturalmente Luisa Tigli se ne accorse ugualmente e chiese proprio a Giò di proteggere l’amico che stava correndo verso un evidente guaio. Quando fu certa, erroneamente, che Carlo e Carlotta avessero iniziato ad avere rapporti sessuali presentò domanda di trasferimento nel reparto ospedaliero al dottor Rodolfo Torre direttore del Dipartimento di salute mentale che, felicissimo di fare un dispetto a Biagioli lo accolse immediatamente. Biagioli volle precisare a Cortesi che, in verità, per il suo timore di fare una brutta figura non c’erano mai stati rapporti sessuali ma solo strofinamenti attraverso i vestiti in auto durante le visite domiciliari. Quella fu l’unica mezza verità che disse al suo curante: un vero record per un bugiardo patologico come lui.

Il trasferimento dell’ amante storica, la sua base sicura, fu per lui un altro duro colpo. Un ulteriore evento scompensante anche se in parte lo distrasse dal pensiero intrusivo di Carlotta. L’imprevisto scossone comportò, però, una insonnia resistente ai farmaci peggiorata dall’incremento del consumo alcolico. Era sempre stato un maestro nell’autoinganno. Così, anche in questa occasione, gli piaceva raccontarsi che fosse stato l’intervento dei figli Luca e Antonio a motivare la solenne decisione di tagliare con Carlotta. Preoccupati per la sua salute lo coinvolsero in un trekking di tre giorni sul Gran Sasso. Lo avvolsero di affetto ma furono anche molto crudi nel sottolineargli che stava ricoprendosi di ridicolo per una donna che poteva essere sua figlia e, a parte quell’aria da cucciolo spaurito non aveva nulla di eccezionale. Avrebbe voluto prenderne le difese ma riuscì a trattenersi. Promise solennemente guardando con vergogna negli occhi i suoi ragazzi. Chissà forse avrebbe mantenuto se non ci fosse stata la trasferta al manicomio criminale di Montelupo fiorentino. Si trattava di prendere contatti in vista della dimissione di un paziente. Un tempo sarebbe stata la classica spedizione affidata a Biagioli e Tigli, ma ora Luisa non lavorava più al CIM e la scelta di Carlo cadde sulla giovane Carlotta per farle vedere una realtà, quella degli OPG, in via di estinzione che avrebbe arricchito la sua esperienza.

Al CIM appena la macchina di servizio si allontanò verso l’autostrada iniziarono le scommesse. Certamente, dicevano i maligni, per entrare sarebbero state necessarie pratiche burocratiche che avrebbero reso necessario un pernottamento in zona. Per altri sarebbe stata la macchina a non sopportare il viaggio di andata e ritorno in un sol giorno. Oppure il paziente sarebbe stato in licenza di prova fino all’indomani. Il malore di uno dei due operatori o un piccolo incidente automobilistico erano le ipotesi meno accreditate. A vincere fu l’ipotesi della burocrazia aiutata dai due. L’ingresso fu facile ed il colloquio con il paziente immediato e proficuo. Il medico curante e il direttore dell’OPG avevano compilato tutti i documenti necessari con una efficienza inconsueta per il Lazio. Ma, per fortuna, c’era un ma. Essendo pomeriggio l’unico assente era il tecnico della riabilitazione psichiatrica che si occupava del paziente, sarebbe tornato in servizio il mattino successivo. Guardandosi dritti negli occhi decisero che non potevano fare a meno di un così prezioso contributo. Firenze era molto vicina e Carlo conosceva “La Locanda del Gallo Nero” dove, oltre ad assaggiare i piatti tipici della cucina toscana, si poteva avere, a prezzi compatibili con i rimborsi ASL, delle stanze decorose e pulite.

A Cortesi raccontò di un pomeriggio di travagliati conflitti interiori, di decisioni prese e poi ritrattate. In verità la decisione fu immediata al primo cenno di assenso di Carlotta che tuttavia voleva scaricare tutta la responsabilità sul capo. La cena fu ottima e il Chianti all’altezza della situazione. Sul seguito della nottata Biagioli fu reticente anche con il dottor Cortesi e forse soprattutto con se stesso. Per la simpatia che ci suscita rispetteremo questa sua riservatezza di maschio umiliato. Al ritorno, vilmente, lasciò che l’ironia degli altri accreditasse la tesi più scontata. Il vecchio marpione aveva ottenuto ciò che voleva per poi perdere rapidamente interesse per l’insignificante ragazzetta. Insomma proprio quella “una botta e via” che mai nella vita aveva sperimentato.

Il rimuginio autosvalutativo su questo episodio era ancora presente al momento del ricovero e si era portato appresso una slavina di altre considerazioni negative sulla sua vita che andavano via via ingigantendosi come una valanga che si autoalimenta. Tuttavia, a suo onore, Cortesi riconobbe che il dottor Biagioli non era impazzito per una donna, anzi una ragazzina. Infatti il cupo concentrarsi sui fallimenti esistenziali fu incrementato dalla richiesta dell’osservatorio epidemiologico regionale che chiese un report sugli esiti dei trattamenti degli ultimi 5 anni. Si trattava di riprendere in mano tutte le vecchie cartelle e valutarne l’esito, un lavoro pesante e noioso da fare come al solito in tempi brevi. Biagioli che aveva molte ferie arretrate si chiuse in casa sommergendola di cartelle e limitandosi a passare al CIM ogni tre giorni per firmare le carte più urgenti. A dirigere l’attività clinica lasciò la dottoressa Mattiacci, felice di mostrare il suo valore di capo. Luca e Antonio erano contenti della decisione del padre di stare a casa per un periodo e se ne attribuivano orgogliosamente il merito per l’intervento sul Gran Sasso. Ornella che non amava averlo tra i piedi per casa aveva ampliato i suoi turni nel reparto di pediatria. Non si spiegava perché i ragazzi la sollecitassero a prendersi del tempo e fare cose insieme al padre. Regalarono loro biglietti per il teatro Sistina ed un week end in Umbria acquistato su Groupon. Nella mente di Biagioli il posto progressivamente lasciato vacante da Carlotta e da Luisa non veniva però riconquistato da Ornella che al tempo di Maria ne era stata imperatrice assoluta. Erano piuttosto i fantasmi che uscivano dalle cartelle cliniche a ripopolarlo minacciosi.

Nella ricostruzione fatta con il dottor Cortesi chiamarono questo periodo “la pressurizzazione” che esprimeva la sensazione di Carlo del progressivo incremento di una intollerabile pressione interna. Le cose forse sarebbero andate diversamente se in quella fase avesse avuto una valvola come le pentole, ma lo sfogo con gli altri era precluso dalla vergogna. Solo per ore nel suo studio si chiedeva se tra le vittime della sua cattiva attività clinica oltre ai numerosi suicidi dovesse mettere anche i 77 gatti di Cristina Forni e il povero cane impiccato di Alessandro Pezzato. Aveva negli occhi il suo corpo penzolante col filo di ferro stretto al collo e le feci a terra sotto di lui. Povera bestia! All’Osservatorio epidemiologico regionale non sarebbero interessati ma lui li aveva sulla coscienza. Ricordava perfettamente i volti della vecchia Cristina Forni che era stata la prima, della fragile Violetta che gli ricordava Carlotta e del giovane Mario bello come James Dean. Il fantasma più fastidioso, come da vivo, era quello di Dante il fratello alcolista di Gilda morto in ambulanza con a fianco lei ed il suo amico Giò al cui funerale c’era il CIM al completo, la sua vera famiglia. E dove mettere Clotilde schiantatasi a 180 KM/h con la sua Honda? o Olly crivellato di colpi da una banda rivale? e Salvatore Misano giustiziato con sodomia esplosiva dal padre di un bambino da vendicare? Quante di queste morti, anche se nessun giudice lo avrebbe mai condannato, erano da attribuire alla sua incompetenza e superficialità! Per fortuna Alberto il pilota scomparso in una base del circolo polare artico non rientrava ufficialmente nella categoria “suicidi” ma questo valeva solo per la statistica. Se alcuni di questi erano chiaramente soltanto dei suoi scrupoli interiori di cui parlare col suo supervisore o, per come andarono effettivamente le cose, con il suo psichiatra curante il dottor Cortesi, di altri fatti era certamente colpevole e forse persino penalmente perseguibile. Non sarebbe dovuto intervenire con più decisione agli spaventati appelli della quarantenne Livia sua amica e seconda moglie di Altamura evitandone la morte violenta, avendo per altro da sempre nutrito dubbi sullo strano suicidio di Armida la prima moglie? Non era forse possibile che la signora Olga Simoni, rimessa in libertà grazie alla sua perizia compiacente, imperversasse in questo momento nel continente africano dove la sua missione di angelo della morte che pacifica ogni dolore avrebbe potuto concretizzarsi in stragi di bambini innocenti?

