David Eagleman si è soffermato sul ruolo della plasticità neurale durante il sonno per proporre una nuova ipotesi (pre-print, Eagleman, 2020); i processi di neuroplasticità sono infatti attivi anche quando apparentemente non siamo soggetti a stimolazioni sensoriali particolari.
Fin dall’antichità l’uomo si interroga sul significato dei sogni. Queste bizzarre allucinazioni notturne sono legate in qualche modo alle nostre attività quotidiane, celano oscuri significati sepolti sotto gli strati inconsci della mente, oppure si tratta di narrazioni del tutto casuali?
Quando in ambito psicologico parliamo di sogni, è difficile non tirare in ballo Freud; ma nonostante la teoria psicoanalitica sia tutt’ora criticata da molti per la mancanza di basi scientifiche oggettive, il padre della psicoanalisi si augurava che in futuro gli scienziati avrebbero avuto strumenti a disposizione per andare più a fondo nella questione (Freud, 1895). Lasciando a latere le questioni teoriche, sui sogni oggi sappiamo molte più cose che all’epoca, grazie soprattutto agli avanzamenti tecnologici e a numerosi e interessanti studi, che hanno evidenziato una possibile funzione adattativa (Grieser et al, 1972; Crick et al, 1983; Revunsuo, 2000).
In un recente lavoro, David Eagleman si è soffermato sul ruolo della plasticità neurale durante il sonno per proporre una nuova ipotesi (pre-print, Eagleman, 2020). I processi di neuroplasticità sono infatti attivi anche quando apparentemente non siamo soggetti a stimolazioni sensoriali particolari (come nel caso dell’assenza di input visivi mentre dormiamo) e più in generale consentono di adattare la connettività alle richieste dell’ambiente. Ad esempio, soggetti che hanno perso la vista in età adulta presentano riorganizzazioni neurali dinamiche piuttosto veloci, tali che una stimolazione sonora elicita attività (osservabile in fMRI) non solo nella corteccia uditiva ma anche in quella visiva occipitale (Voss et al, 2008); in altre parole, il cervello subisce rapidi cambiamenti anche quando l’input di un certo tipo si ferma. Quando un senso viene definitivamente perduto, ridistribuire connessioni e funzioni è certamente vantaggioso.
Questa riorganizzazione si può osservare anche per mezzo di una deprivazione sensoriale temporanea, ad esempio bendando i partecipanti a uno studio per qualche giorno. In un esperimento di questo tipo, soggetti bendati per cinque giorni sono stati in grado di discriminare le differenze in un testo braille in modo significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo, che aveva subito lo stesso paradigma di allenamento alla lettura in braille ma senza essere bendati (Merabet et al, 2008); anche in questo caso, sono state osservate attivazioni nella corteccia occipitale, oltre che in quella somatosensoriale. La corteccia visiva verrebbe reclutata da processi di natura sensoriale diversa, tramite dei cambiamenti rapidi nella connettività neurale, per giungere a un’elaborazione cross-modale dell’input; a conferma di ciò, interferendo nei circuiti occipitali tramite TMS è stata provocata un’interruzione del miglioramento nella discriminazione tattile nei soggetti del gruppo sperimentale. Il miglioramento è scomparso dopo un giorno dalla rimozione della benda, indicando che il processo è reversibile.
Tuttavia, se è sicuramente un vantaggio per il cervello poter ridistribuire la sua attività utilizzando anche distretti che una volta costituivano il substrato neurale di funzioni non più presenti (come la vista nel caso dei ciechi non congeniti), non lo è se la plasticità neurale coinvolge una corteccia sensoriale che riceve una minore stimolazione solo temporaneamente, ma spesso. Da questo punto di partenza, Eagleman propone la sua Teoria dell’Attivazione Difensiva: l’attività onirica durante il sonno REM costituirebbe un meccanismo di difesa per proteggere la corteccia visiva da una neuroplasticità invasiva e potenzialmente dannosa durante le ore in cui la funzione visiva è inibita, ovvero nelle ore di cecità fisiologica durante il sonno. Tenendo impegnata la corteccia visiva durante la notte, si impedirebbe la sua “riconversione”.
Il sonno REM viene innescato da una popolazione specializzata di neuroni che si trovano a livello del ponte; la loro attivazione stimola il nucleo genicolato laterale, in comunicazione con la corteccia visiva (oltre che un’inibizione muscolare, che ci mantiene più o meno immobili durante il sonno e ci impedisce di ‘agire’ ciò che stiamo sognando) (Hobson et al, 1975; Chase et al, 2008). Tale circuito, altamente specifico, difficilmente si è mantenuto nel corso dell’evoluzione senza nascondere una funzione importante dietro di sé.
Questa teoria avanza inoltre una previsione: quanto più forte è la plasticità neurale di un organismo, tanto più grande sarà il rapporto tra sonno REM e sonno non REM. L’analisi dei dati su numerose specie di primati oltre che sull’uomo confermerebbe l’ipotesi di Eagleman e colleghi: più sonno REM, più plasticità. In particolare, più ci si avvicina filogeneticamente all’uomo, più aumenterebbero i livelli di neuroplasticità e il tempo medio di sonno REM in rapporto al sonno totale. Questa scoperta sarebbe in linea con la letteratura sul sonno REM nelle varie fasi della vita: nei bambini il rapporto sonno REM/sonno totale è elevato, negli anziani è piuttosto basso, e la plasticità neurale è rispettivamente molto forte nei primi e quasi assente nei secondi (Abuleil, 2019).