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I bambini imparano quello che vivono, di Dorothy Law Nolte – Poesia –

L’autrice ha successivamente trasformato la poesia in un’opera letteraria, diventata ormai un classico, nella quale ha analizzato e commentato ogni verso attraverso esempi e aneddoti.

Scrittrice, pedagogista e consulente familiare, Dorothy Nolte è nata in California nel 1924. Fin dall’adolescenza è spinta verso l’interesse per il delicato tema del rapporto genitori-figli e fonda un centro come volontaria per le famiglie in difficoltà. Negli anni ‘50 inizia una collaborazione con la rivista settimanale The Torrance Herald, dove si occupa di una rubrica di consulenza familiare. E’ lì che pubblica la poesia, diventata famosa in tutto il mondo, intitolata “I bambini imparano quello che vivono”, della quale riporto il testo tradotto in italiano:

Se i bambini vengono criticati,
imparano a condannare.
Se vivono nell’ostilità,
imparano ad aggredire.
Se vivono nella derisione,
imparano la timidezza.
Se vivono nella vergogna,
imparano a sentirsi colpevoli.
Se vivono nella tolleranza,
imparano a essere pazienti.
Se vivono nell’incoraggiamento,
imparano ad avere fiducia.
Se vivono nella lealtà,
imparano la giustizia.
Se vivono nella disponibilità,
imparano ad avere fede.
Se vivono nell’approvazione,
imparano ad accettare.
Se vivono nell’accettazione,
imparano a trovare amore nel mondo.

All’insaputa dell’autrice, la poesia fu tradotta in più di 35 lingue e venne considerata anonima fino a quando, nel 2001, riuscì a ottenere i diritti d’autore.

Con l’aiuto della psicoterapeuta Rachel Harris, l’autrice ha successivamente trasformato la poesia in un’opera letteraria, diventata ormai un classico, nella quale ha analizzato e commentato ogni verso attraverso esempi e aneddoti. Il libro, scritto con un linguaggio chiaro e divulgativo, è rivolto sia ai genitori che agli educatori. L’obiettivo dell’autrice è stato quello di diffondere il messaggio che i bambini imparano e vengono influenzati non tanto dagli insegnamenti verbali, quanto dal comportamento che mettono in atto le figure di riferimento, sia genitoriali che educative.

 

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Feliciana Pace

Accanto ad una richiesta di un intervento estetico, è possibile che si celino dei disturbi di carattere psicopatologico. Recenti studi (Persichetti, Russo, Tambone, 2012) segnalano la presenza, in reparti di dermatologia e di chirurgia estetica, di una percentuale dal 5% al 33% di persone che presentano un disturbo di dismorfismo corporeo.

Questo è un dato molto importante in quanto fa riflettere sulla necessità di effettuare un’accurata valutazione psicologico-psichiatrica per evitare di intervenire chirurgicamente su persone che non saranno mai soddisfatte della loro forma fisica.

Il termine dismorfofobia deriva dal greco e vuol dire cattiva forma. Fu utilizzato per la prima volta da Morselli nell’800 (Benvenuti, 2007) per indicare un vissuto soggettivo di deformità o di difetto fisico di una parte del corpo che lo pone al centro dell’attenzione degli altri, nonostante oggettivamente il corpo si presenti assolutamente nella norma. È possibile che il difetto sia presente, ma comunque viene vissuto in maniera esasperata e non congruente con il difetto stesso. Jaspers (Benvenuti, 2007) considera la possibilità che il disturbo possa prendere la forma di un’idea prevalente, ossessiva o addirittura delirante. Il soggetto trascorre la maggior parte del suo tempo nella valutazione di questa anomalia e ciò lo induce ad una evidente forma di disagio in ambito oltre che personale, anche sociale. In questo caso il corpo smette di essere muto e si carica di un significato di inadeguatezza fisica ed esistenziale.

Questo è il caso di una celebre opera pirandelliana dove nel protagonista, prende forma un’esperienza dismorfofobica:

già mi figurai che tutti, […] dovessero accorgersi di quei difetti corporali e altro non notare in me. […] Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. […] Mi vidi. Ero io là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato […].

L’aspetto interessante è che pare che ogni epoca sviluppi la propria forma di patologia e se pensiamo a patologie legate al corpo oggi, non si può non far riferimento ai disturbi del comportamento alimentare.

I pazienti con DCA, spesso donne, possono presentare anoressia nervosa o bulimia e disturbo da alimentazione incontrollata. L’anoressia nervosa, porta le adolescenti, ad avere una costante paura di acquisire peso e a non avere la consapevolezza del proprio corpo, vissuto sempre in maniera inadeguata e visto sempre in sovrappeso, anche quando si è oggettivamente sottopeso. In realtà un soggetto che presenta queste problematiche è alla costante ricerca di sé: il corpo rappresenta solo l’oggetto e il luogo più facile per fare ciò e per controllare le emozioni. Le anoressiche non riescono a definire se stesse a partire dalle loro emozioni e sensazioni: hanno bisogno di rapportarsi con misurazioni oggettive come il peso e la taglia (Stanghellini, Ambrosini, 2010). Sentono il loro corpo a pezzi e per questo, il corpo, non rappresenta per loro una base sicura per la costruzione della propria identità (Stanghellini, Ambrosini, 2010).

La personalità di queste pazienti è caratterizzata da bassa autostima, impulsività e perfezionismo patologico. Pur essendo una patologia dal carattere multifattoriale, gli aspetti psicologici e culturali ne rappresentano i fattori di rischio. Attualmente il valore del cibo è cambiato, non rappresenta più un segno di benessere e salute e l’immagine corporea prevalente è quella di donne magre che riscuotono successo, popolarità e ricchezza. A differenza di altri disturbi, si tratta di un problema presente nei paesi industrializzati, a dimostrazione di come l’aspetto culturale occupi un ruolo importante nella vulnerabilità allo sviluppo della patologia (Bordo, 1997).

Susan Bordo (Bordo, 1997) nella sua analisi culturale, riferisce l’oppressione di queste donne causata dalla tirannia della snellezza. L’anoressica non accetta il proprio corpo, non lo alimenta, lo distrugge gradualmente. Si potrebbe fare riferimento a una crisi della presenza (Martinotti, 2010). Il cibo non ha più valenza vitale ma finisce per assumere un significato in grado di deformare il corpo (Martinotti, 2010). Mangiare secondo le proprie regole, diventa un modo per esercitare un controllo su loro stesse.

E’ stata valutata anche una correlazione tra disturbo dismorfofobico e disturbi di personalità. I più comuni erano narcisistico, borderline, evitante, paranoico, schizotipico (Bellino et all., 2006).

Prendiamo in considerazione il disturbo narcisistico. Il termine narcisismo risuona spesso nella presentazione della personalità di coloro che prediligono l’apparenza e l’amore per se stessi. La personalità narcisistica può essere associata a delle costanti della cultura contemporanea: il terrore della vecchiaia e della morte, l’alterazione del senso del tempo, la paura della competizione (Lash, 1981). I soggetti con un disturbo di personalità narcisistica possono apparire superbi, arroganti e manifestano un senso di superiorità. In realtà questi soggetti celano un sentimento di inadeguatezza, si sentono indifesi, spesso hanno una sensazione di vuoto interiore e hanno il timore che gli altri possano vederli in questo modo (Munno, 2008).

In un’epoca di rapidi cambiamenti in cui l’impressione che abbiamo sugli altri conta più della nostra sincerità e integrità, l’immagine prende il posto della sostanza e la persona, intesa come parte di sé che si mostra al mondo, diventa più importante della nostra autenticità. La persona narcisista ha un costante bisogno di oggetti sé, cioè di persone che gli manifestano sostegno, ammirazione, approvazione, riempiendo quindi, il vuoto interiore e consentendo l’incremento della loro autostima.

Tutte queste manifestazioni psicopatologiche hanno in comune il bisogno da parte degli individui, di riconoscersi nello sguardo degli altri. Vitangelo Moscarda (Pirandello, 2012) ebbe bisogno dell’intervento della moglie per riflettere sulla sua identità, le anoressiche, secondo un’ottica fenomenologica, sembrano mettersi a fuoco attraverso lo sguardo degli altri e la persona narcisista ha il timore del giudizio degli altri, ma ha bisogno degli altri per colmare il suo senso di inadeguatezza. Lo sguardo degli altri può renderci soggetto o in caso contrario reificarci, come sostiene Sartre (Persichetti, Russo, Tambone, 2012).

 

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BIBLIOGRAFIA:

La dissonanza cognitiva – Introduzione alla Psicologia nr. 15

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (14)

 

 

In cosa consiste la dissonanza cognitiva? In cognizioni o pensieri antitetici e per questo in contrasto tra loro al punto, in casi più estremi, da creare disagio alla persona.

 

A esempio: ‘Non sopporto chi lancia oggetti quando si arrabbia‘ ma ‘A volte mi capita di lanciare oggetti se sono arrabbiato’. Come è possibile osservare si tratta di due assunzioni ‘dissonanti’ tra loro, che non portano ad avere una visione della circostanza univoca, ma derivante da due posizioni in contrapposizione tra loro.

La dissonanza cognitiva provoca una inversione di rotta che determina una sorta di tensione, simile a quella che si prova in situazioni stressanti, e emozioni negative. A esempio una persona che esprime un giudizio morale sui profughi e poi per diverse necessità è costretta ad andare contro questa posizione, per ovvi motivi proverà un forte disagio psichico e comportamentale. L’intensità del disagio provato sarà direttamente proporzionale all’importanza data alla cosa e al numero degli elementi che si trovano in contraddizione. La ricerca psicologica si è dedicata soprattutto agli effetti o alle conseguenze di questa condizione.

Festinger (1957) noto studioso della dissonanza cognitiva ha individuato tre modalità per ridurre l’incongruità psicologica:

  1. cambiare un pensiero per renderlo più coerente con l’altro: se una persona spende troppo denaro e pensa allo stesso tempo di doverne accumulare, dovrebbe cambiare uno dei due comportamento o in un senso o nell’altro.
  2. aumentare le evidenze a favore del comportamento incoerente: di fronte all’evidenza che il bere troppo fa male, chi approfitta di questo comportamento tenderà a difenderlo anche facendo uso di massime, come: ‘il vino fa buon sangue‘.
  3. diminuire la dissonanza: fare in modo che le posizioni assunte siano meno discordanti; una persona che ha il colesterolo molto alto dovrebbe non ingerire cibi grassi, ma questa cosa diventerebbe insopportabile al punto da pensare che è meglio una vita felice che una piena di sacrifici e rinunce.

Inoltre, Festinger, ha evidenziato i processi per uscire della dissonanza cognitiva:

  • Situazione 1, compiacenza indotta o forzata: Se un comportamento porta a conseguenze negative allora il cambiamento di questo comportamento avviene liberamente.
  • Situazione 2, giustificazione dello sforzo: Più un cambiamento costa in termini emotivi, minore è la probabilità di metterlo in dubbio e quindi di cambiare.
  • Situazione 3, giustificazione insufficiente: I soggetti gravemente minacciati ridurranno la loro volontà in misura minore rispetto a coloro che ricevono solo una leggera ammonizione.
  • Situazione 4, dissonanza post-decisionale: giungere a conclusioni contrastanti tra loro, lo scopo è favorire la decisione presa.
  • Situazione 5, dissonanza derivata dalla disconferma di una credenza importante: si tende a rinforzare le decisioni prese e disconfermarle se è necessario. Questo però si verifica solo a certe condizioni:
    • a) se la credenza originaria è molto forte,
    • b) se ci si espone pubblicamente,
    • c) se si ha la disconferma di un evento
    • d) se non vi è un sostegno sociale a favore del cambiamento.

La dissonanza cognitiva è molto utilizzata per studiare le modalità secondo cui avviene un cambiamento di opinione o di atteggiamento.

L’ipotesi di partenza è: cambiando i pensieri, cambiano le opinioni? o creando un dubbio sulla valutazione, la situazione di incongruità si risolverà verso uno dei due atteggiamenti che ne derivano?

Chiaramente, la risposta è sì, perché cambiando gli assunti le conseguenze si modificano, ma non sempre. L’esito dipende in ogni caso dal comportamento messo in atto che non per forza corrisponde all’estinzione del comportamento stesso.

Per esempio, una dissonanza sul non fumare può risolversi in diversi modi:

  1. Non fumo perché mi provocherà il cancro;
  2. Continuo a fumare, non esiste una relazione di causa e effetto tra fumo e cancro;
  3. Fumo la pipa perché è meno pericoloso.

Per concludere, la dissonanza cognitiva pare sia efficace nel cambiamento di un atteggiamento quando:

  • la persona compie un atto non contrario al proprio atteggiamento;
  • un’azione indotta da una ricompensa o punizione è percepita come una libera scelta;
  • il riconoscimento sociale ottenuto dal cambiamento di atteggiamento porta a esiti positivi;
  • diminuendo le informazioni incoerenti, gli assunti appaiono molto in dissonanza cognitiva e quindi modificabili;
  • il cambiamento investe la componente cognitiva, emotiva e relazionale;
  • il cambiamento ottenuto produce progressivi successi

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Un documentario sulla dissonanza cognitiva in un gruppo di estremisti

FLASH NEWS

Per dissonanza cognitiva si intende uno stato spiacevole causato dalla consapevolezza dell’incoerenza esistente tra credenze o atteggiamenti discrepanti (Smith & Mackie, 1998). La dissonanza cognitiva si produce spesso quando il comportamento o un evento entra in conflitto con un atteggiamento pre-esistente.

I neuroscienziati del King’s College di Londra e la regista Sheila Marshall uniscono i loro sforzi in un innovativo documentario divulgativo intitolato “Right Between Your Ears” per far capire cosa succede nella nostra mente quando siamo fermamente convinti di avere ragione, anche nel momento in cui ci stiamo sbagliando di grosso.