Altro che resoconti epidemiologici per la Regione. Ebbe il sospetto prima, la certezza poi, che quella fosse l’ultima possibilità che gli era offerta. Volevano vedere (l’utilizzo del “loro” per indicare gli altri segnava il preciso punto di ingresso nel delirio paranoico, avrebbe detto se si fosse trattato di un altro) se si fosse pentito da solo, spontaneamente, prima di doverlo fare schiacciato dalle prove. Da un giorno all’altro gli sarebbe stato consegnato il mandato di cattura da un giovane appuntato dell’Arma, orgoglioso per un arresto tanto importante (il narcisismo trovava comunque modo di far capolino). In genere ciò avviene alle prime luci dell’alba. Sperava fosse una notte di turno in ospedale per Ornella. Per risparmiare il brutto spettacolo ai ragazzi, aveva preso l’abitudine di alzarsi alle 4 del mattino e aspettare il compiersi del suo destino frugando al computer sui giornali locali i più interessati a vicende di questo genere. Le settimane passavano senza che nulla accadesse tranne il montare di una angoscia incontenibile che gli faceva preferire qualsiasi conclusione purchè tutto avesse presto fine. Aveva pensato di costituirsi per evitare le manette e le sirene spiegate. Quando ne parlarono Cortesi gli fece notare come anche in questo si esprimesse il suo “fottuto narcisismo” ( disse proprio così dando probabilmente voce più al dipendente di Carlo che all’attuale ruolo di curante). Fantasticava il suo arresto come quello di Bernardo Provenzano con un dispiegamento di forze pari a quelle utilizzate dal pentagono per la cattura vivo o morto ( meglio la seconda delle due) di Bin Laden. Per evitare conflitti a fuoco e vittime incolpevoli si aggirava gran parte delle vuote mattinate intorno al palazzo di giustizia di Vontano in attesa di una incruenta cattura.

Durante quell’inconcludente girovagare in attesa del compiersi del suo destino incontrò l’avvocato Vincenzo Sarno un ex compagno di liceo che non vedeva dai tempi della vicenda di Villa Santovino quando gli aveva dato alcune dritte che si erano dimostrate efficaci. Gli parlò della sua intenzione di costituirsi. Ai tempi del liceo il Sarno, figlio unico del principe del foro Salvatore Sarno e per questo destinato ad una brillante carriera a dispetto degli evidenti limiti intellettivi, gli stava assolutamente sulle palle. La bellezza aiutata dall’abbondanza di denaro lo rendeva competitivo e inviso agli altri maschi nonostante la goffagine interpersonale. Per tentare di risultare simpatico si vantava di conoscere i segreti più intimi degli altri e li divulgava. Ciò gli aveva meritato il soprannome di “amplificatore” e lo aveva progressivamente isolato. Brillava anche per totale assenza di empatia come fosse del tutto privo dei non ancora scoperti “neuroni specchio”. Non riusciva a cogliere gli stati d’animo altrui e aveva una capacità di comprensione psicologica pari ad un aspirapolvere spento.

Ebbene persino l’ottuso Vincenzo Sarno di fronte alle dichiarazioni di Biagioli circa le sue colpe e l’intenzione di costituirsi si allarmò. Considerato che la loro conversazione non era coperta dal segreto professionale chiamò Brugnoli che sapeva essere intimo amico di Carlo per esprimergli le sue preoccupazioni. In effetti nessuno al CIM si era reso conto di quanto la situazione stesse precipitando. Quando passava per firmare le carte più urgenti Carlo scambiava poche parole, si informava sommariamente dei casi più gravi e fuggiva immediatamente. Il deterioramento igienico era evidente ma giustificato come la trascuratezza nell’abbigliamento dal fatto di non uscire praticamente di casa. La verità è che non si vuole vedere la gravità nelle persone che si hanno a cuore ed è proprio per questo che è buona norma non curare amici e parenti. Si nega l’evidenza che persino il cecato Vincenzo Sarno aveva avvertito. L’evidenza che sarebbe saltata agli occhi di qualsiasi psichiatra estraneo era che il dottor Biagioli stava precipitando in una depressione profonda con aspetti francamente deliranti e un consistente rischio suicidiario. Il momento peggiore era al risveglio mattutino precocissimo intorno alle 3, 3 e mezzo. Inarrestabile gli scorreva in mente il film in bianco e nero della sua esistenza che gli appariva vuota, inutile, senza senso passato nè futuro. Cercava di opporsi al flusso magmatico di autodenigrazione elencando sul piano professionale le cose fatte, gli indubitabili risultati raggiunti, da dove era partito e dove era arrivato. Il disgusto per sé non recedeva di un passo. Le colpe maggiori le riferiva all’ambito affettivo dove si rimproverava superficialità e incapacità di sentimenti autentici. Gli sembrava di aver causato sofferenze gratuite a tutte le persone che lo avevano amato. Si sentiva come un insaziabile predatore che alla fine di una caccia spietata rimane solo in un deserto di carcasse putrescenti e l’incolmabile pancia vuota. Quasi a discolparsi elencava le diagnosi che si attribuiva ( borderline, antisociale, narcisista maligno) e quanto altro potesse attribuire ad una incolpevole malattia il suo abietto comportamento ( sperava fosse riconosciuto almeno parzialmente non in grado di intendere e di volere).

Ma il senso di ontologica indegnità non se ne andava mai. Tutt’al più poteva essere accantonato da quando con una doccia dava inizio alle attività frenetiche e inconcludenti della giornata e giungeva all’appuntamento delle 8.00 con la prima dose di benzodiazepine e soprattutto alle 10.00 con il primo Martini della giornata. Al massimo all’ora di pranzo la sobrietà era definitivamente perduta fino alle 3,00 del mattino successivo. il bere e il trascinare così le sue giornate erano un ulteriore motivo di disprezzo di sè. Ornella che da tempo si era accorta, tra un turno in ospedale e un altro, del malessere del marito gli aveva suggerito di riprendere la terapia tentata qualche anno prima. Si era sentita rispondere che non credeva in quelle cose nonostante le avesse mendacemente proposte agli altri per una vita intera. Le disse che se anche fosse stato possibile cambiare non ne aveva più voglia. Era troppo tardi per diventare un altro migliore, per gioire della vita. Ormai non doveva mancare molto e non se la sentiva di deludere tutti smontando il castello di falsità che aveva costruito. Nella prossima esistenza si sarebbe comportato diversamente ma per questa volta era andata così, non aveva saputo far meglio. Aspettava solo che calasse il sipario. Con lei e con i figli aveva un atteggiamento eccessivamente accondiscendente come a chiedere continuamente scusa. Nonostante tutti in famiglia lo rassicurassero continuava a ripetere che il danno provocato era irreversibile, non si poteva tornare indietro e non era possibile risarcimento o riparazione. Il corso delle cose era stato da lui irrimediabilmente deviato. Non era in suo potere far nulla per rimediare. Restava solo la sterile espiazione. Ornella gli leggeva negli occhi questo pensiero e si angosciava per le conseguenze sui figli. Fu per questo che decise di andare personalmente al CIM per capire quanto i colleghi fossero consapevoli della gravità e cosa intendessero fare. Era persino disposta ad una tregua transitoria con Luisa per il bene di Carlo. L’apprendere del suo trasferimento da un lato la rincuorò per non doverla incontrare, dall’altro le sollevò lo sgradevole dubbio che la crisi del marito fosse dovuta proprio a quel distacco.

