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Alzheimer e suicidio assistito: togliersi la vita prima che sia la malattia a farlo

Tratto dall’articolo del New York Times “The last day of her life

 

La commovente storia di Sandy è stata pubblicata sul NY Times e vi consiglio di leggerla. È terribilmente simile a tantissime altre storie di chi si ritrova a dover fare i conti con una malattia mentale che in maniera inesorabile lo svuoterà lentamente e che vorrebbe andarsene alle proprie condizioni.

[blockquote style=”1″]Quando Sandy Bem scopre di avere l’Alzheimer decide che prima che la malattia le rubi completamente la mente si ucciderà. La domanda è: quando?[/blockquote]

Sandy Bem sta guardando un documentario della HBO, “The Alzheimer’s Project”, quando decide di provare su se stessa un semplice test di memoria proposto dall’esaminatore; il test consiste nell’ascoltare 3 parole, scrivere una frase su un foglio e poi ripetere le 3 parole. “Mela, tavolo, penny”, scandice l’esaminatore. Sandy scrive su un pezzo di carta “Sono nata a Pittsburgh”. Poi prova a ripetere le tre parole: “Mela, tavolo, …” Il vuoto.
Da 2 anni Sandy si è accorta di alcune stranezze cognitive: dimentica i nomi, confonde parole simili…

Un mese dopo le viene diagnosticato un moderato deterioramento cognitivo della memoria, spesso purtroppo anticamera dell’Alzheimer.
Sandy, 65 anni, una mente acuta sempre al lavoro, è terrorizzata. Non vuole diventare un guscio vuoto, incapace di ricordarsi nulla della propria vita; non vuole che la sua mente diventi una lavagna su cui pensieri e riflessioni si cancellano come con un colpo di spugna un attimo dopo. Sandy promette a se stessa che sarà lei a togliersi la vita prima che sia la malattia stessa a portargliela via.

Ma quando sarebbe stato il momento giusto? Sandy non vuole farlo né troppo presto né troppo tardi, bensì quando sarà ancora se stessa. Il dramma di Sandy infatti è che quando l’Alzheimer sarà conclamato, non sarà più in grado di farlo. D’altro canto, togliersi la vita quando ancora si è pienamente coscienti significa trovare il coraggio di compiere un gesto in un momento in cui si è ancora in grado e si ha ancora il tempo per godersi la vita e i propri cari. Sebbene l’Alzheimer abbia un andamento prevedibile, non è possibile sapere quanto tempo durerà ogni singolo stadio della malattia. L’unico desiderio di Sandy Bem è di scegliere quando andarsene, cercando di vivere la vita che le rimane il più intensamente possibile, ma senza procrastinare troppo in là il momento dell’addio con il rischio che poi sia troppo tardi per poterlo fare.

La vita si trasforma in un calvario, scandita da visite mediche, medicine e nuovi trattamenti costosissimi non coperti dall’assicurazione, nel vano tentativo di rallentare l’avanzata dell’Alzheimer. Passano quasi 5 anni e Sandy Bem è cambiata: lei che amava tanto leggere testi complessi ora non riesce più a seguire trame che non siano lineari. I film con flashback la confondono, ora riesce a guardare solo Mary Poppins. Suonare il piano diventa sempre più complicato fino a diventare impossibile, seduta sulla seggiola a fissare stranita i misteriosi tasti bianchi e neri. Un giorno la trovano in cucina: “Ho fame. Cosa faccio quando ho fame?

Il momento è giunto, Sandy lo sa e anche la sua famiglia, ma stabilire una data seduti attorno ad un tavolo è quanto di più straziante si possa fare. Come decidere quando dire addio alla propria mamma? Alla propria moglie?
“Quando ho detto che l’avrei fatto?” domanda Sandy.
“A giugno” Risponde il marito.
“Perché non le hai risposto agosto?!” urla la figlia.
“Quando ho detto che l’avrei fatto?” domanda Sandy, di nuovo.
“A giugno” Risponde il marito.
“…”
“Quando ho detto che l’avrei fatto?”

Due giorni prima della data stabilita amici e parenti si ritrovano a ricordare con Sandy la sua vita. Sandy Bem era una mente: psicologa americana, ricevette numerosi premi per le sue ricerche pionieristiche nel campo dell’androginia e degli studi di genere, tra cui l’American Psychological Association Distinguished Scientific Award per il suo contributo alla psicologia nel 1976, il Distinguished Publication Award dell’ Association of Women in Psychology nel 1977 e lo Young Scholar Award of the American Association of University Women nel 1980. Nel 1995 fu eletta “Eminent Woman in Psychology” dalla Divisione di Psicologia Generale e di Storia della Psicologia dell’APA, ma Sandy non lo ricorda. È una vita di cui lei ormai non ha più memoria, l’Alzheimer l’ha cancellata. “L’ho fatto davvero?” esclama compiaciuta ad ogni evento ricordato dai presenti. “L’ho fatto davvero?”

Sandy ha pianificato tutto per anni. Ha preparato un documento in cui scagiona amici, parenti e medici da eventuali accuse di complicità, un foglio su cui oltre ad apporre la propria firma avrebbe voluto scrivere le proprie riflessioni su quell’ultimo coraggioso, disperato gesto, ma l’Alzheimer si è portato via anche quei pensieri. Si è informata sui vari modi per togliersi la vita, perché negli USA l’eutanasia è legale in pochissimi stati, ma non per i casi di demenza. Sandy ha scelto una morte dolce, si è procurata dei barbiturici da accompagnare con un bicchiere di vino, per accelerarne l’effetto. Ma una volta preparati i 2 bicchieri non ricorda qual è la medicina e qual è il vino. Glielo indica con la morte nel cuore il marito. E così Sandy se ne va, scivolando in un sonno incosciente in cui il respiro rallenta finché alla fine si ferma.

Il dibattito attorno all’eutanasia e al suicidio assistito è argomento complesso e delicato. C’è chi per motivi etici, religiosi e di fede non vi ricorrerebbe mai, e chi invece non esiterebbe un solo istante, proprio come Sandy, la cui commovente storia, che vi consiglio di leggere, è stata pubblicata sul NY Times.

La sua storia è terribilmente simile a tantissime altre storie di chi si ritrova a dover fare i conti con una malattia mentale che in maniera inesorabile lo svuoterà lentamente e che vuole andarsene alle proprie condizioni.

Spesso le motivazioni che giocano un ruolo importante nella scelta di porre fine alla propria vita nei pazienti affetti da demenza riguardano le scarse prospettive di miglioramento, il prolungamento di una vita senza senso, la scarsa qualità di vita e la prevenzione di future sofferenze. Ma la capacità di decision making raramente è conservata nei pazienti con demenza in stadio avanzato; pertanto il momento in cui realizzare la volontà di morire spetterebbe ai familiari o ai medici (Chambaere K., 2015) con tutto il fardello, la responsabilità e le difficoltà legate all’eutanasia. Invece nei casi di demenza precoce ci si ritroverebbe a dover assecondare la volontà di morire di una persona che si trova nel momento presente in condizioni “non gravi”, ma che in futuro, quando lo sarà, non sarà più in grado di compiere tale scelta.

A febbraio il Journal of Medical Ethics (Bolt E.E. et Al., 215) ha pubblicato un sondaggio condotto tra il 2011 e il 2012 su un campione casuale di 2500 medici nei Paesi Bassi, in cui suicidio assistito ed eutanasia sono legali anche in caso di malattia mentale. Dal sondaggio è emerso che più dell’80% dei medici prenderebbe in considerazione l’eutanasia per casi di tumore o malattia fisica, ma solo il 30% per malattie mentali. Inoltre 4 su 10 sarebbero pronti ad aiutare a morire persone affette da demenza ad uno stadio precoce, ma solo 1 su 3 lo farebbe per qualcuno in fase di demenza avanzata, anche nel caso in cui il paziente abbia lasciato precedenti indicazioni in merito.

Se eutanasia e suicidio possono apparire gesti comprensibili nei casi di malattie terminali quali cancro oppure malattie fisiche, in cui si tratta di anticipare una fine inevitabile alleviando così la sofferenza e il dolore del paziente che lo richiede, nei casi di malattie mentali il dibattito si fa molto più complesso e si incontrano molte più resistenze.

Considerando che “la popolazione anziana è in continua crescita nel mondo e la speranza di vita aumenta con ritmo costante” e che “numerosi studi epidemiologici internazionali prevedono, nel 2020, un numero di casi di persone con demenza di oltre 48 milioni, che potrebbe raggiungere, nei successivi venti anni, una cifra superiore agli 81 milioni di persone” (Fonte: Ministero della Salute), è plausibile pensare che in futuro dovremo confrontarci sempre più con casi simili a quello di Sandy che non potranno essere più a lungo ignorati.

 

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Genitori social ai tempi di Facebook e Whatsapp – Psicologia

L’ampio panorama informatico attuale offre vastissime opportunità alla community adolescenziale, ma anche altrettante possibili insidie.

Di fronte a questa ambivalenza, è legittimo un certo disorientamento da parte dei genitori e delle figure educative in generale che, se da una parte vorrebbero sostenere l’utilizzo costruttivo della rete, dall’altra si preoccupano di tutelare la sicurezza dei giovani dai pericoli in essa insiti. Ma come fare per essere genitori e allo stesso tempo “social”?

La linea proibizionista, privando l’adolescente di un bagaglio esperienziale utile alla costruzione della propria identità, ne limiterebbe lo spazio di crescita e lo esporrebbe anche al rischio di emarginazione da parte del gruppo dei coetanei, minando così il profondo bisogno di appartenenza tipico di quest’età. Per la generazione 2.0, per la quale questa prospettiva risulta tanto anacronistica quanto irrealizzabile, l’unica strada percorribile secondo gli autori consisterebbe in una corretta informazione e in un’ educazione all’utilizzo equilibrato e responsabile della rete.

Ma come? Se la credenza comune dei giovani è quella secondo cui il “cyberspazio” sia una terra dove tutto è lecito e impunito, occorre invece fare chiarezza sulle infrazioni della legge in cui si può incorrere da autore e di cui si può essere vittima. Tra i reati informatici più frequenti troviamo: il furto dei dati personali, il reato di sostituzione di persona, di diffusione di contenuti pornografici o violenti, di adescamento, di ingiuria, di diffamazione, di stalking e di cyberbullismo.

Di fronte a questi pericoli tendenzialmente sottovalutati, i ragazzi si trovano spesso impreparati e, dunque, ingenuamente vulnerabili e indifesi. Tutelare i propri figli allora significa dunque anche informare, illustrando nella quotidianità le potenziali trappole della rete prendendo spunto da un fatto di cronaca o dalla visione condivisa di un film. Non demonizzare, ma invitare ad avere uno sguardo critico verso i molteplici utilizzi possibili, conformi e non, del web.

Secondo gli autori, sia di fronte ai rischi on-line sia a quelli off-line, “la protezione si realizza sempre attraverso il dialogo”, con una disponibilità all’ascolto, alla sintonizzazione emotiva e alla comprensione che risultano certamente le misure preventive privilegiate e più efficaci.

 

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Il volto delle emozioni: riconoscimento automatico dell’espressione del dolore

Antonio Ascolese, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi.

 

L’affective computing si ripropone di ottenere dei software in grado sia di esprimere le emozioni, sia di riconoscere lo stato emotivo dell’utente, adattandosi ad esso.

I progetti basati sullo sviluppo di nuove interazioni uomo-computer sono molteplici, con i più svariati obiettivi e riguardano molti ambiti, come le scienze informatiche, la psicologia, l’ergonomia, etc. (tra le più recenti: Dinakar, Picard & Lieberman, 2015; Morris, Schueller & Picard, 2015; Morris & McDuff, 2014; Ahn & Picard, 2014; McDuff et al., 2014). E’ in questo contesto di ricerca che si sviluppa l’affective computing, il cui obiettivo è quello di ottenere delle macchine in grado di interagire con l’uomo a livello emotivo.

Nello specifico, l’affective computing, si ripropone di ottenere dei software in grado sia di esprimere le emozioni, sia di riconoscere lo stato emotivo dell’utente, adattandosi ad esso, ad esempio adeguando la difficoltà del compito proposto, qualora risultasse troppo stressante per l’utente (Cohn & De la Torre, 2015; Calvo et al., 2014; Canento et al., 2012; Kolodyazhniy et al. 2011; Cohn, 2010; Sanna, 2009; Nkambou, 2006; Nayak & Turk, 2005; Limbourg & Vanderdonckt, 2004; Lisetti & Nasoz, 2002; Paternò, 2005; 2004; 1999).

