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Sull’intimità, lontano dal frastuono dell’amore (2014) di François Jullien

Sull’intimità è il titolo di un interessate saggio di François Jullien, che tratta appunto del significato della vicinanza emotiva che porta due persone a definirsi intimi. L’autore ci mostra che essere intimi non significa per forza conoscere i fatti; non significa farsi spazio nella vita dell’altro, ma fare spazio all’altro nella propria vita, facendo un passo indietro piuttosto che un passo avanti.

Il libro è direttamente indirizzato alla figura femminile a partire dalla dedica che recita A colei che vi si riconosce, e prosegue delineando uno scenario di esodo dalla Francia della Seconda Guerra Mondiale (traendo le immagini dal libro di Georges Simenon, Il treno) in cui i protagonisti, sconosciuti fino al momento della partenza del treno, possono costruire un’intimità nel poco tempo che li accomuna, utilizzando un dentro segreto dove rifugiarsi contro un Esterno in disfacimento.

Intimità quindi intesa come spazio che può unire due persone non per forza esperte l’uno dell’altra, né conoscenti di lunga data: intimità piuttosto come spazio mentale dove ognuno è pronto a accogliere l’altro, dove i due possono insieme trovare un’alternativa a un contesto esterno in questo caso ostile e disperato.

In modo simbolico, estremizzando quello che può accadere a tutti noi nella quotidianità, i due protagonisti del romanzo decidono tacitamente di costruire questo spazio alternativo e privato senza utilizzare parole, ma solo attraverso gli sguardi, dispensando la loro intimità, appunto, dalle chiacchiere.

Ecco allora come l’autore ci mostra che essere intimi non significa per forza conoscere i fatti; non significa farsi spazio nella vita dell’altro, ma fare spazio all’altro nella propria vita, facendo un passo indietro piuttosto che un passo avanti. Spesso, secondo l’autore, c’è un vizio di forma che ci porta a concepire l’intimità come la capacità di due persone di mettersi una di fronte all’altra: secondo lui, al contrario, la vera intimità sta nel mettersi dalla stessa parte di fronte al Fuori del mondo e della vita errante […] fianco a fianco a sentire, a guardare. In questo senso, l’intimità si configura come l’alternativa alle relazioni con il mondo convenzionale, come cioè quella relazione in cui annullando la distanza tra di loro, possono rimettere a distanza il mondo.

Intimità però vuole dire anche condivisione di uno spazio comune costruito dalle due persone, che non sarebbe stato possibile senza l’intenzione di entrambi, e che adesso sottostà a regole nuove e idiosincratiche di quello spazio interiore.

Jullien procede dunque con uno studio dell’etimologia della parola intimità, e del suo senso nelle diverse lingue antiche, per arrivare al significato religioso dell’intimità e a come questa sia apparsa con significati diversi nei diversi culti. Coerentemente con il sottotitolo del libro (lontano dal frastuono dell’amore), l’autore prosegue con un’analisi approfondita di cosa significhi l’intimità nelle relazioni di coppia, spesso ridotte (dal punto di vista di Jullien) alla parola amore.

Come dicevamo, l’intimità viene perseguita per sottrazione: in questo senso, togliere uno scopo alla relazione e eliminare un obiettivo che interessa la controparte è necessario perché la relazione diventi intima:

ciò che rende possibile l’intimità […] è che non ci siano più mire né progetti sull’Altro; in altri termini, che non si voglia né ci si attenda nulla da lui; che si liberi la relazione da qualsiasi finalità e interesse.

Ecco allora che il concetto stesso di intimità si svincola dalle relazioni amorose, per caratterizzare anche quelle relazioni di amicizia in cui, appunto, non ci si muove nel rapporto con una precisa finalità o con un obiettivo che interessa l’altro, ma avendo il rapporto stesso come unico interesse.

Uno degli aspetti più interessanti e innovativi che permea tutto il saggio di Jullien è la revisione del concetto di intimità, che non è concepita per nulla come qualcosa di delicato e di fragile:

non è sdolcinata, dolciastra, placida, ma la cosa più esigente. Mentre ce la si presenta spesso e volentieri come una comodità dei sentimenti, un ritiro lontano dalle aggressioni del mondo esterno, la messa al riparo dai suoi colpi e dalle sue violenze […], l’intimità è in sé sconvolgente.

In questo senso, un rapporto intimo non è visto come qualcosa da tutelare per la sua fragilità, ma piuttosto come qualcosa di strabiliante, che permette un ribaltamento della prospettiva e che spiazza i protagonisti del rapporto. Ma quand’è che un rapporto diventa intimo? Per rispondere a questa domanda l’autore chiama in causa Stendhal, che nell’Amore scrive l’intimità non è tanto la felicità perfetta, quanto l’ultimo passo per raggiungerla: questo passo scandisce inevitabilmente un prima e un dopo, che cambia in modo irreversibile l’identità stessa delle parti coinvolte.

Sull’intimità è un saggio interessante dove le tematiche filosofiche (campo privilegiato da Jullien) fanno spazio, se applicate alle relazioni che tutti noi ci troviamo a vivere, a considerazioni anche molto pratiche e argute su quello che significa stare vicino all’altro e costruire con lui uno spazio che non sia un rifugio da un mondo difficile (come siamo portati a credere per quanto riguarda le relazioni di coppia), ma piuttosto un varco che emerge in modo spontaneo ma netto in cui sia possibile guardare insieme in una direzione sospendendo il giudizio sull’altro e mantenendo il rapporto stesso come unico obiettivo della relazione.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Legami d’amore: i rapporti di potere nelle relazioni amorose (2015) – Recensione

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Jullien, F. (2014). Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore. Raffello Cortina: Milano.
  • Simenon, J. (2008). Il treno. Adelphi: Milano.
  • Stendhal (1980). L’amore. Mondadori: Milano.

Transessualità, omosessualità e bisessualità: possibili fattori di rischio per patologie legate all’alimentazione

FLASH NEWS

La ricerca in questione si è posta l’obiettivo di testare l’associazione tra l’identità di genere, l’orientamento sessuale e la diagnosi di patologie alimentari così come la presenza di comportamenti compensatori, come l’uso di pillole dietetiche, lassativi o vomito autoindotto.

Ad oggi la maggior parte degli studi sulla patologia alimentare si è concentrata su soggetti che possono essere definiti “cisessuali”, cioè persone che sul piano biologico, personale e sociale si trovano a loro agio con il genere che è stato loro assegnato alla nascita. Quindi pochissime ricerche hanno confrontato i dati sui tassi di prevalenza dei disturbi alimentari nei cisessuali e nei transessuali e nessuno studio ha preso in esame persone che, pur riconoscendo la concordanza tra la loro identità di genere ed il corrispettivo ruolo e comportamento, si dichiarano bisessuali o incerti sul loro orientamento sessuale. Ciò a fronte dell’evidenza che, ad esempio, per le persone transessuali è più frequente provare una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo, aspetto che, come diversi studi hanno rilevato, può aumentare il rischio di disturbi alimentari.

Quindi la ricerca in questione si è posta l’obiettivo di testare l’associazione tra l’identità di genere, l’orientamento sessuale e la diagnosi di patologie alimentari così come la presenza di comportamenti compensatori, come l’uso di pillole dietetiche, lassativi o vomito autoindotto.

A questo scopo sono stati considerati quasi 290 studenti reclutati da 223 università americane di cui, attraverso un’ intervista, si è indagato il genere, l’orientamento sessuale, se nell’ultimo anno hanno ricevuto dei trattamenti professionali per diagnosi di anoressia o bulimia e se negli ultimi trenta giorni hanno fatto ricorso a pillole dietetiche, vomito autoindotto o lassativi (sono state poi considerate anche altre variabili come l’etnia, l’uso di tabacco, le esperienze di binge drinking, il livello di stress, l’attività sportiva ed il prendere parte a comunità sociali).

Relativamente all’identità di genere e all’orientamento sessuale le interviste hanno permesso di suddividere i partecipanti in quattro categorie: transessuali, cisessuali che si dichiarano omosessuali o bisessuali, eterosessuali e insicuri sul proprio orientamento.

I risultati hanno mostrato che i tassi maggiori di patologie alimentari sono riscontrabili tra gli studenti transessuali e in quelli cisessuali che si dichiarano omosessuali o bisessuali, ciò è vero in particolare per i maschi; inoltre gli studenti transessuali presentano anche un numero più elevato di comportamenti compensatori, così come accade per le femmine che dicono di essere insicure del proprio orientamento sessuale, aspetto che le distingue dalle femmine eterosessuali. Infine i maschi eterosessuali sono quelli che mostrano un numero minore di disturbi alimentari e di comportamenti compensatori.

Questi risultati possono trovare diverse spiegazioni. Ad esempio le persone transessuali potrebbero cercare di perdere peso per rendere meno evidenti i caratteri sessuali secondari, oppure nel caso specifico delle donne transessuali i comportamenti tipici delle patologie alimentari possono essere funzionali ad aumentare l’ attrattività e la magrezza tipiche femminili.

Inoltre gli individui che hanno deciso di modificare il loro genere vivono dei livelli più elevati di stress a causa della discriminazione e dello stigma sociali, stress che è comune anche tra le persone omosessuali, bisessuali o incerte del loro orientamento sessuale. Una terza possibilità riguarda il fatto che i transessuali rispetto ai cisessuali presentano più probabilmente delle forme di psicopatologia e ciò li rende inclini a ricercare più spesso dei trattamenti professionali; quest’ultimi vengono anche richiesti per l’implementazione delle terapie funzionali al cambiamento di genere.

Nonostante i limiti che caratterizzano la presente ricerca, come ad esempio il fatto che considera solamente le diagnosi di anoressia e bulimia, la difficoltà di generalizzare i risultati dato che è stata condotta su studenti universitari o i confini non così netti tra disturbi alimentari, identità di genere ed orientamento sessuale, essa ha contribuito a mettere in evidenza l’importanza e la necessità di un intervento precoce su questa popolazione a rischio.

 

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Omosessualità: perchè le terapie riparative sono inutili (e dannose)  

BIBLIOGRAFIA:

Quando addormentarsi a scuola è una malattia: Piperita Patty e la Narcolessia – Peanuts Nr.5

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA Nr. 5

Piperita Patty è nota tra i personaggi dei Peanuts per le difficoltà scolastiche, infatti è spesso ritratta per i suoi problemi di attenzione, difficoltà di lettura, scrittura e improvvisi attacchi di sonno.

Piperita Patty & Narcolessia - PeanutsCome spesso accade anche nella realtà scolastica, Piperita Patty è vista come una bambina pigra, svogliata e poco motivata, tutti aspetti che giustificherebbero lo scarso apprendimento e il livello mediocre delle sue prestazioni.

Questa situazione è frequente ed è figlia della difficoltà a riconoscere in modo tempestivo i primi sintomi della narcolessia. Si tratta di una malattia rara, di origine neurologica e difficilmente diagnosticabile. In Italia sono stimate circa 25000 persone affette dalla patologia, delle quali solo 2000 hanno una diagnosi accertata, e tra queste pochissimi sono bambini e adolescenti.

Come riporta l’Associazione Italiana Narcolettici e Ipersonni (AIN), la diagnosi viene fatta in media dopo 7 anni dalla comparsa dei sintomi e in questo lasso di tempo le diagnosi erronee più frequenti sono l’epilessia, disturbi dell’apprendimento o altri disturbi del sonno. Quando la presa in carico è nulla, gli adolescenti vengono invece scambiati per abusatori di sostanze o amanti delle “ore piccole”, mentre gli adulti per persone inaffidabili e incostanti sul lavoro.

Le conseguenze sul piano psicologico di una mancata comprensione del problema sono notevoli perché minano la qualità della vita dei soggetti in tutte le aree, da quella scolastica a quella relazionale e lavorativa. Infatti, i sintomi caratteristici della narcolessia spesso si accompagnano vissuti di inadeguatezza e frustrazione, ansia, depressione e senso di colpa e di fallimento.

 

La diagnosi di Narcolessia

Secondo il manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali quinta edizione (DSM 5), i criteri che soddisfano la diagnosi di narcolessia sono:

A) Periodi ricorrenti di irrefrenabile bisogno di dormire, di attacchi di sonno o di sonnellini che si verificano nello stesso giorno. Questi devono essersi verificati almeno tre volte la settimana negli ultimi tre mesi.

B) La presenza di almeno uno dei seguenti:

  1. Episodi di cataplessia, definiti come in a) o in b), che si verificano almeno qualche volta al mese:
    a) Negli individui con malattia di lunga durata, brevi episodi di perdita bilaterale improvvisa del tono muscolare con conservato livello di coscienza, precipitati da una risata o da uno scherzo.
    b) Nei bambini o negli individui entro 6 mesi dall’esordio del disturbo, smorfie spontanee o episodi di apertura della mascella con protrusione linguale o ipotonia globale, senza evidenti stimoli emozionali.
  2. Carenza di ipocretina in assenza di danno cerebrale acuto, infiammazione o infezione.
  3. Polisonnografia del sonno notturno che mostra una latenza del sonno REM minore o uguale a 15 minuti.

L’ambiente scolastico è il contesto in cui il narcolettico incontra le prime gravi difficoltà e dove è messo a dura prova.

La Narcolessia colpisce le persone in modo diverso e con diversi gradi di intensità: c’è chi ha più attacchi di sonno improvvisi e repentini, chi ha più cataplessie, chi ha più allucinazioni in fase di addormentamento (allucinazioni ipnagogiche) o di risveglio (allucinazioni ipnopompiche). Quindi non esiste una terapia univoca, ma diversi approcci a seconda dei casi specifici.

Al fine di sensibilizzare la scuola nel riconoscimento tempestivo dei sintomi, l’Associazione Italiana Narcolessia insieme all’Associazione Francese hanno messo a punto una brochure che aiuta a comprendere le difficoltà scolastiche dell’alunno, con l’obiettivo di formulare un piano personalizzato di scolarizzazione. I soggetti narcolettici infatti possono migliorare i propri livelli di apprendimento e la propria qualità di vita attraverso delle strategie comportamentali efficaci, come fare piccoli intervalli di sonno durante il giorno, e attraverso una terapia farmacologica adeguata.

Per approfondimenti sul tema, e visionare i questionari di auto-somministrazione, visitare il sito www.narcolessia.it

 

 

 

RIFERIMENTI UTILI:

  • Bruni O, Novelli L, Verrillo E (2007). I disturbi del sonno nella prima e seconda infanzia: valutazione e diagnosi. In “Psicosomatica in età evolutiva” a cura di Rita Cerutti e Vincenzo Guidetti. Il Pensiero Scientifico Editore
  • American Psychiatric Association (2014). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione. Raffaello Cortina Editore pp 433-439

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Burnout: un modello teorico per capire il ruolo delle risorse psicologiche personali

Qualsiasi impiegato modello torna a casa un po’ (o tanto) stressato dal lavoro, capita a volte però che vi siano lavoratori che presentano livelli di stress e disagio psicologico di gran lunga superiori rispetto alla media.

Da molto tempo ormai è conosciuto in Psicologia, e non solo, il fenomeno del Burn-out: il termine, la cui traduzione è Bruciato, descrive una sindrome dovuta a un processo stressogeno che colpisce le persone in ambito lavorativo, causando una perdita della motivazione e del raggiungimento degli obiettivi nelle proprie mansioni. Si presenta come un lento logoramento psichico ma anche fisico dovuto alla mancanza di energie utili per affrontare e scaricare lo stress accumulato.

Il burnout è stata definita una Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo prolungato (Tomei, Tomao e Sancini, 2003) .

Un modello influente nella letteratura sul burnout è il modello Job Demands–Resources (JD–R) che identifica due componenti principali del luogo di lavoro nel manifestarsi del burnout: le richieste lavorative (aspetti del lavoro che richiedono costi fisici e psicologici) e le risorse lavorative (che comprendono aspetti fisici, psicologici o sociali del posto di lavoro che aiutano le persone a realizzare i loro compiti). L’interazione tra queste due componenti può influenzare i livelli di stress.

In questo modello però poco spazio viene dato alle risorse psicologiche personali, per es. l’autostima, e come queste possono entrare in relazione alle due componenti del modello JD-R.

In un articolo pubblicato su European Journal of Work and Organizational Psychology, gli autori (Fernet et al.), sulla base di un’analisi dei dati condotta su 356 lavoratori, hanno integrato il ruolo delle risorse psicologiche nel burnout, attingendo inoltre ad aspetti della teoria dell’autodeterminazione (SDT).

Per saperne di più, vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato.

 

The authors used occupational data from 356 school board employees and found that the three SDT-based psychological resources mediated the impact of job demands (role overload and ambiguity) and job resources (job control and social support) on aspects of burnout. Adding psychological resources to the model helped explain how certain job demands and resources differently predict specific aspects of burnout.

 

Burn out: un nuovo modello teorico per capire il ruolo delle risorse psicologiche personaliConsigliato dalla Redazione

Burn out: un nuovo modello teorico per capire il ruolo delle risorse psicologiche personali - Immagine: 48218874
In un articolo pubblicato su European Journal of Work and Organizational Psychology, gli autori, sulla base di un’analisi dei dati condotta su 356 lavoratori, hanno integrato il ruolo delle risorse psicologiche nel precedente modello teorico del burnout. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Psicopatologia e psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità

Melania Marini

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOCP) si caratterizza (DSM-5) in base ad alcuni specifici tratti di personalità: preoccupazione per i dettagli, perfezionismo, eccessiva devozione per lavoro e produttività, estrema coscienziosità, difficoltà a delegare compiti, difficoltà a gettare oggetti inutili, avarizia, testardaggine e rigidità.