Per dissonanza cognitiva si intende uno stato spiacevole causato dalla consapevolezza dell’incoerenza esistente tra credenze o atteggiamenti discrepanti (Smith & Mackie, 1998).

La dissonanza cognitiva si produce spesso quando il comportamento o un evento entra in conflitto con un atteggiamento pre-esistente. Se l’incoerenza provoca disagio, la motivazione a ridurre gli effetti spiacevoli dell’incoerenza può portare a una modificazione degli atteggiamenti. Ma non sempre questo accade.

Partendo proprio dal costrutto di dissonanza cognitiva e dal classico esperimento di Festinger (1959), i ricercatori hanno trascorso ben sei settimane negli Stati Uniti vivendo quotidianamente insieme a un gruppo di fondamentalisti credenti alle profezie riguardanti fine del mondo (in inglese definiti ‘end-time believers’) e osservandoli da un punto di vista psicologico-cognitivo in tre fasi fondamentali: prima, durante e dopo il fallimento delle loro credenze profetiche.

Nel documentario si alternano stralci di riprese e colloqui con gli “end-time believers” e interviste con scienziati e accademici esperti di cognizione e neuroscienze.

Il mondo della psicologia ha molto da dire riguardo la rigidità delle nostre convinzioni e la gestione delle informazioni dissonanti rispetto a quel che crediamo; il documentario rappresenta un buon esempio di divulgazione delle scienze psicologiche.
Il DVD sarà disponibile a partire dal prossimo 21 maggio.

 

Right Between Your Ears (2015) TRAILER 

 

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Amare gli animali e mangiare gli animali: come riduciamo la dissonanza cognitiva del “meat paradox”

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Muhammara: il cibo della seduzione e della conoscenza reciproca

La muhammara è una crema originaria di Aleppo, una delle più antiche e meravigliose città siriane. Le ricette variano ma si può farla sia con i peperoni cotti che crudi. Diventano diverse, con i peperoni cotti il colore è più spento e il sapore più morbido, con i peperoni crudi tutto si fa più frizzante e disomogeneo. Dipende veramente dall’umore del momento.

 

Ecco, la muhammara è per me nel ricordo (perché ormai sono anziana) il cibo tipico della seduzione e della conoscenza reciproca, quel tempo sospeso in cui tutto può accadere e anche se nulla accade, il racconto delle autobiografie di ciascuno, poetiche e romanzate, la sospensione e la curiosità rendono la vita intensa e degna di essere vissuta.

Perché? Per una serie di motivi i più vari:

Non è troppo grassa.

Non ho dovuto uccidere animali (neanche animali con poco cervello come le ostriche) e così non devo far soffrire nessuno se ho voglia di stare bene.

Il sapore è forte ma senza ingredienti che lasciano in bocca odori che imbarazzino il bacio.

Le noci energetiche, ci danno forza e fiducia.

I tipi diversi di peperone (antiossidanti, vitamina C, la medicina Ayurvedica lo consiglia contro l’ulcera e in generale viene considerato benefico per tutti i problemi di transito intestinale).

infine il succo di melograno ha proprietà antitumorali e antiossidanti ed è (secondo la medicina naturale) un antidepressivo (su questo non giuro però).

La crema, spalmata sul pane bruscato, è poco impegnativa, e chiede tempo nella consumazione mentre si chiacchiera, e ci si conosce, aiuta il corpo e la mente a parlare, aiuta il cuore a raccontarsi. infrange confini, demolisce rigidità, favorisce l’empatia.

 

Ingredienti:

1 cucchiaio di peperoncino rosso forte (si trova ormai ovunque)

1 cucchiaino di cumino polverizzato

un terzo di tazza di noci tostate

2 o 3 cucchiai di mollica di pane integrale

2 o 3 cucchiai di olio e ancora da mettere sopra a crema finita

2 cucchiai di sciroppo di melograno (fondamentale, lo trovate a Roma da Castroni e a Milano nei negozi etnici)

3 cucchiai di pasta di pomodoro concentrata

2 o 3 peperoni (grigliati o arrostiti)

acqua tiepida fino a una tazza dipende dalla consistenza

sale

 

Semplicemente unite gli ingredienti. e frullate non troppo fine, alla fine a ornare, olio e fogliette di menta o basilico.

questa è la mia ricetta di riferiment: Muhammara recipe

 

 

TASTE OF MIND: La rubrica della mente in cucina

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L’Italia che gioca d’azzardo: percorso diagnostico per l’assessment e la valutazione psicologica del disturbo da gioco d’azzardo – PARTE 2

Gianna Passalacqua

LEGGI LA PARTE 1

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il gioco d’azzardo patologico come una forma morbosa chiaramente identificata, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale.

Riassunto

La febbre del gioco considerata per anni un semplice vizio è, in realtà, una vera e propria malattia, tanto da essere stata recentemente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il gioco d’azzardo patologico come una forma morbosa chiaramente identificata, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale. Il GAP è comunque una patologia prevenibile, curabile e guaribile, che necessita di diagnosi precoce, cure specialistiche e adeguati supporti psicologici e sociali. L’articolo si propone l’obiettivo di descrivere un percorso diagnostico per l’assessment e la valutazione psicologica del disturbo da gioco d’azzardo.

Key Word: Gambling, Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), Strumenti diagnostici, DSM-5.

Introduzione

In un periodo di grande disoccupazione, crisi finanziaria, mutui pluriennali, chi non vorrebbe coronare il grande sogno di vincere una casa? Sisal lancia il nuovo gioco Vinci Casa. Si inizia a sognare da svegli pagando semplicemente 5 euro! E poi… basta indovinare magicamente 5 numeri su 40, la probabilità di vincere al gioco Vinci Casa è di 1 su 658.008, è davvero un sogno! (Zinzi, 2015). Ma la vincita tanto bramata non arriva mai, e se arriva, non placa il desiderio di giocare e ri-giocare nuovamente (Laini, 2015)

Slot machine, video lottery, gratta e vinci, poker online e lotterie istantanee, sono centinaia le forme di gioco d’azzardo legalizzate in Italia. A disposizione di ogni cittadino italiano ci sono più slot machine che posti letto in ospedale.

Un dato allarmante, che negli ultimi anni ha contribuito all’impennata del numero di persone cadute nel vortice del gioco d’azzardo (Nardinocchi, 2014). Comincia così la testimonianza di Antonio, giocatore di azzardo patologico che ha perso tutti i suoi averi, alle slot e videolottery (Viscardi, 2013):

A volte ci parlavo con le slot, vedi a che livello ero arrivato 

Il gioco d’azzardo rientra nella categoria dei giochi di alea: esso si sostanzia nello scommettere denaro o altri beni di valore su un evento ad esito incerto, in cui il caso, in grado variabile determina tale esito (Leone, 2009; Filippi e Breveglieri, 2010).

Caratteristica peculiare di questo tipo di gioco è dunque il fatto che l’abilità del giocatore è ininfluente nella determinazione del risultato del gioco; poichè egli non cerca di vincere su di un avversario, bensì sul caso. Benchè la maggior parte dei giocatori d’azzardo descrivano la loro attività come una piacevole forma di passatempo o come un’innocente distrazione dalla routine quotidiana, senza alcuna conseguenza sfavorevole, alcuni di essi arrivano a sviluppare forme patologiche di gioco, che provocano gravi conseguenze sul piano individuale, familiare, lavorativo e sociale.

 

Strumenti di screening e di valutazione del GAP

Il Disturbo da Gioco d’Azzardo è una patologia prevenibile, curabile e guaribile, che necessita di diagnosi precoce, cure specialistiche e adeguati supporti psicologici e sociali.

L’aspetto diagnostico riveste una particolare importanza in questa patologia, non solo per gli aspetti primari, cioè quelli relativi al gioco d’azzardo e al suo indice di gravità, ma anche per gli aspetti correlati, quali possibili patologie psichiatriche coesistenti, eventuale uso o abuso di sostanze stupefacenti e alcooliche, e per i correlati sociali e finanziari che spesso esistono in queste situazioni (Serpelloni, 2013). L’articolo, nello specifico si propone l’obbiettivo di descrivere un percorso diagnostico per l’assessment e la valutazione psicologica del GAP.

I criteri diagnostici del DSM-5 per il Gap rappresentano il punto di riferimento standard per la diagnosi. Il processo diagnostico prevede che si debbano prenderete in considerazione una serie di aree di valutazione avvalendosi di strumenti standardizzati per l’inquadramento diagnostico, la stadiazione in gioco problematico o patologico e per la valutazione della gravità (Serpelloni, 2013).

Prima area: valutazione del comportamento di gioco e dell’indice di gravità

La prima questione da porsi quando un persona si rivolge ad un professionista in cerca di aiuto per un problema di gioco patologico è quella di stabilire se tale problema effettivamente sussista oppure no, e quale sia il livello di gravità della situazione in cui la persona si trova (Capitanucci e Carlevaro, 2004). La prima area da indagare riguarda, dunque, la valutazione del comportamento di gioco e del suo indice di gravità. A tal fine il clinico può avvalersi di strumenti standardizzati come: il South Oaks Gambling Screen (SOGS) (Lesieur e Blume, 1987) e il KFG (Kurzfragebogen zum Gluckspielverhalten, nella traduzione italiana a cura di Tazio Carlevaro: Questionario Breve sul Comportamento di Gioco d’Azzardo) (Petry e Baulig, 1996; Capitanucci e Carlevaro, 2004).

L’iter iniziale di valutazione prevede la somministrazione del SOGS che è lo strumento più conosciuto e usato per lo screening generale dei Disturbi da Gioco d’Azzardo. È un questionario di autovalutazione che si compone di 20 domande alle quali rispondere in forma affermativa o negativa. Esso permette di evidenziare velocemente la probabile presenza di problemi di gioco e fornisce informazioni su molteplici aspetti quali, per esempio, il tipo di gioco privilegiato dal soggetto, frequenza di attività di gioco, difficoltà a giocare in modo controllato, etc. Un punteggio di 5 o più al SOGS è significativo per porre la diagnosi di GAP (Savron et al, 2001). Tuttavia numerosi studi (Ladoucer et al, 2000) hanno dimostrato che questo strumento tende a sovrastimare il numero di giocatori patologici, pertanto non si dovrebbe stabilire alcuna diagnosi utilizzando solo il SOGS: ad esso andrebbe associato almeno un secondo strumento come il KFG.

IL KFG è una scala di valutazione clinica che individua chi soffre di un Disturbo di Gioco Patologico che necessita di una presa in carico. Si tratta di una scala Likert di 20 domande in cui ogni item può avere valori che vanno da 0 (non mi rispecchio) a 3 (mi ci rispecchio del tutto). Sommando i punteggi grezzi delle 20 domande si ottengono punteggi individuali da 0 a 60. Un punteggio che si colloca tra 16-25 indica gioco patologico iniziale, un punteggio che si colloca tra 26-45 indica gioco patologico medio, un punteggio che si colloca tra 46-60 indica gioco patologico grave.

Seconda area: Disturbo da Gioco d’Azzardo e Comorbilità

La seconda area di valutazione è finalizzata ad approfondire in modo accurato la presenza di eventuali patologie comorbili, che renderebbero necessaria l’implementazione di trattamenti specifici, ancora prima di iniziare la presa in carico per la problematica del gioco patologico. La letteratura internazionale segnala anche una elevata comorbidità psichiatrica nei giocatori patologici: il GAP presenta alti livelli di comorbidità con i Disturbi dell’Umore (Depressione) (Kim et al., 2006; Poirier-Arbour et al., 2012; Thomsen K.R. et al, 2009) con i Disturbi D’Ansia, Disturbo Borderline ed il Disturbo Antisociale di Personalità (Lorains et al., 2011; Slutske et al., 2001; Pietrzak e Petry, 2005). Il clinico, al fine di ottenere una panoramica relativa alla presenza delle psicopatologie più importanti (da accertare eventualmente in modo più approfondito con strumenti ad hoc) può avvalersi della SCL-90R (Symptom Checklist-90-R) (Derogatis, 2011). Si tratta di una check-list composta da 90 items su disturbi eventualmente provati nel corso dell’ultima settimana: il paziente deve fornire una valutazione utilizzando una scala graduata che va da 0 (per niente) a 4 (moltissimo). Le dieci dimensioni sintomatologiche individuate sono: Somatizzazione, Ossessione-Compulsione, Sensibilità Interpersonale, Depressione, Ansia, Ostilità, Ansia Fobica, Ideazione Paranoide, Pscicoticismo e Disturbi del Sonno.

La comorbilità tra GAP e disturbo da uso di sostanze risulta la più studiata in letteratura (Hodgins et al, 2005; Moreyra et al., 2010) è noto, infatti, come la probabilità di trovare persone con problemi di Gioco d’Azzardo Patologico tra i dipendenti da sostanze stupefacenti sia più alta che nel resto della popolazione, così come è maggiore la probabilità di trovare, tra i giocatori patologici, persone che abusano o hanno abusato di sostanze, in particolare di alcool (Maccallum et al., 2002; Toneatto et al., 2002; Brunelle et al., 2003). Il clinico, per valutare, oltre alla dipendenza da gioco d’azzardo, la concomitante dipendenza da sostanze psicoattive può avvalersi dell’Addiction Severity Index (Lesieur e Blume, 1992). L’ASI è un’intervista semi-strutturata di ricerca clinica concepita per fornire informazioni che riguardano aspetti della vita del paziente, che possono contribuire a tracciare un profilo di gravità in sette settori, di cui quello relativo alle dipendenze è sdoppiato in relazione all’uso di alcol e di sostanze psicotrope. Lesieur e Blume(1992) hanno predisposto, in aggiunta al quadro della dipendenze da sostanze, domande specifiche sul gioco d’azzardo. Viene chiesto al paziente di stabilire per quanto tempo si è dedicato regolarmente nella vita e negli ultimi 30 giorni ad alcune tipologie di giochi d’azzardo. In seguito gli viene chiesto di specificare se la dipendenza da gioco si presenta da sola, o in associazione con la dipendenza da alcool, sostanze psicotrope o con entrambe.