Di Carlotta al contrario ignorava l’esistenza e si meravigliò molto dell’insistenza con cui la ragazzina chiedeva notizie del marito. Ornella partecipò ad una vera e propria riunione clinica sul caso in cui si doveva decidere la sorte psichiatrica del capo degli psichiatri momentaneamente fuori di testa. Brugnoli, troppo amico per non finire nel ruolo del medico pietoso…… sosteneva che bisognasse tentare un trattamento domiciliare e si offrì di ottenerne da Carlo il consenso. Per Irati non c’era altra soluzione che un ricovero che caldeggiava la stessa Ornella senza perdere altro tempo. Irati propose la Clinica “Castello della quiete”di Roma dove aveva delle conoscenze e il ricovero sarebbe potuto rimanere riservato. Cortesi disse che Carlo non avrebbe mai voluto andare in privato e si sarebbe voluto ricoverare proprio nel suo SPDC di Vontano. Per salvare la faccia magari si sarebbe potuto sostenere che il capo aveva voluto ricoverarsi per un periodo al semplice scopo di osservare le dinamiche interne al reparto e gli scostamenti dalle procedure di eccellenza in modi da migliorarne l’efficienza. Insomma si poteva sostenere che non di ricovero si trattasse ma di una sorta di ispezione interna ( come il ricovero in manicomio di Jasper o la beffa di Rosenham agli ospedali psichiatrici statunitensi). La figura di Carlo ne sarebbe uscita persino rafforzata.

A questa ipotesi si oppose con fermezza Brugnoli. Carlo non avrebbe mai voluto che la sua malattia mentale fosse nascosta come si trattasse di una vergogna: avevano sempre combattuto contro lo stigma. La delegazione incaricata di comunicare la decisione a Carlo non come suggerimento ma come risoluzione non negoziabile presa per il suo bene e per quello dell’intero servizio fu scelta per votazione e tra mille incertezze. La composizione prevedeva cinque membri. La dottoressa Mattaccini in veste di responsabile pro tempore del CIM nominata dallo stesso Biagioli. Brugnoli e Gilda in quanto amici più fidati di Carlo e con un certo ascendente su di lui. Luigi Cortesi scelto come il terapeuta che avrebbe seguito Carlo durante il ricovero e si sarebbe trasferito in SPDC. Luisa Tigli che, rassicurata dal mancato rinnovo del contratto di Carlotta e sinceramente preoccupata per le notizie che arrivavano in ospedale sulla salute di Carlo, si disse felice di potersi prendere cura del suo Carlo nel reparto in cui da qualche mese lavorava. Ornella e soprattutto i figli temevano una reazione molto negativa del padre nel momento in cui si fossero presentati i colleghi del CIM per comunicargli che, non se ne rendeva conto ma era ufficialmente matto e se non lo avesse capito gli avrebbero fatto un TSO. Luca temeva un gesto eclatante come un tentato suicidio o più probabilmente una fuga e già immaginava la notorietà che gli avrebbe dato la partecipazione in prima serata a ”Chi l’ha visto??” per lanciare accorati appelli per un pronto ritorno del padre. Nonostante i successi scolastici non aveva mai del tutto rinunciato al sogno di un facile successo nel mondo dello spettacolo. Antonio invece immaginava un TSO piuttosto movimentato e l’insopportabile vergogna che avrebbe coperto l’intera famiglia. Entrambi preferirono non esserci.

Ad aprire la porta alla numerosa delegazione restò la sola Ornella, peraltro indispettita dall’aggiunta di Luisa quantunque sapeva potesse essere decisiva. Passata l’emergenza avrebbe fatto pulizia anche su questa annosa vicenda. Biagioli li fece accomodare in soggiorno e servì personalmente ad ognuno le bevande che sapeva preferire. Nell’ascoltare i loro discorsi imbarazzati, le frasi smozzicate, le reciproche interruzioni e i goffi passaggi di testimone nei momenti in cui bisognava esprimere i concetti decisivi e più duri il suo volto si faceva sempre più rilassato. Li aveva accolti con lo sguardo torvo e allarmato di chi si sente minacciato. Ora la tensione andava sciogliendosi quasi in un sorriso. Brugnoli immancabile ottimista quando si trattava dell’amico arrivò a pensare che si trattasse di uno scherzo. Biagioli si sarebbe messo a ridere confessando di aver inventato tutto e poi li avrebbe rimproverati per il ritardo nell’intervento. Avevano fatto passare troppo tempo e se si fosse trattato di un paziente vero chissà cosa sarebbe potuto succedere. Infine avrebbe concluso con aria paternalistica che non poteva ancora lasciarli soli e gli toccava lavorare ancora per chissà quanti anni, felice di sentirsi indispensabile. Non era così o se lo era nessuno lo seppe mai. Tuttavia realmente con il passare dei minuti Carlo si rasserenava e tornava ad essere quello di sempre.

Chi si incupiva progressivamente era piuttosto Ornella che aveva messo in relazione, come avrebbero fatto malignamente gli altri colleghi rimasti al CIM in attesa di notizie pronti ad un intervento muscolare se si fosse reso necessario, il rifiorire di Carlo con il ritorno di Luisa. Il calore affettuoso che lo circondava sciolse il delirio come neve al sole d’agosto. Carlo ripercorse in senso inverso in meno di un’ora la costruzione del delirio di indegnità e di colpa che lo aveva impegnato negli ultimi mesi. Di fronte alle attestazioni di stima e soprattutto di affetto dei colleghi i fantasmi dei pazienti suicidi si dissolsero e le paure paranoiche di un arresto con conflitto a fuoco lo fecero sorridere.

Effettivamente era proprio impazzito e loro stavano lì a certificarlo. Meno male. Non era gradevole scoprirsi pazzo e giurò che si sarebbe fatto curare ma, in compenso, era meraviglioso che tutte quelle cose non fossero vere. Almeno non del tutto, suggerì una vocina residua. Convenne con gli altri che gli serviva un momento di stacco da dedicarsi per capire cosa diavolo gli fosse successo e perchè. Carlotta non ricordava quasi più chi fosse, non poteva essere stato a causa sua tutto questo casino. Mentre preparava la valigia con il minimo indispensabile per l’igiene e qualche libro da studiare sempre in arretrato pensò che era contento che a guidarlo in questa scoperta delle parti più fragili e imputridite di sé fosse quella brava persona di Luigi Cortesi, uomo di poche teorie e tanta amorevole curiosità. Volle andare con la sua auto che tanto aveva il permesso di parcheggio all’interno dell’ ospedale. Al CIM rinfoderarono i muscoli e abbassarono il livello di allarme.

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CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

Il piacere e la ricompensa nel prurito cronico – Psiche e Dermatologia

FLASH NEWS

L’atto di grattarsi elicita una sensazione piacevole e gratificante al punto che può configurarsi come una vera e propria addiction nei pazienti affetti da eczemi atopici, psoriasi e altre dermatiti croniche. 

In tali quadri diagnostici il comportamento del grattarsi alcune parti corporee è la risposta al sintomo del prurito cronico. Il prurito cronico risulta essere molto diffuso nella popolazione, può riguardare specifiche parti del corpo (ad esempio le mani, le giunture) oppure l’intero corpo, e si associa spesso a diagnosi dermatologiche.

Il grattarsi può configurarsi come disfunzionale nel momento in cui, seppur piacevole e di sollievo nel breve termine, a medio-lungo termine porta ad un’intensificazione della sensazione di prurito, del dolore e a danni permanenti a carico della pelle.

Alcuni ricercatori hanno studiato quali sono i correlati neurali del comportamento cronico di sfregarsi la pelle. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale è stato dimostrato che le aree cerebrali relative alla ricompensa, al piacere, alla motivazione ad agire e al controllo motorio erano significativamente più attive durante l’atto del grattarsi nel gruppo di pazienti con prurito cronico rispetto a un gruppo di soggetti dermatologicamente sani.

L’iperattività di queste zone del cervello legate al piacere e alla ricompensa è dunque un’evidenza neuropsicologica che concorre a spiegare il mantenimento del circolo vizioso che include il comportamento patologico di grattarsi cronicamente la pelle.