Tra gli sviluppi più interessanti, con molteplici applicazioni pratiche possibili, c’è senz’altro quello di un sistema informatico in grado di leggere le espressioni facciali. Le espressioni facciali sono utilizzate dal genere umano per comunicare le proprie emozioni, le proprie intenzioni nonché il proprio stato di benessere o malessere fisico (Reed et al., 2014; Gonzalez-Sanchez et al., 2011; Ambadar et al., 2005; Stewart et al., 2003).

Grazie a tutte queste funzioni, le espressioni facciali rappresentano un potente motore in grado di regolare i comportamenti interpersonali. Per questo motivo, riuscire a rilevare e comprendere correttamente le espressioni facciali in maniera automatica è stato, per anni, un forte interesse della ricerca di base e sta diventando sempre più un focus anche della ricerca applicata, in vari settori. Ad esempio, un sistema di questo tipo, potrebbe essere usato a supporto delle macchine della verità, come controllo di sicurezza o come strumento diagnostico.

Proprio in questo ambito di studi, i ricercatori dell’Università di San Diego sono riusciti a sviluppare un software in grado di rilevare se il dolore espresso dalle persone sia autentico o falso. L’accuratezza di questo programma è risultata persino superiore alla capacità di riconoscimento di osservatori umani. Dopo che diversi programmi hanno dimostrato di saper leggere e discriminare accuratamente sfumature di sorrisi o smorfie differenti. Questo caso rappresenta la prima volta in cui un computer riesce a superare un umano nella lettura di espressioni della sua stessa specie. Secondo Matthew Turk, un professore di informatica dell’Università di Santa Barbara, questo sviluppo rappresenta come ‘[blockquote style=”1″]la ricerca confinata in laboratorio possa lasciare il passo a tecnologie più utili’[/blockquote], maggiormente collegate col mondo reale.

Rispetto all’espressione del dolore, le persone sono in genere brave a mimare il dolore, modificando le proprie espressioni per trasmettere disagio fisico. E, come mostrano gli studi, le altre persone non sono quasi mai in grado di individuare questi inganni correttamente (Kokinous et al., 2014; Krumhuber et al., 2013; Hill & Craig, 2002; Ekman, 1999).

Riuscire ad operare un’accurata valutazione delle espressioni di dolore, per poi gestirlo nel modo migliore, può avere conseguenze importanti in un’ampia gamma di disturbi e interventi di tipo terapeutico. La misurazione del dolore avviene, usualmente, in maniera del tutto soggettiva, perlopiù attraverso misure self-report, con tutti gli evidenti limiti che ne possono derivare. Questo tipo di misurazione è suscettibile di suggestioni, bias sociali, senza contare i limiti nel caso di bambini, persone con danni neurologici, etc.

In un recente studio (Bartlett et al., 2014) sono state confrontate le prestazioni di umani e computer di fronte a stimoli video di persone che esprimevano dolore, reale o simulato. I computer, riuscendo a rilevare i più sottili pattern di movimento muscolare sul volto dei soggetti, hanno evidenziato una maggior accuratezza nel riconoscimento.

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Il disegno di ricerca prevedeva un protocollo standardizzato per l’induzione di dolore. Ai soggetti ripresi dal video è stato chiesto di inserire un braccio in acqua ghiacciata per un minuto (un tipo di dolore immediato, ma non dannoso, né prolungato). Agli stessi soggetti è stato chiesto di immergere un braccio in acqua tiepida, cercando di riprodurre un’espressione di dolore.
I partecipanti hanno poi guardato un minuto di video silenziosi, riuscendo a discriminare correttamente, tra dolore reale e simulato, solo la metà circa delle risposte.

Contestualmente, i ricercatori hanno formato, per circa un’ora, un nuovo gruppo di osservatori: ai partecipanti è stato chiesto di individuare dai video le espressioni di dolore reale e i ricercatori comunicavano immediatamente, di volta in volta, le risposte corrette. Successivamente i partecipanti sono stati sottoposti ad una reale prova, con altri video, mostrando come la formazione abbia inciso veramente poco sui risultati: il tasso di accuratezza si è alzato al 55%.

Dopodiché, il riconoscimento delle espressioni di dolore è stato richiesto a CERT, il software sviluppato dai ricercatori dell’Università di San Diego. Al computer sono stati sottoposti gli stessi 50 video mostrati al primo gruppo di partecipanti, quello senza formazione.

I risultati sono stati sorprendenti, in quanto il computer è riuscito ad identificare tutti i movimenti troppo fini e rapidi per essere percepiti dall’occhio umano. Quando i muscoli interessati sono gli stessi, il computer riesce a discriminare la loro velocità, intensità e durata.
Ad esempio, la durata dell’apertura della bocca varia nella condizione di dolore reale, mentre nella condizione di dolore simulato è piuttosto costante e regolare. Altri movimenti facciali individuati riguardano lo spazio tra le sopracciglia, i muscoli intorno agli occhi e quelli ai lati del naso. Il tasso di accuratezza del software è stato dell’85% circa. Queste evidenze ci dicono che esistono segnali del comportamento non verbale che il sistema percettivo umano non è in grado di rilevare o, quantomeno, di distinguere.

Il dottor Bartlett e il dottor Cohn stanno studiando come applicare questa tecnologia per il riconoscimento delle espressioni facciali all’assistenza sanitaria. In particolare, uno dei prossimi passi in questo ambito sarà quello di riuscire a rilevare l’intensità del dolore nei bambini. Di fronte a un computer sarà così possibile ottenere una stima del dolore che il bambino prova ma che non sa ancora comunicare, riuscendo così a intervenire in maniera precoce con le terapie antidolorifiche adeguate (Hoffman, 2014).

Un altro possibile utilizzo di questo sistema di riconoscimento potrebbe essere quello di supportare il medico nell’individuare il miglioramento dei pazienti in maniera più ‘oggettiva’. Allo stesso modo, si potrebbe distinguere il reale bisogno di medicinali dei pazienti più insistenti nel richiederne.
Infine, questo studio rappresenta anche l’apertura di nuovi scenari nel rapporto uomo macchina, in cui sarà sempre più probabile riuscire a programmare computer in grado di leggere, con accuratezza, anche altre espressioni facciali, non necessariamente negative, come la soddisfazione per la propria vita o altre misure finora affidate agli approcci self-report.

Ma c’è qualcosa che questo sistema di decodifica automatica delle emozioni ‘toglie’ all’esperienza emotiva? Toglie innanzitutto ‘l’elemento umano’: che fine fa la persona che prova e comunica un’emozione ad un’altra persona? Le emozioni e la loro comunicazione sono esperienze prettamente umane. Scenari in cui una macchina si inserisce in questa esperienza o, provando a fare uno sforzo di immaginazione, in cui due macchine si comunichino emozioni tra di loro, priverebbero l’emozione della sua stessa essenza. Persino l’errore di riconoscimento fa parte di questa esperienza: è un elemento della comunicazione, che è un processo opaco per definizione, in cui le intenzioni dell’altro non sempre sono univoche e immediate.

Non solo: un tale sistema di riconoscimento automatico toglie all’esperienza emotiva anche tutti gli elementi di contesto, in quanto considera unicamente il rapporto tradizionale tra azione e reazione. Che ne è dell’insegnamento della prospettiva comunicativa delle espressioni facciali presentata dall’ecologia comportamentale (Fernandez-Dols, 1999)? Secondo questo punto di vista, infatti, non ci sarebbe completa corrispondenza tra le espressioni facciali e gli stati mentali interni, nel senso che non tutto ciò che appare sul volto indica necessariamente un’esperienza interna e, allo stesso modo, non tutto ciò che un individuo prova a livello interno si manifesta sul volto.

L’ecologia comportamentale non considera le espressioni facciali come azioni pianificate o eseguite secondo un insieme astratto e universale di regole, bensì secondo le condizione del contesto di riferimento. Pertanto la produzione di una data espressione facciale dipenderebbe dalla capacità di gestione locale sia delle emozioni, sia delle condizioni contestuali da parte dell’individuo (Anolli, 2003; 2002; O’Keefe & Lambert, 1995). Questo spiegherebbe come mai la medesima emozione può suscitare espressioni facciali differenti.

 

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Graffiti e scritte nei bagni pubblici: differenze di genere nello stile comunicativo adottato

FLASH NEWS

Lo studio effettuato dalla Dottoressa Pamela Leong e recentemente pubblicato dalla rivista Gender, Place & Culture, prende in analisi la modalità con cui uomini e donne esprimerebbero la propria mascolinità o femminilità in quel luogo anonimo e apparentemente privato che sarebbero i bagni pubblici.

I graffiti nei bagni, che si tratti di disegni o di parole, costituirebbero un efficace mezzo di comunicazione tra sconosciuti: scritti in un momento privato con la consapevolezza che diventeranno pubblici essi trasmettono idee, immagini e addirittura sostegno. Utilizzando dati raccolti in 10 bagni dell’università (5 maschili e 5 femminili), lo studio esamina le differenze di genere nei pattern di comunicazione, a partire dall’analisi dello stile e del contenuto dei graffiti.

I dati ci mostrano che, mentre lo stile comunicativo delle donne tende ad essere di tipo supportivo e centrato sulla relazione, quello maschile è infarcito di insulti e commenti a sfondo sessuale. Inoltre, un’analisi delle catene di “botta e risposta” contenute nei graffiti, suggerisce che le gerarchie di potere sono stabilite e mantenute anche in un luogo anonimo, senza che sia necessaria la presenza fisica degli interlocutori.

Il primo grande studio sui graffiti nei bagni fu effettuato dal famoso docente Alfred Kinsey negli anni Cinquanta, il quale scoprì che la maggior parte dei graffiti dell’università era ad alto contenuto sessuale, ma che la sessualità si definiva diversamente tra gli uomini e le donne: gli argomenti nei bagni maschili ruotavano attorno ad atti ed organi sessuali, nei bagni delle signore ci si concentrava maggiormente sulla sessualità in termini relazionali e tendenzialmente non osceni. Successive ricerche effettuate in questo campo rilevarono poi che, verso gli anni Settanta e Ottanta, anche i graffiti del gentil sesso si spostavano su argomenti e terminologie più volgari, introducendo inoltre contenuti politici e politicizzati, in pari con i vari movimenti di emancipazione delle donne avvenuti in quegli anni.

Insomma, a 60 anni dallo studio di Kinsey, Pamela Leong, assistente docente di Sociologia presso la Salem State University, torna sull’argomento e scopre che le donne sono molto più prolisse, autrici del 70% dei graffiti totali. I maschi si esprimono in termini più espliciti, aggressivi e crudi, con riferimenti frequenti ai genitali femminili e commenti omofobi, introducendo di tanto in tanto insulti e battute; le donne tendono invece a occupare i muri con sfoghi riguardanti difficoltà relazionali, pensieri e sentimenti privati, supporto e risposte ad altre “pittrici e scrittrici dei bagni”. Inoltre discutono spesso dei propri movimenti intestinali, esprimendo il disagio di parlarne in pubblico ed essere giudicate su affari tanto privati.

E’ noto che commenti estremi ed irriverenti sono diffusi tramite l’utilizzo dei graffiti; ma quello che Leong tiene a sottolineare è che, nonostante tutto, anche questa pratica comunicativa tende a rinforzare stereotipi in merito alla virilità maschile ed alla subordinazione femminile. Afferma la studiosa:

[blockquote style=”1″]Anche negli spazi anonimi si usa differenziare i sessi disprezzando qualsiasi cosa sia femminile … questo mostra e rinforza le gerarchie di potere esistenti.[/blockquote]

 

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Tracce del tradimento XI: Ansia, vergogna e gelosia

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – (Ansia, vergogna e gelosia – Nr. 11)

 

[blockquote style=”1″]Come geloso io soffro quattro volte perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri.[/blockquote]

Roland Barthers “Frammenti di un discorso amoroso”

 

Chi cerca le tracce di un ipotetico tradimento è geloso. I protagonisti della gelosia sono tre: il geloso, la persona amata e il rivale. Il geloso soffre per la minaccia di perdita dell’essere amato che gli viene portato via da un rivale ma soffre anche per la perdita dell’esclusività del rapporto. Si era in due, si diventa in molti e si condivide la stessa persona.