Terza area: motivazione al cambiamento

Nel GAP si evidenziano le stesse difficoltà che caratterizzano il trattamento di tutti i soggetti portatori di dipendenza: non vi sono reali possibilità di cura senza una piena consapevolezza del problema da parte del paziente e una conseguente motivazione al cambiamento. In questo senso è fondamentale, per il clinico, valutare le motivazioni e le aspettative del paziente al fine di verificarne la possibilità di coinvolgersi in una terapia, a partire dall’intensità della sua domanda, concordando obbiettivi realistici da raggiungere. Per approfondire l’aspetto della motivazione al cambiamento ci si può avvalere del MAC/G (Hodgins, 2004). Usato largamente nell’ambito delle altre dipendenze, tale questionario è stato adattato alla dipendenza da gioco d’azzardo da Hodgins(2004). E’ un questionario somministrato dall’operatore al paziente, formato da 24 items che esprimono opinioni diverse sul comportamento di gioco d’azzardo. Il paziente deve esprimere il suo grado di accordo. Il MAC misura: lo stadio di cambiamento, la disponibilità al cambiamento, la frattura interiore e il livello di autoefficacia del soggetto.

Ladoucer (2004), per approfondire l’aspetto della motivazione al cambiamento, propone di avvalersi di due strumenti diagnostici. Il primo strumento proposto è il Questionario Motivazione a Smettere di Giocare: rappresenta una sorta di contratto steso con il paziente, mira a raccogliere l’adesione alla cura e a sondare le aspettative che egli nutre rispetto al cambiamento. Con l’esercizio Aspetti Positivi e Negativi del Gioco si raccolgono vantaggi e svantaggi del gioco d’azzardo, consente al paziente di evidenziare non solo i buoni motivi per smettere di giocare, ma anche tutto quanto d’importante il gioco ha rappresentato nella vita del paziente, che verrà inevitabilmente a mancare se decide di cambiare il suo stile di vita. (Ladoucer, 2004)

Quarta area: distorsioni cognitive, atteggiamenti e credenze

Una caratteristica peculiare della psicologia del giocatore patologico riguarda le distorsioni cognitive o bias cognitivi: comprendono qualunque pensiero del giocatore sui giochi d’azzardo, che va contro i principi della razionalità e della logica. La conoscenza e l’analisi delle distorsioni cognitive del giocatore patologico, assumono un ruolo di fondamentale importanza in quanto rappresentano la base cognitiva su cui il giocatore struttura i comportamenti patologici. Per indagare gli errori cognitivi, le credenze irrazionali e gli atteggiamenti positivamente correlati con il gioco d’azzardo, il clinico può avvalersi del GABS (Gambling Attitudes and Beliefs Survey) (Breen e Zuckerman, 1999). E’ un questionario autosomministrato, composto da 35 affermazioni che affrontano in modo diretto alcune delle aree di comportamento e i percorsi di pensiero tipici del giocatore patologico.

Quinta area: l’impulso a giocare

Il DSM-5 attribuisce al GAP lo status di dipendenza, in quanto il giocatore patologico, sviluppa tolleranza intesa come aumento della frequenza delle puntate e della quantità di denaro speso per ottenere l’eccitazione desiderata; la presenza di sintomi tipici di astinenza quali irritabilità, ansietà, insonnia, sudorazione, tremori e un intenso desiderio come equivalente al “craving” sperimentato dai tossicodipendenti. 

La CRAVING SCALE, di uso diffusissimo in Italia, può dare conto in modo analogico dell’impulso a giocare, proprio come nella sua forma originale dà conto dell’intensità dell’impulso a consumare sostanze stupefacenti, in relazione alle quali è stata stesa.

Conclusioni

Anche in Italia, il Disturbo da Gioco d’Azzardo sta assumendo sempre più le caratteristiche di una vera e propria malattia sociale con costi insostenibili per milioni di cittadini. Il concetto di pericolosità insito nel gioco, non fa ancora parte del nostro patrimonio culturale, ciò provoca una sottostima del reale pericolo che rappresenta nella sua forma patologica.

A ciò si aggiunga la considerazione del fatto che fino ad oggi l’intervento statale in questo ambito è stato caratterizzato da una ambiguità di fondo: se da una parte, gli organi di governo si sono dimostrati sensibili ad una politica contraria al gioco, soprattutto se legale, dall’altra continuano a sostenere la legalizzazione della pratica, introducendo nuove opportunità di gioco.

Uno degli effetti dell’attuale fase di estrema legalizzazione del gioco d’azzardo è l’aumento del numero dei giocatori, che non sono posti nella condizione di cogliere la potenziale pericolosità dei prodotti offerti. I potenziali utenti sono sommersi da messaggi colorati ed invitanti, che ricordano esplicitamente ed ininterrottamente che è sempre possibile svoltare nella vita, passando da una condizione di stenti ad una agiata senza troppi pensieri. Il denaro facile, un modo di cambiare il proprio destino, il brivido del gioco, sono queste le immagini lanciate dagli spot di gratta e vinci, poker on-line, lotto, superenalotto, etc. Nell’illusione di guadagno e nell’eccesso si smarrisce la consapevolezza della certezza della perdita. In questo periodo di crisi economica e depressione, quando il PIL e lo Spread perdono punti, il mercato del gioco d’azzardo fiorisce come un sogno atteso.

La pubblicità è l’anima del commercio e vende sogni a chi ha già poche speranze (D’Andrea, 2015).

LEGGI LA PARTE 1

 

Ringraziamenti.

Si ringrazia il Dott. Corrado Amedeo Presti per la collaborazione nella stesura e la ricerca bibliografica. Inoltre si ringrazia la Dott.ssa Mariagrazia Occhipinti.

 

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Videogiochi e dislessia: verso un trattamento divertente!

Corinne Oppedisano

I genitori che osteggiano con gran fatica l’uso dei videogiochi da parte dei figli potranno rilassarsi e smettere di combattere. I videogames aiutano i bambini dislessici a leggere più velocemente, più di quanto riesca a fare un anno di lettura.

Questo è quanto rivela uno studio dell’ università di Padova e dell’Irccs E. Medea, pubblicato sulla rivista Current Biology, secondo il quale 12 ore di gioco sono in grado di migliorare la velocità di lettura in bambini con diagnosi di dislessia.

 L’ipotesi eziopatogenetica di partenza individua il deficit percettivo, quale meccanismo primariamente responsabile delle difficoltà di lettura. In particolare, il difetto risiederebbe nella via visiva Magnocellulare, implicata nel processing degli stimoli in movimento, a basso contrasto di target e a bassa frequenza spaziale. Rimane da spiegare come, nello specifico, questo deficit concorra a determinare le difficoltà di lettura. Per rispondere bisogna considerare che la via Magnocellulare ha ampie connessioni con la corteccia parietale posteriore che è coinvolta in tre funzioni implicate nel processo di lettura, quali attenzione visiva spaziale, regolazione dei movimenti oculari e visione periferica.

In particolare, secondo Stein & Welsh (1997), i dislessici hanno prestazioni deficitarie in compiti che necessitano di soppressione saccadica, cioè di quel meccanismo percettivo che durante i movimenti oculari, inibendo la precedente fissazione, consente di avere una percezione stabile.

Diversi test psicofisici, negli ultimi 20 anni, hanno mostrato una differenza significativa fra dislessici e normo-lettori, in compiti che coinvolgevano selettivamente la via Magnocellulare.

Queste evidenze hanno spinto i ricercatori a progettare training riabilitativi per i disturbi specifici della lettura che prescindessero dal trattamento dei deficit fonologici associati alla dislessia, prevedendo che una riabilitazione delle funzioni della via Magnocellulare potessero riabilitare anche le cadute di natura fonologica.

Partendo da queste evidenze, il team guidato da Andrea Facoetti, neuropsicologo dell’università di Padova, ha selezionato 20 bambini dislessici, bilanciati per QI, capacità fonologiche e livello di lettura, i quali sono stati suddivisi in due gruppi: il primo ha giocato 80 minuti al giorno, per 9 giorni, ad un actiongame, mentre il secondo ha usato per lo stesso tempo un gioco non action.

I ragazzi appartenenti al primo gruppo hanno registrato un significativo incremento nella velocità di lettura, che non andava a discapito dell’accuratezza. Solo i giochi di azione si sono rivelati utili alla riabilitazione del deficit attentivo collegato alla dislessia.

Gli actiongames sono caratterizzati, infatti, dalla rapida presentazione di stimoli visivi anche nella periferia del campo visivo, che devono essere processati velocemente e che richiedono di coordinare la percezione con una risposta motoria. Il follow-up, a 2 mesi, ha registrato il mantenimento dei progressi nella velocità di lettura. Rimane da spiegare in che modo, nello specifico, i giochi di azione abbiano consentito la generalizzazione dei miglioramenti anche a stimoli di tipo linguistico. Giocare ai videogiochi di azione ha allenato i bambini a concentrarsi su uno stimolo specifico e ad ignorare i distrattori. Questo ha consentito una maggiore efficienza nel processing delle informazioni rilevanti di una parola e ha permesso di ridurre l’interferenza laterale di cui i bambini dislessici soffrono.

 Questo studio è importante, non solo perché conferma l’implicazione del deficit attentivo nell’insorgenza della dislessia, ma anche perché apre nuove prospettive dal punto di vista della riabilitazione e della prevenzione. Spesso, infatti, il training riabilitativo proposto dai professionisti del settore risulta noioso e frustrante per i bambini che sono costantemente costretti a scontrarsi con il proprio deficit, per questo la percentuale di drop-out rimane molto alta. In secondo luogo il fatto che il focus dell’intervento stia nel training di abilità non linguistiche suggerisce nuovi percorsi di prevenzione rivolti a soggetti in età pre-scolare.

Oggi più che mai sembra vicina la possibilità di proporre ai bambini dislessici un trattamento, finalmente, anche divertente.

 

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Esperienza, ricordo e decisione futura: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Esperienza, ricordo e decisione futura: uno studio empirico 

Autrice: Veronica Cascone (Università degli Studi di Trieste)

 

Abstract

In riferimento al modello elaborato da Wirtz, Kruger, Scollon & Diener (2003), secondo il quale si ipotizza l’esistenza di un legame tra aspettative, esperienza, ricordo dell’esperienza e decisione di ripetere l’esperienza, dimostrando che le aspettative influenzano direttamente il ricordo che, a sua volta, determinerà la decisione futura, lo studio qui presentato si prefigge due obiettivi principali: il primo obiettivo è quello di comprendere, anche sulla base degli studi citati (Klareen, Hodges & Wilson, 1994; Gilbert & Wilson, 2003; Wirtz et al., 2003;), se si presenti la catena di legami che parte dalle aspettative, passa per l’esperienza e per il ricordo e raggiunge la decisione sul futuro, oppure se ci sia un legame diretto tra l’esperienza e la decisione sul futuro (o tra le aspettative e la decisione sul futuro), indipendentemente dall’influenza delle variabili intermedie. In particolare, cercheremo di capire se sia effettivamente il ricordo a influenzare la decisione ( nel nostro caso, la scelta di continuare l’esperienza vissuta). In secondo luogo, abbiamo voluto verificare in quale grado le relazioni ottenute in letteratura possano dipendere dall’applicazione di un solo metodo di misura dei costrutti indagati (common method bias), oppure se siano relazioni che si osservano indipendentemente dal metodo e dallo strumento utilizzato per misurare le aspettative, l’esperienza e il ricordo. Nel primo capitolo della tesi, viene fornita una panoramica generale della letteratura sull’argomento; in particolare sono trattate le ricerche di Kahneman, Friedrickson, Schreiber & Redelmeier (1993) e di Wilson e Gilbert (2003), sul ruolo della previsione affettiva e della valutazione retrospettiva nelle decisioni sul futuro. Il secondo capitolo si concentra sulla letteratura che ha costituito la base per la nostra ricerca e sui modelli teorici elaborati da Klareen, Hodges & Wilson (1994) e da Wirtz et al. (2003), dedicando particolare attenzione agli studi che si sono occupati della funzione del ricordo nella scelta per il futuro. Il terzo capitolo presenta l’esperimento realizzato. Il quarto capitolo descrive le analisi effettuate, i risultati ottenuti e le conclusioni che se si possono trarre in riferimento alle ipotesi di partenza. L’esperimento: ad un gruppo di studenti della facoltà di scienze della Formazione e Psicologia dell’ Università degli studi di Trieste di età media 23 anni abbiamo proposto la visione di un breve filmato della durata di circa 30 minuti tratto dal film “Caramel” di Nadine Labaki del 2007. Il disegno sperimentale era un disegno between-subjects. I partecipanti sono stati assegnati casualmente a due gruppi (metodo tradizionale vs. metodo variato). Per quanto riguarda il gruppo ‘metodo tradizionale’, la valutazione delle aspettative, dell’esperienza e del ricordo dell’esperienza avvenivano utilizzando lo stesso questionario, con il solo cambiamento del tempo del verbo impiegato per formulare le domande. Questo gruppo riproduceva dunque quanto fatto nei precedenti studi di Wirtz et al. (2003). Per quanto riguarda il gruppo ‘metodo variato’, si utilizzavano invece metodi (e strumenti) diversi per rilevare la valutazione delle aspettative (il consueto questionario), dell’esperienza (una procedura di monitoraggio continuo on-line), del ricordo (la valutazione delle scene ricordate; cfr. Geers et al.,1999). Lo studio è stato svolto in due sessioni. I risultati dimostrano che la valutazione retrospettiva condotta tramite la valutazione della piacevolezza delle scene ricordate non è predittiva delle intenzioni se l’effetto delle altre variabili (aspettative, valutazione on-line) viene tenuto sotto controllo. Nella condizione di controllo (metodo tradizionale), invece, la valutazione retrospettiva è predittiva delle intenzioni, anche se si tiene sotto controllo il potenziale effetto del metodo comune. Inoltre, solo nella condizione sperimentale l’esperienza immediata è predittiva delle intenzioni. L’esistenza della catena di relazioni che parte dalle aspettative e giunge alle intenzioni sul futuro dipende dunque dal modo in cui viene misurato il ricordo. Se il ricordo è misurato tramite la valutazione delle scene ricordate, allora esso non è predittivo delle intenzioni future. In questo caso, la catena si interrompe. Se, invece, il ricordo è misurato tramite una valutazione retrospettiva più generale, che prescinde dalle singole scene, allora esso è predittivo rispetto alle intenzioni future (e la catena delle relazioni non si interrompe). Riguardo al common method bias, i risultati evidenziano che le relazioni individuate nella condizione di controllo sono abbastanza robuste rispetto a questo bias. Altro risultato interessante evidenzia che le aspettative sembrano influire sulle intenzioni indipendentemente dalla condizione sperimentale e che il giudizio retrospettivo globale sull’esperienza passata sembra essere il miglior predittore delle intenzioni in entrambe le condizioni sperimentali. E’ quindi possibile ipotizzare che questo giudizio, forse formulato già durante la visione del film (cfr. Hastie & Park, 1986), possa essere utilizzato come base per l’espressione delle intenzioni comportamentali insieme alle aspettative.