 

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Ecco perché grattarsi aumenta il prurito – Neuropsicologia

BIBLIOGRAFIA:

Il Seminatore – Tracce del Tradimento Nr. 16

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XVI: Il Seminatore

Cosa pensa il seminatore? Proprio i pensieri che stanno alla base di questo comportamento disattento e che causano la semina delle tracce sono l’oggetto della nostra riflessione.

Colui che lascia le tracce del tradimento sarà chiamato d’ora in avanti per brevità il seminatore. Inoltre, per evitare lunghi giri di parole e in ossequio ad una tradizione antica, chiameremo convenzionalmente coniuge il partner che viene tradito e amante il partner che subentra e con cui viene consumato il tradimento.

Detto questo, cosa intendiamo per lasciare le tracce? Non si deve con ciò intendere che il seminatore consapevolmente e volontariamente lasci prove più o meno evidenti del suo tradimento; non è un comportamento intenzionale e consapevole. Quello che si verifica è che il seminatore non pone sufficiente interesse e attenzione a nascondere con la massima certezza possibile indizi del tradimento in quanto pensa che… Cosa pensa il seminatore?

Proprio i pensieri che stanno alla base di questo comportamento disattento e che causano la semina delle tracce sono l’oggetto della nostra riflessione. Perché non è attento, perché non si preoccupa di eliminare ogni prova? Le tracce possono essere le più varie; ogni seminatore ha le sue preferenze, un’area dove dà il meglio di sé, anche se una semina efficace finisce per riguardare diversi aspetti: a volte è la somma degli indizi che finisce per acquistare la consistenza di prova.

Alcune tracce sono tuttavia un classico e meritano una sommaria descrizione. La riduzione delle attenzioni verso il proprio partner ufficiale è spesso l’innesco del processo di ricerca delle tracce del tradimento da parte della vittima: compleanni dimenticati, regali una volta sontuosi che diventano pensierini perché è quello che conta, anniversari che perdono di importanza, abbigliamenti casalinghi che diventano sempre più approssimativi e trasandati, telefonate quotidiane che diminuiscono, distrazione, disinteresse ad ascoltare i problemi dell’altro, persino insofferenza per quelle sue goffaggini che un tempo erano definite adorabili difetti ed ora suscitano evidente irritazione.

Al contrario talvolta il sospetto si innesca per motivi esattamente opposti: nascono attenzioni e gentilezze inconsuete e inaspettate, spuntano mazzi di fiori senza precedenti e dichiarazioni di amore improbabili che fanno chiedere alla vittima c’è qualcosa di strano, cosa avrà da farsi perdonare? La vita sessuale presenta analoghe oscillazioni, avviene un cambiamento inaspettato: o aumenta o diminuisce. In genere se la storia segreta ha una connotazione prevalentemente sessuale anche la vita sessuale della coppia originaria aumenta: sesso chiama sesso e così dopo anni una folata di passione investe la coppia. Al contrario se la storia parallela si configura come un innamoramento la sessualità si affievolisce, l’innamoramento è esclusivo e non consente investimenti esterni.

Giuseppe iniziò a sospettare che la moglie Livia avesse una relazione affettiva a motivo di due fenomeni che avvennero in un tempo piuttosto breve e che dunque non potevano ricondursi alla quotidianità della convivenza che rende naturale anche ciò che prima era straordinario e scontato ciò che un tempo era l’oggetto supremo del desiderio. Livia era disattenta nella vita di tutti i giorni, non solo nei confronti del marito non mostrava quelle attenzioni e quelle piccole delicatezze che la caratterizzavano, ma anche verso i figli piccoli sembrava distratta; si preoccupava meno dei loro vestiti, si irritava se le chiedevano un sostegno per i compiti, era divenuta intollerante ai loro capricci; i compiti familiari sembravano diventati un peso molto gravoso.

Tuttavia Giuseppe si spiegò in un primo momento questo mutato atteggiamento con l’aumento delle responsabilità di Livia sul suo lavoro e dunque non si allarmò più di tanto. Ciò che davvero lo preoccupò e lo spinse a ricercare altre tracce, puntualmente trovate, fu la contemporanea comparsa di attenzioni straordinarie, inconsuete e in qualche modo incongrue in cui Livia sembrava voler sottolineare il suo interesse per Giuseppe e l’importanza di averlo come amante e marito. Se le attenzioni quotidiane diminuivano, i regali di rito diventavano sempre più imponenti; se la vicinanza veniva sottilmente evitata ogni tanto venivano organizzate situazioni speciali come weekend senza figli destinati a diventare palestre sessuali; mai Livia aveva parlato così bene di lui con gli altri e mai egli l’aveva sentita così distante.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

‘Ma che colpa abbiamo noi’: le nostre scelte musicali? Nel bene o nel male, merito dei nostri genitori

La musica considerata più nostalgica sembra quella ascoltata negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in quanto evocatrice di ricordi autobiografici: gli autori hanno chiamato questo picco di nostalgia Reminescence Bump. Ma c’è di più…

Vi è mai capitato di ritrovare, a distanza di anni, una vostra vecchia audiocassetta e di provare ad ascoltarla? Quasi sicuramente vi sarà scesa una lacrima dovuta non tanto alla consapevolezza di non avere più 13 anni, quanto alla vergogna provata per il tipo di musica che ascoltavate quando eravate pre-adolescenti! Eppure le corde vocali partono in automatico e vi ritrovate, quasi fosse un duetto con il vostro cantante preferito d’allora, a cantare a squarciagola il ritornello (giurando a voi stessi che nessuno saprà mai quel che sta accadendo). Stessa cosa succede ai matrimoni: tutti timorosi e imbarazzati, fin dalle prime note, all’idea di dover ballare eppure, nel momento in cui il dj mette I will survive, non resistete ad alzarvi dalla sedia e a scatenarvi con gli sposi in pista!

Gli psicologi hanno studiato i meccanismi di questa nostalgia musicale e hanno fatto delle interessanti scoperte. In uno studio del 2013 sono stati reclutati 62 soggetti, età media 20 anni, e sono stati fatti loro ascoltare pezzi delle hit musicali di ogni anno, dal 1955 al 2009. E’ stato poi chiesto quale canzone avesse suscitato loro una maggiore sensazione di nostalgia.

Ovviamente la musica considerata più nostalgica era quella ascoltata negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in quanto evocatrice di ricordi autobiografici: gli autori hanno chiamato questo picco di nostalgia Reminescence Bump.

Ma non è tutto: la scoperta più sorprendente è che altri picchi di Reminescence Bump si sono registrati per le canzoni degli anni 60 e dei primi anni 80, prima ancora della nascita dei soggetti. I ricercatori spiegano questo fenomeno, indicato col nome Cascading Reminiscence Bumps, alla luce di una trasmissione transgenerazionale: le canzoni che hanno segnato la giovinezza dei nostri genitori e, forse, anche dei nostri nonni possono avere per noi lo stesso impatto nostalgico delle canzoni ascoltate durante la nostra adolescenza. In fin dei conti siamo cresciuti con dei genitori che ascoltavano o canticchiavano davanti a noi alcuni ritornelli, anche quelli possono dirsi dei piacevoli ricordi.

I genitori, mentre allevavano noi fanciulli, hanno dunque contribuito alla nostra formazione musicale? Qual è invece la spiegazione del picco degli anni 60? Si è propensi a credere che, nella trasmissione delle preferenze musicali, vi sia anche una influenza nonni-genitori-figli. Tuttavia, non avendo in realtà studiato l’effettiva influenza dei nonni in questa trasmissione, i ricercatori hanno avanzato anche un’altra spiegazione: la musica degli anni 60 è stata sempre considerata di qualità superiore e, quindi, i brani di quel periodo sono rimasti nel repertorio popolare guadagnandosi lo status di evergreen o classic rock e dunque una maggiore diffusione via radio.

E così, proprio come la nostalgia porta a una maggiore nostalgia, allo stesso modo la popolarità porta ad ulteriore popolarità: siamo condannatti a ballare I will survive anche ai matrimoni dei nostri nipoti?

Per saperne di più sull’argomento, vi rimando alla lettura dell’articolo consigliato…capirete che, se i vostri amici criticano tanto la musica che ascoltate, è solo colpa dei vostri genitori! Nel frattempo però pensate anche alla vostra canzone preferita, siete proprio sicuri di volerla cantare davanti ai vostri figli?