Il geloso ha un’attenzione selettiva verso i più minuziosi particolari ed una memoria selettiva verso minuscoli ricordi che confermano i suoi sospetti e innescano un continuo rimuginio sulla doppia catastrofe che teme. La catastrofe temuta è doppia perché egli paventa la perdita della persona amata e contemporaneamente della propria autostima.

Il rivale è la prova concreta del suo essere inferiore, inadeguato, perdente. La persona amata è il giudice che ha emesso la sentenza sulla sua pochezza, tradendolo con il rivale. La perdita della persona amata giustificherebbe la tristezza che troviamo nelle situazioni di lutto, ma le emozioni implicate nella gelosia sono molte di più.

Forte è la rabbia per il presunto danno subito sia da parte della persona amata che non ha ricambiato l’investimento fatto su di lei e ha imbrogliato e che ha decretato con la sua scelta lo scarso valore del geloso, sia da parte del rivale che si è appropriato di qualcosa che apparteneva al geloso dimostrando contemporaneamente propria superiorità e dunque la sua inferiorità.

 

Un ingrediente emotivo della gelosia è l’ansia. Il geloso è in ansia all’idea ancora incerta che il tradimento si sia effettivamente consumato. E lo è, una volta avuta questa certezza, al pensiero di quello che accadrà dopo, a come potrà sopravvivere senza la persona amata.

Le emozioni che costituiscono gli ingredienti della gelosia hanno tempi diversi. Nel momento della ricerca prevale l’ansia e quando poi le tracce sono state effettivamente trovate sopraggiungono la rabbia e la tristezza. Anche l’invidia per il rivale può essere presente. Egli è più amato è dunque forse migliore, più interessante, piacerebbe essere come lui o che mi amasse, ma non è possibile e per questo si soffre.

La vergogna, dominante nelle culture più arcaiche, per la propria situazione di donna o uomo tradito è un altro fenomeno emotivo molto comune:

[blockquote style=”1″]Cosa si dirà di me a vedermi tradito, che figura ci faccio.[/blockquote]

La vergogna è una emozione che molte volte può trascinare con sé la rabbia, non per il tradimento ma per la minaccia che si sente di subire alla propria immagine sociale (Castelfranchi). Il tradimento dell’altro ci sposta da un ruolo sociale ad un altro, si perde valore agli occhi degli altri che ci compatiranno e disprezzeranno o rideranno di noi.

Tradendoci l’altro ci umilia, ci pone in condizioni di inferiorità, riduce il nostro valore personale, e ciò ci rende tristi ma ci fa anche arrabbiare per il torto che ci procura. E ancora si sperimenta la malinconia per il finire di una epoca in cui certezze e illusioni erano prevalenti, e la paura a fronte dei rivolgimenti esistenziali che si hanno davanti.

Ci sono quindi molti stati emotivi davanti a delle tracce di tradimento, uno stato di vergogna, umiliazione, tristezza, e paura e una seconda fase che probabilmente ha una sua iniziale funzione di riequilibrio, di rabbia. La rabbia consente di sospendere emozioni e conoscenze di se dolorose o intollerabili e di spostare l’attenzione sui torti subiti dall’altro.

In qualche modo la rabbia è inizialmente fisiologica, mentre diventa malata, patologica, se nel tempo non si attenua, se diventa un’ossessione ostile, se non permette al sistema un adattamento nuovo e più creativo, che non dimentichiamoci è sempre possibile.

La gelosia è un’emozione complessa che si è probabilmente selezionata nel corso dell’evoluzione per garantire la prosecuzione della propria discendenza e in particolare per garantire i maschi di non allevare dei figli non propri e le femmine di non perdere un partner che protegga e alimenti i propri figli.

Perché ciò non avvenga occorre stare all’erta, vigilare sulle possibili minacce, attaccare i possibili rivali e altrettanto il proprio partner per dissuaderlo a tradire. La gelosia dunque, sia come emozione che come tendenza all’azione, sembra essere nata con lo scopo di garantire certezza della propria discendenza e possibilità ad essa di sopravvivenza, garantendo l’esclusione di estranei dalla coppia.

Un professore quarantacinquenne aveva di recente subito un drammatico tradimento dalla sua compagna ma non riusciva a provare per lei nessun risentimento. Ciò gli era già capitato quando la moglie lo aveva tradito con un suo collega. In fondo egli le giustificava e continuava a vederle come persone di grandissimo valore che comprensibilmente si erano stufate di lui. Le sue storie erano una sorta di lunga attesa: prima o poi si sarebbero accorte che egli altro non era che un bluff e lo avrebbero giustamente lasciato. A quel punto non avrebbe potuto lagnarsi perché aveva avuto quello che effettivamente si meritava ed anzi doveva semmai vergognarsi per avere rubato per un po’ di tempo l’affetto di così meravigliose creature con l’inganno. Il momento centrale delle sue storie non era quello della conquista e della stabilizzazione del legame ma l’epilogo, il tradimento che confermava la sua inadeguatezza e inferiorità rispetto ad ogni altro uomo. In fondo era per quello che si dava tanto da fare, era quello lo scopo supremo; e tanto più il partner gli preferiva un altro tanto più si dimostrava un giudice saggio e attendibile…

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Vincere le sfide quotidiane: la costruzione cognitiva dell’autostima

Keywords: Autostima, Inferenze cognitive, Distorsioni cognitive, Autoefficacia.

Abstract

L’autostima è un paradigma che può essere costruito giorno dopo giorno attraverso strategie cognitive. Da questa costruzione può dipendere il modo con cui l’individuo affronta la quotidianità, ossia se riveste il ruolo di vincitore o sconfitto di fronte alle mille incombenze o ostacoli che la vita presenta.

L’autostima

Secondo le classiche teorizzazioni di James (1890) l’autostima dipende dal rapporto che esiste fra il sé reale, ovvero quello che la persona pensa di sé, e il sé ideale, ossia come la persona vorrebbe essere.
La suddetta concezione, prevalentemente intraindividuale, non tiene conto delle variabili ambientali, cioè di quei fattori interindividuali che possono implementare o far decrescere l’autostima. Secondo Bracken (1993) gli individui traggono le informazioni sul loro valore dalla percezione degli altri. Questa conoscenza che l’alterità ha del soggetto, mediante un processo di retroazione, è influenzata dall’idea che il singolo ha di sé.
Per la Horney (1971) l’immagine e, quindi, l’impressione che l’uomo ha di sé dipendono dalla relazione che si è creata fra lui e le figure che lo hanno accudito. In altre parole, sono queste interazioni affettive, che si strutturano nel corso dei primi anni di vita, che determinano il volersi bene o l’odiarsi, viste come emozioni alla base dell’autostima o della disistima che l’individuo sviluppa nei propri confronti.

Le distorsioni cognitive

Ogni persona ha bisogno, sovente, di sapere quanto vale in termini globali, di stabilire, cioè, il proprio valore di merito e questo avviene analizzando e qualificando le esperienze vissute. Talvolta queste autoanalisi sono disturbate dalle distorsioni cognitive, ovvero da pensieri che inficiano la considerazione di sé.
Sacco e Beck (1985) indicano una serie di distorsioni cognitive, che sono:
le inferenze cognitive, attraverso le quali gli individui maturano delle idee arbitrarie su se stessi senza l’avallo di dati reali e obiettivi;
le astrazioni selettive, per mezzo delle quali un piccolo particolare negativo viene estrapolato, divenendo emblematico e rappresentativo del proprio modo di essere;
le sovrageneralizzazioni, per cui si è portati a generalizzare partendo, per esempio, da un singolo tratto di personalità che contraddistingue un individuo o da un singolo episodio esperienziale che lo ha visto protagonista;
la massimizzazione, che consente di implementare gli effetti negativi di una singola azione svolta;
la minimizzazione, la quale permette di rimpicciolire la portata positiva di qualche evento;
la personalizzazione, che autorizza a sentirsi colpevole per qualche evento negativo accaduto;
il pensiero dicotomico, che non ammette sfumature nell’ambito delle assunzioni di responsabilità, riconducendo l’analisi ai costrutti del tutto e niente.

Le strategie per incrementare l’autostima

Per accrescere la percezione positiva di sé esistono diverse strategie, come Toro (2010) specifica, quali:
l’incremento della tecnica del problem solving;
l’implementazione del dialogo interno (self – talk) positivo;
la ristrutturazione dello stile attribuzionale;
l’ampliamento dell’autocontrollo;
la modificazione degli standard cognitivi;
il potenziamento delle abilità comunicative.

L’autostima spesso è in funzione delle capacità che si hanno di risolvere i problemi. Solitamente la risoluzione delle difficoltà richiede una procedura suddivisa in fasi consequenziali, che sono:
la consapevolezza di avere un problema;
l’analisi di tale criticità nella sua interezza;
l’individuare un obiettivo che si vuol raggiungere, attraverso la risoluzione della problematica;
il focalizzare le differenti soluzioni per eliminare la difficoltà;
l’immaginare gli effetti pratici di ogni possibile soluzione;
il reperire la tattica ottimale che consente di dirimere il problema, attraverso il minore spreco di energie (Toro, op. cit., pag. 34).

L’autostima può essere incrementata attraverso il dialogo positivo con se stessi, utilizzando la propria voce interiore. In altre parole, se noi per primi inviamo dei messaggi positivi alla nostra mente, è molto probabile che le autopercezioni possano migliorare (Toro, op. cit., pag. 35).
Un notevole contributo all’implementazione dell’autostima è fornito dallo stile attribuzionale. In pratica, se siamo obiettivi possiamo riconoscere che frequentemente la causa di certi avvenimenti o situazioni che ci accadono e che inficiano la percezione di sé non dipende solo da noi, ma prevalentemente da alcuni eventi oggettivi sfavorevoli (Toro, op. cit., pag. 35).
Un’altra maniera per incrementare l’autostima è la ristrutturazione cognitiva della percezione della realtà, utilizzando delle chiavi di lettura positive. In altri termini, l’abituarsi a leggere il positivo in quello che accade o si vive. In questo modo si incrementa il controllo dei pensieri, polarizzandoli verso la positività (Toro, op. cit., pag. 36).
Spesso il modificare gli standard cognitivi che si hanno su di sé aiuta ad ampliare l’autostima. Infatti, laddove ci sono delle aspettative estremamente elevate, si corre il rischio di non essere all’altezza delle proprie attese e quindi di ipotecare negativamente le autopercezioni (Toro, op. cit., pag. 36).
Infine, il possedere delle buone abilità comunicazionali, che consentono di stare bene con gli altri, incrementa la propria autostima (Toro, op. cit., pag. 37).

L’autoefficacia

Connessa all’autostima è la sensazione di possedere il controllo della propria vita e degli avvenimenti che accadono. In sostanza, più questa percezione è strutturata e più si consolida l’autostima (Weiner, 1986).
Importantissimo, inoltre, nella percezione dell’autostima è il senso di autoefficacia. Con tale costrutto, come messo in evidenza da Bandura (2000), si intende la fiducia nelle proprie capacità di escogitare delle strategie che consentono di affrontare nel modo ottimale qualsiasi evenienza. Il concetto di autoefficacia viene implementato:
dall’esito brillante di precedenti situazioni problematiche affrontate;
dalle esperienze vicarie, ovvero dall’aver visto altri fronteggiare contesti situazionali difficoltosi e di esserne usciti vittoriosi;
dalle autopersuasioni positive;
dallo stato di benessere derivante dall’aver superato prove particolarmente impegnative;
dalla capacità di immaginarsi vincenti in esperienze gravose (Toro, op. cit., pag 47 – 48).

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Bandura, A. (2000), Autoefficacia. Teoria e Applicazioni (G.L. Iacono e R. Mazzeo trad.). Trento: Erickson.
  • Bracken, B. A. (1993), T.M.A. – Test di valutazione dell’autostima (R. Mazzeo trad.). Trento: Erickson.
  • Horney, K. (1971), I nostri conflitti interni (F. Sambalino trad.). Firenze: Martinelli.
  • James, W. (1890), Principle of psychology. New York: Holt, Rinehart & Winston.
  • Sacco, W. P. & Beck, A. T. (1985), Cognitive therapy for depression in E. Beckham & W. R. Leber (eds), Handbook of depression. Homewood (IL): Dorsey Press.
  • Toro, A. (2010), Studio su variabili psicologiche in un campione di atleti impegnati in differenti attività sportive non agonistiche. Tesi di Dottorato, A.A. 2009/10, Università di Catania, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dottorato di Ricerca in Scienze Motorie, XXII Ciclo.
    http://archivia.unict.it/bitstream/10761/148/1/Tesi%20Dottorato%20Agata%20Toro.pdf.
  • Weiner, B. (1986), An attributional theory of motivation and emotion. New York: Springer – Verlag.  DOWNLOAD

Il ruolo delle immagini mediatiche del corpo nell’insorgenza dei disturbi alimentari negli adolescenti

Corinne Oppedisano

 

Gli adolescenti, a causa della familiarità con i mezzi multimediali, sono sovraesposti alle immagini mediatiche del corpo, il più delle volte irrealistiche.