 

English abstract

This study builds on the model of Wirtz, Kruger, Scollon & Diener (2003), which hypotizes a link between expectations, experience, memory and desire to repeat the experience and demonstrates that expectations influence memory directly, and memory influences future decisions to repeat the experience; and its aims are: – To understand if there is a link expectations-experience-memory-future decision, or if there will be a direct experience-decisions link (or also an expectations-decisions link) which is independent of intermediate variables; and to understand if memory influences decision, or not.  – To verify if the relationships we founded in literature depended on the common method bias, or if they still exist independently of the method and the instrument they used to evaluate expectations, experienceandmemory.  The first chapter is a review of the literature on this topic, which focuses above all on Kahneman, Friedrickson, Schreiber & Redelmeier (1993) and Wilson & Gilbert’s studies ( 2003 ) on the role of the affective forecast and retrospective evaluations on the future decisions.  The second chapter concerns the literature which our research takes as a basis and the studies of Klareen, Hodges & Wilson (1994) and Wirtz et al. (2003), particular attention is paid to the studies which deals with the role of memory on future decision.  The third chapter presents our experiment.  The fourth chapter describes the analysis we did, its results, and the conclusions we can draw from our initial hypothesis.  Experiment: A group of students from “Scienze della formazione primaria” and Psychology of University of Trieste, with an average age of 23 years, saw a short movie (30’ minutes), an except snippet from the movie “Caramel”, by Nadine Labaki (2007). The experimental design was between-subjects. Participants has been casually divided into two groups ( Tradizionale method vs. Variato method). In the “Tradizionale method” group, relevations of expectations, experience and memory took place with the same questionnaire, we just changed the verbal time of questions. This group reproduced the study of Wirtz et al. (2003). In the “Variato method” group we used different methods for the relevations of expectations (the same questionnaire), experience ( monitoring on-line the experience), and memory (evaluations of remembered scenes; cfr Geers et al. 1999). The study has been occurred in two sessions.  Results demonstrate that retrospective evaluations, which subjects made together with the evaluations of remembered scenes’ pleasantness is not predictive of the intentions when the effect of other variables (expectations, online evaluations) is under control. In the “Tradizionale method” condition (as control condition), instead, the retrospective evaluation is predictive of intentions even though the common method bias effect is under control. Only in the experimental condition (Variato method) the experience is predictive of intentions. The existence of the link originates from expectations and attains future intentions depends on the method used for measuring memory. When memory is measured with the evaluations of scenes it is no predictive about future intentions. In this case the link is broken. When the memory is measured with a general retrospective evaluation, neglecting single scenes, it is predictive of future intentions and the link of relations continues. Regarding to common method bias, the results demonstrate that relations in the control condition are strong about this bias. We can also find that the expectations influence intentions independently of experimental condition, and that the retrospective general judgment on the past experience is the best predictor of future intentions in both conditions.  We can hypotize that this judgment, they possibly made by the time of the vision of the movie, (cfr. Hastie & Park, 1986), may be used as basis to express the behavioural intentions and the expectations.

 

 

 

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Decontestualizzare la sfera emotiva dal ricordo: una strategia di regolazione emotiva

Disattenzione a 7 anni & peggiori performance scolastiche a 16 anni

FLASH NEWS

Secondo una nuova ricerca inglese i bambini che presentano un aumento dei livelli di disattenzione all’età di sette anni sono a rischio di peggiori performance nelle scuole superiori.

A tale esito si è giunti a seguito di uno studio longitudinale che ha coinvolto più di 11.000 bambini e pubblicato su Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry.

All’età di sette anni dei soggetti – circa sedici anni fa- genitori e insegnanti completarono questionari self-report per la valutazione di diversi aspetti comportamentali, tra cui disattenzione, impulsività, iperattività. In seguito, all’età di sedici anni dei soggetti sono stati considerati i risultati scolastici dei soggetti analizzando le performance nell’esame finale delle scuole superiori (in Inghilterra chiamato GCSE).

Dopo aver tenuto conto nell’analisi di fattori tra i quali il quoziente intellettivo, il livello di istruzione dei genitori, i ricercatori hanno riscontrato una correlazione lineare statisticamente significativa tra un aumento dei sintomi di disattenzione all’età di sette anni e la riduzione delle votazioni al GCSE all’età di sedici anni.

La correlazione lineare sta a indicare che non è necessario raggiungere punteggi cut-off relativamente al disturbo dell’attenzione e dell’iperattività, ma anche punteggi sottosoglia di incremento della distraibilità e della disattenzione possono influenzare le performance scolastiche.

Dunque i risultati presentano implicazioni in termini di strategie di prevenzione per identificare e intervenire nella riduzione dei sintomi legati alla distraibilità e disattenzione.

 

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Nuove frontiere nella cura del trauma – 4° Corso Internazionale, Venezia, 1-3 Maggio 2015

Anche quest’anno i temi clinici hanno riguardato principalmente la cura e il trattamento di Disturbi Dissociativi, con particolare attenzione ai fattori prognostici e alla comorbilità di questi con molte altre sindromi e disturbi di personalità.

Di ritorno dal corso ci si sente come ogni anno ricchi di riflessioni, professionali e umane, e parte di un movimento dalle radici profonde che sta tentando la sua “piccola rivoluzione” nel panorama culturale attuale legato al trauma. Su questo tema persistono infatti ancora oggi e in tutto il mondo sentimenti molto ambivalenti, tra rifiuto, conflitto, morbosità, ma anche innegabile curiosità, fascinazione e interesse. Negli ultimi anni il trauma sta tornando indubbiamente al centro della scena clinica e dei protocolli di cura, ma la strada della sua accettazione e centralità appare ancora lunga e complessa.

Anche quest’anno i temi clinici hanno riguardato principalmente la cura e il trattamento di Disturbi Dissociativi, con particolare attenzione ai fattori prognostici e alla comorbilità di questi con molte altre sindromi e disturbi di personalità.

La cornice teorica è sempre quella della Dissociazione Strutturale, ormai discussa e raccontata in molti contributi precedenti sul tema, e Khaty Steele, una delle teoriche di questo modello, ci ha guidato nel profondo della sua applicazione clinica.

Un aspetto importante che segue la fase diagnostica, molto ben approfondita durante la passata edizione con Suzette Boon, è proprio la definizione della prognosi e degli elementi da valutare per concordare obiettivi possibili di un trattamento e prevederne gli esiti. L’incapacità di realizzare alcuni aspetti di sé resta una caratteristica principale negli esiti clinici di situazioni traumatiche, insieme alla presenza di una discontinuità nella coscienza di sé e della propria storia. Tutto questo si traduce in sintomi di “non-realizzazione” che possono riguardare aspetti cognitivi, affettivi, comportamentali e corporei, che trovano diverse manifestazioni all’interno della terapia e che vanno tutte indagate e affrontate sin dalle primissime fasi.

I primi aspetti prognostici sono legati a capacità metacognitive di base del paziente: capacità di condividere pensieri e sentimenti propri, tollerare e regolare emozioni, poter riflettere sui propri stati interni e buona motivazione al cambiamento. Nella capacità di riconoscere e tollerare emozioni è molto importante per una buona prognosi la capacità di godere pienamente di emozioni ed esperienze positive, spesso compromessa in storie di traumatizzazione precoce e/o ripetuta nel tempo. Altri aspetti prognostici specifici legati all’esperienza interna di “frammentazione” e non-integrazione sono: la presenza o meno di compassione e affetto verso alcune parti di sé (parti aggressive, parti bambine, parti vittime, parti felici), l’investimento della persona nel tentare di tenere queste parti divise, perché percepite come pericolose, disgustose, da proteggere, da evitare o da eliminare, e ancora la compatibilità o meno di alcuni obiettivi terapeutici rispetto alle esigenze delle diverse parti.

Nell’approfondire questi aspetti il principio fondamentale da tenere sempre vivo nel lavoro è che le parti funzionano come un sistema complesso, in cui ognuna ha un ruolo determinante e specifico nel mantenimento dello status quo interno: prima di lavorare con le parti è necessario dunque non solo scoprire la loro esistenza, ma soprattutto individuare il perché della loro permanenza nel sistema. Una struttura dissociativa è un sistema rigido e finalizzato a mantenere a suo modo un equilibrio interno sufficiente a sopravvivere, dunque ogni cambiamento può essere percepito come molto pericoloso, intollerabile, inutile.

Ultimi ma non meno importanti fattori prognostici sono infine le previsioni negative legate alla possibilità di un cambiamento attraverso la terapia. Resta indispensabile anche su questo aspetto un lavoro di condivisione profonda che muova sempre all’interno della Finestra di Tolleranza Emotiva del paziente e della sua capacità di sperimentare cosa funziona e cosa non funziona all’interno del suo sistema. Lavorare con le parti all’interno di questa cornice teorica spesso non vuol dire lavorare subito sul trauma, ma vuol dire – come per molti altri modelli di trattamento – occuparsi innanzitutto delle condizioni correlate (ES: attacchi di panico, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, somatizzazioni,…) comprendendone l’esordio, i fattori scatenanti e i trigger attuali che le riattivano.

In presenza di un disturbo dissociativo di media o grave entità si possono trattare i sintomi in comorbilità con tutti i trattamenti di prima linea che attualmente esistono in letteratura (CBT, DBT, Psicoeducazione), tranne i programmi comportamentali di esposizione diretta, che potrebbero invece peggiorare la sintomatologia dissociativa. Pur non lavorando direttamente sul trauma è utile tuttavia anche in queste prime fasi di lavoro sui sintomi attuali, iniziare ad indagare il sistema interno e verificare se alcuni dei sintomi in comorbilità siano una manifestazione esterna di una struttura interna. Un esempio concreto: un comportamento compulsivo (controllare sempre che tutte le porte abbiano fatto due giri di chiave) di un paziente adulto con DOC e una storia di abuso, potrebbe essere riconducibile alla riattualizzazione di un comportamento legato al trauma vissuto nel passato (evitare che qualcuno entri nella sua stanza di notte e che abusi di lui), che era funzionale allora, ma che perde di senso nel presente, restando solo sintomo, cioè un comportamento inadeguato e non più funzionale.

In questo caso lavorare sul trauma può essere efficace nell’eliminare la necessità di quel comportamento, mentre una esposizione progressiva allo stimolo temuto può alimentare sentimenti di terrore e impotenza della parte traumatizzata e peggiorare i sintomi dissociativi. Diverso sarebbe lavorare su un disturbo ossessivo-compulsivo che non presenti questa storia traumatica e questa eziologia del sintomo.

In conclusione secondo Khaty Steele i principi del trattamento su pazienti dissociativi dovrebbero essere:
– utilizzare il livello di funzionamento nella vita quotidiana come indicatore del progresso;
– chiarificare sempre quello che il paziente vuole dire, verificando il significato interno delle sue parole;
– fissare confini saldi e mantenerli dentro una cornice chiara a noi e al paziente;
– restare focalizzati sul processo in corso;
– non allearsi solo o troppo con alcune parti a scapito di altre;
– non assecondare i bisogni disfunzionali di accudimento delle parti bambine che chiedono dipendenza;
– riparare ai propri errori se ci si scopre in un comportamento difensivo;
– lavorare CON le resistenze del paziente e non contro di esse;
– fare attenzione alla trance-condivisa, che può portare terapeuta e paziente in stati di non-realizzazione comuni.

La Steele ci ricorda con grande umiltà che non ci sono terapie e soluzioni perfette, ma che per lavorare sull’integrazione in psicoterapia bisogna restare presenti e consapevoli del processo in corso, capaci di viverlo ed osservarlo contemporaneamente, capaci di restare aperti a tutto quello che succede senza giudizio, né urgenza di cambiamento.
Non esiste una strada, la strada si fa camminando!

LEGGI ANCHE: Intervista a Kathy Steele, Nuove Frontiere nella cura del Trauma 2015

 

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Convegno Nuove Frontiere nella Cura del Trauma 2015 

Conoscere la teoria per andare oltre. Questo il messaggio più forte che ci invia Kathy Steele.