 

“… Baby, One More Time” is not a good song. You could make a convincing argument, in fact, that it is an actively terrible song: devoid of musical merit, underdeveloped, overproduced, eroding our collective IQs one oh, baby, baby at a time—a notable roadblock, basically, on humanity’s long march toward the hazy destination of Progress. And yet: I love “… Baby, One More Time”

I nostri gusti musicali? Nel bene o nel male, merito dei nostri genitoriConsigliato dalla Redazione

'Ma che colpa abbiamo noi' le nostre scelte musicali? Nel bene o nel male, merito dei nostri genitori - Immagine: 84432422
Le canzoni che hanno segnato la giovinezza dei nostri genitori e, forse, anche dei nostri nonni possono avere per noi lo stesso impatto nostalgico delle canzoni ascoltate durante la nostra adolescenza. (…)

Tratto da: The Atlantic

 

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Violenza psicologica sul luogo del lavoro: il triste fenomeno del mobbing e le sue conseguenze

Una lunga serie di studi e ricerche hanno messo in luce che la condizione che viene a crearsi sul luogo di lavoro non sempre è idilliaca, questo perché sono parecchi i fattori che contribuiscono a generare stress e tensioni lavorative. Quando le relazioni tra colleghi sono caratterizzate da frequenti contrasti, e hanno lo scopo di ledere la dignità di un soggetto, si parla di Mobbing.

Il lavoro e le sue relative mansioni professionali stimolano e concorrono a creare l’identità personale e sociale dell’individuo; così come i rapporti interpersonali che vengono a crearsi nell’ambiente professionale e tra colleghi concorrono a sviluppare la cosiddetta soddisfazione al lavoro.

Però una lunga serie di studi e ricerche hanno messo in luce che la condizione che viene a crearsi sul luogo di lavoro non sempre è idilliaca, questo perché sono parecchi i fattori che contribuiscono a generare stress e tensioni lavorative.

Quando le relazioni tra colleghi sono caratterizzate da frequenti contrasti, e hanno lo scopo di ledere la dignità di un soggetto, si parla di Mobbing. Il vocabolo deriva dal termine inglese To Mob che vuol dire Attaccare, e sta ad indicare un fenomeno che riguarda i rapporti interpersonali sul luogo del lavoro, dove una o più persone vengono fatte oggetto di violenza psicologica con intento persecutorio e lesivo, sistematicamente e con una certa ripetitività nel tempo.

Una definizione condivisa in letteratura di questo fenomeno è questa: Forma di terrore psicologico sul luogo del lavoro esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte di colleghi e/o superiori (Ege, 1996).

Si tratta quindi di un’azione, o una serie di azioni, che si ripetono nel tempo da parte di uno o più prevaricatori al fine di danneggiare qualcuno in modo sistematico e con uno scopo ben preciso. La vittima viene aggredita intenzionalmente con strategie che hanno come fine la sua alienazione psicologica, sociale e professionale. Spesso infatti ne consegue un diradamento dei rapporti sociali della vittima, la quale si relega nell’isolamento e nell’emarginazione.

Secondo un sondaggio condotto nei Paesi d’Europa, l’8% dei lavoratori della Comunità dichiara di essere stato vittima di mobbing sul posto di lavoro (Monaco e all, 2004); si tratta di circa 12 milioni di persone.

Sono numerose le cause per cui si scatena questo triste fenomeno, ma possono essere raggruppate in due insiemi:

  • Ragioni strategiche, dove chi esercita il mobbing prevarica l’altro al fine di averne un suo tornaconto;
  • Ragioni emozionali, dove vi sono conflitti tra personalità, e il prevaricatore può in questi casi contare sull’omertà di alcuni colleghi suoi alleati per danneggiare l’altro.

L’azione prevaricatoria ha solitamente il seguente obiettivo: perseguitare la vittima affinché essa sia indotta a lasciare il lavoro di sua iniziativa.

Vi sono varie tipologie di mobbing:

  • Mobbing Orizzontale: se messo in atto da colleghi che hanno il medesimo livello professionale della vittima.
  • Mobbing Verticale: se attuato da un superiore verso una vittima sua dipendente.
  • Mobbing dal Basso: quando viene messa in discussione l’autorità del superiore da parte di un certo numero di dipendenti.
  • Mobbing Collettivo: se le prepotenze vengono esercitate su un gruppo di lavoratori.
  • Mobbing Sessuale: molestie sessuali senza un necessario contatto fisico, ma con insinuazioni o battutine sgradevoli.

Vi è un’ampia varietà di azioni mobbizzanti, tra le più frequenti vi è l’isolare il lavoratore bloccando i mezzi di comunicazione a sua disposizione o estromettendolo da decisioni e isolandolo da conversazioni; screditarlo umiliandolo e attaccando le sue convinzioni; ridurre la sua autostima affidandogli incarichi poco gratificanti; compromettere il suo stato di salute negandoli giorni di ferie o di malattia.

Anche un comportamento lecito da parte del datore di lavoro verso un dipendente (lettere di richiamo, controllo dell’operato) può divenire mobbing se nasconde in sé un intento persecutorio.

Si tratta di un fenomeno insopportabile per chi lo subisce, non solo perché causa un inevitabile senso di rifiuto nei confronti dell’ambiente lavorativo, ma soprattutto perché porta con sé delle conseguenze non trascurabili, sia sul lavoratore sia sull’azienda – luogo lavorativo.

Per quanto riguarda le conseguenze sul lavoratore viene a determinarsi una riduzione dello stato di benessere complessivo della persona.

Questi gli effetti negativi più frequenti che si verificano nelle vittime di mobbing messe in luce dalle varie ricerche (Ege, 2001):

  • Alterazione del tono dell’umore: depressione, isolamento, calo dell’autostima.
  • Alterazione dell’equilibrio psicofisiologico: disturbi del sonno, calo della memoria e della concentrazione.
  • Disturbi d’Ansia: Disturbo d’Ansia Generalizzato, Disturbo Post Traumatica da Stress, Fobie, Disturbo da Attacco di Panico.
  • Disturbi del Comportamento: Cattiva alimentazione, alcolismo, tabagismo.
  • Burnout: Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, con caratteristiche ben precise, quali esaurimento emotivo, depersonalizzazione e mancata realizzazione personale.

Non è da trascurare che il mobbing determina una serie di conseguenze negative anche a livello organizzativo e aziendale, in quanto può cagionare maggiore assenteismo, minore efficacia e produttività per tutti i lavoratori che vivono l’ambiente e che inevitabilmente risentono del clima psicosociale negativo presente.

Dati ISPESL mettono in luce che il fenomeno è purtroppo in crescita, e affrontarlo non è semplice (Monaco e all, 2004).

La legislazione presente in merito è abbastanza scarsa e ambigua, inoltre, non trattandosi di un problema medico, bensì di comunicazione all’interno dell’ambiente lavorativo, non ci sono cure o farmaci volti a risolvere il problema del mobbing, ma al massimo utili a curare gli effetti conseguenti (ansia, insonnia, depressione).

Al fine di debellare questa cattiva condotta che sovente si manifesta sul lavoro sarebbe opportuno mettere in atto adeguate strategie preventive, con il principale scopo di instaurare una cultura aziendale caratterizzata da una linea di condotta dei dirigenti e dei dipendenti basata sul rispetto reciproco e sull’interesse collettivo.

Ciò sarà indispensabile al fine di annientare la comparsa di qualsiasi comportamento vessatorio e aggressivo e per garantire il successo economico dell’ambiente lavorativo nel suo complesso.

 

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Analisi di un caso di mobbing: la storia di Marco – Psicologia del Lavoro

 

BIBLIOGRAFIA:

Video: parlare d’amore, le parole che salvano l’amore – di Alain de Botton

Il broncio di solito comincia con una delusione e si concretizza in un profondo rifiuto di spiegare il motivo della delusione, un disperato bisogno di essere capiti e un persistente impegno a non spiegare se stessi.

All’interno delle relazioni uno dei comportamenti più tragicomici è il broncio. Ma che cos’è un broncio?

Il broncio di solito comincia con una delusione e si concretizza in un profondo rifiuto di spiegare il motivo della delusione, un disperato bisogno di essere capiti e un persistente impegno a non spiegare se stessi.