Questo disturbo è associato ad una difficoltà nel funzionamento psicosociale e ad una ridotta qualità della vita.

Gli individui con questo disturbo mostrano un moderato livello di difficoltà nel funzionamento della personalità che si manifesta nelle seguenti aree: identità, intimità, empatia, capacità di autodirezione. Oltre un rigido perfezionismo, possono essere presenti due o più dei seguenti tratti psicopatologici di personalità: perseveranza, affettività ristretta, evitamento dell’intimità.

Gli individui con DOCP si sentono continuamente obbligati a raggiungere obiettivi e faticano a dedicarsi a momenti di piacere e rilassamento. Controllano gli altri e se gli altri sfuggono al controllo diventano ostili e possono avere esplosioni occasionali di rabbia sia a casa che al lavoro.

Il DOCP nella popolazione psichiatrica è il terzo disturbo di personalità più comune (Zimmerman, Rothschild, Chemlinski, 2005; Rossi, Marinangeli, Butti, Kalyvoka, Petruzzi, 2000). Co-occorre con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) (De Reus, Emmelkkamp, 2012; Cain, Ansell, Simpson, Pinto, 2015) ma i due disturbi non si sovrappongono, per esempio il DOCP è ego-sintonico al contrario del DOC e nel primo possono essere assenti ossessioni e compulsioni (Pinto, Eisen, 2011). Il DOCP co-occorre con disturbi d’ansia (Grant, Mooney, Kushner, 2012; Grant, Hasin, Stinson, Dawson, Chou, Ruan, et al., 2005) 23%, disturbi affettivi 24%, dipendenza da sostanze 25%, disturbi alimentari 13% (Halmi, Tozzi, Thornton, Crow, Fichter, Kaplan, 2005), depressione unipolare 14% (Schiavone, Dorz, Conforti, Scarso, Borgherini, 2004). In base a molti studi (Stuart, Pfohl, Battaglia, Bellodi, Growe, Cadoret, 1998; Rossi, Marinangeli, Butti, Kalyvoka, Petruzzi, 2000; Hummelen, Wilberg, Pedersen, Karterud, 2008) co-occorre frequentemente con i Disturbi Schizotipico e Paranoide di Personalità.

Riguardo al funzionamento interpersonale di individui con DOCP, Cain e colleghi (2015) hanno esaminato un campione di 25 individui con DOCP, un campione di 25 individui con DOCP in co-morbilità con il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) ed uno di controllo di 25 soggetti. I soggetti con DOCP hanno evidenziato elevate difficoltà interpersonali in merito alla ostilità-dominanza ed un’alta estroversione. I soggetti con DOCP e DOC hanno mostrato maggiori tendenze alla sottomissione e maggiore introversione. Individui con DOCP, con e senza DOC, hanno riportato una minore abilità nel tenere in considerazione il punto di vista altrui in modo empatico.

Sempre considerando il dominio delle relazioni interpersonali, la qualità dell’attaccamento è compromessa nel DOCP. Emerge che spesso non si è formato un attaccamento sicuro e i pazienti hanno ricevuto poche cure ed un eccesso di protezione durante l’infanzia con un successivo fallimento nello sviluppo emotivo ed empatico (Nordhal, Stiles, 1997; Perry, Bond, Roy, 2007).

È altresì importante (Dimaggio, Montano, Popolo, Salvatore, 2013) tenere in considerazione anche circostanze relativamente recenti che possano comunque aver contribuito alla cristallizzazione di uno schema patogeno. Lo schema interpersonale patogeno è una struttura procedurale intrapsichica consolidatasi nel tempo attraverso le esperienze, una rappresentazione soggettiva del destino a cui andranno incontro i nostri desideri nel corso delle relazioni con gli altri.

Un soggetto con DOCP può avere il desiderio di autonomia ed esplorazione ma immagina che se mostra spontaneamente le sue emozioni e propensioni, l’altro si mostrerà critico, aggressivo, punitivo ed impositivo; in risposta, il soggetto prova paura e soggezione e controlla emozioni (inibizione emotiva) e comportamento, rinuncia all’esplorazione bloccando i piani spontanei autogenerati e si conforma alle aspettative dell’altro, sperimentando un senso di costrizione unitamente ad un senso di inefficacia personale, al quale segue un’ipertrofia della rilevanza delle regole (tratto ossessivo); può anche immaginare di mostrare le sue emozioni e propensioni, ma prevede che l’altro rimarrà deluso e soffrirà; in risposta, la persona prova colpa e perde convinzione nel desiderio, rinunciando all’esplorazione e bloccando i piani spontanei autogenerati. Si crea così un circuito di mantenimento dei problemi interpersonali.

È interessante sottolineare come sia possibile rintracciare nel soggetto più schemi interpersonali e come, all’interno di uno stesso schema, possano coesistere più motivazioni, ad esempio la persona desidera essere accettata, considerata degna perseguendo mete autonome, ma si rappresenta l’altro deluso, giudicante, rabbioso, che invia un messaggio del tipo “Ti accetto soltanto se ti conformi alle regole, ai valori di cui io mi faccio portavoce”; in risposta, la persona può decidere di scegliere trasgredendo i valori, le regole, le norme sociali di cui l’altro si fa rappresentante sentendosi in colpa e indegno innanzi alla reazione negativa dell’altro.

Le strategie che il soggetto sviluppa nel tempo per adattarsi all’aspettativa su come l’altro tratterà i suoi desideri elicitano, a loro volta, nell’altro delle risposte emotive e comportamentali che spesso, inconsapevolmente, confermano le credenze negative iniziali della persona, generando, in tal modo, un ciclo interpersonale patogeno che contribuisce a mantenere il disturbo. Si pensi, ad esempio, alla tendenza comune nel DOCP a sovraccaricarsi di impegni, di compiti, con grande difficoltà a delegare o a chiedere aiuto. A quel punto, non vedendosi aiutato (non avendolo chiesto) il paziente percepisce l’altro come disattento, senza la volontà di fornirgli aiuto.

L’altro da parte sua, non ascoltando le richieste d’aiuto, e anzi fronteggiando l’autosufficienza obbligata del paziente con personalità ossessivo-compulsiva, preferisce tenersi a distanza sentendo il proprio aiuto inutile e i propri interventi come inadeguati e criticabili. Il paziente però in alcuni momenti, sovraccarico dal lavoro e irritabile per la fatica, scoppia rabbiosamente alla vista dell’altro che non lo supporta e protesta per il supporto che, immoralmente, gli è stato negato. L’altro a questo punto si sente facilmente criticato ingiustamente e reagisce alle accuse in modi che diminuiscono la sua disponibilità a dare l’aiuto stesso. 

Coerentemente con le informazioni raccolte dall’esperienza clinica, è possibile delineare nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità una serie di schemi interpersonali che muovono da motivazioni diverse:

– motivazione dominante: attaccamento. In questo caso lo schema porterà la persona verso il desiderio di essere vista, amata, apprezzata, ma si rappresenta l’altro come freddo, rifiutante, disattento. In risposta si attiva il sistema del rango sociale: queste persone sperano che verranno amate se il loro valore sarà considerato adeguato dalle figure di riferimento. A quel punto quindi si impegnano, si organizzano, pianificano, cercano di farsi trovare sempre preparate, di dare il massimo, di essere impeccabili, perfette, e aderenti alle regole;

– motivazione: autostima. La persona desidera essere capace, adeguata, ma si rappresenta l’altro come critico, invalidante; in risposta, la persona prova rabbia, si sente triste, fallimentare e sviluppa il tratto ossessivo come strategia volta a sopperire al senso di inefficacia personale. Ne conseguono stati di sovraccarico, di affaticamento fisico e psichico che spesso si esprimono attraverso una serie di sintomi psicosomatici piuttosto rilevanti a cui si abbinano preoccupazioni ipocondriache e che includono, ad esempio, gastrite, sindrome del colon irritabile, dolori addominali e intercostali;

– motivazione: autonomia/esplorazione: le azioni e le scelte della vita quotidiana non sono associate alla sensazione di essere internamente generate. I soggetti con DOCP, infatti, sono guidati, perlopiù, dai loro standard elevati e inflessibili di etica e performance, ma hanno difficoltà a riconoscere che hanno desideri, intenzioni, scopi che nascono dalle loro più intime inclinazioni e a lasciarsene guidare senza giudicarsi. Ne consegue un’inibizione del sistema esploratorio e una carenza di agency. Una possibile origine storica, dedotta dai racconti di molti pazienti con DOCP è che quando provavano ad esplorare e a perseguire piani autonomi, abbiano dovuto confrontarsi con figure genitoriali invalidanti, facilmente deluse,  critiche o aspramente punitive. In risposta, hanno provato paura, hanno perso convinzione nel desiderio, rinunciando all’esplorazione e bloccando i piani spontanei autogenerati.

I pazienti con DOCP, inoltre, a causa della difficoltà a stabilire priorità tra i propri compiti, spesso si sentono come bloccati, sospesi, ritenendo che il tempo non sia mai sufficiente e l’impegno profuso mai abbastanza e come conseguenza faticano a rispettare le scadenze.

Dal punto di vista emotivo, i soggetti con DOCP sono convinti che le proprie sensazioni e le proprie emozioni debbano essere sempre controllate, fondamentalmente perché considerate come intrinsecamente sbagliate, un segno di debolezza morale.

L’idea di sperimentare qualcosa che ritengono indegno li espone, nella loro mente al rischio di biasimo, accuse e alla fine, abbandono da parte degli altri o punizione. Nel complesso quindi tentano di controllare i loro affetti e appaiono, rigidi, formali e difficilmente si lasciano andare, tanto da essere definiti “freddi” e  “poco espansivi”.

L’esperienza soggettiva di tali pazienti è caratterizzata da senso di colpa all’idea di avere agito irresponsabilmente e avere quindi arrecato danno a sé e/o agli altri; senso di inefficacia, ansia, paura di essere criticati e/o puniti per eventuali errori commessi. Spesso provano rabbia verso se stessi quando non rispettano gli standard o verso gli altri quando non si comportano con il dovuto zelo. La loro rabbia non è esplosiva, è più trattenuta, controllata, affiora nel viso e nel tono di voce più ancora che nel linguaggio. Il dovere guida la loro vita e quando affiorano desideri di giocare e rilassarsi, da un lato si criticano e si sentono in colpa, dall’altro si sentono costretti e tendono a ribellarsi a chi impone dall’esterno i doveri.

La comprensione dei propri pensieri, di quelli degli altri e delle proprie emozioni oscilla, nella stessa persona, al variare della qualità delle relazioni. Ricordiamo che nei pazienti con disturbi di personalità la metacognizione dipende in larga parte dal contesto emotivo e dalla qualità della relazione (Dimaggio et al., 2013).

La metacognizione è la capacità di un individuo di sintetizzare vari aspetti della conoscenza mentale in un quadro complessivo che permetta di dare significato alle nostre azioni; si riferisce all’insieme di abilità che permette all’individuo di:

– identificare e attribuire, a sé e agli altri, stati mentali,

– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri (autoriflessività) e pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali altrui (comprensione della mente altrui). L’autoriflessività comprende la capacità di identificare i propri pensieri e le proprie emozioni (monitoraggio), la capacità di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni e di comprendere che i nostri desideri hanno un impatto limitato sulla realtà (differenziazione) e l’abilità di mantenere una visione unitaria di sé, indipendentemente dal fluire e alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi o contraddittori, e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti (integrazione), 

– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sugli stati mentali propri e altrui per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (mastery) (Semerari et al., 2003).

Nei pazienti con disturbi di personalità, mancando l’abilità necessaria ad identificare e a riflettere sugli stati mentali, vi è una marcata difficoltà a formare delle strategie di problem-solving basate sulle informazioni mentali: negoziano i loro desideri ed i loro scopi attraverso la relazione con colleghi, amici, parenti o ne fanno fronte con notevole stress (Carcione et al., 2010; Dimaggio & Lysaker, 2011).

In generale, nei pazienti con disturbi di personalità la metacognizione è disfunzionale e vi sono difficoltà nell’autoriflessività, per esempio nella consapevolezza emotiva, nell’abilità di distinguere tra fantasia e realtà e nell’integrazione di molte, e spesso contraddittorie, rappresentazioni di sé e degli altri; nella comprensione della mente altrui, per esempio il formarsi delle idee su cosa l’altro pensa e prova anche attraverso il comportamento non-verbale; nella capacità di mastery, ossia l’abilità di utilizzare le conoscenze mentalistiche per formare delle strategie adattive ed efficaci per far fronte allo stress e risolvere problematiche sociali. Le persone con disturbi di personalità anticipano mentalmente le reazioni negative degli altri, hanno un’attenzione selettiva ai segnali di giudizio e di rifiuto e costruiscono dei cicli negativi in cui le reazioni degli altri confermano le loro aspettative negative (Safran & Muran, 2000).

In uno studio di Semerari e colleghi (2014) che ha analizzato la correlazione tra specifiche difficoltà metacognitive e specifici stili di personalità, le difficoltà metacognitive possono essere considerate un fattore patogenetico comune per i disturbi di personalità.

Pazienti con DOCP correlavano con gli stili di personalità rigido e che aderisce inflessibilmente alle regole. Lo stile rigido correlava con problemi metacognitivi nelle aree di differenziazione e integrazione, ma in modo inverso rispetto alle attese, ovvero una maggiore presenza di queste caratteristiche era legata a migliore metacognizione.

Secondo Baron-Cohen (2006), un modo per esplorare le funzioni interpersonali è attraverso il meccanismo di sistematizzazione e la capacità di empatia. La sistematizzazione permette al cervello di predire che un evento X occorrerà con una probabilità P. Dal momento che il cuore della patologia del DOCP include il perfezionismo e le sue associazioni con la rigidità e l’aggressività che portano alle difficoltà di interazione con gli altri (Hemmelen, Wilberg, Pederen, Sigmund, 2008) e alla difficoltà di predizione degli eventi: gli individui con DOCP dovrebbero presentare un’alta sistematizzazione ed una bassa empatia.

In effetti Aycicegi-dinn, Dinn, Caldwell-Harris (2009) hanno osservato che vi è un decremento nell’attività del sistema di empatizzazione, sistema che abilita alla comprensione della motivazione intenzionale relativa al comportamento umano, e un incremento nel meccanismo di sistematizzazione, sistema che abilita alla comprensione delle cause e degli eventi non intenzionali. Sembra quindi che siano necessari studi più approfonditi per comprendere se esistono difficoltà metacognitive nei pazienti con DOCP e quali esse siano, anche se lo studio sulla ridotta empatia suggerisce che esista un problema nel comprendere gli altri e risuonare con loro.

 

La psicoterapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità

Le implicazioni cliniche, di tutti questi studi, sono molto interessanti poiché è possibile lavorare, a livello terapeutico, incrementando la capacità di tenere conto del punto di vista altrui e aumentare la capacità di rispondere agli stati emotivi in modo fluido ed appropriato (Dimaggio et al., 2011).

Molti studi (Ekselius, von Knorring, 1998; Ng, 2005; Strauss, Hayes, Johnson, Newman, Brown, Barber, 2006) hanno osservato l’efficacia di una Terapia Cognitiva che riduce considerevolmente la gravità dei sintomi del disturbo di personalità, l’ansia e la depressione. La Terapia Cognitiva-Comportamentale riduce la sintomatologia ansiosa, aumenta l’estroversione, l’assertività e la stabilità emotiva (Enero, Soler, Ramos, Cardona, Guillamat, Valles, 2013).

La Terapia Interpersonale ha successi nella riduzione della sintomatologia depressiva (Barber, Muenz, 1996). In ogni modo, un’alleanza terapeutica buona tra paziente e terapeuta, la gravità degli stati ansiosi così come anche la variabilità dell’autostima, costituiscono fattori predittivi importantissimi dell’efficacia del trattamento del DOCP.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI; Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013) è stata manualizzata negli ultimi anni per trattare vari disturbi di personalità incluso il DOCP. La TMI pone costantemente l’attenzione sulla relazione terapeutica al fine di lavorare in una atmosfera estremamente cooperativa con le minime rotture nell’alleanza, sull’assunto fondamentale che tutto ciò dovrebbe aiutare il paziente ad utilizzare pienamente i propri schemi metacognitivi. Con il progressivo aumento della metacognizione, è più facile per il paziente ed il terapeuta avere una comprensione reciproca delle proprie menti e lavorare insieme per raggiungere gli obiettivi condivisi.

Se una persona ha difficoltà nella comprensione delle proprie emozioni è poco utile aiutarla immediatamente a comprendere gli schemi relazionali internalizzati nella vita di tutti i giorni e nelle relazioni sociali, è invece molto importante indagare le variazioni di arousal che sono emotivamente correlate e che poi sfociano negli stati somatici. La consapevolezza di come e perché il paziente pensa, prova ed agisce è fondamentale per la promozione del cambiamento di pensiero e dei pattern comportamentali sviluppando così una diversa prospettiva di pensiero, di emozione e di azione.