Negli ultimi decenni ci si è chiesto se la presentazione di modelli estetici irrealistici possa costituire un ostacolo alla formazione dell’identità corporea negli adolescenti.  Se da una parte le adolescenti sembrano essere consapevoli  del fatto che nei media la percentuale di corpi filiformi non rappresenta la realtà (Fougts e Buggraf, 2000), dall’altra parte molte adolescenti tendono a ritenere l’ideale di magrezza normativo, reputando che la quantità di corpi mediatici magrissimi sia un riflesso della realtà (Lopez-Guimera et al., 2010).

Per spiegare l’influenza che le immagini mediatiche hanno sull’immagine corporea ricorriamo alla teoria dell’Oggettivazione (Fredrickson e Roberts, 1997). Vi è oggettivazione quando un individuo viene pensato come oggetto e dunque viene deumanizzato, divenendo merce e strumento. 

L’oggettivazione dei corpi proposta dai media porta ad una “frammentazione strumentale nella percezione sociale, una divisione della persona in parti che servono scopi e funzioni specifiche dell’osservatore” (Gruenfeld, Ine-si, Magee e Galinsky, 2008).

Le fasce più giovani sono particolarmente vulnerabili alle immagini mediatiche oggettivizzanti. In particolare, gli adolescenti sono impegnati in un delicato processo di costruzione della propria identità di genere, in cui il corpo gioca un ruolo importante. La percezione del proprio corpo è strettamente legata all’autostima. Sono infatti proprio le ragazze con una bassa autostima ad essere più colpite dal fenomeno dell’oggettivazione (Tolman et al., 2006).

Secondo Nolen-Hoeksema e Girgus, le ragazze sono più esposte al rischio di sviluppare disturbi psicologici a causa delle loro caratteristiche di personalità che le distinguono dai ragazzi quali un maggior orientamento sociale, una minore strumentalità e una minore aggressività. Per queste caratteristiche, le ragazze esposte a modelli estetici perfezionistici imparano che il corpo non è il loro e che il criterio di valutazione del loro valore è l’aspetto estetico (Volpato, 2011).  L’interiorizzazione della prospettiva dell’altro porta a conseguenze anche sul piano delle prestazioni cognitive e fisiche, incidendo sui risultati scolastici e l’affermazione professionale.

I ragazzi sono particolarmente vulnerabili all’esposizione a questo tipo di immagini, non solo a motivo della particolare fase evolutiva che stanno attraversando, ma anche a causa della quantità di televisione con cui sono a contatto fin da giovanissimi. Molte ricerche hanno provato il legame fra esposizione ai media, preoccupazioni per il proprio aspetto e disordini alimentari (Grabe et al, 2008). Anche la frequenza di fruizione di riviste di moda è correlata coi disturbi alimentari e la diminuzione dell’esposizione alle riviste ed ai programmi televisivi riduce il rischio di disturbo alimentare.

Uno studio che mostra l’importanza dei media nella costruzione dell’immagine del corpo degli adolescenti è quello condotto da Becker (2004) alle isole Fiji. La ricercatrice ha trovato che i disturbi alimentari e le preoccupazioni per il proprio aspetto fisico hanno fatto la loro comparsa con l’avvento della televisione.

Sono bastati tre anni per cambiare gli standard della cultura tradizionale che prediligeva fisici morbidi e fondava l’identità dei suoi attori sociali sul ruolo che essi svolgevano all’interno della comunità e della famiglia. Bisogna sottolineare però che per queste ragazze l’esigenza di rimodellare il proprio corpo aveva come fine quello di massimizzare le opportunità sociali ed economiche. Risulta dunque prematuro affermare che la relazione fra l’avvento dei media e l’aumento dei disturbi alimentari rifletta esattamente il legame che vige fra questi due fattori nella società occidentale.

Un altro aspetto fondamentale riguarda il ruolo dei social network sulla costruzione della propria immagine corporea. Un recente studio (Meier, 2013) ha indagato la relazione fra le attività delle ragazze sui social network e l’immagine corporea. I risultati della ricerca hanno rivelato che una elevata esposizione a contenuti relativi all’aspetto estetico è positivamente correlata con un incremento dei disturbi dell’immagine corporea fra le ragazze, e l’associazione è particolarmente forte nel caso di Facebook. In particolare, non era l’uso del social network in sé a predire l’insoddisfazione corporea, il desiderio di essere più magre e l’internalizzazione dell’ideale mediatico, ma specificamente il tempo trascorso guardando e postando foto su internet.

È importante esplorare le variabili che mediano l’effetto dell’esposizione alle immagini mediatiche. Bisogna considerare, non solo il ruolo che hanno le caratteristiche di personalità individuali, ma anche l’influenza del gruppo dei pari. I pari, infatti, hanno un ruolo importante in questa fase evolutiva e possono contribuire a indebolire o rinforzare gli effetti negativi dei media sull’immagine corporea. Per rilevare gli effetti di mediazione dei pari Veldhuis, Konijn e Seidell (2013) hanno indagato il ruolo dei commenti dei coetanei durante la visione di immagini di modelle molto magre sulla soddisfazione corporea e la vergogna relativa al proprio corpo.

I risultati mostrano che, quando le immagini erano accompagnate da commenti che indicavano queste modelle come leggermente sottopeso, l’insoddisfazione corporea e la vergogna per il proprio corpo era maggiore rispetto alla condizione in cui le immagini erano accompagnate da commenti che identificavano queste modelle come fortemente sottopeso.

Ciò significa che quando un membro del gruppo dei pari identifica una modella visibilmente sottopeso come leggermente sottopeso, suggerisce che il modello corporeo rappresentato è raggiungibile. Il commento dei pari ha il potere di creare una idealizzazione del corpo che lo rende lo standard estetico a cui ispirarsi. In base a questo si può concludere che l’ “iconoclastia” del corpo mediatico non è l’unica via per prevenire insoddisfazione corporea e disturbi alimentari. A questo fine sono altresì efficaci gli interventi educativi che forniscono ai ragazzi gli strumenti critici per giudicare correttamente i modelli a cui sono esposti. 

 

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La donna che visse due volte tra paura morale e senso di colpa

Questo suo portare in scena il senso di colpa sembra avere origine nella sua infanzia, come confesserà a Truffaut: “Probabilmente è stato durante il periodo passato dai Gesuiti che il sentimento della paura si è sviluppato con forza dentro di me. Paura morale, come di essere associato a tutto ciò che è male” (Truffaut, 1981; p.23).  Cerca quindi come di espiare una colpa innata attraverso i suoi personaggi?

Un pò per diletto e per propria passione, sto rispolverando o addirittura scoprendo vecchissimi film che hanno gettato le basi e le idee per molte delle opere che ci vengono offerte oggi. Tra questi quelli con la firma Hitchcock. La sua filmografia dovrebbe essere revisionata per i diversi e intrigati spunti psicologici. “ La donna che visse due volte”, “Vertigo”, mi ha fatto pensare molto, nello specifico a due cose fondamentali: la prima non strettamente psicologica a (come già notato con il ciclo di Antoine Doinel di Truffaut ed il richiamo a questo di Boyhood di Richard Linklater) il parallelismo tra la trama e gli aspetti conseguenziali dell’inganno giocato tra questo ed il film del 2013 “La miglior offerta” di Tornatore e come opere come queste siano continuamente fonte di stimolo per gli artisti attuali; secondo, più specificatamente psicologico, al complesso di colpa e non solo, e come questo sia ricorrente nei capolavori del regista.

Durante un inseguimento sui tetti di San Francisco, il detective Scotty Ferguson scivola e si aggrappa a una grondaia. Per salvarlo, un suo collega precipita e muore. In seguito a quest’evento, Ferguson – vittima delle sopraggiunte crisi di acrofobia – lascia la polizia. Viene quindi contattato da un suo vecchio compagno di università, Gavin Elster, che gli chiede di seguire la moglie Madeleine vittima a suo dire di dissociazione psichica.

La donna infatti assume gli atteggiamenti  di una sua antenata, Carlotta Valdes, e il timore dell’uomo è quello che essa possa emularne la fine suicida. Scotty accetta di aiutarlo e comincia a seguirla. Durante un pedinamento la salva da un annegamento (la donna si getta nella baia della città) e per via del momento intimo che vivono, la conosce e se ne innamora.

Cerca disperatamente di aiutarla e spiegarle che le sue visioni sono reali e cerca di condurla nei luoghi che lei crede solo di aver sognato. Tra questi luoghi c’è anche la Missione spagnola, la conduce lì, le dice di non aver sognato la missione,  cerca di convincerla del fatto che ci era semplicemente già stata -la ragazza non gli crede, prima di un bacio turbinoso gli confessa che in qualunque modo finisca avrebbe voluto amarlo e poi scappa sulla torre campanaria del villaggio, lui prova a inseguirla sulle scale, ma per via della vertigine non riesce nel suo intento e la vede precipitare.

Dopo la morte di Madeleine, Scotty è gettato nello sconforto. Il forte senso di colpa per non essere riuscito a superare la sua fobia e non aver salvato l’amata lo getta in un mutismo malinconico, tanto da dover essere poi ricoverato in una clinica psichiatrica, la bellissima scena che ne chiarifica il meccanismo psicologico si trova nel sogno che fa Scotty, girato magistralmente e che sembra portarci nel turbinio angosciato della mente del protagonista, nel suo inconscio, nella sua non rassegnazione.

Non può elaborare questo lutto se non con la sua diretta responsabilità. Riuscirà a metabolizzare il fatto, ma ne rimarrà succube tanto che una volta uscito dalla clinica, andrà in giro perseguendo continuamente i luoghi che le ricordano la donna, cercandola irrazionalmente tra la folla.

Un giorno però, fatalmente vede una giovane, Judy Barthon, identica a Madeleine. La segue, la corteggia, ma smaschera le sue motivazioni. E’ attratto da lei ma solo perché ha il suo viso, l’amerà solo se accetterà di trasformarsi nella defunta donna amata. Lei dapprima è titubante, non vuole. Di lì a poco si scoprirà però che Judy è realmente Madeleine e che a quanto pare interpretò su commissione la moglie del vecchio amico, che aveva pianificato il tutto per sbarazzarsi della moglie e prenderne l’eredità. Lei ama Scotty e quindi lo asseconda. La trasformazione va avanti, lei stà al gioco, ma per un errore sciocco ( lei indosserà un suo gioiello che poteva appartenere solo a Madeline) lui scopre l’inganno. In preda alla rabbia, la  conduce sul luogo del delitto, vuole capire come i fatti si siano svolti, vince il senso di vertigine e giunge con fino in cima al campanile. La tensione è molta ma con un colpo di scena inaspettato, per l’ombra di una suora che compare davanti a loro, Judy/Madeleine si getta nel vuoto, morendo.

Il ruolo di Judy, in questa seconda parte del film sebbene anch’esso intriso di sensi di colpa è più legato ad un disturbo da dipendenza affettiva.

All’inizio asseconda l’imbroglio di Gavin Elster perché ne è innamorata. Poi asseconda la malata e illusoria voglia di Scotty di trasformarla (ritrasformarla in Madeleine) accettandone la perversione, sempre per amore .

Nei due protagonisti sono esplicitati due schemi di rappresentazione della malattia mentale che il famoso regista riportava spesso nei suoi film. Ho scoperto recentemente leggendo l’articolo “La rappresentazione della malattia mentale nelle opere cinematografiche di Alfred Hitchcock” di Giannini A.M., Cordellieri P.- Dipartimento di Psicologia, “Sapienza” Università di Roma, che questo schema in un modo o nell’altro è spessisimo presente nelle opere del regista. In “Vertigo” come detto a mio parere sono presenti entrambi.