Da teorica della Dissociazione Strutturale, la Steele ci chiede quest’anno un lavoro diverso dal solito: tornare dal modello teorico alla nostra esperienza emotiva dentro la terapia, condividere con lei la cornice per poi dimenticarla e porci davvero in ascolto di quello che succede. Il rischio di rimanere troppo affezionati ad un modello e di ricondurre a questo la complessità dell’essere umano è troppo alto e valutare questo rischio resta l’aspetto centrale di tutto il suo intervento nelle tre giornate. La tendenza di noi clinici a differenziare e caratterizzare troppo le “parti” del paziente, dando loro un nome (ANP, EP, Stati dell’Io, Personalità), una gerarchia, un ruolo nel funzionamento mentale, può farci perdere l’essenza stessa del nostro lavoro: mantenere una buona sintonizzazione affettiva con l’intera persona.

Questo processo secondo la Steele non solo rischia di essere inefficace, ma se usato in modo estremo e rigido può alimentare la divisione, o se preferite la “dissociazione”, tra le diverse parti e far dimenticare l’obiettivo ultimo e più importante di questa eccellente concettualizzazione: conoscere le parti per favorire una migliore integrazione tra quelle in conflitto.

Kathy Steele insomma ci ricorda che il Modello della Dissociazione Strutturale è un buon modello teorico per descrivere alcuni aspetti del funzionamento della mente, soprattutto in pazienti con storie traumatiche complesse in cui le difficoltà di integrazione producono gravi alterazioni nella costruzione di un senso del sé coeso e integrato, ma ci ricorda a chiarissime lettere che il suo stesso modello – come tutti gli altri – può costituire un grande ostacolo alle possibilità di accedere all’esperienza umana di chi abbiamo di fronte.

E’ con ammirevole senso di responsabilità e umiltà che Kathy ci ricorda di restare critici verso le proprie conoscenze, di avere il coraggio di osservare il processo terapeutico in corso senza pre-giudizio e di cercare possibili soluzioni all’interno – e non all’esterno! – di questo processo.
Alle parole di Kathy Steele l’essenza dei suoi insegnamenti.

 

CM: Quello che ho trovato molto interessante quest’anno è stato il monito di tornare alle origini del ruolo del terapeuta e di non fermarci all’apprendimento delle tecniche, dei protocolli e delle teorie. In un mondo in cui si cerca sempre più l’evidence based, la validità scientifica e la ripetibilità dei risultati più efficaci, le chiedo di raccontarci, perché dal suo punto di vista è così importante andare oltre la teoria?

KS: Bene, avrei un paio di riflessioni su questo. Una è che la teoria è molto importante, ma penso che dovrebbe restare uno sfondo, una sorta di “aria che respiriamo”. Non la si vede, non la si sente, ma dà continuamente vita a quello che si fa. Ma allo stesso tempo la teoria ha dei limiti, inclusa la mia stessa teoria, e questo limite viene alla luce tutte le volte in cui ci troviamo ad osservare qualunque fenomeno. Penso che gli esseri umani siano così complessi e diversi tra loro, che nessuna teoria, nessuna tecnica e nessun approccio possa essere sufficiente a spiegare l’intera condizione umana. Perciò credo che curiosità, compassione, interesse e apertura autentica all’esperienza dell’altro, siano innanzitutto parte dell’essere umano. Il nostro lavoro non è molto diverso da quello che facciamo là fuori nel “mondo reale”, ma lo facciamo solo con più intensità. Una seconda considerazione è che più faccio il mio lavoro – e sono ormai 30 anni di esperienza – più mi rendo conto che quando ascolto profondamente l’altro riesco a trovare risposte sempre nuove, che sono diverse per ogni persona e non adatte a nessun altro. Perciò le tecniche terapeutiche sono valide e utili per una sorta di “categorie di base” di problemi, mentre le risposte nuove possono essere più efficaci e utili da integrare per ognuno in modo differente dagli altri. La maggior parte dei nostri problemi di salute hanno a che fare con problemi legati alla nostra stessa condizione di esseri umani e nessun modello da solo può bastare a mettere tutto a posto. Il mio pensiero è che ci sia un nostro sé profondamente umano, incapsulato dentro il nostro sé terapeuta, e che sia soprattutto questo il più importante fattore di cura.

CM: Durante il lavoro di role playing di questi giorni, ho notato l’utilizzo della “curiosità” come una vera e propria tecnica, efficace soprattutto per uscire da situazioni cliniche complesse o in presenza di conflitti tra parti. E’ così?

KS: Si, ma non è solo curiosità. E’ soprattutto la curiosità unita alla collaborazione. L’obiettivo che mi guida è che io in quel momento di difficoltà voglio davvero sapere cosa il paziente sta sperimentando e pensando all’interno, per poterci poi lavorare insieme fuori. Il mio lavoro non è quello di risolvere i problemi, quello che succede nella mente del paziente deve diventare un nostro problema da risolvere insieme. E se davvero mi capita di non sapere in che direzione andare o al paziente capita di non sapere che strada prendere, avremo bisogno di parlare di questo e restare aperti e curiosi nel cercare cos’altro nella sua esperienza o nella mia esperienza ci possa dare un aiuto per andare avanti alla prossima mano e al prossimo passo. Devo dire a onor del vero che non sono sempre curiosa! Qualche volta mi metto sulla difensiva e questo è normale per noi terapeuti perché è lì che ci porta il controtransfert. Ma il punto è accorgersi di questo, riconoscerlo ed essere capaci di tornare indietro a porsi di nuovo in una condizione di apertura e curiosità, per poi tornare a farlo ancora e ancora, tutte le volte che questo succede. Qualche volta è frustrante, ma è necessario osservarsi e riconoscere se stessi in questa altalena.
Credo che il modo migliore di usare tecniche e modelli sia soprattutto di restare aperti ai nostri errori, alla possibilità che i nostri tentativi non sempre funzionano e non solo perché non siamo buoni terapeuti, ma perché la condizione umana è troppo grande da comprendere. Perciò la terapia per me è soprattutto una serie di piccoli esperimenti condivisi tra me e i miei pazienti. Dobbiamo conoscere molte tecniche e molti strumenti di lavoro da poter utilizzare e proporre, ma non possiamo dimenticare che il processo che risulta è sempre una sorpresa! “Non c’è nessuna strada, la strada si crea camminando” e questa frase è una grande metafora dell’integrazione.

 

CM: Poiché il trauma ha ricevuto una crescente attenzione negli ultimi anni, guadagnando uno spazio importante anche nel nuovo DSM-5, mi piacerebbe chiederle come e se è cambiato il suo modo di fare diagnosi oggi?

KS: Personalmente non è cambiato molto, perché i criteri per i disturbi dissociativi sono rimasti praticamente invariati e ovviamente sono felice che siano rimasti lì dov’erano, subito dopo il PTSD. Riguardo al PTSD l’aspetto interessante e critico a mio avviso è che non sia stato inserito in questa edizione il PTSD Complesso tra le diagnosi, anche se posso comprendere alcune obiezioni fatte a tal proposito. Tuttavia penso sia importante l’aver almeno inserito un sottotipo Dissociativo di PTSD, anche se non sono completamente d’accordo con i criteri scelti. Credo che il DSM sia un modo per categorizzare e capire alcuni tipi di disturbi, che ha i suoi vantaggi e svantaggi – così come l’ICD-11. L’idea del DSM sarebbe quella di non rispondere a delle singole teorie, di essere ateorico, ma credo che l’idea sia buona, nel male!

CM: Cosa vede nel futuro? Quale sarà il suo ruolo in Europa nel portare l’attenzione del mondo scientifico sulla centralità del trauma nella diagnosi e nei protocolli di cura?

KS: Qualche giorno mi sento ottimista, qualche altro più pessimista. Nella mia vita professionale ho visto l’interesse per il trauma andare e venire. In alcuni momenti è stato più accettato, in altri meno, a volte si è stati troppo focalizzati sulle memorie traumatiche, a volte troppo poco e francamente non so cosa succederà nei prossimi anni. Al momento quello in cui ci impegneremo e che mi piacerebbe vedere sono training specifici in tutte le università e nei corsi di specializzazione post-laurea. Mi piacerebbe trovare fondi per offrire a queste persone un trattamento a lungo termine di cui avrebbero bisogno, perché sono pazienti che se trattati adeguatamente possono stare davvero molto meglio e non solo mentalmente, ma anche fisicamente. Tuttavia è difficile e ci sono molti interessi in ballo. Alcune nazioni fanno meglio di altre, ma purtroppo ovunque occuparsi di questo tipo di problemi non è una grande priorità. Questo non è giusto, ma la nostra società funziona così. Vedo però che la rete italiana sul trauma cresce ogni anno sempre di più, che lavorare in questo ambito sta attirando e incuriosendo molte persone e soprattutto giovani che sono interessati a percorsi più mirati e rapidi. Tutto questo è molto positivo e credo che potrete ancora crescere molto!

LEGGI IL REPORT DEL CONVEGNO

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L’Italia che gioca d’azzardo: uno sguardo all’epidemiologia e alle caratteristiche cliniche del disturbo da gioco d’azzardo. Parte 1

Gianna Passalacqua

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il gioco d’azzardo patologico come una forma morbosa chiaramente identificata, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale.

Riassunto

La febbre del gioco considerata per anni un semplice vizio è, in realtà, una vera e propria malattia, tanto da essere stata recentemente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il gioco d’azzardo patologico come una forma morbosa chiaramente identificata, che in assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, può rappresentare, a causa della sua diffusione, un’autentica malattia sociale. Il GAP è comunque una patologia prevenibile, curabile e guaribile, che necessita di diagnosi precoce, cure specialistiche e adeguati supporti psicologici e sociali. 

Abstract

The fever of the game for years considered a simple habit is in fact a real illness so that it was recently listed in the Essential Levels of Care (LEA). The World Health Organization recognizes the pathological gambling as a morbid form clearly identified, that in the absence of appropriate measures of information and prevention, may be, because of its diffusion, authentic social disease. The GAP, it is still a disease preventable, treatable and curable, which requires early diagnosis, specialized care and appropriate psychological and social support. The article aims to describe a diagnostic pathway for the assessment and evaluation of psychological disorder gambling.

Key Word: Gambling, Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), DSM-5.

 

PARTE 1

Introduzione

In un periodo di grande disoccupazione, crisi finanziaria, mutui pluriennali, chi non vorrebbe coronare il grande sogno di vincere una casa? Sisal lancia il nuovo gioco Vinci Casa. Si inizia a sognare da svegli pagando semplicemente 5 euro! E poi… basta indovinare magicamente 5 numeri su 40, la probabilità di vincere al gioco Vinci Casa è di 1 su 658.008, è davvero un sogno! (Zinzi, 2015). Ma la vincita tanto bramata non arriva mai, e se arriva, non placa il desiderio di giocare e ri-giocare nuovamente (Laini, 2015)

Slot machine, video lottery, gratta e vinci, poker online e lotterie istantanee, sono centinaia le forme di gioco d’azzardo legalizzate in Italia. A disposizione di ogni cittadino italiano ci sono più slot machine che posti letto in ospedale.

Un dato allarmante, che negli ultimi anni ha contribuito all’impennata del numero di persone cadute nel vortice del gioco d’azzardo (Nardinocchi, 2014). Comincia così la testimonianza di Antonio, giocatore di azzardo patologico che ha perso tutti i suoi averi, alle slot e videolottery (Viscardi, 2013):

A volte ci parlavo con le slot, vedi a che livello ero arrivato 

Il gioco d’azzardo rientra nella categoria dei giochi di alea: esso si sostanzia nello scommettere denaro o altri beni di valore su un evento ad esito incerto, in cui il caso, in grado variabile determina tale esito (Leone, 2009; Filippi e Breveglieri, 2010).

Caratteristica peculiare di questo tipo di gioco è dunque il fatto che l’abilità del giocatore è ininfluente nella determinazione del risultato del gioco; poichè egli non cerca di vincere su di un avversario, bensì sul caso. Benchè la maggior parte dei giocatori d’azzardo descrivano la loro attività come una piacevole forma di passatempo o come un’innocente distrazione dalla routine quotidiana, senza alcuna conseguenza sfavorevole, alcuni di essi arrivano a sviluppare forme patologiche di gioco, che provocano gravi conseguenze sul piano individuale, familiare, lavorativo e sociale.

Epidemiologia del Gioco d’Azzardo Patologico

Il mercato del gioco d’azzardo è un settore in costante evoluzione ed espansione, tanto che la quantità e l’offerta risultano sempre più ampie e diversificate.

I nuovi giochi d’azzardo (videopoker, slot-machine, bingo, giochi online) definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, decontestualizzato, globalizzato, con regole semplici e universalmente valide e pertanto ad alta soglia di accesso (Croce, 2001). Inoltre, si rivolgono a un pubblico generalmente lontano dai luoghi culto dell’azzardo: adolescenti, casalinghe, pensionati, bambini e interi nuclei familiari, che popolano le sale gioco infestate da slot-machine e videopoker o le affollate sale da bingo.

La preoccupazione principale è che tutto ciò possa creare nuove e pericolose forme di dipendenza (Lavanco e Varveri, 2005). La dimensione del fenomeno gioco d’azzardo in Italia è difficilmente stimabile, in quanto ad oggi non esistono studi accreditati, esaustivi e validamente rappresentativi del fenomeno (Serpelloni, 2013).

Secondo il Ministero della Salute in Italia il 54% della popolazione sarebbero giocatori d’azzardo. La stima dei giocatori problematici varierebbe dall’1,3 % al 3,8 % della popolazione generale, mentre la stima dei giocatori d’azzardo patologici varierebbe dallo 0,5 % al 2,2 % (Serpelloni e Rimondo, 2012).