I miglioramenti nella metacognizione sembrano essere segni che portano ad un buon esito terapeutico (Dimaggio, Procacci, et al., 2007; Lysaker, et al., 2010). Quando in terapia emergono le emozioni, ma i loro antecedenti sono opachi al narratore è impossibile per il terapeuta interrompere il processo cognitivo-emotivo disfunzionale perché le credenze non sono chiare: le rappresentazioni disturbate di sé e degli altri lasciano le persone con disturbi di personalità senza un punto di vista alternativo. La TMI cerca inizialmente di rendere i pazienti dei propri schemi ricorrenti di significato ed aiutarli ad adottare nuove prospettive mentre cercano di accedere ai desideri. Il terapeuta, insieme con il paziente, cerca di comprendere come vedere da una diversa angolazione le diverse rappresentazioni disfunzionali di sé e dell’altro ed utilizza la conoscenza metacognitiva per far fronte alla sofferenza e per trovare nuove strade percorribili nella vita quotidiana.

I soggetti con DOCP, a causa della difficoltà a scaricare le proprie tensioni interne e della tendenza a reprimere le proprie emozioni, spesso cercano una terapia a causa di disturbi di natura psicofisiologica, come, ad esempio, attacchi d’ansia, impotenza sessuale, senso di stanchezza e sovraccarico. Per il trattamento del DOCP esistono vari approcci che prendono in considerazione aspetti diversi del disturbo. La Terapia Metacognitiva Interpersonale inizia di solito dal trattare i sintomi che portano i pazienti in terapia (ansia, attacchi di panico, depressione, somatizzazioni). Durante il trattamento dei sintomi il terapeuta inizia a raccogliere episodi narrativi dettagliati che illustrano come si svolgono le relazioni con gli altri, in modo da aiutare i pazienti a riconoscere le sfumature della propria esperienza soggettiva nel contesto dell’interazione sociale.

Questi pazienti hanno spesso uno stile narrativo intellettualizzante, teorizzante, il che rende difficile accedere alla loro esperienza soggettiva e alle loro emozioni. Il terapeuta quindi li invita a raccontare episodi narrativi, che li vedono relazionarsi con gli altri, demarcati nello spazio e nel tempo, e grazie a questi racconti esplorare insieme cosa il paziente abbia provato e pensato in quel momento e per quali motivi, e a dare i nomi alle emozioni in un contesto in cui queste sono accettate, riconosciute valide, non giudicate, parte inevitabile dell’esperienza degli esseri umani. Il terapeuta, pertanto, starà attento a che il paziente si senta “visto” in seduta; e si sintonizzerà con il mondo interno del paziente; coglierà nella struttura del racconto di questi eventuali cambiamenti delle espressioni facciali, del tono della voce e ricostruirà insieme a lui lo stato emotivo sperimentato in quel momento; normalizzerà e validerà i vissuti emotivi del paziente, giovandosi di un uso accurato dello svelamento.

Una volta raccolta una base di episodi che permettano a paziente e terapeuta di ricostruire la mappa del mondo interno del paziente, si tenta insieme di promuovere il cambiamento. I terapeuti che utilizzano la TMI sono attenti a qualsiasi segno di povera alleanza e devono essere veloci nel riparare o prevenire rotture nell’alleanza stessa; essi adottano una validazione costante e sono pronti ad analizzare qualsiasi segnale relazionale negativo mentre indagano sul loro contributo alla creazione di qualsiasi problema.

Tra gli obiettivi della TMI per il DOCP, molti dei quali coerenti con i principi della Terapia Cognitiva-Comportamentale, ci sono quelli di riconoscere come gli standard perseguiti siano solo tentativi di guadagnare l’accettazione da parte degli altri a condizione di essere perfetti, e lentamente sperimentare la possibilità che queste siano solo idee.

I pazienti sono guidati nello scoprire che è come se continuassero senza fine a cercare quasi ovunque l’approvazione delle loro figure genitoriali, e che esiste una via diversa, in cui possono pensare di essere accettati anche se sono imperfetti e commettono errori.

Allo stesso tempo i pazienti vengono guidati progressivamente ad esplorare stati di benessere, rilassamento, gioco e a capire come questo sia stato finora impedito dai sensi di colpa che li vessano. Identificare l’importanza del senso di colpa e aiutare i pazienti a metterlo da parte, non lasciarsene guidare è un altro elemento centrale della terapia. Il terapeuta presterà grande attenzione ad ogni segnale spontaneo, o guidato dalla conversazione terapeutica, in cui il paziente sia rilassato, provi benessere senza criticarsi e lo aiuterà a prestare attenzione a questo stato, sostandoci il più possibile durante la seduta.

Quando il paziente avrà colto come tale stato sia benefico e possa essere perseguito a buon diritto, lo si inviterà a ricercarlo nella vita quotidiana e a sperimentarlo. Durante gli esperimenti il paziente verrà facilmente preso da sensi di colpa e autoaccuse e questi verranno nuovamente ripresi in seduta e li si riconoscerà come non più segno di verità (sono indegno) ma di un riemergere degli schemi (penso di essere indegno ma mi rendo conto che è un mio schema: posso rilassarmi). L’obiettivo complessivo è aumentare l’espressione emotiva e utilizzare le proprie inclinazioni e desideri come sistema di scelta, dismettendo progressivamente il costante ricorso agli imperativi morali.

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Empathy: the self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Empathy: the self other distinction. Role of the temporo-parietal junction in emotional empathy

Autore: Claudio F. Bivacqua – Università di Palermo, Italy

Abstract

The neuroscience makes an important distinction between emotional empathy and cognitive empathy (Shamay-Tsoory,2011). Emotional empathy refers at an immediate emotional sharing, while cognitive empathy refers to a cognitive system that involve understanding of the other’s perspective.
Saxe and colleagues (2005) show the role of right temporo-parietal junction (rTPJ) in the perspective taking when our point of view is different from other, establishing an incongruence about the different states of mind.
Other studies demonstrate that TPJ allows to elaborate and to integrate sensorimotor and cognitive information from self and other.
This study investigates the role of rTPJ in emotional empathy, through its inhibition by a train of Trancranial Magnetic Stimulation (TMS), demonstrating a major skill to discriminate an emotional expression of other when this is incongruous with own emotional state.
This brain area would function to establishing a border between self and other allowing an integrating emotional elaboration about the different emotions.
These results show the importance of TPJ not only in a cognitive perspective taking task but also in an emotional task.

Keywords

Empathy, emotional contagion, emotion recognition, temporo-parietal junction

Introduction

Empathy is the main social function that allows us to receive important information about other people in terms of mental state, emotion, sensation and thought.
Neuroimaging, lesion and behavioural studies support a model of two separate system for empathy: an emotional system and a cognitive system. The capacity of sharing and recognition an other’s emotion has been described as emotional empathy (Shamay-Tsoory,2011). The term cognitive empathy refers empathy as a cognitive role-taking ability, or the capacity to engage in the cognitive process of adopting another’s psychological point of view (Frith and Singer 2008).
This system allows to make inferences about other’s affective and cognitive mental states (Shamay-Tsoory and other 2009).
These two system are philogenetically different. It was reported emotional contagion in rodents (Langford et al.,2006), while chimpanzees, possess rudimentary traits of cognitive aspect of empathy such as theory of mind (Call and Tomasello 2008).
The distinction between the two system may also related to different neurochemichal systems. In a recent study, intranasal administration of the neuropeptide oxytocin increase emotional, but not cognitive, empathy (Hurlemann and others 2010). On the other hand, it has been recently suggested that dopaminergic functioning is associated with cognitive aspects of empathy in preschool students (Lachner and other 2010).
An important study with patients confirm the hypothesis of two separate system for empathy through a double dissociation. Patients with Ventromedial prefrontal cortex (VMPFC) damaged show consistent and selective deficit in cognitive empathy and Theory of Mind (ToM), while presenting with intact emotion recognition and emotional empathy. Patients with inferior frontal gyrus (IFG) lesions, on the other hand, displayed extremely impaired emotional empathy and emotion recognition (Shamay-Tsoory,2009).
This two brain area are respectively involve in both system but not only these.

Neuron mirror system and simulation

Recent studies about mirror neuron, localized in Inferior frontal gyrus (IFG; Brodmann’s Area [BA] 45/44/6 ) and in inferior parietal lobe (IPL; BA 39,40) mainly in right hemisphere, have given evidences about immediate sharing of experience between two or more individuals, through an innate function which allows to simulate on own neural circuit the observed action and to understand it without complex cognitive process (Rizzolatti 1996, Gallese et al., 1998, Rizzolatti and Craighero, 2004).
In particular, the mirror neuron system (MNS) encodes the aim of the action and for this reason they are activated when the observed action is contained in own behavioural repertory (Rizzolatti and Sinigaglia, 2006; Keysers and Gazzola, 2006).
So, an emotion expresses from a face, from body posture or from a movement dynamic, could be considers a communicative action about emotional state [Preston and deWall,2002].
This “emotional action” is encodes through the mirror neurons and the simulated motor information is sent at limb system (specialized in emotional response) through insula that makes feel the same emotion observed (Iacoboni,2008).
This process would be the neural base of the simulation theory (Gallese, 2007). The perception of a behaviour in another automatically activates one’s own representation for the behavior and output from this shared representation automatically proceeds to motor areas of the brain where responses are prepared and executed (Preston and de Waal’s, 2002).
This process is reasonable related with emotional contagion because understanding of another’s emotion makes feel the same emotion. In fact the overt facial mimicry (as measured by an electromyography or through observation) is related to emotional contagion and emotion understanding (Niedenthal,2007).
In human, neuron mirror are situated manly in the IFG, in fact there are many studies which show the correlation between emotional contagion and role of IFG.

Empathy and self-other discrimination

A mature empathic experience needs to a higher level of consciousness and of a good mentalizing that allows to discriminate self and other experience. In contagion experience the subject hasn’t the consciousness that his emotional state comes from other subject. (Bonino, 1998).
This distinction allow to act an altruistic behaviour directs to other emotional regulation because the subject understands the origin of emotion.
This function is related with perspective taking. Mentalizing other emotion require recognizing of difference about self and other (Fonagy et al.,1997).
Self recognition and self/other differentiation is a fundamental aspect of social interaction and emotional and cognitive experience ( Brass et al. 2009).
The neural process involved in self/other discrimination at the sensorimotor level is involved, in part, in cognitive level (Giardina et al., 2011) and in emotional level , for example in the emotional incongruence between two subject.
Many studies investigating the neural correlates of self-recognition and self/other differentiation focused on temporo-parietal junction (TPJ). This area extends from superior temporal sulcus to the inferior parietal lobe. Previous studies show the role of this brain area in different cognitive function.
Corbetta and Shulmann (2002) reported the activation of TPJ on a exogenous attention task when the stimulus is not awaited on a field of view. This shows the role of this brain area in a incongruence state between self and the environment.
Another important function of TPJ is the self body location. TPJ is directly connected with Extrastriate body area (EBA) which responds selectively to human body part.
Data from neurological patients suffering from out-of-body experiences (OBEs) provide such evidence, showing that focal brain damage may lead to pathological changes of the first-person perspective and self-location (Blanke et al., 2002; De Ridder et al., 2007), due to interference with the integration of multisensory bodily information at the TPJ. It was argued that such changes in first-person perspective and self location are due to a double disintegration of bodily signals,
a disintegration between somatosensory (proprioceptive and tactile) and visual signals combined with an additional visuo-vestibular disintegration (Blanke et al., 2004; Lopez et al.,2008).
The right TPJ is more active during the attribution of actions to another agent than during first-person motor imagination and imitation (Costa et al., 2008; Decety et al., 2002; Ruby et al.,2004).When another subject imitates our actions by translating his/her bodily perspective to ours, right TPJ activation is reported; on the other hand, if we translate our bodily perspective to that of other people this activation is not shown (Ruby et al.,2004).
However, in such an early processing stage, attribution of the observed behaviour to the self might only occur if the observed behaviour is congruent to the planned behaviour, whereas observing an incongruent movement leads to an attribution of the observed behaviour to another person (Brass, 2009).
TPJ is involved also on higher level cognitive function as ToM and perspective taking.( Saxe, Wexler; 2005).
This functions allow us to create a theory about other state of mind taking other perspective.
Theory of mind may be defined as the ability to put oneself into someone else’s shoes, imagine their thoughts and feelings (Baron-Cohen 2009). ToM, also known as mentalization , enables one to extract and understand the goals of others by drawing on the capacity to understand the other’s thoughts, intentions, emotions, and beliefs and predict their behavior (Amodio and Frith 2006).
In particular, inhibition of right TPJ through TMS, results a social neglet that refers to lack of consideration of the real intention of other and to attributions of hostile intentionality to their behaviour (Giardina, Oliveri; 2011). The attribution of hostile intentionality to the behaviour of others is a complex process involving visuo-spatial perspective taking, theory of mind, intention understanding and expression of emotions.
An interesting point of view considers TPJ as a modulator of aggression. A recent study reported that when adolescence with aggressive conduct disorder viewed situations in which pain was intentionally inflicted, those showed no activation of the right TPJ compared with control subject (Decety, 2008)
This different finding demonstrates that TPJ is implicated in different levels of experience, sensorimotor, cognitive and affective.
The aim of the present study is that application of rTMS on the right TPJ, should result in a interference of emotional recognition in another face in a situation of emotional incongruence between self and other.
In particular we assume that inhibition of right TPJ leads a quickly emotional recognition in another face when this is incongruent with own emotion than control subjects.
We hypothesize that in baseline session (before rTMS) there is a RT significant different between congruent and incongruent stimuli, while after rTMS this difference will be cancelled.
In a experimental condition, information about other expression would be elaborated as if they were own because inhibition of TPJ does not allow elaboration of both point of view.
Subjects with mirror-touch synesthesia show higher level of emotional empathy than control subjects (Banissy and Ward, 2007). In particular it was demonstrate that subject with mirror-touch synesthesia have reduced matter grey within the right TPJ ( Holle et al., 2013) suggesting that this brain area is important to put a sensorimotor and emotional boundary between self and other.

 

 

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Una prospettiva evolutiva morale sulla testimonianza oculare dei bambini: è importante lo scopo?

Daniela Sorzogni

FLASH NEWS

L’atto di identificare un autore di un reato non si limita a coinvolgere la memoria e il pensiero, ma costituisce anche una decisione morale. Questo perché, con l’atto di identificare o meno qualcuno, il testimone oculare corre il rischio di condannare un innocente o lasciare un colpevole in libertà.

Sono stati condotti due studi in cui bambini e adolescenti di età diverse guardavano un film in cui l’atto di appiccare un incendio assumeva due significati diversi: la scena consisteva nel lanciare una torta di compleanno con la candela accesa in un cestino ma in un primo filmato non vi era l’intenzione di avviare un incendio nel secondo vi era l’intenzione di avviare l’incendio e l’esito, per entrambi i casi, è stato quello di rovinare un ristorante. Il filmato è identico in tutte le condizioni; ciò che è varia è il modo in cui l’atto è descritto da una voce fuori campo che mette in luce l’intenzionalità o meno dell’atto.

Nel primo studio hanno mostrato a 138 bambini, di età compresa tra i 7 e 18 anni, uno o l’altro dei due filmati. Ad ogni bambino sono state mostrate diverse foto del ‘colpevole’, e si è chiesto loro se la persona mostrata era l’autore dell’accaduto e quanta fiducia gli attribuivano su una scala a quattro punti. Le analisi rivelano un’interazione di età e condizione presentata sulla polarizzazione decisionale. Il modo in cui veniva definito l’evento non ha avuto alcun effetto sui bambini di 7-9 anni di età, ma ha avuto un effetto sulla polarizzazione decisionale per le altre fasce di età. La polarizzazione decisionale era più indulgente (indicando più falsi allarmi) nella condizione prevista per 10-12 e 13-15 anni di età, ma è stato più rigoroso (con un minor numero di falsi allarmi) per i 16-18 anni di età.

Il secondo studio è stato condotto per confermare e ampliare i risultati per la fascia d’età di 10-12. Quarantadue bambini hanno osservato lo stesso filmato la cui scena presentava intenzioni innocenti ma in una versione l’incendio procurava un piccolo danno, la seconda versione produceva un incendio vero e proprio. Sono emersi punteggi più bassi di polarizzazione (più falsi allarmi) per i bambini di età compresa tra i 10-12 anni nelle condizioni in cui il danno era peggiore rispetto a quando il danno era minore ma le intenzioni erano malevoli.

Così, da entrambi gli studi, gli autori concludono che la polarizzazione decisionale è più favorevole (con più falsi allarmi) per i bambini di 10-12 anni quando vengono evidenziati le cattive intenzioni o i gravi danni. In entrambi gli studi, è stato chiesto ai partecipanti, in modo consono alla loro età, che tipo di errore, un falso positivo o un falso negativo era il peggiore e perché. Era chiaro che a 7-9 anni non pensano di individuare un autore come una decisione morale.

Dai risultati si può concludere, in generale, che i criteri decisionali implicitamente utilizzati da bambini o adolescenti quando si identifica un autore di reato sono sostanzialmente influenzati dalla natura morale dell’atto in interazione con l’età (stato dello sviluppo) del testimone oculare. La ricerca suggerisce inoltre che un quadro sullo sviluppo morale è utile per esaminare i cambiamenti evolutivi del testimone oculare quando egli è un bambino, la sua comprensione del compito che cambia con l’età e si riflette nella loro strategia decisionale implicita e nelle loro risposte esplicite sul perché i falsi allarmi e la mancanza di giudizio sono peggiori.