La prima è di solito costruita cosi:

– Trauma

– Senso di colpa

– Manifestazione del disturbo

– Abreazione

– Attribuibile al personaggio di James Stewart

La seconda :

– Dipendenza affettiva

– Manifestazione del disturbo con condotta criminale

– La malattia non si risolve e il responsabile è consegnato alla giustizia

– Del tutto attribuibile a Jude/Madeleine

Questo suo portare in scena il senso di colpa sembra avere origine nella sua infanzia, come confesserà a Truffaut “Probabilmente è stato durante il periodo passato dai Gesuiti che il sentimento della paura si è sviluppato con forza dentro di me. Paura morale, come di essere associato a tutto ciò che è male” (Truffaut, 1981; p.23).  Cerca quindi come di espiare una colpa innata attraverso i suoi personaggi?

E’ comunque talmente coinvolgente che si vede, essere parte della sua personalità e come per ogni artista geniale che si rispetti, la sua grandiosità non si può solo che ricercare nella sua essenza, nell’invischiamento personale, nel semplice fatto del creare qualcosa di assolutamente suo.

 

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Psicosi e fattori di rischio cardiometabolici: una forte relazione

Irene Rossi

FLASH NEWS

Livelli molto alti di fattori di rischio cardiometabolici, in particolar modo obesità addominale, sono stati riscontrati in persone affette da psicosi, grazie ad una ricerca condotta come parte di un più ampio studio controllato e randomizzato per la promozione della salute in pazienti psicotici (IMPaCT RCT). 

Lo studio ha coinvolto i team di cinque centri di sanità mentale del sistema sanitario nazionale inglese, collocati in diversi centri urbani e rurali dell’Inghilterra, raccogliendo dati di un campione composto da 450 persone affette da psicosi, con età compresa tra 18 e 65 anni.

Dallo studio è emerso che quasi la metà del campione era affetto da obesità (48%), caratterizzata da un indice di massa corporea (BMI) maggiore di 30. In particolar modo quasi tutte le donne (95%) e molti degli uomini (73%) avevano la circonferenza del tronco, misurata all’altezza della vita, superiore a quella indicata dalla Federazione Internazionale del Diabete (IDF) come soglia per la diagnosi di obesità addominale (central obesity). L’obesità addominale si riferisce ad una condizione caratterizzata da eccesso di massa grassa attorno alla zona dello stomaco e dell’addome, tale da costituire un fattore di rischio significativo per la salute della persona.

La maggior parte dei partecipanti testati (57%) soddisfacevano anche il criterio individuato dall’IDF per le sindromi metaboliche, ovvero un gruppo di anomalie biochimiche e fisiologiche associate allo sviluppo di disturbi cardiaci, ictus e diabete mellito di tipo 2. Nello specifico un quinto del campione soddisfaceva già i criteri per il diabete e il 30% era a rischio per il suo sviluppo nel futuro.

La ricerca, pubblicata sul giornale Psychological Medicine, ha inoltre posto l‘accento su due condotte dannose che si associavano e sommavano significativamente ai rischi cardiometabolici: il 62% del campione fumava e l’88% non faceva attività fisica con costanza.

Nonostante numerosi studi precedenti avessero già sottolineato come i pazienti affetti da psicosi abbiano un’aspettativa di vita di 10-25 anni inferiore alla media, dovuta a fattori di rischio cardiovascolare, tale studio ha registrato alcuni dei valori di rischio cardiometabolico più alti di quelli mai individuati a livello mondiale. Dunque in Inghilterra la prevalenza di tali fattori di rischio in soggetti con psicosi è ancora maggiore di quanto osservato a livello internazionale.

Questi dati rinforzano la necessità di porre attenzione alla valutazione e la gestione dei rischi cardiometabolici e del peso nei percorsi di cura delle persone affette da psicosi, ponendo l’accento sulla necessità di attività fisica e di percorsi che aiutino ad abbandonare il vizio del fumo per le persone affette da malattie mentali, facendo in modo di intervenire sin dalle primissime fasi della malattia con un’azione di tipo preventivo.

Ulteriore elemento aggiuntivo del presente studio rispetto ai dati già noti, consiste nel fatto che non è stata trovata alcuna differenza significativa tra persone che assumevano psicofarmaci di diversa tipologia, slegando quindi l’aumento di peso e i rischi cardiovascolari dall’assunzione della terapia farmacologica, elemento centrale per poter impostare percorsi di cura integrati.

 

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Manuale di terapia cognitiva delle psicosi – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Il confronto tra dominio e cooperazione – VIDEO

Lo spirito collaborativo è fondamentale per il raggiungimento di obiettivi, non necessariamente comuni.

Due buffi e panciuti animali, un alce e un orso, si incontrano a metà di un ponte molto stretto e quindi non percorribile da entrambi. I due personaggi reagiscono con prepotenza, nella speranza di accaparrarsi con orgoglio il passaggio. Si sbeffeggiano, si urtano, ma alla fine nessuno riuscirà ad avere la meglio. L’arrivo di due piccoli animaletti dispettosi porrà fine al loro litigio, in un abbraccio comune che li accompagna in una fine infausta.

Questo esilarante video di animazione, nella sua semplicità mostra quanto lo spirito collaborativo sia fondamentale per il raggiungimento di uno scopo, non necessariamente comune. I piccoli animali capiscono in fretta che la loro cooperazione può permettere a entrambi il passaggio sul ponte, pur andando in direzioni opposte.

Un video educativo e divertente rivolto sia ai bambini che agli adulti, utilizzabile in diversi ambiti: nelle scuole, per sensibilizzare gli alunni al sostegno reciproco, o in contesti lavorativi, nei quali la cooperazione diventa un tratto decisivo per il raggiungimento di scopi sia aziendali che individuali.

 

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Avrò fatto la cosa giusta? Non chiedetelo ai vostri amici!

Quando ci sentiamo insicuri, una delle prime reazioni che si tende a mettere in atto è il confidarsi con un amico o con il proprio partner e, alle loro prime parole di conforto, ci sentiamo subito capiti e accettati…ma sarà davvero così? 

Le insicurezze fanno parte dell’essere umano: dal non sentirsi in grado di svolgere un compito al non vedersi come la persona giusta per quel ragazzo che tanto ci piace, il dubbio sul nostro essere all’altezza delle situazioni è sicuramente spesso dietro l’angolo. Ovviamente il pensiero di sentirsi inadeguati non genera emozioni positive e ci ritroviamo frequentemante a fare i conti con tristezza, vergogna e senso di colpa.

Una delle prime reazioni che si tende a mettere in atto è il confidarsi con un amico o con il proprio partner e, alle loro prime parole di conforto, ci sentiamo subito capiti e accettati…ma sarà davvero così?

Secondo una ricerca condotta nel 2008 da Edward Lemay e Margaret Clark della Yale University, il confidare le proprie insicurezze a un caro amico o a un partner non farebbe altro che influire negativamente non solo su chi si confida ma anche sull’intera relazione.

Il modello che i ricercatori tentano di supportare empiricamente è più o meno il seguente: sento di aver fatto un’enorme gaffe davanti al ragazzo che mi piace e decido di confidarmi con la mia migliore amica, la quale mi conforta con frasi e gesti rassicuranti.

La stessa situazione si ripete altre volte fino al punto in cui comincio a domandarmi: e se adesso anche la mia amica pensa che io sia una persona insicura con un disperato bisogno di approvazione? (primo pensiero disfunzionale); Se fosse così, allora non è sincera quando mi dice quelle parole tanto carine e rassicuranti, le dice solo per farmi sentire meno inetta (altro pensiero disfunzionale); dunque, mostrandomi così indifesa con la mia amica non ho fatto altro che confermare quanto già temevo, che sono una persona insicura (ennesimo pensiero disfunzionale). Se ne ricava che, in questo turbinio di pensieri disfunzionali, non sono solo i poveri insicuri a rimetterci: anche la figura del confidente è vista come poco affidabile in quanto ci sta dicendo solo delle ovvietà.

Pensare di disconfermare tale modello non sembra cosa facile: gli autori hanno effettuato ben sei studi (di cui uno anche longitudinale su vere coppie di amici o partner), ognuno dei quali sembra confermare una parte del circolo vizioso di cui sopra!

Tuttavia non è il caso di allarmarsi: delle soluzioni a tutto questo ci sono e sono riportate nell’articolo consigliato. Nel frattempo, se leggere queste poche righe vi ha reso meno sicuri, be’… non riferitelo assolutamente ai vostri cari!

 

One seemingly obvious solution might be to reveal your insecurities to someone you’re close to — such as a friend or a romantic partner — so that this person could help you to feel better. However, recent research has revealed a way that this approach can sometimes fail to work, and can even backfire.

 

Avrò fatto la cosa giusta? Non chiedetelo ai vostri amici!Consigliato dalla Redazione

Avrò fatto la cosa giusta? Non chiedetelo ai vostri amici! - Immagine: 59541789
Secondo una ricerca condotta nel 2008, il confidare le proprie insicurezze a un caro amico o a un partner non farebbe altro che influire negativamente non solo su chi si confida ma anche sull’intera relazione. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Stereotipi e pregiudizi – Introduzione alla Psicologia nr. 16

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA Nr. 16

 

 

Uno stereotipo è una scorciatoia mentale usata per incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Sono delle valutazione rigide, inflessibili, che si riferiscono a concetti mai appresi in maniera diretta, ma mediati dal senso comune.

 

Il termine stereotipo, nacque in ambito tipografico molto tempo fa, e indicava gli stampi di cartapesta usati per le lettere. La caratteristica che li rendeva unici era di poterli utilizzare più volte perché molto rigidi e resistenti.

Lippmann (1992), per primo introdusse questo concetto nelle scienze sociali asserendo che il processo di conoscenza non è diretto, ma mediato da immagini mentali costruite in relazione a come ognuno di noi recepisce e percepisce la realtà.

Gli stereotipi, dunque, sono delle particolari rappresentazioni mentali, o idee sulla realtà, che se dovessero essere condivise da grandi masse in determinati gruppi sociali, prenderebbero il nome di stereotipi sociali.

Gli stereotipi, dunque, sono molto simili a degli schemi mentali e per questo sono considerati affini alle euristiche.

Uno stereotipo, quindi, è una scorciatoia mentale usata per incasellare persone o cose in determinate categorie stabilite. Sono, grossomodo, delle valutazione rigide, inflessibili, che si riferiscono a concetti mai appresi in maniera diretta, ma mediati dal senso comune.

Permettono di attribuire, senza nessuna distinzione o critica, delle caratteristiche a un’intera categoria di persone, non curanti delle possibili differenze che potrebbero, invece, essere rilevate. Per questo, gli stereotipi sono spesso delle valutazioni o giudizi grossolani non del tutto corretti. Si tratta di idee difficilmente criticabili (rigidità degli stereotipi), in quanto ancorate alla provenienza culturale o alla personalità.

Insomma, lo stereotipo non è nient’altro che un giudizio che si forma su una determinata cultura o classe sociale. Questo giudizio può diventare pregiudizio quando non deriva da una conoscenza diretta, ma appresa. Il più delle volte si tratta di valutazioni spicce legate sempre a giudizio negativo non sottoponibile alla critica.

Non si tratta di un concetto errato, sbagliato, ma di un pregiudizio vero e proprio. Un pensiero, dunque, diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze.

Il pregiudizio su alcune categorie di persone, spesso, induce a modificare il proprio comportamento sulla base a queste credenze. Si creano, così, condizioni tali per cui le ipotesi effettuate sula base di pregiudizi ineluttabilmente si manifestano e la conseguenza è andare a confermare gli stereotipi.

Quindi, se si è convinti che i milanesi sono delle persone costumate allora, anche l’atteggiamento che si assume nel momento in cui si ha a che fare con uno di loro sarà molto controllato. L’altro che recepisce questo modo un po’ affrettato di interloquire tenderà ad essere ancora più accorto nei comportamenti messi in atto e così facendo chiaramente si rinforzerà il pregiudizio sui milanesi.

È possibile eliminare i pregiudizi? Non è qualcosa di immediato, perché i pregiudizi hanno delle basi molto solide confermate da credenze fortuitamente verificatesi.

Solo una grossa forza di volontà e intenzione di entrare realmente in contatto con l’altro potrebbe portare, alla lunga, a mettere in discussione queste forme di rigidità di pensiero.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Un excursus storico sul rapporto dell’Italia con la guerra

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta del 24/05/2015

 

In Italia, naturalmente, l’argomento è totalmente tabù. Esperienze positive poche. Sappiamo bene che nel Risorgimento non ce l’avremmo fatta senza Napoleone III e i francesi e l’innegabile valore di testimonianza della Resistenza non nasconde che militarmente non ce l’avremmo fatta senza gli anglo-americani.