Gioco d’Azzardo Patologico (GAP): caratteristiche cliniche e inquadramento nosografico

La febbre del gioco, considerata per anni un semplice vizio, è in realtà una vera e propria malattia (Zanda, 2002), tanto da essere stata recentemente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) (Ministero della Salute, 2013; Arrigone e Marino, 2014). Non più, quindi, peccatori destinati alla dannazione eterna o, nella migliore delle ipotesi alle sofferenze espiatorie del purgatorio, né criminali destinati ai tribunali o alle carceri ma malati, pazienti inseriti nei tortuosi circuiti dell’assistenza sanitaria (Pini, 2012). Il gioco d’azzardo patologico viene definito dall’ American Psychiatric Association (APA) come un comportamento persistente, ricorrente, e maladattivo di gioco, che compromette le attività personali, familiari o lavorative (APA, 1994). Recentemente la diagnosi di gioco d’azzardo patologico è andata incontro a sostanziali cambiamenti (Petry et al., 2013). Negli ultimi anni si è discusso, infatti, riguardo alla sua esatta collocazione e se, tale disturbo, debba essere effettivamente considerato un Disturbo del Controllo degli Impulsi, così come veniva classificato nel DSM-IV (Canuzzi, 2012).

Nella primavera del 2013, è stata pubblicata la V edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, DSM-5, che ha apportato dei sostanziali cambiamenti per la comprensione e la concettualizzazione del GAP (APA, 2014).

Classificazione

Rispetto al precedente DSM-IV il cambiamento più rilevante riguarda la classificazione diagnostica: il DSM-5 colloca il Disturbo da Gioco d’Azzardo Patologico (Gambling Disorders) nella categoria della Dipendenza, in una apposita sottocategoria Disturbo non Correlato all’Uso di Sostanze. Lo spostamento del Disturbo da Gioco d’Azzardo è l’espressione di un importante cambiamento diagnostico che evidenzia le analogie, confermate dalle evidenze scientifiche, tra il gambling e le dipendenze chimiche (Brunori et al., 2013). Nello specifico, i motivi che hanno indotto gli esperti ad includere il disturbo da gioco d’azzardo all’interno della categoria della dipendenza dipendono oltre che dall’efficacia di alcuni trattamenti in entrambi i disturbi (Upfold, 2009), anche dall’elevata percentuale di comorbilità riscontrata tra di essi (Hodgins et al., 2005; Moreyra et al., 2010) e dalle simili manifestazioni e categorizzazioni di alcuni sintomi (Petry et al., 2013). Il GAP e i disturbi da uso di sostanze condividono, infatti, molte caratteristiche, tanto che i criteri utilizzati per diagnosticarli sono del tutto simili: entrambi presentano tolleranza, craving ed astinenza, oltre ad un rilevante impatto sulla vita personale, familiare, sociale, finanziaria e legale del soggetto.

Denominazione

Un’ulteriore modifica apportata dal DSM-5 concerne la denominazione del disturbo. Gli esperti infatti hanno proposto di modificare la nomenclatura da Patological Gambling in Gambling Disorders. Il cambiamento non appare meramente linguistico e va nella stessa direzione dell’evoluzione dei disturbi da uso di sostanze. Il DSM-5, infatti, elimina qualsiasi distinzione tra diagnosi di abuso e dipedenza da sostanze, per unificarle in una sindrome alla quale viene assegnata un gradiente di gravità, sulla base del numero di criteri che sono soddisfatti nello specifico quadro clinico (Bellio, 2013). Gli studiosi, inoltre, sperano che questa nuova denominazione contribuisca a ridurre lo stigma e la condanna morale associata al termine patologico (Petry et al., 2013).

Criteri Diagnostici

Nel DSM-5 i criteri diagnostici per il Disturbo da Gioco d’Azzardo non hanno subito cambiamenti significativi sul piano qualitativo. La Task Force del DSM-5, tuttavia, ha optato per l’eliminazione del criterio degli atti antisociali: ha commesso atti illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo, dal momento che sembra non contribuire molto all’accuratezza e alla precisione diagnostica per l’identificazione della maggior parte dei giocatori patologici (Strong et al., 2007; Toce-Gerstein et al., 2003). Inoltre il DSM-5 classifica il disturbo in lieve (se sono soddisfatti 4-5 criteri), moderato (se sono soddisfatti 6-7 criteri), grave (se sono soddisfatti 8-9 criteri).

 

Anche in Italia, il Disturbo da Gioco d’Azzardo sta assumendo sempre più le caratteristiche di una vera e propria malattia sociale con costi insostenibili per milioni di cittadini. Il concetto di pericolosità insito nel gioco, non fa ancora parte del nostro patrimonio culturale, ciò provoca una sottostima del reale pericolo che rappresenta nella sua forma patologica.

FINE PRIMA PARTE

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Ringraziamenti

Si ringrazia il Dott. Corrado Amedeo Presti per la collaborazione nella stesura e la ricerca bibliografica. Inoltre si ringrazia la Dott.ssa Mariagrazia Occhipinti.

 

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Come diventare un malato di mente – Recensione del libro di José L. P. Abreu

José L. P. Abreu è uno psichiatra che, attraverso la pubblicazione del libro Come diventare un malato di mente ha creato un perfetto manuale per chi ha intenzione di intraprendere una carriera da fobico, ossessivo compulsivo, ecc.

José Luis Pio Abreu è uno psichiatra che da oltre 30 anni lavora presso l’ospedale Universitario di Coimbra, in Portogallo. Attraverso la pubblicazione del libro Come diventare un malato di mente ha creato un perfetto manuale per chi ha intenzione di intraprendere una carriera da fobico, ossessivo compulsivo, ecc.

Partendo dalle classificazioni proposte dal DSM IV, l’autore fornisce gli obiettivi da raggiungere per ogni patologia con una serie di consigli pratici, a metà tra rigore medico-scientifico e senso del paradosso, in modo da aderire perfettamente ai criteri diagnostici e diventare dei veri malati mentali.

Dal testo emerge quanto sia semplice e facile fingere una malattia psicologica,  tra tutte le patologie senza dubbio la più simulabile, tanto che l’autore porta a chiedersi se una cosa che riusciamo a inventare tanto semplicemente sia effettivamente una malattia.

Un libro ironico, divertente e provocatorio, che chiarisce al lettore che nell’inquietudine del vivere quotidiano tutti quanti sperimentiamo, in modo ridotto, gli aspetti sintomatici di tutte le sei patologie prese in esame e ci rendiamo conto che la differenza tra salute e patologia è nella quantità, più che nella qualità dei sintomi.

Abreu inoltre aggiunge:

ciò che mi fa più paura dei malati di mente è la loro mancanza di consapevolezza su quello che succede dentro di loro, ciò li porta a perdere la libertà di cambiare: continuano in ogni circostanza a fare sempre le stesse cose.

L’ultimo capitolo, che ha richiesto all’autore un impegno di sei mesi (per quelli precedenti ha lavorato 20 giorni), è dedicato a Come non essere un malato di mente, perché, dopo tutto, prevenire è meglio che curare. Abreu suggerisce delle semplici ricette per rimanere in buona salute, per essere semplicemente persone qualsiasi che accettano le sfide e i paradossi della vita e fanno il possibile in ogni momento per dare quello che possono e per agire insieme con gli altri.

In conclusione lo scrittore suggerisce che

dobbiamo comunque assumerci la completa responsabilità delle nostre azioni, sono in ogni caso d’accordo che tutto questo è molto complicato, poco gratificante e difficile da mettere in pratica. Di facile, c’è solo diventare un malato di mente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Psiconcologia: affrontare la malattia oncologica

 Martina Lattanzi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto Del Tronto

I sentimenti suscitati sono molto intensi, come un senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia. In seguito diverse domande invadono la mente del paziente: “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”.

Il modo di reagire al proprio stato di salute o di malattia, così come lo sviluppo, il decorso e la prognosi stessa della malattia oncologica sono influenzati dall’interazione di diversi fattori: di tipo biologico, psicologico e sociale. Ogni paziente vive e affronta la malattia in modo soggettivo e unico: si attiva un processo di adattamento alla nuova condizione fisica, che comporta una trasformazione radicale nella vita del paziente.

La comunicazione della malattia tumorale rappresenta uno degli eventi più stressanti che alcune persone si trovano a dover affrontare nel corso della loro vita, un cambiamento non solo fisico ma anche mentale: cambia il modo di percepire e sentire il proprio corpo, cambia la percezione che si ha del mondo, cambiano le relazioni sociali e interpersonali. Si tratta di una fase molto delicata e difficile sia per il paziente che per i suoi familiari: di fronte alla parola “cancro” la primissima reazione è avvertire un senso di confusione, sbandamento, un vero e proprio shock. Il cancro è una parola che evoca emozioni angoscianti, rimanda a uno scenario altamente catastrofico nell’immaginario collettivo, ad una “condanna a morte”.

I sentimenti suscitati sono molto intensi, come un senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia. In seguito diverse domande invadono la mente del paziente: “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”.

Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica, l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico influenzerà il tipo di adattamento psicosociale alla malattia. L’atteggiamento e lo stile di coping utilizzato andranno ad influenzare non solo la qualità di vita successiva alla diagnosi, ma anche la compliance ai trattamenti medici e il decorso biologico della malattia (Putton et al., 2011).

Vi sono infatti comportamenti più adattivi e altri meno adattivi nell’affrontare la propria condizione di salute.
Pilowsky (1978) parla di “comportamento abnorme di malattia” sottolineando come la percezione, la valutazione e di conseguenza i comportamenti attuati in relazione al proprio stato di salute possano essere inappropriati e maladattivi, nonostante ci sia stata da parte del medico una adeguata spiegazione sulla natura della malattia, e sia stato definito un adeguato percorso di cure, basandosi sugli aspetti biologici, psicologici, sociali e culturali. Il comportamento abnorme di malattia include sia condizioni caratterizzate da una affermazione della malattia, ad esempio l’ipocondria o i sintomi di conversione (Pilowsky, 1990), sia la minimizzazione o negazione dei sintomi (Pilowsky, 1978).

Il coping rappresenta una modalità cognitivo-comportamentale con il quale un individuo affronta un evento stressante e le sue conseguenze emozionali. La capacità di far fronte ad una crisi esistenziale dipende da diversi fattori: dal tipo di patologia (sintomi e decorso), dal livello di adattamento precedente alle situazioni di malattia, dal significato della minaccia esistenziale, da fattori culturali e religiosi, dall’assetto psicologico e dalla personalità, dall’istruzione e da eventuali disturbi psichiatrici presenti (Putton et al., 2011).

Tra i pazienti oncologici sono state rilevate diverse strategie di coping nell’affrontare lo stress legato alla malattia neoplastica. Le principali strategie individuate da Burgess (1988) sono:

Hopelessness/helplessness, caratterizzato da elevati livelli di ansia e di depressione, dall’incapacità di mettere in atto strategie cognitive finalizzate all’accettazione della diagnosi, dalla convinzione di un controllo esterno sulla malattia;

– Spirito combattivo, contraddistinto da moderati livelli di ansia e di depressione, da numerose risposte comportamentali attraverso le quali il paziente cerca di reagire positivamente e costruttivamente alla situazione, dalla convinzione di un controllo interno sulla malattia;

– Accettazione stoica, con bassi livelli di ansia e depressione, attitudine fatalistica, dalla convinzione di un controllo esterno della malattia;

– Negazione/evitamento, in cui appaiono del tutto assenti sia le manifestazioni ansioso-depressive, sia le strategie cognitive, nella convinzione da parte del paziente di un controllo sia interno che esterno della malattia.

La percezione del controllo che si ha sulla malattia o più in generale sugli eventi di vita stressanti è un fattore importante nel determinare lo “stile di coping” messo in atto e ha una grande influenza sulla salute e sul decorso della malattia. Le persone possono sentire di avere un controllo interno o esterno sugli eventi:

– I soggetti con un locus of control interno sentono di poter esercitare un controllo sugli eventi, credono in se stessi e in ciò che si prefiggono. Nei confronti delle malattie reagiscono in termini risolutivi e in prima persona, sono propositivi e collaborano con l’equipe medica. Sembra essere un fattore protettivo per la salute in generale e elemento positivo per il decorso della malattia.

– I soggetti con locus of control esterno reagiscono in modo passivo agli eventi, non si sentono responsabili né sentono di avere un controllo su quanto gli accade, tendono a dare la colpa agli altri. Questo atteggiamento sembra essere un fattore di rischio per la salute in generale e anche per il decorso delle malattie.

La percezione del controllo di un evento, insieme alla desiderabilità, sono quindi fattori fondamentali nella valutazione cognitiva di uno stressor: più gli eventi sono percepiti come indesiderabili e incontrollabili maggiore sarà la probabilità di percepire quell’evento come stressante e maggiori saranno le probabilità di ripercussioni negative sulla salute (Grandi et al., 2011).

Tra le strategie di coping maggiormente utilizzate dai pazienti oncologici nell’affrontare l’impatto emotivo della malattia, la negazione/evitamento si riscontra in modo rilevante proprio durante la fase diagnostica della malattia e risulta associata a bassi livelli di stress emozionale (Watson et al., 1984). La negazione di malattia è stata definita come un meccanismo di difesa che permette di prendere le distanze da una realtà minacciosa e preoccupante, “un rifiuto conscio o inconscio di una parte o di tutto il significato di un evento per allontanare la paura, l’ansia o altri affetti spiacevoli” (Hackett et al. 1968). Un paziente può negare la diagnosi, la prognosi o la gravità della malattia, oppure può ignorare o dimenticare quello che il medico gli ha riferito con la diagnosi, oppure rifiutare di aderire al trattamento proposto. Secondo Breznitz (1983) la negazione che si attiva in risposta ad uno stimolo minaccioso per la propria salute determina un certo grado di distorsione della realtà e può riguardare diversi aspetti o parti di essa.

Esistono quindi sette tipi di negazione che si articolano lungo un continuum graduale:

1. La negazione del significato personale della minaccia percepita;

2. la negazione dell’urgenza;

3. la negazione della vulnerabilità o della responsabilità;

4. la negazione delle emozioni correlate;

5. la negazione del significato affettivo;

6. la negazione della presenza di un’informazione minacciosa,

7. la negazione di ogni tipo di informazione.