 

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EMDR con disturbi dissociativi: intervista a Dolores Mosquera – Congresso Nuove frontiere nella cura del trauma 2015

dolores_mosqueraNella IV edizione del Corso Nuove frontiere nella cura del trauma, Dolores Mosquera prosegue il lavoro iniziato lo scorso anno presentando numerosi esempi di interventi con pazienti dissociativi, orientati principalmente alla stabilizzazione dei conflitti interni, al dialogo e all’integrazione tra le parti e al rinforzo della capacità di autoregolazione emotiva delle parti adulte.

Come descritto già nei precedenti contributi sul tema, Dolores propone un lavoro indiretto con le parti attraverso il coinvolgimento attivo di parti adulte o parti “sane” che possano svolgere il ruolo di guida, di aiuto o di accudimento; il terapeuta non parla mai alle parti, ma conoscendo bene l’intero sistema tiene monitorati i conflitti interni, promuovendo una migliore e più efficace comunicazione tra quelle in conflitto.

Quest’anno Dolores ci ha descritto nel dettaglio come lavorare con le parti aggressive/perpetratrici, che generalmente assumono strategie difensive che imitano l’aggressore e che spesso ostacolano il trattamento e il benessere del paziente. Spesso infatti sono parti che possono attivarsi in momenti di progresso della terapia o in momenti di ritrovato benessere del paziente, ricordandogli di non abbassare mai la guardia! Hanno in genere il ruolo di “paladine della sicurezza” e l’unico modo che abbiamo per aiutare il paziente a stare meglio e chiedere loro di collaborare, di aiutarci a capire il loro ruolo e la loro importanza nel sistema, anziché cercare di eliminarle o peggio esserne spaventati.

Il lavoro che descrive è spesso lento, basato sulla necessità di consolidare piccole strategie di autoregolazione attraverso esperimenti svolti in seduta e raramente diretto alla rielaborazione del trauma. La base imprescindibile del lavoro con pazienti traumatizzati resta la costruzione condivisa di un ambiente che venga percepito come sicuro dal paziente, attraverso la scelta del luogo, della posizione in cui stare e attraverso il continuo orientamento nello spazio e nel tempo presenti.

Lavorare in sicurezza e dentro la soglia di tolleranza, immaginando il ruolo del terapeuta come di una figura che cerca di stare in equilibrio tenendo un piede nel presente e uno nel passato, mentre cerca di costruire un ponte più solido, che consenta nel tempo un passaggio più fluido e armonico da un capo all’altro del ponte, senza barriere, senza vuoti improvvisi, senza terrore, ma con la consapevolezza di essere salvi nel presente, di poter guardare indietro e di conoscere come si è riusciti ad arrivare fin là.

L’EMDR resta un metodo centrale nel lavoro di Dolores, abilmente integrato alle tecniche della terapia sensomotoria; il lavoro EMDR è però qui declinato in modo diverso dal protocollo standard e orientato al lavoro su frammenti piccolissimi del ricordo, che corrispondono a quello che di volta in volta il paziente riesce a tollerare, con una estrema attenzione alla finestra di tolleranza e ai segnali di conflitto che potrebbero aumentare, anche se temporaneamente, la divisione interna.

Il libro in prossima uscita in Italia “Disturbo Borderline di Personalità e terapia EMDR” di Mosquera e Gonzalez, ci offrirà presto una sintesi eccellente della sua esperienza clinica e delle tecniche EMDR specifiche utilizzate nel trattamento di sintomi dissociativi.

 

Intervista a Dolores Mosquera

C: Come prima domanda vorrei chiederti di descriverci come e perché è così importante lavorare prima con le parti perpetratrici invece di prendersi cura delle parti infantili, che a volte è più facile per noi aiutare come psicoterapeuti?

D: Sì, a volte la nostra tendenza sarebbe quella di cercare di togliere il dolore il più velocemente possibile, ma questo non funziona sempre molto bene, perché le parti perpetratrici e aggressive hanno una funzione molto importante, che è quella di proteggere. Anche se a volte queste parti proteggono pazienti in un modo che loro stessi non capiscono, perché hanno imparato dalle figure che hanno percepito come forti nella loro vita e spesso proteggono nell’unico modo che hanno imparato. Quindi è molto importante lavorare con quelle parti e la prima cosa che vorrei dire è che abbiamo bisogno di essere curiosi, abbiamo bisogno di capire davvero cosa sta succedendo all’interno del sistema. Se non capiamo che cosa sta accadendo con queste parti protettive, sarà molto difficile intervenire. Continueranno a disturbare il nostro lavoro, perché potrebbe sembrare loro molto pericoloso.

C: Quali sono le cose più importanti da sapere, secondo la tua esperienza clinica, per lavorare lentamente con queste parti aggressive?

D: Prima di tutto che hanno ottime ragioni per non fidarsi di noi e una delle cose che aiuta è quella di pensare che noi vogliamo ottenere che questa parte inizi a fidarsi di noi. A volte non ci sentiamo bene se i pazienti non si fidano di noi, ma non è una questione personale. Hanno una buona ragione per non fidarsi di nessuno. A volte le persone di cui avrebbero dovuto avere fiducia, non l’hanno meritata. Quindi questo processo richiede tempo, il tempo per creare un ambiente sicuro e per fare in modo che il paziente sappia che cercheremo di capire anche questa parte aggressiva di lui, che siamo curiosi di sapere, che siamo disposti ad accettare gli attacchi, perché cercheremo per esempio per capire che conflitto sta avvenendo all’interno. Tutto quello che facciamo per essere più empatici con queste parti, ci aiuterà nel processo.

C: Un aspetto che ho trovato molto interessante è una capacità di base, ma non scontata: ricordare che abbiamo sempre bisogno di guidare queste parti all’interno del sistema e non di lavorare con loro solo all’esterno. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

D: Sì, questo è importante, ma in ogni caso a volte ci si perde. A volte, quando si parla troppo con alcune parti o si diventa troppo curiosi, perché abbiamo imparato molto sulla dissociazione ed è fantastico e facciamo molte domande sui nomi, sul ruolo, sull’aspetto, … a volte si rischia di promuovere una maggiore divisione! Quindi per andare avanti bisogna sempre verificare lo stato interno del sistema, tenendo in mente che il paziente è una persona unica, con diversi aspetti che sono in conflitto e il nostro obiettivo è soprattutto osservare il processo: capire perché il conflitto è lì e perché ha senso e come possiamo ridurlo. Questa è la chiave.

C: Un nuovo libro sta per essere disponibile in italiano: “Disturbo Borderline di personalità e terapia EMDR”, scritto da te e Annabel Gonzalez. Puoi dirci qualcosa sui contenuti più importanti?

D: Questo è un libro che apprezzo molto, perché è una sorta di sintesi del mio lavoro di 12 anni. Ho iniziato la mia pratica clinica con i pazienti borderline, lavorando molto duramente, così ho iniziato a fare molta psico-educazione, cercando di aiutare i pazienti a capire meglio loro stessi e a trovare modi migliori di aiutarsi. Poi sono entrata in contatto con molti studi e informazioni sulla dissociazione e alla fine quando ho conosciuto meglio il tema del trauma complesso, ho iniziato a mettere insieme i pezzi. E ‘stato molto utile avere tutte le esperienze che ho avuto, dalle primissime ad oggi. E’ stato utilissimo anche aver fatto degli errori. Così ho cercato di mettere tutto questo insieme nel mio libro: come imparare dalle cose che non aiutano molto e come trattare il trauma complesso e la dissociazione nel lavoro con BPD, con una costante attenzione all’attaccamento. Il libro copre uno spettro di situazioni cliniche che vanno da disturbo borderline di personalità, con principalmente difficoltà legate all’attaccamento e a traumi relazionali, a casi di DBP molto più complessi più legati al metodo di lavoro dell’approccio progressivo. Abbiamo inserito molti esempi clinici e trattato diversi aspetti che è veramente importante prendere in considerazione con questi pazienti: la regolazione delle emozioni, l’identità e come lavorare con questo, i confini, l’autolesionismo e il suicidio, come collaborare con la famiglia. Ci sono molte cose diverse che sono interessanti da sapere se si è interessati a questo argomento.

C: C’è qualche parte del libro su come integrare tecniche sensomotorie ed EMDR?

D: Non specificamente, questo è più focalizzato sull’utilizzo dell’EMDR e su come integrare l’EMDR e altri trattamenti specifici per il disturbo borderline di personalità. E come ho detto prima ci sono molte indicazioni per la psicoeducazione ma nella prospettiva dell’EMDR e della teoria della dissociazione strutturale. La terapia sensomotoria è lì, ne sono sicura, perché il corpo è sempre lì, ma questo libro in particolare è sulla terapia EMDR.

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Trattamento sanitario obbligatorio per l’anoressia nervosa: esiti e problemi da affrontare

Riccardo Dalle Grave1 e Simona Calugi2

1Medico, psicoterapeuta, specialista in scienza dell’alimentazione ed endocrinologia.
2Psicologo, psicoterapeuta, dottore di ricerca in scienze mediche generali e scienze dei servizi.

Trattamento sanitario obbligatorio per l’anoressia nervosa: esiti e problemi da affrontare

L’anoressia nervosa è un grave disturbo mentale con un elevato tasso di mortalità. Il suo tasso grezzo di mortalità è di circa il 5,1% per decade [1], mentre il tasso standardizzato è attorno al 6,2% [2]. Gli studi longitudinali di esito hanno evidenziato che solo il 50% delle persone adulte affette da anoressia nervosa raggiunge una remissione completa, mentre il 30% ha una remissione parziale e il 20% rimane gravemente ammalata [3].

Nonostante i danni fisici e psicosociali determinati dall’anoressia nervosa, le persone che ne sono colpite spesso non vedono il basso peso e la restrizione calorica estrema come un problema e sono ambivalenti nei confronti del trattamento. Alcune arrivano a rifiutare le cure o non rispondono ai trattamenti disponibili, mettendo a serio rischio la loro salute fisica. Come gestire queste situazioni è ancora fonte di incertezza e dibattito aperto, sebbene nel Regno Unito e nei Paesi del nord dell’Europa i casi più complessi che rifiutano qualunque intervento siano spesso gestiti con il trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

L’utilizzo del TSO nell’anoressia nervosa è un tema dibattuto da molti anni. Alcuni autori hanno sostenuto che sottoporre il paziente a una nutrizione forzata può minare la relazione terapeutica e avere un impatto incerto sul decorso e sull’esito a lungo termine dell’anoressia nervosa [4], mentre altri hanno affermato che il TSO va considerato come un trattamento compassionevole ed è per tale motivo giustificato [5]. Altri autori, infine, hanno concluso che il TSO dovrebbe essere raccomandato come ultima risorsa terapeutica disponibile, per salvare vite umane [4]. Le diverse opinioni riguardanti il suo utilizzo sono emerse in modo evidente dalle conclusioni diametralmente opposte recentemente raggiunte da due giudici della Corte Suprema del Regno Unito, dove da molti anni è vigente il Mental Health Act per il TSO dell’anoressia nervosa.

Un giudice ha sentenziato che l’alimentazione forzata non è nel “migliore interesse di una donna affetta da anoressia nervosa”, un altro, al contrario, ha “ordinato di nutrire forzatamente” una persona affetta dallo stesso disturbo.

 

È da sottolineare che tutte le argomentazioni a favore o contro il TSO nell’anoressia nervosa sono state principalmente basate su principi etici, filosofici e legali, ma non su dati empirici.

Il tema del TSO dell’anoressia nervosa è diventato di estrema attualità anche in Italia perché in data 10 marzo 2015 è stata presentata dall’onorevole Moretto la proposta di legge 2944 in “materia di accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per la cura di gravi disturbi del comportamento alimentare”  (Proposta di Legge scaricabile in PDF cliccando qui)

La proposta stabilisce che il TSO possa essere attuato per fare fronte a necessità urgenti di trattamenti salvavita che il paziente, a causa della patologia psichica, rifiuta. Il TSO dovrebbe avvenire presso i servizi psichiatrici di diagnosi e cura o presso specifiche strutture ospedaliere deputate al trattamento dei disturbi dell’alimentazione in fase di acuzie che ogni regione dovrebbe individuare nella dotazione di posti letto ospedalieri esistenti. Infine, i TSO dovrebbero essere gestiti da una équipe multiprofessionale costituita, almeno, da medici psichiatri, medici esperti in nutrizione clinica e pediatri.

Scopo di questo articolo è quello di fornire informazioni basate sulla ricerca scientifica riguardo al TSO nell’anoressia nervosa e stimolare il dibattito tra i lettori su questo controverso argomento. A tale scopo è riportata una breve sintesi dei risultati degli studi empirici che hanno valutato gli esiti dei pazienti trattati con il TSO e alcune considerazioni riguardanti i problemi non ancora risolti sull’applicazione di questo intervento.

 

Qual è l’esito dei pazienti con anoressia nervosa trattati con il TSO?

Elzakkers e colleghi hanno recentemente pubblicato una revisione sistematica della letteratura sul TSO nell’anoressia nervosa [6]. Gli autori hanno identificato solo cinque studi che hanno confrontato l’esito del trattamento volontario e involontario alla dimissione ospedaliera e due anche al follow-up, di cui solo uno ha dati di buona qualità. Riassumendo i risultati dei cinque studi, gli autori hanno trovato che, al momento del ricovero, il gruppo trattato con il TSO ha sintomi più gravi sia per la psicopatologia del disturbo dell’alimentazione sia per la comorbilità (per es. un numero maggiore di ricoveri, una maggiore frequenza di comportamenti autolesionistici, una più frequente storia di abuso riferito, più alti livelli di depressione e una durata più lunga di malattia). I risultati alla dimissione indicano che la durata del ricovero è stata più elevata nel trattamento involontario, rispetto a quello volontario, sebbene il peso corporeo sia stato simile nei due gruppi. Infine, in nessuno degli studi è stato riferito un peggioramento della relazione terapeutica nei pazienti trattati involontariamente.

Gli autori della revisione concludono che, sebbene rimanga un tema controverso, il TSO nei soggetti con anoressia nervosa potrebbe essere un intervento a breve termine benefico e da prendere seriamente in considerazione, soprattutto nei soggetti a rischio di vita.

Gli effetti a lungo termine del TSO non sono stati ben studiati. Nello studio di Ramsay e coll. la mortalità dopo 5 anni è stata del 12,7% nei pazienti trattati in modo involontario e di solo il 2,6% in quelli trattati volontariamente [7]. Lo stesso gruppo inglese ha pubblicato recentemente gli esiti dopo 20 anni di 81 pazienti trattati in modo involontario e di 81 pazienti in modo volontario presso il Maudsley Hospital a Londra negli anni 1983-95. Tra questi pazienti sono state rilevate complessivamente 27 morti (16,7%) senza alcuna differenza nel tasso standardizzato di mortalità tra i due gruppi [8]. Gli autori, commentando questi risultati, hanno concluso che sebbene la mortalità a 5 anni sia molto più elevata nei pazienti trattati in modo involontario, questa differenza si attenua nel tempo e che, in ogni caso, il tasso standardizzato di mortalità, indipendentemente dal trattamento ricevuto, rimane elevato nell’anoressia nervosa [8]. Infine, in un altro studio eseguito sugli adolescenti, Ayton e coll., non hanno trovato esiti diversi tra i due gruppi un anno dopo dalla dimissione [9].

 

Trattamento Sanitario Obbligatorio per Anoressia: Problemi non risolti

Il TSO nell’anoressia nervosa, sebbene possa essere utile per salvare a breve termine la vita delle pazienti affette da gravi forme di anoressia nervosa, è associato a numerosi problemi non ancora risolti che dovranno essere affrontatati dalle ricerche future.

 

TSO per Anoressia e tasso di mortalità.

Primo, purtroppo nessuno studio ha finora dimostrato che il TSO riduce il tasso di mortalità nell’anoressia nervosa. Questo è un problema che pone molte sfide ai ricercatori perché non è immaginabile poter eseguire studi randomizzati e controllati su questo tipo di intervento. L’unica alternativa per avere informazioni attendibili è eseguire, come è stato fatto al Maudsley Hospital di Londra, degli accurati studi longitudinali per valutare gli esiti a breve e a lungo termine di pazienti trattati volontariamente e involontariamente [8]. Poiché l’obiettivo principale del TSO è salvare la vita dei pazienti e secondariamente ingaggiarli in una cura che affronti anche la loro psicopatologia, solo i risultati di questi studi potranno dare una risposta definitiva sull’utilità o meno di fornire, in un sottogruppo di pazienti con anoressia nervosa, questo trattamento coercitivo, costoso e complesso.

Indicazioni per il TSO nell’ anoressia nervosa.