L’Italia e la guerra? Bel tema e bel problema. Anche perché il direttore rifiuta programmaticamente di darmi chiarimenti. Come un direttore d’orchestra jazz, pensa che il bello stia nel dare il minimo di istruzioni agli umili orchestrali. Alla mia richiesta: Italia in guerra con chi? Con se stessa o con gli altri? Mi risponde che già questa domanda è un bell’inizio. Sta bene, accetto l’imbeccata. È vero. L’Italia ha un problema con la guerra, sia che la faccia agli altri che a se stessa.

Tuttavia, chi ormai non ha un problema con la guerra? L’ultima generazione che si sia sognata di avere una visione eroica della guerra furono i giovani che si slanciarono nella fornace della prima guerra mondiale. Poi venne Ypres e la guerra di trincea. La gioventù tedesca entusiasta di precipitare in battaglia assaggiò il Kindermord bei Langemarck, la strage degli innocenti di Langemarck: quattro corpi d’armata tedeschi costituiti di giovani volontari si lanciarono alla carica per tre giorni e per tre giorni furono falciati a mucchi dalle mitragliatrici. Erano tutti volontari e molti studenti, interi battaglioni composti da compagni di classe di poco più che vent’anni, con la testa piena di romanticismo e ardore eroico e patriottico. Il trauma penetrò nella coscienza collettiva e dissolse l’aura romantica della guerra.

La guerra non piace a nessuno, non solo agli Italiani. Conta il trauma della guerra moderna, con il suo inaudito gettito di sangue e distruzione, ma non facciamoci illusioni. Conta anche il più egoistico fatto che i paesi europei sono tutti usciti con le ossa rotte dalle guerre del ‘900. Quando scrivo paesi europei escludo il Regno Unito. Nei paesi anglo-sassoni le cose potrebbero essere parzialmente diverse. Basta sostare in un qualunque aeroporto e gironzolare nelle librerie dei gate per notare il ricco scaffale dei libri di storia militare dei vari paesi di lingua inglese.

L’esito felice e (diciamolo) giusto della seconda guerra mondiale ha ridato un po’ di onore alla guerra in quei paesi, producendo un’abbondante letteratura, accademica e divulgativa. La crescente tendenza poi della cultura di lingua inglese alla leggibilità, alla suspence e al coinvolgimento emotivo rende questi libri particolarmente attraenti. La complessiva positività delle figure storiche, a cominciare da Churchill, facilita le cose. Infine Hitler, il cattivone perfetto, rende il tutto definitivamente appetibile.

Le cose si complicano di nuovo con le guerre successive. I regimi comunisti –malgrado Stalin e i Gulag- non furono mai del tutto il cattivo perfetto. Il loro idealismo li protegge e le limitazioni alla libertà di quei paesi non hanno mai assunto l’aura luciferina dei nazisti, con buona pace della grandezza di Solgenizin. Anzi, tutte le ingiustizie dei paesi comunisti (raccapriccianti, a leggere sul serio Arcipelago Gulag) fanno sempre la figura di un pasticcio di una banda di incompetenti trovatisi al potere. Nulla di confrontabile con l’assassina efficienza dei nazisti.

Andando avanti sempre peggio: le rivolte coloniali, il Vietnam, Cuba, insomma cattivi sempre meno antipatici, sempre più simpatici, etnici e tropicali. E poi tutto il cinema dalla parte degli indiani pellerossa contribuiva a insinuare dubbi perfino negli innocenti ragazzoni americani. Infine la crisi finale con l’inestricabile pasticcio medio-orientale in cui ormai tutti sono e non sono tutto e niente. Tutti buoni e tutti cattivi, nessuno simpatico e nessuno nemmeno irreparabilmente odioso come un nazista: arabi e israeliani, musulmani e non musulmani, americani e non americani.

Un grande regista come Clint Eastwood riesce ancora a trovare accenti omerici e pensosi, ma la guerra è ormai un argomento di conversazione out. Il che vuol dire che è anche un argomento out nella nostra coscienza. Forse è stato così da sempre; forse anche tra i greci antichi se la cantava Omero bene, altrimenti parliamo d’altro.

Insomma forse, molto forse, nei paesi anglo-sassoni alcune esperienze positive ed eroiche in qualche modo rendono l’argomento guerra ancora affrontabile. O forse no, sono tutte balle che ci raccontiamo: l’anno scorso ero al congresso psicologico americano e finii a cena con i soliti colleghi italo-americani che, per nostalgia etnica, sono meno difensivi con me e –mi pare- non mi considerano uno straniero con il quale non parlare troppo male del loro paese. Il discorso finì sul Vietnam e fu una cosa penosa, diventò una cena a base di t-bone e senso di colpa. Dopo un po’ tornammo a parlare dei loro nonni italiani.

In Italia, naturalmente, l’argomento è totalmente tabù. Esperienze positive poche. Sappiamo bene che nel Risorgimento non ce l’avremmo fatta senza Napoleone III e i francesi e l’innegabile valore di testimonianza della Resistenza non nasconde che militarmente non ce l’avremmo fatta senza gli anglo-americani (senza contare il dettaglio che avevamo iniziato dall’altra parte).

Rimarrebbe la prima guerra mondiale, evento militare in cui in fondo siamo andati benino. Il problema è che la prima guerra mondiale è stata per tutti i paesi europei un suicidio, un irrazionale storico, un buco nero che, lungi dall’entrare nell’immaginario, lo distrugge ed è incapace di creare coscienza comune. Ogni comune italiano (e credo anche europeo: ne ho visti in Francia e in Germania) ha il suo monumento ai caduti, ed è anch’esso un buco nero di pietra bianca nella piazzetta del paese. Sta lì, a ricordare l’inutile strage alla quale nessuno voleva partecipare e che si portò via tanti uomini mai tornati, i cui nomi se ne stanno scolpiti lì, a raccontare tristi storie che nessuno ricorda più.

A Gravedona sul lago di Como ho visto scolpito sul monumento un nome incredibile: “Troppo Tardi”. Proprio così: questo caduto, quest’uomo si chiamava Troppo Tardi. Questo giovane italiano morto chissà dove, chissà se sul Piave o sulle Alpi, era evidentemente nato inaspettatamente da genitori in età avanzata che, spiritosamente, lo avevano chiamato Troppo Tardi. Forse una coppia di eccentrici un po’ anarchici come se ne trovavano in Romagna. Poi Troppo Tardi era morto presto, a poco più di vent’anni.

Di mio nonno che aveva il mio stesso nome e che partecipò a quella guerra non so nulla se non che fu chiamato diciassettenne al fronte sul Piave a fermare gli austriaci dopo Caporetto. So anche un’altra cosa: che decenni dopo, negli anni ’50, dopo averne passate tante come soldato e poi carabiniere, avrebbe voluto raccontare qualcosa di quegli anni ai suoi figli: mio padre e i suoi due fratelli e miei zii.

E loro niente, appena accennava a parlarne lo zittivano. Come faccio a saperlo? Me lo raccontò mio padre, pentendosene. Pentendosi di non aver voluto mai ascoltare i racconti di quel vecchio che aveva combattuto nelle trincee sul Piave. Come dicevo la Grande Guerra è un buco nero che non genera memoria ma la fa sparire. Chissà quante storie voleva raccontare mio nonno a mio padre, storie tristi e terribili, ma forse anche allegre.

Come magari di un commilitone lombardo che, pensa un po’, si chiamava Troppo Tardi, proprio così! Divertente, no? Può darsi, ma poi che succedeva? Avrebbe potuto chiedere mio padre. Niente, poi Troppo Tardi è morto. Forse mio padre sapeva che le storie del nonno finivano così. Chiaro che poi non aveva voglia di starlo a sentire.

Un unico ricordo di guerra è sopravvissuto alla strage della memoria. Una licenza di pochi giorni, un viaggio lunghissimo in treno dal fronte fino a Sessa Aurunca, luogo di origine della famiglia Ruggiero. E trenta chilometri a piedi dalla stazione di Capua fino a casa sua percorsi da mio nonno nella notte della campagna. Spero per lui che la licenza non fosse nel periodo invernale e che quindi quel soldato meno che ventenne percorse quei trenta chilometri nel tepore della notte estiva, nel silenzio della campagna e finalmente lontano dai colpi di cannone che probabilmente lo rintronavano al fronte.

Lasciamo da parte la guerra agli altri, che non sappiamo fare (ed è meglio così, lasciamo da parte questa abilità che è tutta satanica), e passiamo alla guerra a noi stessi. Campo nel quel si dice siamo bravi. Almeno questa è la vulgata. Si sa: l’Italia dei liberi comuni, i guelfi e i ghibellini, l’eterna discordia, l’incapacità di fare squadra, la difficoltà a fare sistema. Sappiamo, solite cose. E sicuramente in parte è vero. O forse no.

Una mia piccola convinzione me la sono fatta, in questi anni in cui ho collaborato con vari gruppi stranieri. Non ho visto tutta questa spontanea capacità di comprendersi e capirsi. Ho visto, questo sì, una volontà di organizzarsi. E quando? Ebbene, dopo una guerra dura, senza quartiere e senza prigionieri. Sto parlando di guerre tra gruppi scientifici, sia chiaro. Niente sangue. Dicevo, ho visto una volontà di organizzarsi dopo guerre spietate con un gruppo scientifico vincitore che stabiliva un paradigma indiscusso. Di qui poi la cosiddetta volontà di collaborare e così via.

In Italia, per ragioni storiche o anche perché è andata semplicemente così (che poi questo significa il parolone “ragioni storiche”: è così perché è andata così; e tanti saluti alle inesistenti cause esplicative) il vincitore unico spesso manca. Il paese è policentrico, ingombro di ostacoli geografici e culturali. I guelfi e i ghibellini ci sono perché nessuno infine prevalse, non per un’atavica tendenza alla divisione. Altrove non ci sono perché qualcuno vinse definitivamente la guerra tra potentati e stabilì il governo unitario: i Tudor o i Borbone o quel che volete.

Da noi il conflitto non è sfociato in un esito chiaro. Conta anche il terrore che il vincitore unico sia poi per sempre, che sclerotizzi la sua vittoria blindandola, come poi è effettivamente accaduto nel ventennio fascista. Ci si accontenta di compromessi al ribasso, il cui svantaggio è la carenza di regole comuni, di capacità di fare squadra. E poi si sopravvaluta la politica come mezzo per affrontare tutti i problemi e, ancora peggio, e si sopravvaluta l’appartenenza politica come mezzo per capire e giudicare le persone.

Almeno finora è stato così. Anche questa parziale verità, però, rischia di diventare luogo comune. Più che tra loro, gli italiani hanno l’abitudine di fare la guerra a se stessi. Ogni italiano é arrabbiato forse soprattutto con se stesso e con le sue insoddisfazioni. Cerchiamo nella politica un compenso alle nostre insoddisfazioni e quando non troviamo questo compenso rischiamo di andare in guerra, contro gli altri ma ancor di più contro noi stessi.

 

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Religione: credenti e non credenti di fronte alla guerra

L’adolescente e il suo psicoanalista: i nuovi apporti della Psicoanalisi dell’adolescenza – Recensione

Il testo ben evidenzia come gli adolescenti rappresentino la cartina di tornasole di un’epoca. La fragilità narcisistica, la rabbia e lo spaesamento che caratterizzano “i giovani di oggi” sono figli di un contesto che ha pian piano smantellato i propri garanti sociali (Stato, Chiesa, Partito) e modificato i propri riti di passaggio, con il rischio anche di annullare la distanza tra le generazioni.

L’Adolescenza per lungo periodo è stata considerata – per citare Anna Freud – “la Cenerentola della Psicoanalisi”. Nè bambini nè ancora adulti, gli adolescenti rappresentano una categoria a se stante e che forse sfugge alle regole di ogni qualsivoglia catalogazione. Recentemente, però, gli studi e i gruppi di ricerca si sono sempre più concentrati su questa fase specifica della vita, caratterizzata – come lo stesso R. Cahn sottolinea – da mutamenti e scombussolamenti che entrano nella stanza d’analisi e che quindi necessariamente mettono in gioco anche il terapeuta. Forse proprio perché gli adolescenti chiamano all’azione e spesso faticano a sostare in una condizione sospesa di attesa, sono “illustri sconosciuti” per buona parte dei terapeuti.