Spiegare se stessi è il problema centrale: se il partner richiede una spiegazione, allora questa è la prova che non è degno di averne alcuna.

Questo porta allo strano privilegio di ricevere il broncio: si mette il broncio alle persone che si ritiene dovrebbero capire. È uno dei regali d’amore più strani.

Ciò che ne consegue è una vera e propria guerra fredda. Perchè non diciamo al partner cosa ci turba? A causa di un assunto: l’amore significa non dover dire tutto per filo e per segnò, ma il regalo più grande che possiamo fare alla persona che amiamo è dare spiegazioni.

Il broncio può essere superato quando siamo in grado di sorridere di questa folle ambizione e bussare alla porta chiedendo se gentilmente è possibile entrare per una parola.

Scopri di più visitando il Book of life. Di seguito il video ideato da Alain de Botton, fondatore della The school of Life.

 

Per visionare il video con i sottotitoli in Italiano clicca qui.

 

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Riconoscere la menzogna: in gruppo è più facile!

FLASH NEWS

Scovare le menzogne non è semplice: in letteratura è appurato che le percentuali di accuratezza nel riconoscimento della menzogna sono solo lievemente superiori alla percentuale del caso. Tuttavia riconoscere la menzogna in gruppo può facilitare la vita.

Uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) ha dimostrato che i gruppi sarebbero più competenti rispetto al singolo individuo nell’identificare e riconoscere la menzogna. E la cosa più interessante è che il fattore che spiegherebbe questo vantaggio comunitario sta proprio nella discussione di gruppo.

In due esperimenti a partire dalla visione di videoregistrazioni i soggetti dovevano cercare di riconoscere frasi menzognere sia individualmente che in gruppi di tre persone: i gruppi risultarono significativamente più accurati nello scovare le menzogne rispetto a individui singoli.

Un terzo studio ha confermato lo stesso trend di risultati nel caso di menzogne ad altro rischio: è dimostrato, dunque, che i gruppi sarebbero più competenti sia nella rilevazione delle bugie bianche “innocenti” che di bugie più complesse e ad alto rischio per il mentitore.

Infine il quarto esperimento ha analizzato le ragioni sottostanti a questa maggiore competenza dimostrata dai gruppi: sarebbe proprio la discussione di gruppo a elicitare lo sviluppo di riflessioni e osservazioni più articolate per arrivare ad un assessment più accurato della menzogna e della verità.

 

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Le relazioni di attaccamento tra bambino e caregiver – Introduzione alla Psicologia nr. 21

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Gli studi svolti da Bowlby sottolineano come il legame iniziale che si instaura tra bambino la madre deriva da un bisogno congenito di entrare in contatto con i suoi simili.

Cosa si intende per attaccamento? Il comportamento di attaccamento è quel comportamento che il bambino attua nei confronti di una persona che ritiene significativa perché considerata adeguata nel riuscire ad affrontare il mondo.

L’attaccamento si manifesta soprattutto nel momento in cui il bambino si mostra evidentemente spaventato, malato, stanco e attua una strategia per riuscire a ricevere cura da parte della madre. Lo scopo del sistema di attaccamento è garantire la vicinanza fisica e emotiva da parte della figura di attaccamento. Il compito dell’adulto di riferimento è diventare una base sicura per il bambino, permettendogli in questo modo di esplorare e poi tornare alla base sicura dove, dopo essere stato accolto, è certo di ricevere anche nutrimento, rassicurazione e amore.

Il ruolo svolto dalla madre o dal padre è di essere disponibili e responsivi se è richiesta la loro attenzione. Di conseguenza il bambino percepirà di essere parte di un tutto, la famiglia, anche quando è in difficoltà o si trova ad affrontare un problema. In questo modo si crea un circolo vizioso in cui il bambino aumenterà la sua autostima e la capacità di gestione delle situazioni e delle emozioni.

Nel caso in cui le cose non andassero esattamente in questo modo durante i primi scambi relazionali, il bambino tenderà a difendersi, anche se in modo disfunzionale e non adattivo per la sua crescita e il suo benessere futuro. La mancanza di disponibilità da parte dell’adulto di riferimento determinerà nel bambino una predisposizione alla paura di poter perdere, prima o poi, l’altro.

La percezione di essere sicuro o insicuro nella relazione con l’altro significativo sarà la base che porterà alla formazione della sensazione di autorealizzazione e alla formazione una buona o scarsa autostima. Infatti, l’essere in grado di affrontare gli eventi critici o il cambiamento dipende proprio da come il bambino percepisce se stesso e le sue capacità.

La sicurezza interiore e il senso di autostima partono dell’integrazione di due bisogni: il bisogno di autorealizzazione, essere se stessi, e il bisogno di appartenere, sentirsi parte di un tutto. Diventare autonomi riuscendo anche ad allontanarsi dalla famiglia dipende chiaramente dal senso di fiducia in se stessi sviluppato nei primi anni di vita. Tutto questo processo è facilitato se si è avuta la fortuna di avere una madre responsiva e non invasiva o invischiante.

Sono stati individuati quattro stili di attaccamento:

  • Sicuro,
  • Insicuro evitante,
  • Insicuro ambivalente,
  • Insicuro disorganizzato.

Nell’attaccamento sicuro, una madre accessibile emotivamente e comportamentalmente porta il bambino a esplorare senza problemi. Coloro che mostrano un attaccamento sicuro sono fiduciosi nelle proprie idee e nelle proprie capacità.

I bambini con attaccamento insicuro-evitante hanno avuto difficoltà ad accedere alla figura di attaccamento così tante volte da aver deciso di poterne fare progressivamente a meno. Le persone con questo tipo di attaccamento si comportano come se gli altri non esistessero. Lo stile cognitivo è quello dell’immunizzazione: minimizzano e svaluto per annullare gli effetti dell’invalidazione.

I bambini con attaccamento insicuro-ambivalente, sono vittime dell’imprevedibilità della figura di attaccamento. Per questo, spaventati, cercano una vicinanza strettissima, fino a rinunciare a qualsiasi tipo di esplorazione autonoma. Lo stile cognitivo corrispondente è quello dell’evitamento: queste persone vogliono evitare le invalidazioni per evitare di soffrire.

L’attaccamento disorganizzato-disorientato si manifesta quando la figura di attaccamento è minacciosa. Il bambino individua dallo sguardo o dai comportamenti segnali di pericolo che lo mettono in uno stato di allerta. Lo stile cognitivo è quello dell’ostilità: reagisce creando una realtà fallimentare basta sull’ignorare e sul sopraffare l’altro.

I bambini con attaccamento sicuro affrontano il mondo in maniera adattiva, mentre quelli con attaccamento insicuro mostrano disagi nella tarda infanzia, che si trasformeranno in una eccessiva dipendenza, in una minore competenza sociale e scarsa capacità di credere in se stessi.

In generale, un attaccamento sicuro predispone a creare in futuro relazioni stabili e gratificanti. Al contrario, un attaccamento insicuro interferisce con il sano sviluppo psichico e predispone alla patologia, come difficoltà nella gestione emotiva, problemi del comportamento, abusi di sostanze.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Un’analisi critica dei modelli biomedici per i disturbi psicologici

In questo appassionante articolo del 2013 (pubblicato nella Clinical Psychology Review), Brett J. Deacon spiega, partendo da una attenta analisi critica del vigente modello biomedico, perché le cause di molti disturbi psichici non sono unicamente ascrivibili a fattori di ordine biomedico.

 

Da parecchi decenni molti scienziati sostengono che le cause della psicopatologia dipendono da disregolazioni neurotrasmettitoriali, da anomalie genetiche e da deficit nel funzionamento e nella struttura cerebrale. Tuttavia, ad oggi, nessuno ha identificato una sola causa biologica, né un solo biomarker, responsabile di uno specifico disturbo psichico. Mentre si sostiene che i farmaci psicotropi abbiano un ruolo nel correggere lo sbilanciamento chimico, causa della psicopatologia, in realtà gli psicofarmaci non hanno dimostrato avere nessuna effettiva influenza curativa superiore a quanto già rilevato oltre mezzo secolo fa.