Secondo, non esiste ancora un consenso sulle indicazioni per il TSO nell’anoressia nervosa. Se guardiamo i pazienti inclusi nei cinque studi di esito descritti sopra, si conclude che all’entrata in ospedale esiste un’ampia variabilità dell’Indice di Massa Corporea (IMC), delle diagnosi (dall’anoressia nervosa alla bulimia nervosa) e della psicopatologia specifica e generale associata [6]. In genere sembra che, almeno nel Regno Unito, il TSO venga applicato sia per affrontare le condizioni di rischio fisico sia per gestire la presenza di una grave psicopatologia in assenza di rischio fisico. In mancanza di dati certi su rischio fisico e psichiatrico derivati dalla ricerca, è auspicabile che, se la proposta di legge sul TSO in Italia sarà approvata, verrà costituto un gruppo di lavoro di esperti per stabilire delle linee guida “cliniche” condivise sulle indicazioni e controindicazioni riguardanti questo tipo di trattamento.

 

Un protocollo di intervento per il TSO nell’anoressia nervosa

Terzo, non si è ancora raggiunto un consenso sul protocollo di intervento da applicare durante il TSO. Nella maggior parte dei casi il trattamento utilizza la nutrizione forzata attraverso il sondino naso-gastrico o altri metodi invasivi. In altri casi è utilizzata la procedura dei pasti assistiti da parte di un dietista o un infermiere. Purtroppo, non ci sono dati che indichino quali delle due strategie sia più efficace nel lungo termine. Inoltre, poca o nessuna attenzione è data agli aspetti psicologici della motivazione del paziente e al nucleo psicopatologico centrale dell’anoressia nervosa, cioè la necessità di controllo in generale e in particolare sull’alimentazione, il peso e la forma del corpo [10] che, inevitabilmente, viene minacciata durante il TSO.

Infine, non sono ancora state sviluppate strategie e procedure efficaci per aiutare i pazienti che concludono il TSO a prevenire il deterioramento dopo la dimissione. Al contrario, gli interventi ospedalieri di maggiore efficacia nel trattamento dell’anoressia nervosa hanno dato particolare importanza a tutti questi aspetti, prevedendo una fase di preparazione al ricovero, il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura, il costante lavoro sulla motivazione al trattamento e lo sviluppo condiviso di specifiche procedure per prevenire la ricaduta dopo la dimissione [11, 12].

 

Trattamento Sanitario Obbligatorio nell’anoressia: quando applicarlo?

Quarto, non esiste ancora un consenso se applicare o meno il TSO precocemente nel corso dell’anoressia nervosa per prevenire il deterioramento dei pazienti e non esistono studi che abbiano confrontato un TSO precoce o tardivo sull’esito a lungo termine. Un argomento a favore di un intervento precoce è che potrebbe favorire un accorciamento della durata del disturbo e influenzare positivamente la prognosi – se si fa un’analogia con la schizofrenia la durata della psicosi non trattata è un importante fattore prognostico.

Tuttavia, l’autonomia del paziente non deve essere limitata con leggerezza perché, anche se il risultato a breve termine del TSO potrebbe sembrare favorevole, gli esiti a lungo termine non sono ancora stabiliti con certezza.

 

TSO per anoressia: dove e come eseguire il trattamento sanitario obbligatorio?

Quinto, il luogo dove eseguire il TSO per l’anoressia nervosa è tuttora fonte di molte discussioni. Per esempio, nel Regno Unito e in Norvegia, i pazienti trattati in modo involontario sono ricoverati in reparti specialistici per i disturbi dell’alimentazione assieme a pazienti che hanno accettato il trattamento volontariamente. Questa scelta presenta vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono che i pazienti in TSO sono trattati da un’équipe specializzata nella cura dei casi gravi di anoressia nervosa. Gli svantaggi sono che i pazienti in TSO possono influenzare negativamente l’adesione al trattamento dei pazienti ricoverati volontariamente.

Il primo autore di questo articolo ha potuto constatare di persona questo problema nelle supervisioni che esegue presso i reparti per i disturbi dell’alimentazione dell’Haukeland University Hospital di Bergen in Norvegia – – nel box il dr. Stein Frostat spiega come è organizzato il TSO dei disturbi dell’alimentazione in Norvegia – e del Warneford Hospital di Oxford in Inghilterra dove i pazienti volontari e involontari sono trattati nello stesso reparto e curati da un’unica équipe. Per far fronte a questo problema le due équipe inglesi e norvegesi stanno pensando di dividere il reparto in due sezioni non comunicanti, una per i ricoveri volontari e una per quelli involontari, dove però lo stesso personale cura entrambi i gruppi di pazienti.

 

Anoressia nervosa, TSO e capacità mentale dei pazienti

Infine, non è ancora stata risolta la questione riguardante la ”capacità mentale” dei pazienti affetti da anoressia nervosa di prendere decisioni sul trattamento. Questo aspetto è fondamentale perché è strettamente legato alla discussione riguardante i pro e i contro del TSO. Fino ad ora, la capacità mentale dei pazienti con anoressia nervosa è stata affrontata per lo più da un punto di vista teoretico, e sono disponibili pochi dati empirici. Solo due studi hanno valutato in modo specifico la capacità mentale dei pazienti con anoressia nervosa, ed entrambi hanno incluso adolescenti e non individui con lunga durata di malattia.

I due studi hanno raggiunto conclusioni opposte: uno ha riportato mancanza di ragionamento astratto e riflessione in pazienti adolescenti con anoressia nervosa, in confronto ai controlli sani che può, secondo le opinioni degli autori, influire sulla capacità di ragionare sulle opzioni di trattamento [13], l’altro, uno studio qualitativo di analisi delle interviste, ha trovato, invece, che pazienti con anoressia nervosa hanno una buona competenza e capacità di rifiutare un trattamento [14]. Questi risultati vanno interpretati con cautela perché gli studi hanno bassa numerosità campionaria, uno dei due è qualitativo e l’altro retrospettivo, e non hanno valutato la capacità mentale di prendere decisioni sul trattamento in momenti clinici rilevanti.

 

Conclusioni

Ad oggi non sappiamo se la proposta di legge sul TSO per l’anoressia nervosa sarà approvata o no. In caso affermativo, la scelta di eseguire un TSO non andrà mai presa alla leggera perché sono ancora molte le domande aperte su questa forma coercitiva di trattamento. In particolare, non sappiamo ancora qual è l’esito a lungo termine del TSO in relazione ai parametri dell’IMC e della psicopatologia.

Inoltre, non è chiaro e non ci sono ancora criteri clinici condivisi su quando e dove sia necessario eseguirlo. Infine, dobbiamo migliorare la nostra conoscenza sulle capacità mentali delle pazienti con anoressia nervosa. È auspicabile che queste aree di incertezza riguardanti il TSO possano essere affrontate da ricerche rigorose e accurate e che le conclusioni di questi studi possano guidare le future scelte terapeutiche che troppo spesso ancora oggi sono fatte su basi teoriche, personali ed emotive ma non empiriche.

 

(Appendice) Il trattamento sanitario obbligatorio: l’esempio della Norvegia

In Norvegia il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) per i pazienti con disturbi psichiatrici è regolato da una legge chiamata Psykisk Helsevernloven (tr. it Protezione della Salute Mentale). Una modifica a questa legge, implementata nel gennaio 2007, ha descritto il TSO per i disturbi dell’alimentazione. Se il paziente ha deliri o convinzioni comparabili con la psicosi e in aggiunta ha una situazione medica che minaccia la sua vita può essere indicato il TSO. Un medico di famiglia può inviare il paziente a un ospedale psichiatrico per essere valutato da uno psichiatra o da uno psicologo entro 24 ore e per determinare se soddisfa i criteri per il TSO. Il paziente può opporsi a questa decisione presentando una denuncia a una commissione di controllo che è indipendente dall’ospedale.

Quando il paziente è in TSO può ricevere l’alimentazione forzata, come indicato da una sezione separata del Psykisk Helsevernloven (Sezione 4-4b).

Il TSO è svolto prevalentemente in una delle quattro unità regionali della salute in Norvegia e rappresenta un importante passo avanti nel trattamento di pazienti con disturbi dell’alimentazione che hanno una condizione che minaccia la loro vita. Il totale di pazienti trattati con TSO in Norvegia è basso, sebbene non se ne conosca l’esatto numero. Se il paziente ha avuto bisogno di numerosi trattamenti in reparti di terapia intensiva le commissioni di controllo, in alcuni casi, hanno accettato il TSO anche in pazienti di peso normale.

Sigrid Bjoernelv ha recentemente presentato i dati di 11 pazienti di sesso femminile, di età compresa tra 16,5 e 26 anni e IMC tra 8,2 e 19,3, trattati con il TSO prima del gennaio 2013 presso il Levanger Hospital, che è l’unità regionale di una delle quattro regioni della salute della Norvegia. In quattro dei pazienti è stata usata anche l’alimentazione forzata. Dopo il TSO, ai pazienti è stato offerto un trattamento presso l’unità regionale per i disturbi dell’alimentazione. Al follow-up uno dei pazienti era morto, sei pazienti avevano avuto un esito buono e quattro continuavano a mantenere un disturbo dell’alimentazione attivo.

Dr. Stein Frostad

Section for Eating Disorders, Department for Psychosomatic Medicine

Haukeland University Hospital

Bergen, Norvegia

 

ARGOMENTI CORRELATI: 

DCA Disturbi del Comportamento AlimentareAnoressia Nervosa

 

REFERENZE:

  1. Hoek HW. Incidence, prevalence and mortality of anorexia nervosa and other eating disorders. Curr Opin Psychiatry. 2006;19(4):389-94. doi:10.1097/01.yco.0000228759.95237.78.
  2. Arcelus J, Mitchell AJ, Wales J, Nielsen S. Mortality rates in patients with anorexia nervosa and other eating disorders. A meta-analysis of 36 studies. Arch Gen Psychiatry. 2011;68(7):724-31. doi:10.1001/archgenpsychiatry.2011.74.
  3. Keel PK, Brown TA. Update on course and outcome in eating disorders. Int J Eat Disord. 2010;43(3):195-204. doi:10.1002/eat.20810.
  4. Goldner E. Treatment refusal in anorexia nervosa. Int J Eat Disord. 1989;8(3):297-306.
  5. Tiller J, Schmidt U, Treasure J. Compulsory treatment for anorexia nervosa: compassion or coercion? Br J Psychiatry. 1993;162:679-80.
  6. Elzakkers IF, Danner UN, Hoek HW, Schmidt U, van Elburg AA. Compulsory treatment in anorexia nervosa: a review. Int J Eat Disord. 2014;47(8):845-52. doi:10.1002/eat.22330.
  7. Ramsay R, Ward A, Treasure J, Russell GF. Compulsory treatment in anorexia nervosa. Short-term benefits and long-term mortality. Br J Psychiatry. 1999;175:147-53.
  8. Ward A, Ramsay R, Russell G, Treasure J. Follow-up mortality study of compulsorily treated patients with anorexia nervosa. Int J Eat Disord. 2014. doi:10.1002/eat.22377.
  9. Ayton A, Keen C, Lask B. Pros and cons of using the Mental Health Act for severe eating disorders in adolescents. Eur Eat Disord Rev. 2009;17(1):14-23. doi:10.1002/erv.887.
  10. Fairburn CG, Shafran R, Cooper Z. A cognitive behavioural theory of anorexia nervosa. Behav Res Ther. 1999;37(1):1-13.
  11. Dalle Grave R, Calugi S, El Ghoch M, Conti M, Fairburn CG. Inpatient cognitive behavior therapy for adolescents with anorexia nervosa: immediate and longer-term effects. Front Psychiatry. 2014;5:14. doi:10.3389/fpsyt.2014.00014.
  12. Dalle Grave R, Calugi S, Conti M, Doll H, Fairburn CG. Inpatient cognitive behaviour therapy for anorexia nervosa: a randomized controlled trial. Psychother Psychosom. 2013;82(6):390-8. doi:10.1159/000350058.
  13. Turrell SL, Peterson-Badali M, Katzman DK. Consent to treatment in adolescents with anorexia nervosa. Int J Eat Disord. 2011;44(8):703-7. doi:10.1002/eat.20870.
  14. Tan J, Hope T, Stewart A. Competence to refuse treatment in anorexia nervosa. Int J Law Psychiatry. 2003;26(6):697-707. doi:10.1016/j.ijlp.2003.09.010.

Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza domestica. Come prevenire?

Alice Bartozzi, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Gli ultimi dati sconcertanti riguardanti le violenze fisiche o sessuali e gli episodi di femminicidio gettano luce sull’esigenza di avere operatori sempre più formati in tutto il territorio nazionale e capaci di valutare il rischio di recidiva e di prevenire l’escalation della violenza, al fine di evitare il perpetuarsi di questo fenomeno.

I maltrattamenti in famiglia sono un fenomeno che tende a svilupparsi soprattutto nell’ambito dei rapporti familiari, tra coniugi. Un fenomeno completamente trasversale, che coinvolge donne di tutti i Paesi, di ogni estrazione sociale, di ogni livello culturale e che copre tutte le fasce d’età, provocando importanti danni fisici e gravi conseguenze per la salute sia mentale che psichica di chi li subisce.

La violenza domestica è stata definita, dalle Nazioni Unite nel 1993, come

qualunque atto di violenza che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che in quella privata.

Le ultime statistiche, pubblicate dall’EU.RE.S (European Employment Service – ricerche economiche e sociali) a novembre 2014, relative a dati elaborati per l’anno 2013, fanno notare che una donna su tre in Italia subisce violenze fisiche o sessuali, nella maggioranza dei casi da parte del partner o di un familiare. Sempre nel 2013, sono 179 le donne uccise per mano di uomini, una vittima ogni due giorni, rispetto alle 157 del 2012. Il fenomeno del femminicidio, dal 2012 al 2013, è aumentato del 14%, gli omicidi in ambito familiare sono aumentati del 16,2%.

Anche nel 2013, rispetto agli anni precedenti, in 7 casi su 10, pari al 68,2%, i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare o affettivo. Con questi numeri, l’anno 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% delle uccisioni totali (179 sui 502): un processo particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, basti pensare che le donne nel 1990 rappresentavano appena l’11,1% delle vittime totali.

Per questi dati sconcertanti si sente l’esigenza di avere operatori sempre più formati in tutto il territorio nazionale e capaci di valutare il rischio di recidiva e di prevenire l’escalation della violenza, al fine di evitare il perpetuarsi di questo fenomeno.

Diventa di fondamentale importanza individuare i fattori che portano una persona ad agire violentemente, e determinare se questi stessi fattori o altri potrebbero portare questa stessa persona, in futuro, a riattivare comportamenti simili.

Gli ambiti in cui è importante eseguire una valutazione del rischio sono principalmente due: l’ambito clinico e l’ambito peritale.

In ambito clinico è molto importante, quando una paziente porta la sua storia di violenza, concentrarsi su alcuni aspetti fondamentali, ad esempio comprendere come e perché una persona ha scelto di agire in maniera violenta, quali siano stati i fattori specifici in quel contesto. È importante aiutare la donna a raggiungere un sufficiente livello di consapevolezza della sua situazione in quanto, animata dalla speranza che la sua condizione migliorerà, si autocolpevolizza per le violenze che subisce, ritiene che la pazienza e il silenzio siano un buon metodo per sperare nel miglioramento della situazione, minimizza i comportamenti violenti del suo partner. Patrizia Romito descrive tre tipi di risposte disfunzionali che l’ambiente può dare alle richieste di aiuto di una donna vittima di violenza domestica:

  • il non riconoscimento e la minimizzazione della violenza;
  • il rifiuto, quando si prende atto che le violenze sono presenti ma se ne dà la colpa alla donna;
  • lo psicologizzare abusivamente il fatto, quando si ricercano le cause delle difficoltà della donna nella sua psicologia patologica.

Invece, come continua a dirci Patrizia Romito, dalla spirale della violenza da sola, una donna, non riesce ad uscire. Sono necessarie consapevolezza, scelte coraggiose, impegnative e figure competenti. È fondamentale scrivere un progetto di riacquisizione della propria autonomia, fortemente compromessa dalla violenza, costruire un nuovo pensiero su di sé come immagine positiva. Instaurare una relazione partendo dalla ricerca e dalla valutazione delle risorse interne per dare forza alla donna, la stessa che dovrà utilizzare per confrontarsi con le proprie vulnerabilità e con i propri fallimenti.

Questo lavoro di valutazione del rischio è un percorso che viene pianificato con la donna perché permette di valutare la possibilità di una recidiva di violenza e determinare quali fattori (ad esempio il desiderio di esercitare un dominio totale sulla propria partner, distruggendone l’autonomia materiale e psicologica) o altri (ad esempio possibili disturbi di personalità, psichiatrici o di dipendenza patologica) possano indurre il maltrattante a riattivare comportamenti violenti in futuro.

Dopo di che, se il rischio risulta molto elevato, mettere a punto un sistema d’intervento per la gestione del rischio, pianificando, ad esempio, un percorso di messa in sicurezza della vittima.

Per effettuare una valutazione del rischio che sia il più possibile valida e attendibile, è stato messo a punto in Canada nel 1996, ad opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, uno strumento che ha funzione predittiva e preventiva rispetto a se e quanto un uomo (è il caso di gran lunga più frequente), che ha agito con violenza nei confronti della propria partner o ex-partner, sia a rischio, nel breve o nel lungo termine, di usare nuovamente violenza. Questo strumento, indicato con l’acronimo S.A.R.A. (Spousal Assault Risk Assessment), viene inteso, letteralmente, come valutazione del rischio di violenza interpersonale fra partner, ed è stato sperimentato per la prima volta in Canada, poi applicato con successo in altri Paesi, quali Stati Uniti ed Europa (in particolare Svezia e Scozia), mentre in Italia se ne è iniziato a parlare solo da pochi anni.