Le condizioni di disagio che nascono in adolescenza rischiano di cristallizzarsi in forme di pensiero o di comportamento patologiche, ma è anche vero – data la grande elasticità dell’apparato psichico in quel periodo di vita – che possono facilmente riorganizzarsi riscattando del tutto le sorti della persona. Adolescenza come seconda nascita è ormai un concetto piuttosto noto, ed è proprio su questo assioma che prende il via il libro curato da Cahn, ormai da decenni impegnato nel lavoro con gli adolescenti.

Lo psicoanalista sottolinea come nel rapporto di cura che si instaura con l’adolescente si debba e si possa essere garanti sì di un Setting, ma flessibile e adattabile il più possibile alla capacità riflessiva e comunicativa del ragazzo, pena la perdita del legame e la conseguente interruzione del percorso.

Il libro, scritto in modo chiaro e conciso, fornisce molte vignette cliniche puntuali che aiutano a “tradurre” la teoria in pratica. Il libro rappresenta anche a mio avviso un po’ lo stato dell’arte attuale sulla ricerca/cura in adolescenza. Non a caso, infatti, sono citati più volte e collegati tra loro autori italiani (Senise, Novelletto, solo per citarne alcuni) che hanno contribuito allo sviluppo della ricerca e del pensiero sulla clinica in adolescenza.

Ciò che accomuna la ricerca e la clinica sia italiana che francese (di cui Cahn può essere considerato uno dei maggiori esponenti) in adolescenza è la considerazione dell’esistenza di un processo specifico, con meccanismi a sè stanti, che necessariamente impongono un cambio nell’impostazione della cura e del percorso psicologico.

Essendo l’Adolescenza quella fase della vita in cui sono primari e prioritari i cambiamenti, ma forse sarebbe meglio dire gli sconvolgimenti, sia fisici (l’ingresso della pubertà, la nascita di spinte sessuali), sia mentali (la nascita del pensiero del futuro, la ricerca di una propria etica), sia sociali (l’uscita dallo status di bambini e la ricerca di una propria posizione nel mondo anche in contrapposizione con gli adulti di riferimento), come terapeuti ci viene richiesto di essere altrettanto mutevoli ma al contempo fermi in una posizione di adulto accogliente.

Il testo ben evidenzia come gli adolescenti rappresentano la cartina di tornasole di un’epoca. La fragilità narcisistica, la rabbia e lo spaesamento che caratterizzano “i giovani di oggi” sono figli di un contesto che ha pian piano smantellato i propri garanti sociali (Stato, Chiesa, Partito) e modificato i propri riti di passaggio, con il rischio anche di annullare la distanza tra le generazioni.

Cahn riflette e ci porta a riflettere sul ruolo terapeutico e genitoriale, che non devono essere confusi, ma che a volte siamo chiamati a difendere. Nelle vignette cliniche proposte viene evidenziato come il terapeuta debba rappresentare un adulto sufficientemente buono e saldo, presente ma contemporaneamente capace di farsi da parte quando necessario. L’adolescente, infatti, ha bisogno di incontrare qualcuno che dia voce alla sua sofferenza, che la accolga e la ascolti, senza necessariamente dare ad essa un’etichetta o un nome.

Potrebbe sembrare paradossale tale affermazione: fornire ad una persona alla ricerca di domande “solo” ascolto e non risposte. Si deve però sottolineare che ciò che serve al giovane non è un terapeuta muto e distante, l’analista-caricatura che “uccide” con il proprio silenzio, bensì un terapeuta umano, comunicativo e raggiungibile, che agisca come un adulto e che si assuma anche la responsabilità di prendere tempo, di far comprendere che su un’emozione, un dolore, una situazione si può anche sostare senza necessariamente agire.

Introdurre un pensiero, insomma. Una modalità relazionale nuova e che si adatta al canale comunicativo dell’adolescente che non sempre è in grado di distinguere l’extrapsichico dall’intrapsichico, e quindi a volte è puntato sul registro del fare più che del pensare.

Altro concetto chiave del testo e della teorizzazione di Cahn è il concetto di Soggettivazione, il compito più grande nel quale è impegnato l’adolescente. Farsi soggetto, costruire la propria identità potremmo dire, arredare una casa – per usare una metafora – in cui alle pareti rimangono appese fotografie del passato. Non avrebbe senso, nè sarebbe possibile, radere al suolo e costruire ex novo; il geometra adolescente va alla ricerca di un’armonia, è il terapeuta potrebbe aiutarlo in questo.

È importante sottolineare, infatti, che spesso la sofferenza dell’adolescente è rappresentato da un’incagliarsi del processo di soggettivazione, che comporta anche il coraggio e la possibilità di assumersi il rischio dei propri desideri, in un conflitto dialettico con le figure di riferimento, capendo che il confronto può essere costruttivo e liberatorio e non necessariamente annullante o distruttivo. Imprescindibile, ovviamente, il ruolo delle figure adulte che la persona incontra lungo il cammino. Ma niente è irreparabile e l’incontro con un terapeuta che agisce da adulto, occupandosi anche di “cose concrete” se necessario, può rappresentare una finestra su una modalità di essere e vivere differente e nuova.

Quello che infatti sembra emergere spesso nella seduta con l’adolescente, è il suo bisogno di “essere con”, di non sentirsi abbandonato, ma soprattutto di sentirsi capito. Imprescindibile per un ragazzo in consultazione o terapia è sentire la fiducia del terapeuta, la convinzione di non spaventarlo con pensieri o emozioni non capite è troppo forti.

Terapeutica, infatti, sembra essere la consapevolezza che il terapeuta reggerà agli scossoni, ammettendo anche la propria umanità. A tal proposito il libro fornisce anche spunti di riflessione sul mutamento del ruolo dello psicoanalista negli anni (da muta sfinge onnipotente a compartecipe attivo della seduta) fornendo così una interessante panoramica storica.

Per concludere, di questo testo ben scritto ma sicuramente specifico e tecnico e pertanto seppur chiaro poco adatto ai “non addetti ai lavori”, portiamo a casa il messaggio che per lavorare bene con un adolescente è opportuno non aver paura di ammettere di esserlo (o non esserlo) stati.

 

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Costruire l’adolescenza. Tra immedesimazione e bisogni (2014) – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Catatonia nella sindrome di Down

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

La catatonia è una sindrome neuropsichiatrica che si presenta tipicamente a livello motorio e risponde ad un trattamento con benzodiazepine e terapia elettroconvulsiva (ECT).

La sindrome di Down (DS) è il più comune disturbo genetico negli Stati Uniti ed è causato dalla trisomia del cromosoma 21 che può essere una conseguenza della non disgiunzione dei cromosomi o, meno spesso, della traslocazione.

Molti soggetti con DS sembrano subire una regressione nel comportamento, nell’umore, nelle attività quotidiane, nelle capacità motorie e intellettuali durante l’adolescenza o da adulti. Spesso sono stati considerati responsabili di questa regressione la depressione, l’esordio precoce del morbo di Alzheimer, o semplicemente l’evoluzione della stessa sindrome di Down. I medici sono generalmente inconsapevoli che la vera responsabile di questa regressione potrebbe essere la catatonia, la quale infatti può causare questi sintomi.

Questa inconsapevolezza può essere causata dal fatto che storicamente la catatonia è stata diagnosticata solo all’interno della diagnosi di schizofrenia. Solamente con la pubblicazione del DSM-5 si è dato spazio alla diagnosi di “catatonia aspecifica” che risulta essere utile quando non c’è una diagnosi neuropsichiatrica o medica sottostante. Purtroppo, il DSM-5 non è riuscito a sottolineare che la condizione può verificarsi in tutto l’arco di età, anche in bambini e adolescenti.

La catatonia è una sindrome neuropsichiatrica che si presenta tipicamente a livello motorio e risponde ad un trattamento con benzodiazepine e terapia elettroconvulsiva (ECT).

I sintomi principali sono cambiamenti nell’attività motoria (riduzione o meno spesso aumento dell’attività), movimenti inusuali (stereotipie, boccacce, congelamento, tic motori o vocali…), cambiamenti nel discorso, riduzione dell’appetito, declino delle attività giornaliere, incontinenza, negatività e deficit nell’area cognitiva. Le manifestazioni iniziali sono la disregolazione dell’umore, del sonno e la comparsa di preoccupazioni di tipo ossessivo, psicotico o quasi psicotico.

A differenza della demenza che mostra un progressivo e irreversibile declino della memoria, del funzionamento intellettuale e della personalità, i pazienti DS con catatonia rispondono al trattamento e se trattati in modo appropriato possono anche ritrovare il funzionamento iniziale.
Il dipartimento di Psichiatria nell’Università del Michigan ha condotto uno studio per valutare la presenza di catatonia in 4 adolescenti con sindrome di Down in fase di regressione.

Anche se erano presenti sintomi in molteplici domini è stata fatta una diagnosi di catatonia in base alla predominanza di sintomi a livello motorio; inoltre in tutti i ragazzi il trattamento per la depressione non ha ottenuto risultati positivi.
Infatti in 3 dei 4 ragazzi gli antidepressivi hanno fallito nell’ottenere un responso positivo e il quarto ragazzo ha addirittura subito un deterioramento.
I pazienti sono stati dunque curati con il trattamento anti-catatonico ovvero utilizzando benzodiazepine e terapia elettroconvulsiva con risultati positivi in tutti i ragazzi permettendo loro di recuperare il funzionamento di base.

Si sospetta dunque che la catatonia sia una causa comune del deterioramento negli adolescenti e nei giovani adulti con DS. Allertare i medici sulla presenza di catatonia nei DS è fondamentale per fornire una diagnosi e un trattamento adeguato e per l’identificazione della frequenza e del corso di questo disturbo.

 

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Uno sguardo verso l’alto di Marco Calamai – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

Birdman e la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo (2014) – Cinema & Psicologia

 

La sequenza continua ci rende partecipi di quell’ansia che non può essere narrata altrimenti. Entriamo così noi stessi a far parte di un ciclo continuo di umori ed eventi, sottolineati tra l’altro da una efficace colonna sonora.

Birdman, vincitore quest’anno di 4 premi Oscar (miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura originale e miglior fotografia). Di tutti, credo che quello per la regia identifichi al meglio le ragioni della grandezza espressiva dell’opera. Girato come se fosse un unico piano di sequenza, lo scopo di tale coraggiosa scelta è sì quello di rendere meglio l’idea del teatro, in cui è ambientato il film, ma anche un altro molto importante che riguarda il tema psicologico dell’opera.

La sequenza continua ci rende infatti partecipi di quell’ansia che non può essere narrata altrimenti. Entriamo così noi stessi a far parte di un ciclo continuo di umori ed eventi, sottolineati tra l’altro da una efficace colonna sonora. Sicché ci rendiamo conto che è la vita stessa ad essere così e dunque che Birdman è una rappresentazione di essa. Di quella continua e frenetica esistenza che mai si ferma e mai ci attende, di quella spinta interna che mai si arresta e mai ci dà tregua; mai un solo attimo per riflettere su chi siamo e dove stiamo andando.

Così, come nel film, l’ansia sale perché siamo sempre spinti in avanti senza poterci fermare a vivere il presente. Guardando il film assistiamo dunque ad un’opera, in parte simbolica, in parte introspettiva. Vediamo da un lato infatti una rappresentazione della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo, appunto in quella corsa continua, spinta dal desiderio di innalzarsi a chissà quale meta, che mai si raggiunge e mai ci soddisfa; ma vediamo anche il dramma di un uomo in particolare, il protagonista, preso dai suoi sensi di colpa che sfociano in dissociazioni allucinatorie man mano che la trama va avanti e man mano che la meta sembra avvicinarsi.

Vincitore di quattro premi Oscar, voglio dire tutti ben meritati, Alejandro González Iñárritu (l’autore) non è estraneo ai temi dell’esistenzialismo, che anzi lo hanno guidato in tutte le sue opere. Nato in una famiglia inizialmente benestante, ma cresciuto durante un tracollo finanziario della stessa, il regista messicano passò l’adolescenza lavorando da mozzo ad ingrassar motori su una nave mercantile. Prima del suo inizio artistico, questa sua esperienza, che lo ispirò successivamente allo studio dei classici dell’esistenzialismo, si può certamente identificare come la genesi della sua visione registica, del suo modo espressivo così crudo, realista, così vero.