In compenso, invece, la patologia mentale è divenuta più cronica e più grave rispetto al passato, coinvolgendo un numero sempre crescente di individui. In parallelo è spaventosamente aumentata la stigmatizzazione verso chi soffre di tali disturbi.

In sostanza, il modello biomedico (approccio predominante negli Stati Uniti e nelle culture occidentalizzate) assume che disturbi come la schizofrenia, il disturbo depressivo maggiore, il disturbo di attenzione e di iperattività (ADHD) e l’abuso di sostanze siano condizioni causate da deficit del cervello. Questo significa che 1) i disordini mentali sono causati da anomalie biologiche che hanno la loro sede nel cervello, 2) non esiste una netta e chiara distinzione tra disturbi fisici e mentali e 3) che il trattamento biologico rappresenta l’unica cura possibile. L’obiettivo principale della ricerca biomedica è studiare le cause biologiche dei disturbi psichici, nel tentativo di scoprire la pillola magica per ciascun disturbo psichico, negando completamente l’influenza di altri possibili fattori eziologici, quali i fattori sociali, psicologici e comportamentali.

La stessa Associazione Psichiatrica Americana (APA), nel 2003, ha affermato che le cause di qualsiasi disordine mentale sono esclusivamente riconducibili ai fattori biologici.

Nella storia della cura della psicopatologia, le prime tecniche utilizzate negli anni ’30 (i.e., la terapia elettroconvulsiva, la lobotomia e la terapia di insulina) hanno incoraggiato la credenza che i disturbi psichici si potessero curare con le sole terapie biologiche. In seguito, la rivoluzione “biochimica” degli anni ’50 ha permesso di scoprire che alcune componenti chimiche erano in grado di limitare la gravità di alcune manifestazioni cliniche (anche in conseguenza a patologie organiche, come la neuro sifilide), riducendo sintomi psicotici, depressivi, maniacali, ansiosi e legati all’iperattività. Man mano, con l’avvento della psicoanalisi, sono state mosse forti critiche alla teoria dello squilibrio chimico, sia da parte della stessa psichiatria che dai freudiani, che rifiutavano con convinzione questo approccio come unica cura della patologia mentale. Nel 1980, l’uscita del DSM III rappresentò un influente traguardo scientifico che favoriva la comunicazione tra clinici di diversi paesi. Tuttavia, nonostante tutte le incertezze e le controversie in corso, il DSM si era nettamente schierato a favore del modello biomedico. Da quello stesso anno, guarda caso, le case farmaceutiche ricevettero l’autorizzazione di sponsorizzare gli interventi scientifici alle conferenze annuali dell’APA. Nel giro di un paio di anni la collaborazione tra case farmaceutiche e APA si intensificò notevolmente ed ebbe inizio una vera e propria collaborazione, che si estendeva anche alla formazione e all’aggiornamento medico.

In parallelo, il National Institute of Mental Health (NIMH) ed altre organizzazioni, iniziarono a devolvere fondi di ricerca ad enti e università che indagavano le basi scientifiche dei modelli biomedici applicati alla psichiatria, con il dichiarato benestare della National Alliance on Mental Illness (NAMI). I modelli biomedici si erano proposti anche la funzione di ridurre lo stigma verso la patologia mentale, basata, secondo loro, non su fattori socio-ambientali, ma unicamente su disfunzioni organiche.

Ad esempio, la terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) promossa dal NIMH nel 2009 si basava unicamente sulla farmacoterapia. I “consumatori” che soffrivano di DOC sono stati incoraggiati a farsi prescrivere antidepressivi, ansiolitici o beta-bloccanti, dai loro medici di base (anche senza una accurata valutazione psicodiagnostica), poiché le numerose evidenze scientifiche a favore della terapia basata sull’esposizione e prevenzione della risposta (ERP) erano state completamente trascurate dal NIMH. È importante ricordare che negli USA, così come in Nuova Zelanda, le case farmaceutiche possono pubblicizzare direttamente ai consumatori i propri farmaci. Questo significa che gran parte degli investimenti economici sono orientati in questa direzione e all’educazione dei pazienti sui loro disturbi, sulle loro presunte cause biologiche e quindi sulla loro cura, a carattere unicamente biochimico.

In uno studio del 2005, Kravitz e collaboratori hanno rilevato che il 50% dei pazienti che si erano rivolti al medico per problemi di depressione, assieme alla richiesta di aiuto, e indipendentemente dalla correttezza della diagnosi, indicava già il nome esatto del farmaco per cui desiderava la prescrizione! Nonostante questo dato tristemente noto negli USA, la Food & Drug Administration (FDA), non è intervenuta ed è rimasta in silenzio! Ricordiamo che, oggi, gli antidepressivi rappresentano la terza categoria di farmaci più prescritta negli USA ed è la prima tra gli adulti tra 18 e 44 anni. Diversi clinici rilevano che circa la metà dei farmaci psicotropi viene prescritta ad individui che non hanno una diagnosi psichiatrica certa e si teme che, con il DSM5, e l’aumento delle etichette diagnostiche, questo dato possa ulteriormente aumentare.

In seguito alla “rivoluzione” biomedica, negli ultimi decenni, sono stati investiti miliardi di dollari nella ricerca nell’ambito delle neuroscienze e della genetica; ma se si fossero ottenuti dei risultati significativi, questi dati non si sarebbero già dovuti trovare all’interno dell’ultimissimo DSM5? Al contrario, i neuroscienziati, ancora, non hanno nemmeno ben compreso come definire propriamente un “circuito cerebrale”, né come tradurre l’attività o le immagini mentali (derivate dalle metodiche di neuroimmagini) nei termini di “cosa effettivamente accade nel cervello”. Una semplice “cartografia” cerebrale, che eventualmente spiega “dove” certi processi mentali hanno luogo, non è sufficiente per “spiegare” i processi che sottendono al funzionamento psichico (Castelfranchi, 2015).

Infine, altro problema irrisolto, quello della stigmatizzazione. Il tentativo di eguagliare la condizione psichiatrica a un problema organico, in modo da ridurre le discriminazioni ed evitare colpevolizzazioni, nella realtà, ha potenziato l’interpretazione di tipo biomedico e ha accresciuto i comportamenti di isolamento e rifiuto verso chi soffre di patologie mentali. Il problema della stigmatizzazione è complesso e coinvolge più aspetti, mentre il riduzionismo organicista, invece, contribuisce all’aumento della cronicità e all’irreversibilità dei problemi psichici. Di fatti, gli USA hanno una delle più alte prevalenze di malattie psichiatriche, che si sono ulteriormente cronicizzate e intensificate nelle ultime decadi. Ad esempio, la depressione maggiore è sempre più cronica e resistente al trattamento, sebbene, dalla fine degli anni ’80, la somministrazione dei nuovi farmaci antidepressivi sia aumentata del 400%! Si teme, persino, che l’uso prolungato di questi farmaci aumenti il deterioramento mentale, anziché contenerlo. La stessa cosa è accaduta per altre tipologie di psicofarmaci. Se in ambito infantile, ad esempio, il numero di problemi non-psichiatrici si è drasticamente ridotto (come per il cancro o la Sindrome di Down), i disturbi mentali, oggi, rappresentano la prima causa di disabilità in età evolutiva. Vista la scarsa efficacia dei dati relativi a questo approccio sarebbe imperativo chiedersi: “Quanto, ancora, dobbiamo aspettare per mettere definitivamente a nudo i suoi limiti e le sue inconcludenze?”.

All’interno del panorama psichiatrico, all’ombra del modello biomedico, si è sviluppata la psicologia clinica, con le sue teorie e le sue modalità di intervento e di cura. I trial clinici randomizzati (RCT) rappresentano il metodo di ricerca utilizzato per valutare l’efficacia degli interventi psicoterapici e farmacologici. Per essere riconosciuti “efficaci” dal NIMH, gli RCT devono provare l’efficacia di un certo trattamento standardizzato e manualizzato, assegnando in modo casuale i pazienti ad un trattamento o ad una condizione di controllo e basando la selezione dei partecipanti sui rigidi criteri diagnostici del DSM.