Il S.A.R.A., nella versione originaria costituito da 20 items, poi snellito nella versione screening di S.A.R.A.-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità. L’operatore che effettua la valutazione del rischio con il metodo S.A.R.A.- S procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori, allo stato attuale (ultime quattro settimane) e nel passato (prima di un mese). Questo significa che quando una donna riporta le violenze subite, analizzando i dieci fattori di rischio proposti dallo strumento, sarà compito del valutatore identificare se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata e se sia nell’immediato (entro 2 mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi). Al valutatore viene anche chiesto di verificare se ci fosse un rischio di violenza letale e se esiste un’evoluzione della violenza, un’escalation.

Ci sono inoltre alcune circostanze più critiche di altre per quel che riguarda la gravità del rischio di recidiva, in particolare quando:

  • la vittima riferisce la sua intenzione di interrompere la relazione con il maltrattante;
  • la vittima ha una nuova relazione contrariamente alla volontà dell’autore delle violenze, estendo il rischio anche al nuovo partner;
  • ci sono delle dispute per quanto riguarda la fase di separazione: affidamento dei figli, mantenimento, assegnazione della casa;
  • il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per il reato di maltrattamenti.

In ambito peritale, poi, la valutazione del rischio può essere usata in diversi contesti:

  • Prima del processo, in fase di indagini. Quando qualcuno viene arrestato per un reato legato ai casi di maltrattamento, è importante capire quale tipo di misura cautelare applicare: se il presunto autore del reato può costituire un pericolo per la presunta vittima o per i figli, e quindi prevedere qualche forma restrittiva, oppure se può essere lasciato in libertà, eventualmente con un ordine di divieto di dimora o con un ordine di allontanamento.
  • Durante un procedimento. Una valutazione del rischio può essere a volte richiesta quando un caso viene rinviato a giudizio. Se l’imputato non è ancora stato condannato, la valutazione del rischio è utile per i giudici che devono stabilire se applicare forme alternative come la libertà vigilata, gli arresti domiciliari.
  • Nel periodo detentivo. Dopo la condanna, la valutazione del rischio può essere utile per coloro che si occupano del detenuto e del suo eventuale progetto di recupero (educatori, psicologi, assistenti sociali).
  • Nel rilascio. Per gli autori di reato che sono stati sottoposti a un regime carcerario, la valutazione del rischio può essere di aiuto per il tribunale se ci si trova ancora in regime di misure cautelari, in attesa di giudizio, per mettere a punto una strategia programmatica che risponda alle esigenze del caso specifico. Per un autore di reato in regime di libertà, che sta per terminare il suo periodo di supervisione da parte dei servizi sociali della giustizia, una valutazione del rischio può servire per indicare se disporre ordini restrittivi prima di chiudere definitivamente il caso.

I dieci fattori di rischio

Entrando nel dettaglio, i fattori di rischio possono essere divisi in sezioni separate: violenza da parte del partner o ex partner; adattamento psico-sociale.

Violenza da parte del partner:

  • Gravi violenze fisiche/sessuali: questo stato comprende quelle violenze che mettono in serio pericolo la vita della vittima, quelle violenze che causano gravi lesioni e che richiedono cure mediche. Si parla quindi di violenze effettivamente già messe in atto dal maltrattante, includendo anche le minacce dell’uso delle armi.
  • Gravi minacce di violenza, ideazione o intenzione di agire violenza: si tratta di pensieri omicidi o di impulsi di violenza verso la vittima. Le minacce devono essere effettuate in una modalità tale da creare paura, terrore alla vittima che le subisce e devono essere perturbanti nel tempo.
  • Escalation sia della violenza fisica/sessuale vera e propria sia delle minacce/ideazioni o intenzioni di agire tali violenze: questa voce serve a notare se c’è un incremento temporale della violenza o delle intimidazioni. L’escalation può essere riconducibile a un uso strumentale della violenza per intimorire la partner, e più si riesce nell’intento, più sarà difficile bloccarla. È importante prendere in considerazione almeno tre o quattro episodi e stabilirne l’aumento di gravità e di frequenza nel tempo.
  • Violazione delle misure cautelari o interdittive: in questo fattore si fa riferimento esclusivamente alle violazioni delle disposizioni giudiziarie date al presunto carnefice in relazione al comportamento violento.
  • Atteggiamenti negativi nei confronti delle violenze interpersonali e intrafamiliari: il potenziale autore della violenza manifesta atteggiamenti che incoraggiano, o giustificano, o minimizzano il comportamento abusivo, di controllo e violento.

Adattamento Psico-sociale:

  • Precedenti penali: serve a far emergere eventuali condanne o imputazioni del maltrattante sia per reati simili avvenuti in passato sia per altri reati non legati alla violenza domestica sempre già avvenuti.
  • Problemi relazionali: qui viene valutata la qualità delle relazioni che l’abusante è riuscito a costruire intorno a sé nell’arco della sua vita. 
  • Status occupazionale e problemi finanziari: con questo parametro si verifica la condizione di occupazione/disoccupazione o la capacità/incapacità di mantenere un lavoro. Ad esempio un improvviso inaspettato cambiamento dello status di lavoro può determinare un aumento del rischio di violenza.
  • Abuso di sostanze: il far uso di sostanze può essere un fattore che segnala la presenza, indirettamente, di un disturbo di personalità, e può anche indurre uno stato di alterazione della coscienza dell’individuo che potrebbe portare alla messa in atto di comportamenti violenti.
  • Disturbi mentali: possono essere inclusi in questo parametro sia disturbi di personalità che problematiche psichiatriche. La violenza domestica non può sempre essere spiegata soltanto con la presenza di disturbi mentali, ma è possibile un’associazione e in questo caso c’è un aumento dell’indice di rischio, dettata dall’imprevedibilità del soggetto.

Un altro strumento, che parte dai dieci criteri proposti dal S.A.R.A.-S, messo a punto da ricercatrici di Differenza Donna, associazione di donne che combatte la violenza domestica di Roma, è il questionario ISA. Si tratta di un progetto europeo che l’Associazione ha realizzato, tra il 2008 e il 2010, come capofila con altri tre partner: Scozia, Portogallo, Paesi Bassi.

ISA (Increasing Self Awareness) è un modulo da compilare sulla base della propria situazione per cogliere qual è il livello di pericolo che si sta correndo. Si ottiene un punteggio in base a quello che succede nella relazione violenta e di conseguenza è indicato cosa è opportuno fare. E’ rivolto a tutte quelle donne che ancora non hanno chiamato un centroantiviolenza, non hanno denunciato, forse non ne hanno mai parlato con alcuno. È un questionario autosomministrato presente on-line nel sito del CAV Differenza Donna, e viene usato come punto di partenza per far capire alla donna vittima di violenza quale sia la sua situazione di pericolo quanto sia essa stessa grave.

Per aiutare una donna vittima di violenza domestica è importante intervenire con tutti gli strumenti che si hanno a disposizione: dai colloqui di consapevolezza, al lavoro in rete, alla somministrazione di strumenti quali il S.A.R.A.-S.

Deve essere chiaro a tutti gli attori di questo percorso di riconoscimento e in seguito di uscita dalla violenza che si sta parlando di un fenomeno ben radicato nella cultura della nostra società, dove c’è bisogno di un cambiamento di mentalità profondo ed indispensabile, di una riscoperta di valori essenziali di rispetto reciproco, che si declina su diversi livelli, livelli di cui l’uno contiene l’altro e in continua interazione tra loro, dove la dimensione sociale, la dimensione relazionale e la dimensione individuale abbiano alla base un concetto di parità tra i generi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il dilemma del trolley, il conflitto tra colpa deontologica e colpa altruistico/umanitaria e il disturbo ossessivo

Il dilemma del trolley sembra mettere in conflitto due tipi di morale, una per così dire orizzontale, interpersonale, funzionale a salvaguardare il bene degli altri, dunque una morale essenzialmente umanitaria. L’altra verticale cioè orientata verso il rispetto della autorità morale, riconosciuta autorevole e spesso introiettata, e funzionale a limitare i diritti decisionali del singolo individuo, dunque una morale deontologica.

È pubblicato online, sul JBTEP, un articolo di Mancini e Gangemi (2015), che include due ricerche che corroborano due tesi, già suffragate da studi precedenti. La prima è di psicologia generale, e sostiene l’esistenza di due sensi di colpa: uno altruistico/umanitario e l’altro deontologico. La seconda, invece, è di psicologia clinica e afferma che i pazienti ossessivi siano più preoccupati di evitare colpe deontologiche piuttosto che colpe umanitarie/altruistiche.

Entrambe le ricerche hanno utilizzato il cosiddetto paradigma del trolley, in particolare la versione basica che consente di porre in conflitto i due sensi di colpa. Il conflitto tra i due sensi di colpa non è raro, basti pensare al problema morale posto dalla eutanasia: è giusto aiutare una persona che soffre senza speranza, a morire? O, piuttosto, nessun essere umano ha il diritto di sostituirsi a Dio o al destino, e dunque nessuno ha il diritto di decidere di morire o di aiutare un altro a farlo? Fino a che punto il desiderio altruistico e umanitario di non far soffrire un’altra persona autorizza a mettersi nei panni di Dio?

La storia dice che la prima formulazione del dilemma del trolley, la cosiddetta switch version, fu pubblicata nel 1967 da Philippa Bonsanquet (poi Foot) su Oxford Review. Da allora ne sono state formulate molte versioni dando vita alla cosiddetta trolleylogy che costituisce il paradigma più utilizzato nelle ricerche di psicologia morale e nella experimental phlilosophy (Edmonds, 2014).

La leggenda vuole che la Foot abbia preso spunto da un episodio reale avvenuto durante la seconda guerra mondiale (Edmonds, 2014).
Alle 4.13 am del 13 giugno 1944, Londra fu colpita dalla prima bomba volante, denominata dai nazisti V1. Le V1 erano una sorta di missile lanciate da basi poste nella Francia occupata. Alla prima V1 ne seguirono centinaia che colpirono Londra con effetti devastanti. Erano ordigni potenti ma imprecisi e i tedeschi avevano bisogno di sapere dove cadevano le V1, per adeguarne la traiettoria e colpire il centro di Londra, al fine di causare il maggior numero di vittime e danni. Gli inglesi, tramite agenti segreti doppi, tra i quali Greta Garbo, erano in grado di passare ai nazisti informazioni false sui reali luoghi di caduta delle V1, quindi potevano far modificare le traiettorie delle bombe volanti in modo da salvaguardare le zone centrali di Londra, più abitate e frequentate, a discapito di aree più periferiche e meno affollate della città.

Era possibile, perciò, salvare molti a discapito di pochi, ma era giusto? Il conflitto morale di chi doveva decidere, è evidente. Da una parte c’era l’opportunità di ridurre il numero di morti, e quindi una motivazione sostanzialmente umanitaria, ma dall’altra la responsabilità di decidere quali cittadini sarebbero morti e quali no, e quindi il freno della norma morale intuitiva “not play God” vale a dire: “Chi sono io per decidere chi vive e chi muore?”.

La decisione ultima spettava al primo ministro, Winston Churchill, il quale, già in altre occasioni, sembra che avesse dimostrato di non avere molte remore a mettersi nei panni di Dio. Churchill impartì l’ordine di depistare il nemico e con questo si riconobbe il diritto di decidere quali cittadini far morire e quali salvare. I servizi segreti inglesi fecero arrivare ai nazisti informazioni false. L’operazione ebbe successo e le V1 cominciarono a cadere sui quartieri meridionali di Londra. Furono salvate 10.000 vite ma, dopo la guerra, non fu mai data grande pubblicità alla notizia.

Nel 1967 Philippa Foot formalizzò il dilemma di Churchill: il trolley dilemma. [blockquote style=”1″]Un vagone, completamente fuori controllo, procede a tutta velocità lungo un binario sul quale sono bloccate cinque persone che, sicuramente, saranno travolte e uccise. L’unica possibilità di salvezza dei cinque sei tu che ti trovi vicino a uno scambio. Se muovi lo scambio, dirotti il vagone su un altro binario dove però si trova un’altra persona che non avrà scampo e morirà. Cosa devi fare?[/blockquote].

Studi successivi hanno rilevato che circa l’80 – 90 % delle persone decide di muovere lo scambio (Greene, 2002). Da una ricerca di Gangemi e Mancini (2013) risulta che le persone che decidono di muovere lo scambio, affermano di farlo “perché così si salvano quattro vite”, cioè sono mosse dalla intenzione di ridurre il più possibile la sofferenza degli altri, dunque da una motivazione umanitaria. Diversamente, chi decide di non muovere lo scambio riferisce di non riconoscersi il diritto di stabilire chi vive e chi muore, dunque intende rispettare la norma morale Not play God e lasciare la decisione al destino (Gangemi e Mancini, 2013).

Il dilemma del trolley, pertanto, sembra mettere in conflitto due tipi di morale, una per così dire orizzontale, interpersonale, funzionale a salvaguardare il bene degli altri, dunque una morale essenzialmente umanitaria. L’altra verticale cioè orientata verso il rispetto della autorità morale, riconosciuta autorevole e spesso introiettata, e funzionale a limitare i diritti decisionali del singolo individuo, dunque una morale deontologica.

In una versione modificata del dilemma (Gangemi e Mancini, 2013) era chiesto ai soggetti di immaginarsi accanto allo scambio ma con vicino una autorità autorevole, come ad esempio un giudice. A queste condizioni, la maggior parte dei soggetti non muoveva lo scambio. Ciò suggerisce che a frenare la motivazione umanitaria possa intervenire il riconoscimento del limite della propria libertà decisionale, cioè il rispetto del principio “Not play God”.

Al contrario, tutti i soggetti ai quali era chiesto di vedersi accanto allo scambio ma vicino alle cinque vittime potenziali, ritenevano che fosse giusto muovere lo scambio e salvare i cinque, anche se ciò avrebbe comportato la morte certa di un altro individuo. Sembra quindi confermato che la mente umana tenga conto di due morali che non sempre vanno d’accordo: una umanitaria/altruistica e una deontologica. A conferma di questa differenza c’è la dimostrazione che sia possibile indurre separatamente i due sensi di colpa, ad esempio attraverso l’esposizione a facce e frasi di dialogo interno (Basile e Mancini, 2011).

Per giunta, questo tipo di induzione attiva, alla fMRI, aree cerebrali diverse e, fatto interessante, l’induzione di senso di colpa deontologico attiva le insulae e la paleocorteccia che è anche il substrato neurale del disgusto, mentre il senso di colpa altruistico attiva aree cerebrali normalmente coinvolte nei compiti di teoria della mente (Basile et al., 2011). I due sensi di colpa possono essere indotti pure attraverso l’immedesimazione in storie e la rievocazione di episodi della propria vita.

Come riscontrato nella ricerca di Mancini e Gangemi (2015), l’induzione di senso di colpa deontologico implica scelte prevalentemente omissive, vale a dire una preferenza per il rispetto del principio Not play God, mentre l’induzione del senso di colpa altruistico implica la scelta di muovere lo scambio per salvare il maggior numero possibile di vite, cioè prevale lo scopo altruistico/umanitario.

Nello stesso articolo, assieme a questa ricerca che ha coinvolto soggetti non clinici, è stata pubblicata una seconda ricerca con pazienti ossessivi. Il risultato è stato che i pazienti ossessivi risolvono il dilemma decidendo di non muovere lo scambio e dunque di rispettare il principio Not play God, al contrario di altri pazienti con disturbi d’ansia e di soggetti non clinici. Dunque i pazienti ossessivi sembrano più preoccupati di prevenire una colpa deontologica che una colpa umanitario/altruistica.

Questo dato arricchisce e rende più precisa la tesi “morale” del disturbo ossessivo, vale a dire che alla base della sintomatologia ossessiva vi sia lo scopo di prevenire una colpa. Non si tratterebbe quindi di una colpa qualsiasi ma di una colpa deontologica. Questa tesi è suffragata da ricerche precedenti, in particolare dal fatto che l’induzione di senso di colpa deontologica attiva il cervello degli ossessivi, come risulta dalla fMRI, in modo diverso da quanto accade nei soggetti non clinici, mentre non ci sono differenze se è indotto senso di colpa altruistico (Basile et al., 2013). Altro sostegno alla tesi viene dalla dimostrazione che l’induzione di senso di colpa deontologico in soggetti non clinici implica controlli e lavaggi simil ossessivi mentre ciò non accade se è indotto senso di colpa altruistico (D’Olimpio e Mancini, 2014).

Per giunta è nota la tendenza dei pazienti ossessivi a essere ossessionati da pensieri che suscitano il sospetto di essere persone perverse o blasfeme anche se ciò non implica in alcun modo danni o sofferenze per alcuno, ed è altresì ben dimostrato che la riduzione della responsabilità, e dunque della possibilità di essere colpevoli, implichi riduzione della sintomatologia ossessiva, anche se alla riduzione di responsabilità non si accompagna la riduzione del rischio per gli altri. Ad esempio la riduzione della responsabilità di un’eventuale fuga di gas implica la riduzione dei rituali di controllo, pur se il rischio per le potenziali vittime rimane lo stesso (Lopatcka e Rachman, 1995; Shafran, 1997).