Quale funzione ha la negazione di malattia sul decorso della patologia oncologica? Un aspetto molto interessante e dibattuto dagli studiosi riguarda il ruolo o la funzione che assume la negazione sul decorso dei disturbi medico-internistici in quanto a seconda della fase di sviluppo della malattia in cui si trova il paziente la negazione può avere un valore positivo o negativo, in relazione al contributo che può dare al miglioramento o al peggioramento della condizione medica. Dagli studi presenti in letteratura emerge come il meccanismo difensivo svolga un ruolo adattivo nelle fasi iniziali della malattia perché protegge il paziente dalla paura, dallo sconforto che si provano di fronte alla diagnosi medica.

In studi condotti su donne con cancro al seno si rileva un’associazione positiva tra la negazione degli effetti della malattia (ovvero tutti i cambiamenti e le conseguenze negative che comporta la malattia oncologica) e livelli inferiori di sofferenza emotiva (Meyerowitz et al., 1983) nonché minori livelli di ansia e disturbi dell’umore (Watson et al., 1984). La negazione quindi attraverso una “distorsione” della realtà, nascondendo a se stessi la presenza del cancro, aiuta a ridurre il senso di sopraffazione (Moyer et al., 1998), di disperazione, di paura, di impotenza che si provano al momento della diagnosi medica, contribuendo a preservare un’immagine positiva di sé e l’autostima (Livneh, 2009).

Se ci soffermiamo a pensare a quante volte ci è capitato nella vita quotidiana di rifiutare, negare una notizia, un’informazione o un evento che non avremmo mai voluto sapere nel tentativo di difenderci dalle emozioni negative e allontanare così dalla nostra coscienza un pensiero doloroso che ci crea sofferenza, possiamo effettivamente comprendere perché la negazione della malattia oncologica ha un effetto positivo sul benessere psicologico del paziente. Ma approfondendo ulteriormente tali studi emerge un altro dato interessante, ovvero la correlazione tra negazione di malattia e maggiore sopravvivenza tra i pazienti oncologici (Greer et al., 1979; Butow et al., 1999).

Nello studio longitudinale di Greer et al. (1990), condotto su donne con carcinoma mammario, ad un follow-up di 5, 10 e 15 anni, la negazione di malattia risulta essere la risposta psicologica che si associa ad una più lunga sopravvivenza e a meno recidive rispetto ad un atteggiamento di accettazione o di mancanza di speranza, che si associano invece ad una prognosi peggiore. Nello studio di Butow et al. (2000) le pazienti che utilizzano la negazione come strategia di difesa hanno un cancro meno aggressivo e meno grave con una minore probabilità di metastasi, sperimentano meno sintomi fisici e una migliore qualità della vita. Il motivo che spiega tale associazione rilevata non è però del tutto chiaro: tra le diverse ipotesi avanzate ve ne è una secondo la quale la negazione potrebbe avere un’influenza positiva in modo indiretto, ovvero negare di avere una malattia tumorale protegge il paziente dall’esperire sentimenti negativi di depressione o demoralizzazione, sentimenti che inficiano negativamente sulla prognosi della malattia (Fava et al., 2007). Di conseguenza le persone saranno anche più inclini ad instaurare relazioni interpersonali, a condividere e ricevere supporto sociale, fattori positivi di protezione non solo per la salute psichica ma anche per l’evoluzione della patologia oncologica (Butow et al. 2000; Brajkovic et al., 2013 ).

Gli studi sopra citati dimostrano quanto sia importante, nell’affrontare un percorso di riabilitazione oncologica, considerare non solo la condizione clinica del paziente ma anche i fattori psicologici, culturali e sociali che influenzano il decorso di un disturbo medico e contribuiscono in modo rilevante a determinarne l’evoluzione. Il modello biopsicosociale di Engel (1977) sottolinea l’importanza di superare la prospettiva strettamente medica e di considerare anche il ruolo degli eventi di vita stressanti, la vulnerabilità individuale alla malattia, il comportamento di malattia, le esperienze di vita, il modo di percepire, valutare e rispondere al proprio stato di salute. Bisogna anche sottolineare che il meccanismo difensivo della negazione in alcuni casi può determinare la messa in atto di comportamenti e atteggiamenti che vanno a peggiorare la condizione di salute: trascurare i sintomi e il loro significato, non rispettare l’aderenza alle terapie mediche, ritardare nel tempo la consultazione medica rendono più sfavorevole la prognosi della malattia oncologica (Wool et al., 1986).

La tempestività della diagnosi di cancro e la compliance (aderenza) al trattamento medico sono determinanti nell’aumentare le probabilità di una risoluzione positiva della malattia oncologica, per questo è necessario assistere psicologicamente il paziente sin dal momento della diagnosi, come già si sta facendo in diversi ospedali italiani dove sono presenti psicologi che affiancano il medico.

La negazione o il diniego potrebbero compromettere l’aderenza del paziente alle prescrizioni mediche, ai farmaci, agli esami di laboratorio, ai controlli clinici e tutto ciò ha un a grande rilevanza clinica: la paura, le pressioni sociali, il senso di responsabilità ma anche la cultura di appartenenza sono tutti fattori che potrebbero essere collegati con la negazione di malattia (Phelan et al., 1992).

Cosa può fare lo psicologo per aiutare il paziente ad affrontare la malattia? La “sindrome psiconeoplastica” (Guarino, 1994) riguarda una serie di dinamiche psicologiche profonde, scaturite dalla diagnosi di cancro, e può presentarsi come una costellazione di sintomi psicopatologici la cui intensità dipende dall’interazione di diversi fattori: la personalità del paziente, le esperienze passate, l’età, le relazioni interpersonali presenti e passate, la presenza di un contesto sociale e familiare supportivo, la gravità e il tipo di tumore stesso. I sintomi psicopatologici maggiormente presenti, come precedentemente visto sono: senso di paura e stress, ansia, depressione, alterazione immagine di sé e del corpo, aggressività, rabbia, ostilità, senso di colpa, di invidia, di ingiustizia e uso massiccio del meccanismo di difesa della negazione e rimozione.

Lo psicologo clinico può fare molto all’interno dell’équipe medica riconoscendo i bisogni del paziente e aiutandolo ad affrontare il grande percorso di cambiamento fisico e psicologico che dovrà inevitabilmente affrontare con la malattia (www.psiconcologia.info). In una prima fase di  sostegno psicologico il paziente viene aiutato a elaborare il trauma conseguente alla diagnosi di tumore e a sostenere il “peso della malattia”:

– contenere l’ansia e le emozioni negative mantenendo un equilibrio psicologico;

– mobilitare meccanismi di difesa adeguati;

– favorire la comunicazione e l’espressione delle emozioni negative.

Il modo migliore di aiutare il paziente ad affrontare e superare lo shock iniziale sarà quello di rispettare i tempi soggettivi di accettazione della diagnosi medica, sostenendo e accogliendo le paure, i timore, i dubbi iniziali del paziente. Ogni persona ha un proprio modo di reagire e affrontare la malattia che deve essere compreso e rispettato lungo tutto il percorso di cura, in quanto l’adattamento alla malattia richiede tempo e risorse personali. Il paziente una volta superata la fase iniziale di disorientamento potrà avviare un percorso di elaborazione/integrazione della malattia nella propria esperienza di vita, fino ad arrivare ad una piena consapevolezza e accettazione della patologia.

In questa fase lo psicologo potrà aiutare il paziente a gestire la malattia, a incoraggiare l’espressione e la comunicazione delle emozioni coinvolgendo anche i familiari, a sviluppare modalità più adattive di affrontare la malattia, a dare un senso a quanto accaduto, a ridare un senso di speranza e ottimismo verso il futuro.

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BIBLIOGRAFIA:

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  • Sarno, P. (2009). La sindrome neoplastica. Prevenzione Tumori, 6/7. Consultato il 23 marzo 2015, su http://www.prevenzionetumori.it/
  • Watson, M., Greer, S., Blake, S., e Shrapnell, K. (1984). Reaction to a diagnosis of breast cancer relationship between denial, delay and rates of psychological morbidity. Cancer, 53, 2008-2012.
  • Wool, M. S. (1986). Extreme denial in breast cancer patients and capacity for object relations. Psychotherapy and Psychosomatics, 46, 196-204.

Affidamento congiunto o esclusivo? Conseguenze psicosomatiche nei bambini

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

La separazione dei genitori e il divorzio sono legati al rischio di problemi psicosomatici per i bambini, ma l’affidamento congiunto sembra essere meno problematico della custodia esclusiva.

Precedenti ricerche hanno suggerito che i bambini con genitori separati fossero più soggetti a problemi emozionali e comportamentali di quelli che abitano invece a casa con entrambi i genitori.

Ricercatori svedesi hanno utilizzato i dati di un sondaggio nazionale di ragazzi svedesi da 12 ai 15 anni nel tentativo di scoprire se la situazione familiare dei bambini fosse correlata con problemi psicosomatici.

Sono stati confrontati bambini che vivevano principalmente con un genitore, bambini che dividevano il loro tempo tra i due genitori in una custodia congiunta e bambini con un nucleo familiare unito.
La prevalenza di problemi psicosomatici è stata valutata per 6 mesi attraverso la Psychosomatic Problems Scale concentrandosi sui sintomi: difficoltà a dormire, mal di stomaco, mal di testa, sensazioni di tensione, tristezza, capogiri e perdita dell’appetito.
Ai ragazzi veniva anche chiesto se riuscivano a parlare facilmente ai propri genitori quando ne avevano bisogno e se avevano abbastanza soldi per fare le stesse cose che facevano i loro amici.

I ragazzi che vivevano con un unico genitore hanno riportato maggiori problemi, in tutte le variabili psicosomatiche. Anche quelli con affidamento congiunto avevano percentuali maggiori rispetto a quelli che vivevano con entrambi i genitori ma con valori inferiori a quelli con affidamento esclusivo.

Partendo dal presupposto che i sintomi psicosomatici siano legati allo stress i risultati dimostrano che il potenziale stress di vivere in due case differenti e quindi di abituarsi a due quartieri diversi e due climi familiari differenti venga controbilanciato da effetti positivi nel mantenere contatti con entrambi i genitori. Anche nelle interviste i bambini hanno dimostrato un certo fastidio e stress dato dalla situazione che si crea in un affidamento congiunto ma hanno dato comunque una maggiore importanza al mantenere dei rapporti stretti con i genitori. Infatti i bambini di questo gruppo erano solo leggermente meno soddisfatti del rapporto con i genitori del gruppo con i genitori non separati.

Considerato che negli ultimi vent’anni le separazioni genitoriali sono sempre più frequenti, è importante valutare le conseguenze di questo fenomeno nei bambini e nei ragazzi. Valutando le risposte dei ragazzi con genitori separati e i loro livelli di sintomi psicosomatici l’affidamento congiunto risulta essere la soluzione migliore.

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La psicologia dei campioni…omaggio!

Passeggiate per un centro commerciale e trovate il promoter di turno che vi propone di prendere un campione dell’ultima crema viso in commercio o un assaggio del formaggio appena tagliato, come reagite?

Le reazioni possono essere diverse: dai più timidi che provano vergogna nell’appropriarsi gratis di qualcosa, ai timorosi di eventuali obblighi d’acquisto che scansano il promoter quasi fosse un appestato di manzoniana memoria, a quelli più spavaldi che riforniscono di campioni omaggio non solo se stessi ma anche il loro amici più timidi di cui sopra.

Ma perchè numerose aziende prevedono, come strategia fondamentale di marketing, la distribuzione di campioni omaggio gratuiti? e cosa succede al cliente che vede offrirsi tali campioni?

Alla luce di uno studio condotto nel 2011 e pubblicato sul British Food Journal, i rivenditori hanno le loro ragioni sia economiche che psicologiche per distribuire prodotti gratuitamente. Sembra che tale pratica abbia non solo effetti sui guadagni, ma anche effetti sulla psicologia sul cliente che si sente più portato a comprare il prodotto, in quanto in debito con chi gliel’ha offerto.

Il risultato? Un aumento vertigionoso delle vendite. Vi invitiamo alla lettura dell’articolo consigliato e, qualora foste tra quei clienti timidi che evitano prontamente gli assaggi gratuiti, non pensateci su e prendete pure l’omaggio…in fin dei conti lo fate anche per il bene dell’economia!

 

People love free, people love food, and thus, people love free food. Retailers, too, have their own reasons to love sampling, from the financial (samples have boosted sales in some cases by as much as 2,000 percent) to the behavioral (they can sway people to habitually buy things that they never used to purchase).

La psicologia dei campioni…omaggio!Consigliato dalla Redazione

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Perché le grandi aziende puntano sulla distribuzione di campioni omaggio? Cosa accade a livello psicologico al cliente che riceve il campione? Psicologia e marketing si incontrano. (…)

Tratto da: The Atlantic

 

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Tradimento e amore romantico – Tracce del tradimento Nr. 09

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTOIX: Tradimento e amore romantico

 

Proseguiamo la nostra esplorazione della gelosia e del tradimento. Chi tradisce è alla ricerca della passione. Chi cerca tracce di tradimento lo fa per gelosia, per non investire in un partner che lo inganna. E fin qui questa gelosia sembra ragionevole e prudente. La ricerca diventa inspiegabile quando si continua a cercare nonostante non ci siano indizi e nonostante tutte le ricerche diano esito negativo, come se si fosse guidati dalla incrollabile e talvolta delirante certezza che indubitabilmente l’altro non può davvero amare.