E c’è molto di se stesso in questo film, molta della sua voglia di essere, molto delle sue paure, molta della sua critica al mondo di Hollywood, ma soprattutto c’è molta riflessione sull’attuale condizione dell’esistenza umana, dei nostri limiti e delle nostre ambizioni che alla fine ritornano ad una sola importante richiesta che tutti infondo abbiamo nel cuore: quella di esser visti, di essere apprezzati, di essere amati.

TRAILER:

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Birdman: l’imprevedibile virtù dell’ignoranza (2014) – Cinema & Psicologia

Disconnect (2012): oggi che siamo sempre connessi ci sentiamo più soli che mai – Cinema & Psicologia

Sei una persona generosa? E’ tutta questione di dopamina

Cosa succede a livello neuronale che ci motiva alla generosità e all’offrire qualcosa di nostro agli altri? Un nuovo studio mette ora in luce il ruolo della dopamina nella percezione della iniquità nella distribuzione delle risorse tra individui. 

Chissà…qualcuno di noi potrebbe essere tra quelle persone che hanno sempre detto di no sia da piccoli, alla classica richiesta del compagno di banco Mi dai un pezzo della tua merenda?, che da grandi, alle pressioni di sorelle o fratelli che volevano i nostri cd o le nostre maglie. E in risposta a questo rifiuto gli altri potrebbero averci additato come avidi o ingordi… nessun problema, ora ci si può giustificare grazie ai livelli di dopamina rilasciati dal nostro cervello!

Gli esseri umani, data la scarsa prestanza fisica rispetto alle altre specie viventi, nel corso della loro evoluzione, hanno dovuto fare affidamento ai sentimenti di generosità per consentire un’equa distribuzione delle risorse intra-specie in modo da garantire la sopravvivenza dei propri simili.

Ma cosa succede a livello neuronale che ci motiva alla generosità e all’offrire qualcosa di nostro ad altri? 

Un nuovo studio mette ora in luce il ruolo della dopamina nella percezione della iniquità nella distribuzione delle risorse tra individui: i soggetti dello studio sono stati sottoposti dapprima a un questionario che indagava la sensibilità di ciascun individuo ai temi della disuguaglianza e tolleranza, successivamente sono stati formati due gruppi di soggetti. Ai partecipanti del primo gruppo è stata somministrata una dose di tolcapone (una sostanza che favorisce l’aumento del rilascio di dopamina nel cervello), ai partecipanti del secondo gruppo è stata somministrata una sostanza placebo. I soggetti di entrambi i gruppi hanno poi giocato a una versione modificata di Dictator Game, in cui è stato chiesto loro di scegliere quanti gettoni conservare e quanti invece distribuirne a un partner di gioco anonimo.

Quale ruolo avrà la dopamina in tutto ciò? Favorirà i comportamenti generosi o, al contrario, tenderà ad inibirli? Per scoprirne di più leggete l’articolo consigliato.

 

A research team led by Ignacio Saez of UC Berkeley had study participants play various versions of the Dictator Game — more or less: Here, take these 100 tokens worth a little money and decide how many you want to keep versus how many you want to give to an anonymous partner…

Quanto sei generoso? E’ tutta una questione di dopaminaConsigliato dalla Redazione

Sei una persona generosa? E' tutta questione di dopamina- Immagine: 55679394
Cosa succede a livello neuronale che ci motiva alla generosità e all’offrire qualcosa di nostro ad altri? Un nuovo studio mette ora in luce il ruolo della dopamina nella percezione della iniquità nella divisione delle risorse. (…)

Tratto da: Science of Us

 

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Obesità: il peso dello stigma fa aumentare di peso

Elena Sirotti, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Le persone sovrappeso o obese sono una delle categorie sociali più colpite da discriminazioni, pregiudizi e stereotipi. I pregiudizi negativi derivano dal fatto che comunemente si crede che il comportamento alimentare (e il conseguente peso della persona) sia totalmente sotto il nostro controllo e che, di conseguenza, se si è grassi è colpa della persona stessa.

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità (2011), l’obesità colpisce circa il 10% degli italiani adulti, e circa il 12% dei bambini. Il problema non è naturalmente solo italiano: l’obesità sta assumendo le caratteristiche di una vera e propria pandemia a livello mondiale (OMS, 2007). L’obesità è un fattore di rischio per serie patologie croniche come malattie cardiovascolari, diabete di tipo II e anche alcuni tumori. Le conseguenze di questa malattia non sono solo mediche ma anche psicologiche e sociali (Tomasetto e Privato, 2013).

Le persone sovrappeso o obese sono una delle categorie sociali più colpite da discriminazioni, pregiudizi e stereotipi. Nella cultura occidentale, infatti, è mentalità comune considerare queste persone come pigre, deboli, senza forza di volontà, poco intelligenti e senza disciplina o controllo, queste convinzioni sono già insite nei bambini dai 6 anni (Wadden e Stunkand, 1985).

I pregiudizi negativi derivano dal fatto che comunemente si crede che il comportamento alimentare (e il conseguente peso della persona) sia totalmente sotto il nostro controllo e che, di conseguenza, se si è grassi è colpa della persona stessa. Purtroppo l’aumento di peso non dipende solo dalla nostra volontà ma anche da fattori genetici, sociali e psicologici.

Le discriminazioni e le critiche per il proprio peso possono condurre a diversi esiti negativi per la salute psico-fisica, per le relazioni interpersonali e affettive e per la condizione socio-economica. In particolare possono portare gravi conseguenze nel benessere psicologico come ansia, depressione, ritiro sociale, bassa autostima e nei casi più gravi suicidio.

Il pregiudizio sul peso si può presentare sotto diverse forme e sfaccettature:

  • derisione o presa in giro verbale (soprannomi negativi, appellativi insultanti o denigratorie),
  • bullismo fisico, psicologico o sul web,
  • vittimizzazione relazionale o isolamento sociale (le persone sovrappeso evitate, escluse o ignorate, Brownell et all. 2005).

Questi pregiudizi sono talmente radicati nella società che favoriscono l’internalizzazione di un modello di corpo eccessivamente magro (Tomasetto e Privato, 2013).

Questo può portare, specialmente durante l’adolescenza, avere una scarsa accuratezza nella valutazione del proprio peso. Molti adolescenti normopeso, per esempio, hanno l’errata percezione di sentirsi sovrappeso (Quick,et all, 2014). Le ricerche in questo ambito hanno sottolineato che questo errore di valutazione è legato a insoddisfazione per le forme corporee, stress psicologico e disturbi alimentari.

Inoltre gli individui che si percepiscono più grossi rispetto alla realtà riportano di seguire ricorrentemente diete e comportamenti estremi per perdere peso come uso di pillole, lassativi o vomito e forti restrizioni alimentari (Eichen, Conner, Daly & Fauber, 2012). Altre ricerche evidenziano come gli adolescenti che si credono in sovrappeso fanno più attività sportiva rispetto ai coetanei, ma allo stesso tempo passano più ore davanti ad uno schermo e sono più inclini ad abbuffarsi.

I dati mostrano quindi che un’errata percezione corporea è associata all’aumento della probabilità di diventare obesi. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta sembra il momento cruciale di questo processo.

Una recente ricerca longitudinale (Sutin e Terracciano, 2015) ha studiato come, durante il periodo tra l’adolescenza e la prima età adulta, la dispercezione corporea sia un fattore di rischio molto importante nello sviluppo dell’obesità.

Lo studio è stato effettuato su 6523 ragazzi di entrambi i sessi di età media di 16 anni. I soggetti sono stati sottoposti alle misurazioni di peso e altezza in modo da ottenere i loro indici di massa corporea, e ad alcune semplici domande su come si sentivano rispetto al loro peso. Gli stessi soggetti sono stati poi ricontattati all’età di 28 anni. È emerso che i ragazzi che si sentivano grassi, nonostante un indice di massa corporea nella norma, dimostravano il 40% di rischio in più di diventare obesi rispetto ai coetanei che avevano una rappresentazione di sé più realistica. Si sottolinea che questa tendenza è stata riscontrata in entrambi i sessi e che sembra, al contrario dell’idea comune, che i ragazzi siano molto più a rischio delle coetanee.

Secondo gli autori ci sono due meccanismi che possono spiegare questi risultati. Il primo è legato alla stigmatizzazione sociale, infatti, le persone che sono state etichettate come grasse nell’infanzia tendono a attuare comportamenti che aumentano le probabilità di diventare obesi, come diete molto restrittive, uso di lassativi, digiuni prolungati (Hunger e Tomiyama, 2014). Il secondo meccanismo è invece legato all’auto-stigmatizzazione e alle ridotte abilità di auto-regolazione e di controllo sui propri comportamenti che queste persone presentano.

Crescendo questi ragazzi interiorizzano i pregiudizi legati al peso e diventano più ansiosi e depressi, questi stati emotivi rendono più difficile intraprendere uno stile di vita salutare, esacerbando la volontà di controllare la propria alimentazione e facilitando l’attuazione di diete ferree per dimagrire che vengono regolarmente infrante aumentando le percezione di poco controllo sull’alimentazione e emozioni negative come tristezza e ansia. Così si entra in un circolo vizioso che è difficile bloccare. Inoltre queste persone pensandosi già grasse fanno più fatica a rendersi conto di quando e quanto ingrassino realmente.

I significativi aumenti di peso possono essere duramente commentati da amici e familiari e pongono ancor maggior attenzione sui comportamenti alimentari della persona sovrappeso (Puhl, Moss-Racusion, Schwartz & Brownell, 2008).

A parità di sovrappeso le esperienze di stigmatizzazione e di discriminazione percepita riducono il benessere psicologico, incrementano il rischio di patologie organiche correlate all’obesità e riducono la probabilità di adottare comportamenti alimentari corretti e un livello di esercizio fisico adeguato.

Lo studio di Sutin e collaboratori fa parte di un recente, seppur molto produttivo e interessante, filone di ricerche. Infatti è stato riscontrato che adolescenti normopeso si percepiscono più grassi rispetto all’indice di massa corporeo reale (Quick et al., 2014) e sembra che la dispercezione corporea sia legata al rischio di insoddisfazione per il proprio corpo, stress psicologico e disturbi alimentari.

In un’altra recente ricerca effettuata (Isomaa, Isomaa, Marttunen, Kaltiala-Heino & Biorkvist, 2011), che ha utilizzato questionari e interviste su un gruppo di 595 adolescenti di 15 anni (283 femmine e 312 maschi), è emerso che il 29% delle ragazze e il 14% dei ragazzi percepivano in modo errato se stessi e il proprio peso. L’errata percezione del peso nelle ragazze era correlata a sintomi depressivi, ansia sociale, disturbi alimentari e bassa autostima; mentre i ragazzi sperimentano più ansia sociale al follow-up rispetto ai loro omologhi con una corretta percezione corporea.

Altre conferme in questa direzione arrivano dall’Olanda. Infatti Ter Bogt e collaboratori (2006), su un campione di 7556 ragazzi delle scuola primarie e secondarie, hanno indagato la correlazione tra l’indice reale di massa corporea, la percezione soggettiva del peso e indicatori di disagio sociale valutati con lo Youth Self-Report di Achenbach che valuta otto tipi di comportamenti problematici. I risultati mostrano che i ragazzi (maschi e femmine) che non hanno una corretta percezione del loro peso riportano maggiori problemi comportamentali legati all’ansia, all’ansia sociale e alla depressione.

L’aumento della popolazione in sovrappeso, l’importanza sociale della magrezza, la diffusione endemica di pregiudizi e stereotipi e i gravi danni che questi possono causare devono quindi porre l’attenzione di educatori, professori, genitori, medici e istituzioni, ovvero tutte le persone che hanno a che fare con bambini e adolescenti, su questo importante tema.

Le percezioni del proprio corpo e delle proprie misure devono essere prese sul serio per tutti gli adolescenti, l’attenzione va posta non soltanto su chi è effettivamente in sovrappeso, ma anche su chi ha una cattiva percezione del proprio corpo, pur rientrando nella norma. Inoltre, da parte degli adulti, sono fondamentali delicatezza e cautela verso gli adolescenti quando si affrontano questioni legate al grasso corporeo, non solo quando si tratta di ragazze.

Anche se Sutin e altri ricercatori sono stati in grado di determinare come le dispercezioni degli adolescenti sono associate ad un aumentato rischio di obesità, una maggiore conoscenza dei processi psicologici che contribuiscono all’obesità potrà migliorare gli sforzi di prevenzione per aiutare gli adolescenti a mantenere un peso sano durante la crescita verso l’età adulta.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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