In conclusione, i due esperimenti appena pubblicati aggiungono prove a favore della tesi che distingue due sensi di colpa, uno altruistico/umanitario e l’altro deontologico, e anche della tesi secondo la quale alla base del disturbo ossessivo vi sarebbe un timore particolarmente grave di essere colpevoli in senso deontologico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Piccolo manuale sui disturbi del comportamento alimentare – Recensione del libro di A. Marchisella

L’obiettivo del libro è stato quello di creare una guida facilmente consultabile e comprensibile anche dai non esperti del settore e che, seppure di brevi dimensioni, fornisse un primo approccio al problema.

Lei non aveva nulla da dirsi né domande da farsi: era semplicemente viva. Quella farfalla non possedeva pensieri ed era leggera. Io invece ho dovuto faticare per raggiungere una simile condizione di leggerezza, almeno apparentemente. Dovevo vomitare, piangere, non mangiare e poi ancora piangere. Per poi guardarmi nello specchio e non vedermi mai sufficientemente magra.

Si tratta di un manuale composto da una serie di interventi, presentati al lettore in forma di interviste realizzate dall’autrice stessa, che vede il contributo di diversi specialisti che operano nell’ambito dei Disturbi del Comportamento alimentare: psicologi, medici, nutrizionisti. L’obiettivo è stato quello di creare una guida facilmente consultabile e comprensibile anche dai non esperti del settore e che, seppure di brevi dimensioni, fornisse un primo approccio al problema.

Se si pensa ai disturbi alimentari quello a cui più comunemente si fa riferimento per la drammaticità della condizione psioco-fisica che comporta è l’anoressia nervosa. In un’ottica più psicodinamica, il dott. Testani, psicologo, spiega come si tratti di un vero gioco con la morte, la persona cioè non percepisce il pericolo a cui va incontro con la negazione del cibo, come se allontanasse da sé il pensiero di morte. Ciò che comunica l’anoressica con il proprio corpo, percepito erroneamente, è la ricerca di unicità, un attacco al falso sé, richiamare le attenzioni e l’aiuto dei genitori. Il corpo viene cioè percepito come un’entità separata dal Sé e l’anoressia spesso sembra un tentativo di cura, per arrivare attraverso la disciplina e il controllo del cibo, ad una individualità e differenziazione dalla figura materna.

 

Anche in una prospettiva cognitivo-comportamentale lo stile genitoriale avrebbe un ruolo chiave nello sviluppo di disturbi del comportamento alimentare. Secondo la dott.ssa Della Morte, psicologa psicoterapeuta, spesso sono i comportamenti rifiutanti o al contrario iperprotettivi dei genitori a costituire uno dei principali fattori di rischio per l’esordio dei disturbi del comportamento alimentare insieme all’auto e etero criticismo presente tra gli adolescenti e all’influenza che la competizione tra compagni di classe esercita sull’insoddisfazione corporea.

Come sottolinea il Dott. Saita, psicologo, l’anoressia e la bulimia rappresentano la faccia della stessa medaglia sebbene la prima comporti un’astensione dal mangiare e la seconda consista nel mangiare in modo eccessivo. Sebbene non tutti gli esperti concordino su una stretta correlazione tra entrambi i disturbi, il costrutto di base che accomuna le persone con bulimia e anoressia è la percezione netta di non essere amati o apprezzati.

Il dott. Roviglio, medico specialista in dietologia e scienza dell’alimentazione definisce il Binge Eating Disorder come un comportamento caratterizzato dal desiderio di dimagrire e da contemporanee perdite di controllo sul cibo, determinate dalla percezione di emozioni negative. Alla base paiono esserci scompensi affettivi (familiari, di coppia..). Come tutte le personalità dipendenti anche le persone con Binge Eating Disorder ricorrono a un elemento, in questo caso al cibo, per creare una realtà fittizia. Le abbuffate provocano conseguentemente fenomeni di alterazione della fame e sazietà (la dieta ipocalorica porta un aumento di fame), blocco delle emozioni negative che si ripresentano, secondo un circolo vizioso, in abbuffate che a loro volta determineranno emozioni altrettanto spiacevoli.

 

Quali differenze tra Binge Eating disorder e bulimia?

Come sottolinea la dott.ssa , nutrizionista e Speciliasta PNEI, a differenza degli altri disturbi del comportamento alimentare, la bulimia viene spesso trascurata. Ne soffrono persone insospettabili e che apparentemente conducono una vita normale, anche se esprimono un forte bisogno di amore, riconoscimento, approvazione che non bastano per riempire il vuoto emotivo che sentono. Mentre come osserva il dott. Roviglio le bulimiche sono normopeso e la restrizione alimentare precede la comparsa delle abbuffate, le pazienti con Binge Eating Disorder sono sovrappeso e non utilizzano mezzi di compensazione (vomito, lassativi, attività fisica), non hanno comportamenti dietetici restrittivi poiché non riescono a limitare l’introito calorico.

Due sono le tipologie di organizzazione del Binge Eating Disorder per Roviglio: un quadro giovanile caratterizzato da una visione di sé che oscilla tra elevata stima di sé e autocritica estrema, timore di biasimo e di deludere l’altro e con alla base una famiglia caratterizzata da ambiguità e madri ansiose poco attente alle esigenze emotive della figlia, e un quadro adulto con un’origine del disturbo più tardiva dovuta a una crisi esistenziale e un conseguente vuoto interno interpretato erroneamente come fame, colmata con una perdita di autocontrollo sul cibo.

 

Una patologia a sé stante rispetto ad anoressia e bulimia è il vomiting.

Il Vomiting si definisce come una sorta di anoressia mascherata: nell’anoressia il piacere dato dal cibo viene anestetizzato attraverso il controllo e l’astinenza, nel vomiting il cibo mantiene la sensazione di piacere nell’alternanza abbuffata-vomito. Nasce dapprima come mezzo per gestire il timore di ingrassare come nell’anoressia o il desiderio di svuotarsi dopo una grande abbuffata tipico della bulimia ma come sottolinea il Dott. Algeri, psicologo e psicoterapeuta, tale pratica diventa ben presto una perversione piacevole, spesso solitaria e segreta e si alterna all’abbuffata, diventa il problema stesso per la persona.

Proprio per il forte grado di dolore che il disturbo del comportamento alimentare comporta e che veicola attraverso il controllo-non controllo del cibo, tutti gli esperti ma anche chi come la scrittrice Chiara Ciavatta, meglio conosciuta come Chiara Sole, il disturbo lo hanno vissuto direttamente, sottolineano l’importanza di una presa in carico psicoterapeutica.

Dal momento che i disturbi del comportamento alimentare si inseriscono spesso come problematiche legate all’età adolescenziale, nel processo di aiuto a questi pazienti occorre ricordare come i genitori possano svolgere un ruolo essenziale nella cura del figlio/a. Infatti, secondo il dott. Testani, psicologo, una volta compreso il disagio, il genitore dovrebbe condividere con il figlio il problema senza forzature e con un’apertura alla comprensione. Come sottolinea anche la Dott.ssa Della Morte, psicologa, psicoterapeuta sarebbe opportuno che anche i genitori ricevessero un aiuto psicoterapeutico al fine di ottenere sostegno e direttive utili a favorire il cambiamento.

Tra le organizzazioni che si occupano della cura e dei disturbi del comportamento alimentare vi è ABA, divenuta punto di riferimento poichè accoglie la richiesta di aiuto di chi soffre di questi disturbi attraverso azioni di ricerca, prevenzione e assistenza. Fondata da Fabiola De Clercq nel 1991, ABA ha avuto una diffusione capillare sul territorio italiano ed è tuttora presente in 16 città italiane dove diversi specialisti lavorano in equipe per garantire un processo di cura efficace adatto al singolo paziente.

Ancora non amore è il significato che io, Antonella, voglio attribuire ad Ana. Ancora non amore è quella condizione di vuoto e di solitudine interiore che cerchiamo di colmare e di comunicare agli altri tramite il nulla, che in questo caso è la mancanza di peso corporeo, sperando disperatamente di essere ascoltate. Ecco quello che ti sto chiedendo adesso per mezzo di Ana: un po’ d’amore. Perché se sono magra sono più bella e ho il diritto di essere amata. Perché se sono magra ti verrà voglia di proteggermi e nel contempo ti mostrerò la mia grandezza, la perfezione che io so possedere. Perché se sono magra l’inverno sarà per me soltanto una carezza.

 

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La scrittura e il linguaggio orale fanno riferimento a differenti aree cerebrali

FLASH NEWS

Anche se la nostra abilità nello scrivere si è evoluta a partire dal linguaggio orale, scrivere e parlare si possono considerare, a livello cerebrale due sistemi indipendenti.

In un articolo pubblicato su Psychological Science un team di ricercatori americani ha dimostrato che è possibile mantenere intatta la funzionalità dell’area deputata alla scrittura seppure viene danneggiata l’area responsabile del linguaggio orale e viceversa; questo fenomeno si verifica anche per le componenti più piccole del linguaggio, i morfemi.

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Per comprendere come il cervello organizza la conoscenza del linguaggio scritto e se lo scrivere fosse indipendente dal parlare, il team ha studiato cinque pazienti afasici colpiti da ictus con difficoltà comunicative. Quattro di essi presentavano difficoltà nello scrivere delle semplici frasi, ma nel momento in cui era chiesto loro di riprodurle oralmente non avevano alcun problema. Mentre un individuo aveva il problema opposto: difficoltà nel parlare ma non nello scrivere la stessa frase.

Quindi ai pazienti sono state mostrate delle figure ed è stato chiesto loro di descrivere l’azione raffigurata oralmente o per iscritto: di nuovo emergono esempi per cui vi sono errori grammaticali nello scritto ma non nel parlato, o viceversa.

I risultati dello studio neuropsicologico dunque dimostrano che la scrittura e il parlato fanno riferimento a diversi sistemi di aree cerebrali, non solo in termini di esecuzione motoria e riproduzione fonetica ma anche a un livello più elevato di costruzione della frase.

 

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Neuroscienze: l’apprendimento di nuovi termini attraverso l’associazione a simboli visivi

Come è possibile per il nostro cervello imparare nuove parole? L’ascolto e la ripetizione non bastano…

Come è possibile per il nostro cervello imparare nuove parole? L’ascolto e la ripetizione non bastano: secondo una nuova ricerca condotta alla Georgetown University e pubblicata sul Journal of Neuroscience, impariamo nuove parole solo se associate ad un simbolo visivo.

L’area cerebrale addetta all’apprendimento di nuovi termini linguistici è la Visual Word Form Area (VWFA), area coinvolta nell’individuazione di parole a partire da un livello più basso di manipolazione di immagini. Le immagini o i simboli vengono prima manipolati da quest’area e poi associati alla fonologia e alla semantica del termine da apprendere.

Una spiegazione evoluzionistica della funzionalità di quest’area è data dal fatto che le lettere e l’alfabeto hanno fatto recentemente il loro ingresso nell’evoluzione umana e, dunque il cervello, per apprendere nuove parole, ha bisogno di far riferimento a oggetti e simboli del suo ambiente naturale (proprio come i nostri antenati, prima dell’utilizzo dell’alfabeto).

Oltre al riconoscimento delle parole, la VWFA è coinvolta nell’elaborazione a livelli superiori del significato di una parola.

Dunque, solo quando il cervello associa visivamente un termine a un’immagine di senso compiuto, si può dire appreso il nuovo termine. Come si è arrivati a queste conclusioni? Come è stato possibile studiare il fenomeno in laboratorio? Proseguite con la lettura dell’articolo consigliato per saperne di più sulla ricerca condotta alla Georgetown University.

 

Si può ripetere un termine all’infinito, lo si può ascoltare per sempre, ma solo quando il cervello lo associa visivamente a un senso compiuto lo capisce. Lo stesso meccanismo viene usato anche dalle persone non vedenti che, pur non avendo simboli visivi di riferimento, associano la parola (sia essa sonora che in braille) a qualcosa che la loro mente possa codificare.

Psicologia: capiamo le parole quando le associamo a un simbolo visivoConsigliato dalla Redazione

Grazie a una nuova ricerca, il Journal of Neuroscience ha potuto indagare l’ultima frontiera della parola. Come facciamo ad apprendere la lingua che parliamo? Attraverso l’associazione a delle immagini. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Tradimento e amore a ostacoli – Tracce del Tradimento nr. 10

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – X: Tradimento e amore a ostacoli

In ogni storia d’amore i grandi drammi e i fuochi di passione più accesi esistono esclusivamente in presenza di difficoltà, di impossibilità, di scale da salire, mariti gelosi, grandi distanze da percorrere o difficoltà istituzionali da affrontare e risolvere.

Laddove queste difficoltà si sciolgano tutto cambia in modo ineluttabile: immaginate Giulietta e Romeo con i consuoceri felici di frequentarsi e in attesa di un nipotino. Noia mortale, nessuno avrebbe scritto una riga e Romeo prima o poi avrebbe insidiato la governante o Giulietta si sarebbe lamentata con le sue sorelle.

Il don Giovannismo di cui abbiamo parlato nel nono articolo di questa serie non appare quindi come una caratteristica solo maschile o personologica ma come una forma del comportamento umano che va alla ricerca di minacce o di difficoltà per sentire il sapore forte delle emozioni che queste accendono.

Se don Giovanni non trovasse delle difficoltà, delle resistenze non ci sarebbe una storia da raccontare. Eppure in fondo questa operazione non riesce mai pienamente e va costantemente, inutilmente ripetuta. Don Giovanni non è che un collezionista, un passionale freddo, un tecnico raffinato del sesso che tiene il conto delle sue innumerevoli avventure, un freddo raccontatore di storie che evita in tutti i modi di coinvolgersi e si appassiona soltanto all’aspetto misterioso delle nuove storie, alle difficoltà e agli ostacoli godendosi poco il resto.

Questo spiega anche una sua melanconica attitudine metafisica. Anche in Casanova troviamo, nonostante la vitalità della sua autobiografia, un distanziamento, una tendenza a trovare in tutti i bivii affettivi la scelta che lo allontana, lo lascia solo, che conferma la sua impossibilità ad una vicinanza solidale effettiva nel tempo, condotta con grande intelligenza e lungimiranza.

Il suo scopo è quello di arrivare alla vecchiaia e scrivere la sua autobiografia ma dove emotivamente egli sia effettivamente rimane segreto. Di certo sembra non essere nei letti che frequenta. Il demonio che spingeva Casanova e Don Giovanni a non potersi mai fermare ancora si aggira tra noi e lo vedete spuntare ogni qual volta qualcuno, all’ennesimo giro di giostra, vi confessa con aria sognante di aver trovato la persona ideale che gli ha fatto perdere la testa e per la quale si sta mettendo in un mare di guai.

Stupisce che vi siano ancora persone che -in età non più giovanissima- lasciano un buon matrimonio per il sogno di un’unione perfettamente armonica e passionale come quella che hanno in clandestinità, poche ore alla settimana. L’illusione di trovare nell’altro una intesa sessuale perfetta è difficilmente paragonabile con la affettuosa routine che si ha con il proprio vicino di spazzolino. L’amante è appassionato, focoso con una passione e una dedizione sessuale assoluta, spesso è anche molto più disinibito e esperto sessualmente. Ama in modo prepotente e rivitalizzante, fa sentire belli, forti, potenti. Con lui non si deve concordare la spesa per la cena o chi andrà alla posta per ritirare le bollette o dal dentista con i figli e chi cambierà l’olio alla macchina.

Ciò che si ha in casa appare improvvisamente inutile, vano, noioso, mancante di senso e poco desiderabile e così si lascia la vecchia intesa pantofolaia e noiosa per la nuova situazione appassionante e incerta, magari con un po’ di malcelato imbarazzo e con un partner pronto ancora a credere alla pietosa bugia secondo cui si ha bisogno “di trovare se stessi”, “di una pausa di riflessione”, di un momento di ripensamento” mentre in realtà sempre, assolutamente sempre, tutto ciò ha un nome preciso: tradimento.

Il problema è che è tutta l’operazione è drammaticamente ingannevole, e il protagonista ne è la prima vittima. Si stanno paragonando due cose che non hanno nulla in comune. Due forme dell’amore entrambe esistenti in questo nostro mondo ma diverse una dall’altra. Forse cronologicamente conseguenti ma non necessariamente perché si può amare senza essere stati prima innamorati e viceversa molto spesso l’innamoramento esaurendosi non necessariamente si trasforma in amore.

L’unico errore è scambiare l’uno per l’altro dando punteggi a esperienze emotivamente imparagonabili. Naturalmente queste cose in astratto sono facili da definire, mentre nello scorrere del reale divengono difficili da differenziare e necessariamente intricate e spesso confuse.

La ricerca di tracce si delinea nell’amore passionale maggiormente che in quello coniugale. Mentre è nei matrimoni apparentemente stabilizzati che l’irrompere di una traccia non voluta, la ricevuta di un teatro, una traccia informatica, crea il casus che altrimenti non si riusciva a trovare e che lo fa sembrare un incidente, un intoppo.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

La musica triste solleva l’umore. Ma è davvero così?

Numerose ricerche hanno messo in luce che molti individui, di fronte ad un pensiero che li rende tristi, si distraggono. Detto in altri termini: cercano di pensar meno a quell’evento che genera loro tristezza. E per distrarsi spesso si accende lo stereo e si sceglie un brano musicale da ascoltare.