 

Carolina aveva ormai cresciuto i suoi due figli con il compagno di sempre, un ragazzo, ormai uomo, che era stato un ottimo amico e compagno di strada, dedito, pur con qualche bizza, come il fatto di volere andare sempre a pesca di lucci la domenica. Affettuoso con i figli, presente, continuava a dirle che le voleva bene e che la trovava ancora carina e attraente. Carolina però in quel momento della vita si sentiva angosciata, storta, insoddisfatta. Le sembrava che le cose si fossero messe in un modo stabile e poco soddisfacente, la carriera nel suo ufficio non procedeva come avrebbe voluto, l’assenza dei figli da casa cominciava a pesare, e gli anni passavano in un modo veloce e troppo uguale. Il capufficio si presentò come un evento fulminante e improvviso, inaspettato e del tutto imprevedibile, era bastato uno sguardo, una sera che si stava fino a tardi a finire un bilancio da chiudere. A Carolina sembrò che la sua vita si rompesse, iniziò a essere ossessionata da quel pensiero quelle immagini di lui che interrompevano continuamente il pacifico flusso delle sue pratiche di vita quotidiane. Le cose della vita che prima la soddisfacevano erano divenute insipide e senza senso. Quando il capufficio si fece avanti le sembrò che potesse avverarsi un sogno di vita diversa, più larga, più allegra. Senza nessuna rete, si gettò in una storia difficile senza proteggere il largo spazio vitale che in venti anni di matrimonio aveva costruito. Le cose andarono come dovevano. Il capufficio era sposato e si impaurì non poco di questa reazione eccessiva a quella che avrebbe voluto confinare in una avventura sessuale con una donna simpatica e capace. All’inizio, questo innamoramento folle lo divertì e lo fece sentire bene ma molto presto di fronte alle richieste di vicinanza di lei, valutò che i rischi erano esagerati e non volendo mettere in crisi il suo matrimonio si tirò indietro dicendole che non la meritava.

Carolina cominciò a perseguitarlo, ad aspettarlo sotto casa, a lasciare tracce di telefonate e di lettere in casa, fino a quando il marito preoccupato e finalmente insospettito la seguì e la mise alle strette. La donna non ebbe la capacità strategica di negare la storia e disperata si rivolse a un terapeuta per capire bene cosa fare della sua vita. Il marito deluso e completamente sfiduciato si trasformò. Cominciò a uscire di casa la sera e in pochi mesi annunciò alla moglie che non aveva più desiderio di rimanere con lei lasciandola e andando a vivere da solo, mentre iniziava una storia con una donna più giovane. Dopo un periodo di disperazione e dopo essere uscita dall’ossessione amorosa che la aveva rapita e confusa, la donna cominciò a rendersi conto in modo realistico delle difficoltà della sua vita, del futuro che vedeva in modo oscuro e senza speranze, ebbe una serie di periodi depressivi che affrontò con coraggio e vogliosa di capire i movimenti affettivi che la avevano condotto in questa situazione. Solo alcuni anni dopo, di nuovo in equilibrio, e ormai quarantacinquenne, trovò vicino un amico vedovo che aveva desiderio di iniziare una nuova vita accanto a lei. In modo tranquillo e affettivo si lasciò andare al sentimento quotidiano di calore e solidarietà che alcuni anni prima aveva abbandonato senza alcuna consapevolezza.

 

L’amore passionale è stato al centro di larga parte della letteratura dai primi greci ai romantici. La sensibilità romantica ha influenzato il nostro modo attuale di intendere l’amore rendendo impossibile l’idea dei matrimoni combinati e non fondati sulla reciproca scelta passionale (che peraltro sembra funzionassero non molto peggio dei nostri liberamente e emotivamente scelti). La letteratura, non solo romantica, è piena di passioni dolorose e ostacolate, da Shakespeare a Goethe, da Tristano e Isotta a Proust .

Della letteratura sulla sofferenza dell’impossibilità di ottenere l’oggetto amato il dongiovannismo rappresenta la parte tecnica, collezionistica, emotivamente consapevole, melanconica e algida. Esso è caratteristico dell’animo maschile, è l’essenza dello stato di inquietudine e insoddisfazione che è alla base della passione amorosa ed è ben descritta nel libro di Citati che del dongiovannismo fa una erudita e attenta disamina:

..non voglio che il mio dongiovanni abbia ad essere un libertino dal sangue acceso eternamente a caccia di femmine. È in lui una Sehnsucht; quella di trovare la donna che sia l’incarnazione totale della femminilità: che gli consenta di godere nell’unica tutte le donne, delle quali gli è vietato singolarmente il possesso. Ma poiché passando dall’una all’altra come ebbro, lo coglie il disgusto. E il disgusto è alla fine, il demonio che se lo porta via…

e ancora…tende già dall’inizio a un assoluto che non coglierà. Egli beve nella stessa coppa del piacere gocce amare, cova voluttuosamente la sua tristezza. Ama la conquista, ma assai più il distacco, sempre invocando una voluttà suprema che non giunge: “si uniscono più dolcemente“ dice una volta ”le labbra già pronte a staccarsi”. E il presentimento della separazione da all’amore il suo fascino…

 

Il don Giovanni nasce in epoche di grandi rigidità morali dove alle donne era prescritta rigidamente la forma e le regole che doveva assumere il sentimento. L’incarnazione in un uomo dell’insoddisfazione può oggi leggersi in modo più vasto e non relegata al solo sesso maschile.

Il problema sembra essere più in generale, non è tanto il perfezionismo e il collezionismo dell’uomo, ma l’impossibilità della passione in una relazione in cui non vi sia una minaccia di abbandono.

GUARDA: Come NON smettere di fare sesso – VIDEO –

Questo è ben raccontato in un bel libro di Cohen, (Bella del Signore) dove una coppia perfetta, una donna e un uomo ideali e perfettamente innamorati, scadono pian piano in una aridità e in uno svuotamento sentimentale ineluttabile e mortifero, che era già nelle premesse della loro vicenda. Qualcosa di estremamente simile celebra magistralmente Gaber nella canzone “Il Dilemma”, dove canta a proposito di una coppia perfetta che vede spegnersi la passione e insinuarsi uno sciocco e banale tradimento

il loro amore moriva come quello di tutti, perché morire e far morire è una antica usanza che suole aver la gente”.

 

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GELOSIASESSO & SESSUALITA’

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La mamma è sempre la mamma, ma da sola non può farcela!

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, pubblicato su Linkiesta del 10/05/2015

Con la teoria dell’attaccamento, che è diventata in breve dominante, la madre diventa il soggetto essenziale e unico. La famiglia a due genitori inizia a vacillare.

La mamma è sempre la mamma. Perfino la psicoanalisi ne ha preso atto, dopo aver privilegiato inizialmente il padre. Il primo modello freudiano, come molti di noi sanno, proponeva che lo sviluppo di una psiche matura e stabile dipendesse da uno scontro di personalità tra i figli che devono conquistare l’autonomia e il padre che deve imporre e trasmettere la Legge morale prima di aprire i cancelli della libertà.

Questo modello è durato fino agli anni ’60, decennio spartiacque. In quegli anni di rivoluzione sociale e culturale, nelle scienze psicologiche il conflitto edipico tra padri e figli fu lentamente sostituito da uno scenario più sentimentale e tranquillo, la cosiddetta relazione di attaccamento tra genitori e figli, in cui l’amore e l’accudimento soprattutto materni prendevano il posto della rivalità con il padre.

Fu Donald Winnicott il principale autore di questa svolta. In seguito John Bowlby diede una conferma empirica al nuovo modello materno-centrico. Non si pensava più che lo sviluppo della psiche e delle sue deviazioni germogliasse da uno scontro tra Edipo e Laio, ma dall’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre. Si trattava di un profondo cambiamento culturale. La severa Torah freudiana era stata sostituita dai Vangeli amorevoli di Winnicott e Bowlby, e un gentile culto mariano subentrava alle tragedie arcaiche. E anche il copione psicoterapeutico cambiò. Non si trattava più di riprodurre in seduta le triangolazioni erotiche e conflittuali edipiche, ma di vivere una relazione tra paziente e terapeuta meno tragica e più gentile e cortese, sia pure con le sue puntate drammatiche.

L’inconscio assoluto sembrava svanire, per essere sostituito da un vaporoso stato di semi-coscienza e semi-incoscienza onnicomprensiva. Diventava centrale soprattutto l’affetto trasmesso, il calore e la protezione, la vicinanza sentimentale e continua, l’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre.

Il ruolo del padre veniva così decostruito con successo mentre la mamma diventava sempre più la mamma, perfino nei severi paesi nordici. Nel 1999 Silverstein e Auerbach pubblicarono un articolo diventato famoso sulla prestigiosa American Psychologist, articolo intitolato “Deconstructing the Essential Father”. Anche Silverstein e Auerbach notavano che il processo di svalutazione del ruolo del padre nel processo di crescita dei bambini era iniziato dagli anni ’60, il decennio decisivo della secolarizzazione di massa in Occidente.

Come ho già scritto, da quel decennio in poi molti teorici della psicoanalisi e della psicologia scientifica avevano messo da parte la centralità del confronto padre-figlio e la terribilità del conflitto edipico e lo avevano sostituito con lo scenario più morbido e adrammatico, più sentimentale e senza scosse della cosiddetta relazione di attaccamento tra madri e figli. Con la teoria dell’attaccamento, che è diventata in breve dominante, la madre diventa il soggetto essenziale e unico. La famiglia a due genitori inizia a vacillare.

Altri dati a favore della centralità della madre provengono dalla teoria evoluzionista darwiniana. Darwin e i suoi seguaci più recenti fino a Richard Dawkins sostengono che mentre il maschio sarebbe evolutivamente spinto a fecondare quante più femmine può (e quindi investe sul numero e non sulla qualità della relazione con una prole amata e protetta per diffondere i propri geni) la femmina invece punta le sue carte su pochi figli e figlie allevate e amate con cura e dedizione, seguite finché non conquistano l’autonomia. Di qui scaturirebbe darwinianamente la potenza dell’amore materno, di qui l’attaccamento profondo, violento e terribile della madre ai figli.

D’altro canto, poiché anche nella scienza sembra spesso valere il detto che ci sono buoni argomenti per ogni conclusione, molti studi finiscono anche per rivalutare la figura del padre. Inoltre, il possibile rischio della linea di pensiero che privilegia la madre è che così si finisca per propagandare una differenza strutturale tra genere maschile e femminile che suggerisca che le donne dovrebbero tornare a badare figli e fornelli. Silverstein e Auerbach hanno notato questo rischio e hanno argomentato quanto possa essere discutibile l’applicazione del darwinismo alla psicologia o alla sociologia.

La tendenza più recente, lo stadio successivo a quello della decostruzione del padre, è infatti la valorizzazione di un neutrale care-giver asessuato. Care-giver: colui che dà accudimento e il cui sesso è indifferente. Anzi, perfino la specie può essere indifferente. Nella teoria dell’attaccamento ci sono delle analogie con le osservazioni sull’ìmprinting di Lorenz, che notava come il cucciolo neonato scelga il genitore care-giver da seguire fedelmente secondo un criterio del tutto slegato da ogni preferenza sessuale o di specie: il primo che vede è adottato come genitore. Così poteva succedere che Lorenz passeggiando fosse seguito da una fila di anatroccoli, di cui era il care-giver.

Questo in teoria. Nella pratica, il care-giver rimane nella stragrande maggioranza dei casi di sesso femminile ed è quindi la madre, la mamma che è sempre la mamma. Alcuni studiosi hanno paventato una sorta di ritorno al branco primitivo, in cui i maschi vivono in gruppo separati dalle donne e dediti ai virili giochi della caccia (e della guerra), e altrettanto separate dai maschi vivono le donne, dedite alla cura dei figli e a una vita sociale più corte e civile. E l’incontro tra i sessi si limitava a stagionali cerimonie riproduttive.

Nella versione moderna, naturalmente e per fortuna, lo scenario è più equilibrato. Anche la donna è sempre più presa dalle gioie dell’affermazione di sé nel lavoro e nella vita autonoma, ha percepito il richiamo dell’indipendenza nella foresta e segue il richiamo di Diana cacciatrice. È anche un’idea basata scientificamente, come spiegano Ryan e Jethà (2010) nel loro libro intitolato Sex at dawn: the prehistoric origins of modern sexuality, ovvero le origini preistoriche della sessualità moderna, libro che racconta come siamo destinati a tornare alla pluralità erotica dei tempi primitivi.

Rimane il fatto che paradossalmente, questa indipendenza spesso lascia sola la madre con i figli e caricare solo la madre del peso della crescita della prole rimane un rischio. Gli adolescenti cresciuti con un solo genitore –per lo più la madre- presentano maggiore tendenza all’abuso alcolico e di droghe, maggiori tendenze suicidarie, più gravi problemi psichiatrici, minori capacità di cooperare e socializzare con gli altri e hanno una propensione nettamente maggiore a subire condanne carcerarie per atti violenti (Berman, 1995; Duncan, Duncan e Hops, 1994).

La risposta –negli Stati Uniti fatta propria anche dal presidente Obama- prevede la valorizzazione di famiglie consapevoli e strutturate. La coppia dei genitori è migliore di un solo genitore (Dazzi e Madeddu, 2009, pag. 215-224). Sono dati che forse hanno colpito particolarmente Obama conoscendo la sua storia personale di ragazzo cresciuto senza padre.

Il che non vuol dire appoggiare solo il modello tradizionale madre/padre, ma anche altre configurazioni di coppie di genitori “same-sex”.

La promozione di forme alternative alla famiglia tradizionale non deve diventare –come talvolta è successo in passato- promozione indiscriminata anche delle famiglie monogenitoriali che in realtà sono spesso configurazioni residuali non scelte e che finiscono per scaricare tutto il peso economico ed emotivo sulla sola madre, come purtroppo accade sempre più spesso nei paesi anglo-sassoni.

Insomma, man mano che la svolta culturale del matrimonio gay viene assorbita si delinea una inedita alleanza neo-conservatrice tra famiglia tradizionale padre/madre e famiglie “same sex”. Ne ha parlato recentemente perfino il New England Journal of Medicine. Insomma, la mamma è sempre la mamma, ma da sola non può farcela.

 

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Attaccamento e psicoanalisi di Morris N. Eagle (2013) – Recensione

BIBLIOGRAFIA:

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