Nell’ambito dell’intervento psicoterapico, gli RCT hanno dimostrato ampiamente l’efficacia, anche considerando i costi, di molti disturbi psichici (i.e., depressione, disturbi alimentari, disturbi d’ansia, ADHD, disturbo borderline di personalità, etc.). Alcuni limiti nel testare l’efficacia degli interventi psicoterapeutici riguardano l’estendibilità dei dati osservati al mondo reale, l’utilizzo di manuali standardizzati e un numero definito di sedute. Ovviamente, questo rigore taglia fuori dalla ricerca una serie di psicopatologie più articolate e, cosa osservata di frequente, coloro i quali soffrono di disturbi sub-clinici che, pur essendo fonte di sofferenza, non soddisfano completamente i criteri del DSM. Nella maggior parte dei casi gli RCT hanno indagato l’efficacia di trattamenti specifici, come, ad esempio, gli effetti dell’esposizione in vivo a stimoli fobici, dell’esposizione tramite immaginazione ad episodi traumatici e di interventi per i pensieri ossessivi.

Molte di queste tecniche derivano da approcci terapeutici più complessi che non sono facilmente operazionalizzabili all’interno di un trial clinico rigorosamente controllato. Nella pratica clinica, inoltre, è abbastanza frequente incontrare pazienti che presentano più di un singolo disturbo psichico. Spesso è possibile osservare delle comorbilità e una sovrapposizione sintomatologica condivisa con più disturbi.

Ad esempio, il disturbo da attacchi di panico, la fobia specifica, il disturbo post-traumatico da stress, il disturbo d’ansia generalizzato e il DOC sono tutti accomunati dalla presenza di convinzioni patogene, da distorsioni nell’elaborazione di informazioni e da comportamenti “di sicurezza” che mantengono la patologia. In tutti questi casi, l’esposizione e prevenzione della risposta rappresenta l’intervento elettivo (ma non l’unico) nel trattamento. Il clinico che utilizza l’approccio del “singolo-disturbo” per diagnosticare e curare i suoi pazienti rischia di vedere l’albero, ma non la foresta.

Il modello biomedico applicato alla psicopatologia rischia di aumentare ulteriormente il gap tra la pratica Reale e la psicologia sperimentale, quando, invece, sarebbe fondamentale che la psicologia clinica conquistasse individualmente il suo spazio, alla luce, soprattutto, dei costi ridotti e degli outcome efficaci, ad oggi emersi.

Conclusioni

Il paradigma biomedico è stato spinto e sostenuto da interessi economici, politici e ideologici, senza però portare ad un effettivo miglioramento nella diagnosi o nel trattamento della psicopatologia. Ad oggi, considerando i fattori genetici, la disregolazione neurotrasmettitoriale, le esperienze traumatiche o le credenze irrazionali, non è stata identificata neanche una sola causa biologica per uno specifico disturbo.

Per quale motivo allora continuare ad insistere su un solo modello, se, ad oggi, dopo i numerosi investimenti, non si sono ottenuti i risultati sperati?

È ovvio che tutti i fenomeni psicologici abbiano un corrispettivo biologico. Affermare che un disturbo del comportamento alimentare o un disturbo d’ansia abbia una base biologica ha senso, senza che, però, questo implichi che quest’ultima sia la causa della patologia stessa. Le correlazioni cervello->mente e mente->cervello esistono, è evidente, ma non spiegano la loro reciproca relazione. Sino ad oggi, infatti, non sembra che la ricerca sulla psicopatologia abbia aiutato molto a comprendere questa connessione. Un disturbo psichico può essere spiegato, e studiato, a diversi livelli di organizzazione (i.e., molecolare, ambientale, cognitivo, neuronale, etc.) e nessuno di questi è sovraordinato rispetto agli altri, poiché appartengono tutti allo stesso fenomeno.

Al contrario, ciascun livello dovrebbe contribuire alla spiegazione del disturbo in sé e può essere oggetto di studio per diversi motivi. Ad oggi, il modello biomedico non ha considerato né i diversi livelli, né ha contribuito a creare un dibattito costruttivo e aperto con chi si occupa delle altri componenti coinvolte. Negli ultimi decenni i sostenitori del modello biomedico si sono cocciutamente opposti e chiusi a qualsiasi forma di confronto con altri professionisti, ad esempio con chi proponeva un nuovo modello medico, basato sull’approccio bio-psico-sociale di Engel (1977).

Per citarne alcuni. Nel 2003, il gruppo di attivisti MindFreedom è stato screditato e ignorato pubblicamente dall’APA quando era intervenuto per richiedere evidenze scientifiche a favore del modello biomedico. Nel 2005, l’intervento televisivo a Today Show di Tom Cruise, il quale aveva pubblicamente dichiarato che non esistono prove a favore della teoria dello sbilanciamento chimico. E, ancora, nel 2010, dopo la pubblicazione del libro “Anatomy of an Epidemic” di Robert Whitaker il quale, dopo essere stato invitato come speaker a diverse conferenze internazionali, dove aveva sollevato parecchi dubbi relativi all’infondatezza e alle incoerenze del modello biomedico, è stato duramente ripreso e screditato apertamente, senza che poi gli venisse data la possibilità di difendere o di discutere i suoi interventi. Sarebbe auspicabile, invece, utilizzare un approccio multi-disciplinare, in modo da favorire uno scambio e un dialogo collaborativo tra le numerose professionalità interessate alla diagnosi e alla cura dei disordini mentali.

 

Le domande che restano indiscutibilmente aperte, sottolinea Deacon, sono:

1) Com’è possibile considerare i disturbi mentali su base unicamente organica, se i ricercatori non sono stati ancora in grado di identificare almeno un marker biologico (ammesso che riuscirci abbia un ruolo, poi, nel trattamento) utile per la diagnosi o per distinguere un individuo con psicopatologia da uno sano?

2) Come si può considerare la teoria dello squilibrio chimico la causa dei disturbi psichici se gli scienziati non hanno identificato una baseline di come il cervello umano funzioni in condizioni di normalità?

3) Perché psichiatri, medici, biologi e organizzazioni come l’APA, il NIHM o il NAMI hanno continuato a promuovere il modello biomedico della patologia mentale, se ancora non esistono prove chiare a suo sostegno? E qual è il ruolo delle case farmaceutiche?

4) Perché vengono ancora investiti milioni di dollari nella promozione della ricerca biomedica se, ad oggi, dopo diverse decadi, non sono stati identificati farmaci, test biologici o trattamenti efficaci?

5) Se è vero che gli psicofarmaci hanno migliorato il malfunzionamento psicologico e sono ormai ampiamente diffusi, come mai i disturbi psichici sono aumentati? Non ci si dovrebbe, invece, aspettare una riduzione della psicopatologia, vista l’enorme diffusione di terapie su base biochimica?

6) L’attribuzione della patologia mentale a cause mediche non ha ridotto la stigmatizzazione ma, anzi, questa è drasticamente aumentata, contribuendo ad un sempre maggiore isolamento e rifiuto, da parte della popolazione sana, dei pazienti affetti da malattia mentale.

Considerando tutti questi interrogativi, un dibattito leale e aperto sarebbe chiaramente necessario. Fortunatamente, ultimamente il confronto è stato avviato, sia in alcune conferenze internazionali (i.e., International Society for Ethical Pshychology and Psychiatry) che sul sito www.madinamerica.com. Per la prima volta nella sua storia, conseguentemente a queste obiezioni, il DSM5 rischia di essere screditato da parecchie comunità di salute mentale che non possono ignorare quanto proposto, spesso con la forza e evitando confronti e dibattiti, dai sostenitori del modello biomedico. Il dialogo dovrebbe portare alla ricerca di una reale comprensione ed integrazione, basata su tutti i livelli di analisi possibili (dal micro al macro e viceversa), dei disturbi psichici, senza, però, scadere in un compromesso politico, invece di una reale soluzione scientifica. Quest’ultima si dovrebbe basare sulla risoluzione di alcuni punti chiave, tra i quali, il rapporto mente/cervello (per un recente approfondimento, vedi Castelfrachi, 2015) e la comprensione chiara della distinzione tra psicopatologia e neuropatologia (che coinvolge i disturbi della motilità, della sensibilità, dell’equilibrio e del linguaggio).

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BIBLIOGRAFIA:

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