La quotidianità è un susseguirsi di eventi, con conseguenti significati soggettivi che noi attribuiamo ad essi. Spesso viviamo degli eventi che noi percepiamo come positivi con relative belle emozioni, che ci fanno star bene; ma sovente ci ritroviamo anche ad esperire emozioni spiacevoli: talvolta siamo arrabbiati e viviamo la sensazione di aver subito un’ingiustizia; altre volte siamo divorati dai sensi di colpa con la percezione di non poter rimediare all’errore commesso che ci affligge; altre volte ci sentiamo tristi.

La tristezza è un’emozione, e scaturisce dal significato personale che noi attribuiamo a qualcosa che stiamo vivendo. Sicuramente essere tristi non è piacevole. Ci manca qualcosa, le cose non vanno come noi vorremmo; talvolta la tristezza può dare origine a un senso di impotenza e di inutilità.

Molti soggetti di fronte a questa emozione si attivano poco, attendendo che il tempo porti via da solo questo stato d’animo sgradevole.  Altri individui di fronte ad un’emozione sgradevole si muovono affinché possano star meglio.

Numerose ricerche hanno messo in luce che molti individui, di fronte ad un pensiero che li rende tristi, si distraggono. Detto in altri termini: cercano di pensar meno a quell’evento che genera loro tristezza. E per distrarsi spesso si accende lo stereo e si sceglie un brano musicale da ascoltare.

La scelta ricade su un brano triste, o per lo meno che il soggetto in questione percepisce come triste, per la tonalità musicale, oppure per le parole esposte nel testo; in ambedue i casi si tratta di una canzone malinconica, strappalacrime, talvolta anche deprimente. Ma quel brano triste viene scelto con una certa intenzionalità.

Come mai? Possibile che si tratti di una strategia atta a farsi intenzionalmente del male? Una sorta di autolesionismo?

Perché la musica genera emozioni. Ognuno di noi ha i suoi gusti musicali personali e ad un brano viene attribuito un significato, un nostro pensiero. A tale pensiero è associata la nostra conseguente emozione.

Ma quindi: che pensiero c’è dietro quell’atto di scegliere di ascoltare un brano triste? Perché proprio quel brano, e non uno più allegro? Che significato gli attribuiamo?

umerose ricerche dimostrano che il tono dell’umore influenza la selezione della musica da ascoltare (Hunter e Schellemberg , 2010), e nella maggior parte dei casi la scelta ricade su un brano che sia coerente con il nostro stato d’animo.

I motivi per cui scegliamo una canzone triste che ci tenga compagnia nei momenti di tristezza sono vari, e il medesimo studio di Hunter del 2010 ha constatato che non  è detto che si tratti di una strategia volta a farsi intenzionalmente del male.

Questo perché molti dei soggetti coinvolti dichiarano che un brano triste viene scelto nei momenti in cui si è giù di corda affinché si possa in qualche modo condividere la propria sofferenza: è come se accanto a noi ci fosse qualcuno che sta vivendo le nostre esperienze. Senza dimenticare il fatto che il nostro modo di pensare e di vivere gli eventi viene percepito in questo modo come normale, non sbagliato, in quanto abbiamo l’impressione che c’è qualcuno che la pensa come noi.

Condividere le nostre emozioni negative con qualcuno che possa capirci è un buon rimedio per stare psicologicamente meglio. Ciò però non sempre è possibile, in quanto chi vorremmo vicino a noi nei momenti di sconforto non sempre è a nostra disposizione. Altre volte si ha la percezione di non essere capiti da nessuno.

Questo per vari motivi, ma soprattutto perché spesso nei momenti di tristezza vogliamo dagli altri sentirci dire quello che piacerebbe a noi, e non ciò che l’altro realmente pensa. Ciò spesso non accade, perché ogni individuo vive gli eventi in modo diverso, a seconda del significato soggettivo che viene ad essi attribuito. In momenti come questi, nei quali vi è un’alta percezione di scarsa comprensione da parte degli altri, la musica ci aiuta.

Sono i casi in cui la musica comunica qualcosa di soggettivo e spesso, a seconda dell’esperienza emotiva che noi stiamo vivendo, ci trasmette ciò che noi vorremmo sentirci dire nei momenti di difficoltà.

Ma il motivo per cui con intenzionalità si sceglie un brano dalla tonalità triste non sempre è una strategia volta a sentire comprensione attorno.

Un ulteriore studio messo a punto da Lundqvist e all (2009), volto ad esplorare in che misura l’ascolto della musica evoca emozioni nei soggetti coinvolti, ha evidenziato che (anche mediante l’analisi delle espressioni facciali messe in atto dagli ascoltatori) la risposta emotiva è coerente con i brani ascoltati, e quindi una canzone triste da luogo a un’emozione di tristezza.

Anche i risultati dello studio di Hunter mettono in luce che l’ascolto di una canzone, che sia triste oppure allegra, genera un’emozione coerente con il brano ascoltato, e quindi una musica malinconica stimola tristezza. Il medesimo risultato si evince anche in un ulteriore studio, dove i brani non venivano scelti intenzionalmente dai soggetti bensì venivano attivati a discrezione dello sperimentatore, ed anche in questo caso emerge che una canzone triste dà luogo ad un’emozione analoga di tristezza (Zentner e all, 2008)

Ulteriori motivazioni relative al perché si cerca una musica malinconica da ascoltare nei momenti in cui l’umore è basso sono le seguenti (Konečni, 2008):

  • C’è chi ammette di non voler sollevare il proprio morale a seguito di un evento ritenuto triste, piuttosto si cerca di restare il quanto più possibile sintonizzati con la propria emozione, al fine di analizzarne bene il motivo per cui ci si sente così giù. E l’ascolto di una musica triste permette questo.
  • Altri soggetti dichiarano che un brano malinconico aiuta in un certo modo a sfogare e ad esperire al meglio la propria emozione. Ad esempio potrebbe condurre ad un pianto liberatorio, al termine del quale ci si sente meglio.
    In questi casi una canzone triste non solleva il morale. Tutt’altro: fa sì che l’umore resti giù, con possibilità che si abbassi ulteriormente.

Quindi l’intenzionalità di ascoltare una canzone malinconica nei momenti in cui ci si sente giù di corda non sempre porta con sé una conseguenza positiva al malessere emotivo.

Ciascun individuo ha la propria strategia con la quale affrontare i momenti da lui percepiti come difficili, e l’ascolto della musica viene concepito come un buon rimedio alla tristezza, per i vari motivi sopra esposti.

Ma è pur vero che spesso canzoni tristi non rialzano l’umore, anzi, al contrario, inducono tristezza.

Una tristezza che molti individui percepiscono in parte come positiva, perché si sentono maggiormente compresi; perché quella canzone permette un’analisi più approfondita del proprio stato d’animo; perché consente un ottimo sfogo del proprio dispiacere; o infine perché potrebbe trasmettere un messaggio di speranza relativo al fatto non si è soli nell’affrontare una personale difficoltà.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Supercondriaco: ridere fa bene alla salute (2014) – Cinema & Psicologia

Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute (2014).

Regia di Dany Boon. Interpretato da Dany Boon, Alice Pol, Kad Merad.

Trama

Romain Faubert vive a Parigi ed è ipocondriaco. Il suo medico curante, Dimitri Zvenka, diventa il suo unico amico. Il medico che non sopporta le eccessive preoccupazioni per le malattie cerca di liberarsi del fastidioso e invadente paziente in tutti i modi. A seguito di vari tentativi risultati inutili pensa bene di metterlo a contatto con i profughi provenienti da un paese dell’Europa dell’est che fuggono da una feroce dittatura militare. Per Romain che teme anche di scambiare un bacio durante il capodanno è una prova estrema. Nel centro d’accoglienza, dove Dimitri presta servizio come volontario, viene scambiato per il leader della resistenza del paese di provenienza dei rifugiati politici. Anna, sorella di Dimitri, lo aiuta a scappare, lo ospita a casa e se ne innamora. Il falso Anton Miroslav, eroe della resistenza, viene riconosciuto e riportato in patria. Incarcerato dovrà convivere con scarafaggi e topi in una galera dalle condizioni igieniche pessime. Anna e Dimitri si mobilitano con le forze di polizia francesi e riescono a liberare il falso rivoluzionario, che tornato in patria si sposa con la sorella del suo medico curante. La sua ipocondria sembra si sia finalmente risolta ma il finale del film riserva una sorpresa.

Motivi d’interesse

Dany Boon, dopo il successo di Giù al Nord, presenta una descrizione didascalica di una persona che avverte su di sé ogni sintomo di quasi tutte le malattie e riversa la sua ansia sulle persone a lui vicine. Persino scambiarsi un bacio a capodanno è un rito barbaro, le norme igieniche vanno rispettate per evitare possibili contagi infettivi.

La narrazione si snoda grottesca, con il protagonista vittima di qui pro quo che lo espongono a situazioni in cui il suo bisogno di controllo non può esercitarsi. La sua solitudine – impossibile essere amico di un ipocondriaco lamentoso, ansioso con un unico interesse, le malattie – gli impone di ripiegare sull’unica persona con la quale negli anni ha intrattenuto rapporti, il suo medico curante. Non che il medico sia molto felice di queste attenzioni, anzi prova in tutti i modi a liberarsi del fastidioso incomodo ma non ci riesce, escogita una serie di espedienti ma Romain gli è sempre appiccicato addosso, alla ricerca di rassicurazioni.

Tra fraintendimenti psicosomatici, finte emicranie, fobie per batteri e virus e uso smodato di amuchina il film ripropone ad oltranza lo stesso tema: l’eccessiva preoccupazione dovuta alla convinzione di avere una malattia causata dalla lettura errata di sensazioni corporee che persiste nonostante un’accurata valutazione medica escluda la presenza di una condizione patologica, tale da giustificare la preoccupazione ipocondriaca.

Gli studi dei medici sono pieni di pazienti eccessivamente preoccupati del loro stato di salute che richiedono continuamente la prescrizione di esami diagnostici e di farmaci facendo innalzare il debito pubblico della sanità nel nostro paese. Tentano di essere certi di non avere malattie e hanno bisogno di un controllo continuo che possa rassicurarli. La preoccupazione comporta importanti compromissioni sociali, lavorative e in altre aree importanti della vita di questi soggetti.

Il DSM5 (APA, 2014) ha definito una nuova categoria, il disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati, dove sono stati inseriti il disturbo da sintomi somatici e il disturbo da ansia di malattia. Il primo ricomprende il 75% degli ipocondriaci diagnosticati con i vecchi criteri del DSM IV-TR (APA 2000), mentre il secondo copre il restante 25%.

Il nuovo manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha risposto alla necessità di disporre di un numero maggiore di “categorie” per classificare i disturbi ipocondriaci messa in evidenza da diversi autori (Taylor e Asmundson, 2004; 2009).

I criteri elencati per il disturbo da sintomi somatici sono:

A) Uno o più sintomi somatici che procurano disagio o portano ad alterazioni significative della vita quotidiana.

B) Pensieri, sentimenti o comportamenti eccessivi correlati ai sintomi somatici o associati a preoccupazioni relative alla salute, come indicato da almeno uno dei seguenti criteri:
1. Pensieri sproporzionati e persistenti circa la gravità dei propri sintomi;
2. Livello costantemente elevato di ansia per la salute o per i sintomi;
3. Tempo ed energie eccessivi dedicati a questi sintomi o a preoccupazioni riguardanti la salute.

C) Sebbene possa non essere continuativamente presente alcuno dei sintomi, la condizione di essere sintomatici è persistente (da più di 6 mesi) (DSM5 – APA, 2014, p.359).

I criteri del disturbo da ansia di malattia sono:

A) Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.

B) I sintomi somatici non sono persistenti o, se presenti, sono di lieve intensità. Se è presente un’altra condizione medica o vi è un rischio elevato di svilupparla la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.

C) E’ presente un elevato livello d’ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo al proprio stato di salute.

D) L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute (per es., controlla il corpo) o presenta un evitamento disadattivo (per es. evita visite e ospedali)

E) La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi, ma la specifica patologia temuta può cambiare in tale periodo di tempo.

F) La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale, come il disturbo da sintomi somatici, il DAP, il DAG, il BDD, il DOC, o il disturbo delirante tipo somatico (DSM5 – APA, 2014, p.364).
In definitiva, il disturbo da sintomi somatici viene diagnosticato quando sono presenti significativi sintomi somatici, al contrario, gli individui con disturbo da ansia di malattia hanno sintomi somatici minimi e sono preoccupati principalmente dall’idea di essere malati.

Il nostro Romain sarebbe diagnosticato come disturbo da ansia di malattia.
Sperimenta molti “falso allarme” dicendo a se stesso “Stavolta è andata bene. La prossima volta potrebbe essere una cosa seria!”. Consolida così le credenze disfunzionali.

Attiva coping maladattivi: raccoglie molte informazioni che aumentano l’incertezza; chiede aiuto e così rinforza l’idea di essere debole e fragile; si sottopone a numerose indagini diagnostiche che acuiscono l’ansia; riceve spiegazioni parziali e non accurate dai medici che non escludono l’assenza di malattie; ricerca la diagnosi sicura al 100%.

L’immagine di sé è caratterizzata dall’assunzione di essere una persona fragile, vulnerabile, debole, facile alle malattie. L’immagine di debolezza è sul piano fisico (vulnerabilità alle malattie, faticabilità) e sul piano psicologico (tendenza a provare emozioni esagerate, ad avere difficoltà nel controllarle). Gli scopi che persegue sono di non essere malato, di non essere debole e ansioso, di rispettare una regola di prudenza.
Una caratteristica che mette in evidenza il finale del film è che il decorso di questo disturbo è cronico, persiste per anni nel 50% dei casi (APA, 2014).

Romain, agitatissimo, vestito del solo accappatoio, porta al pronto soccorso il figlio perché ha messo i piedi nel pediluvio della piscina, anziché saltarlo.

 

Indicazioni per l’utilizzo

Può essere una traccia ironica per ingaggiare il disputing con il paziente sulle sue credenze disfunzionali e i suoi circoli viziosi di mantenimento, quando però la sofferenza del paziente sia stata validata e la relazione terapeutica consolidata.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 4th ed, Text Revision. Washington, DC: American Psychiatric Association.
  • American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 5th ed. Arlington VA. Tr. it. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM 5. Milano: Cortina, 2014.
  • Taylor, S., Asmundson, G.J.G. (2004) Treating Health Anxiety. A Cognitive-behavioral approach. New York, Guilford Press.
  • Taylor, S., Asmundson, G.J.G. (2009) “Hypochondriasis and Health anxiety” in Martin, M.A., Stein, M.B. (a cura di) Oxford Handbook of Anxiety and Related Disorders, Oxford University Press.

 

Un programma di training psicologico per il trattamento della sindrome del colon irritabile

FLASH NEWS

Uno studio pilota condotto presso il Massachusetts General Hospital e pubblicato in questi giorni su PLOS ONE ha dimostrato che un programma di training psicologico per promuovere una risposta di rilassamento può avere un significativo impatto clinico nel trattamento della sindrome del colon irritabile e della sindrome del colon infiammato.

Il training impatterebbe inoltre nell’espressione dei geni deputati alla risposta del corpo agli genti infiammatori e allo stress.

In letteratura molti studi hanno già dimostrato il ruolo dello stress nell’ esacerbare i due disturbi gastrointestinali sopracitati e come fattore di mantenimento di un circolo vizioso tra sintomatologia somatica e psicologica (ansia e stress). Altri studi hanno dimostrato l’efficacia di interventi a carattere psicologico in grado di interrompere il circolo vizioso e migliorare la sintomatologia in questo tipo di disturbi gastrointestinali.

Lo studio pilota ha reclutato 48 soggetti- 19 dei quali con diagnosi di disturbo del colon irritabile e 29 dei quali con diagnosi di disturbo del colon infiammato- che hanno partecipato a un programma di intervento psicologico di 9 settimane finalizzato alla riduzione dello stress che includeva anche 20 minuti di training di rilassamento.

I partecipanti sono stati testati ripetutamente utilizzando un’ampia varietà di strumenti standardizzati che consideravano sia i sintomi gastrointestinali, che le variabili psicologiche (ansia, stress, dolore percepito); inoltre sono stati raccolti campioni di sangue per lo studio dell’espressione genica e dei fattori infiammatori. Al termine dell’intervento i pazienti dunque hanno avuto un miglioramento nei sintomi gastrointestinali, nella sintomatologia ansiosa e nell’autoefficacia percepita (ad esempio, si è notato che i soggetti si sentivano più in grado di affrontare il dolore, con un decremento della variabile definita “catastrofizzazione del dolore”).

Soprattutto dalle analisi è emerso un cambiamento dell’espressione di molti geni direttamente coinvolti nelle modalità di risposta allo stress e ai fattori infiammatori: il cambiamento a seguito del training di riduzione dello stress consisterebbe in un decremento della loro espressione. In particolare il pathway controllato dalla proteina NF-kB sembra essere uno di quelli maggiormente influenzati dal training di rilassamento.

Pur essendo uno studio pilota non controllato, nel senso che non vi è alcun gruppo di controllo, e con un numero esiguo di soggetti, i risultati sono meritevoli di attenzione per la prospettiva multidisciplinare tra biologia, medicina e psicologia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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