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Ispectrum: un serious game per l’autismo

Si tratta di un serious game che offre al giocatore autistico tre diversi ambienti di lavoro virtuale (un ufficio, un supermercato e un vivaio) in cui sperimentarsi nel ruolo di dipendente, esercitando le sue capacità lavorative e soprattutto comunicative e di relazione sociale.

State of Mind ha già ospitato la descrizione di questo interessante progetto attraverso le parole del dott. Antonio Ascolese, direttamente coinvolto nell’ideazione e nella progettazione del serious game dedicato all’inserimento lavorativo di persone autistiche. Io l’ho voluto provare insieme ad un paio di ragazzi autistici con i quali lavoro da diversi anni ed ecco cosa ne penso.

In Europa il tasso di disoccupazione degli autistici diagnosticati è superiore al 90%, un dato sconcertante se si pensa che buona parte della popolazione autistica ha un quoziente intellettivo nella norma ed eccelle in alcune aree di competenza di notevole importanza nel mondo lavorativo attuale. Credo che la responsabilità di tale scenario sia ancora una volta a carico della popolazione neurotipica che negli anni ha oppresso sotto il peso di richieste sempre meno inclusive e più conformiste tutta la popolazione autistica, ostacolando il sereno sviluppo della sua specificità. Fatta questa doverosa premessa, iSpectrum è una buona idea di partenza.

Per chi non ha letto mai nulla a proposito, si tratta di un serious game che offre al giocatore autistico tre diversi ambienti di lavoro virtuale (un ufficio, un supermercato e un vivaio) in cui sperimentarsi nel ruolo di dipendente, esercitando le sue capacità lavorative e soprattutto comunicative e di relazione sociale.

Trattandosi di una realtà semplificata non c’è da aspettarsi che quanto acquisito attraverso questo canale possa magicamente tradursi in un’abilità capace di manifestarsi con successo nell’imprevedibile mondo delle relazioni sociali. E’ ovvio dunque che questo gioco non è che un utile esercizio all’interno di un programma di allenamento più ampio che deve coinvolgere anche gli altri attori presenti negli ambienti lavorativi.

Se è fuori dubbio l’utilità di migliorare la comprensione di un autistico circa le norme che regolano le relazioni sociali, lo sarebbe anche una maggiore conoscenza da parte dei colleghi delle caratteristiche che accomunano la maggior parte degli autistici, così da poter contribuire a creare un ambiente lavorativo quanto più possibile sereno per tutti. Credo infatti sia importante che un autistico sia in grado di rispettare le gerarchie e darne dimostrazione attraverso l’interazione con un superiore, come insegna il gioco, quanto che quest’ultimo sappia quali caratteristiche deve avere un’istruzione verbale per essere di facile comprensione per l’interlocutore autistico.

Ispectrum è dunque un’idea migliore se effettivamente inserita all’ interno di un programma di inserimento lavorativo che coinvolga attivamente il contesto sociale interessato. Ispectrum potrebbe anche essere un buon inizio per realizzare nuovi strumenti terapeutici nell’ambito della psicoterapia Cognitivo Comportamentale indirizzata agli autistici.

L’insieme delle abilità che descrivono la competenza sociale sono tra le più difficili da apprendere per molti di loro. Autistici famosi, come l’americana Temple Grandin, si descrivono costantemente impegnati nella comprensione delle regole che governano le relazioni sociali, una sfida che si trovano ad affrontare da bambini ma che li accompagna lungo tutto il ciclo di vita, rinnovata dalle sempre nuove richieste dell’ambiente sociale in cui sono inseriti. Si tratta di un insieme di abilità che si possono imparare sui libri ma che si possono padroneggiare solo sperimentandole e iSpectrum è un ambiente protetto in cui esercitarsi, virtualmente, in prima persona.

Proprio la centralità delle difficoltà di interazione sociale nei soggetti autistici suggerisce l’utilità di offrire occasioni di apprendimento simulato dalla tenera età offrendo ambienti virtuali come la scuola, la festa di un amichetto, la gelateria o il parco giochi. In questi contesti il bambino potrebbe esercitarsi in competenze di base come l’attenzione condivisa, il riconoscimento dello stato emotivo e dei pensieri altrui, l’importanza del volume e del tono di voce e le buone maniere.

La realtà virtuale potrebbe affiancare altri strumenti terapeutici ideati per favorire l’acquisizione di queste competenze, come per esempio le Comic Strip Conversations (CSC), venendo a soccorso degli psicoterapeuti che come me sono quotidianamente impegnati ad adattare metodi e strumenti pensati per i neurotipici alla loro clientela autistica.
Mi auguro quindi che l’esperienza iSpectrum evolva in nuove proposte indirizzate a tutte le fasce d’età, offrendo una maggiore personalizzazione dello strumento perchè quando si ha l’ambizione di offrire un prodotto utile all’eterogenea popolazione autistica non si può prescindere dall’individualizzazione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

I 400 colpi e la devianza minorile – Cinema & Psicologia

I 400 colpi di Truffaut ci parla in qualche modo di devianza, richiamando i concetti della statistica morale e di Durkheim e lanciando un chiaro grido contro l’abbandono ed evidenziando quanto il fattore ambiente possa essere importante nelle azioni devianti minorili.

Per devianza si intende comunemente un comportamento adottato da una persona che entra in conflitto con le norme sociali.

Diverse sono le teorie legate alla spiegazione dei comportamenti devianti:  le teorie eziologiche (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) che interpretano il comportamento deviante come “il risultato di una decisione razionale dell’individuo volta ad ottenere benefici nel contesto di una valutazione su norme e sanzioni”, le teorie biologiche (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) che spiegano i comportamenti devianti “attribuendone la responsabilità a caratteristiche fisiche e biologiche”; la teoria del controllo sociale (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna), le teorie della subcultura (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) e la statistica morale (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) che spiega invece il comportamento deviante come “determinato da fattori ambientali e sociali che hanno influenza sul soggetto”.

Prima ancora di tutte queste teorie, E. Durkheim (F. P. Williams e M.D. Mc Shane 2002- Devianza e criminalità – Il Mulino Bologna) già nel 1893 sosteneva che:[blockquote style=”1″] “non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo”. [/blockquote]

In altre parole un atto può essere considerato deviante solo in riferimento al contesto socio-culturale e dipende dal contesto che lo sanziona come tale.
Les Quatre Cents Coups di Trouffot ci parla in qualche modo di devianza, richiamando i concetti della statistica morale e di Durkheim e lanciando un chiaro grido contro l’abbandono ed evidenziando quanto il fattore ambiente possa essere importante nelle azioni devianti minorili.

Apri pista del movimento cinematografico della Nouvelle Vouge, “Les Quatre Cents Coups” viene tradotto letteralmente in italiano con il titolo “i 400 colpi”, erroneamente, distorcendone il reale significato che voleva essere inteso come il modo di dire “combinarne di tutti i colori”.

La storia vede protagonista il piccolo Antoine Doinel (Jean-Pierre Leaud) che con una serie di provocazioni è alla ricerca disperata di attenzione e amore.  Gli adulti (maestro, genitori, giudici) manifestano una rigidità che crea l’effetto contrario al buon andamento educativo del giovane. Il film è in qualche modo autobiografico e il personaggio Antoine Doinel (alter ego di Trouffot che ebbe un’ infanzia ostile) sarà interprete anche di altri 4 film che lo vedranno protagonista, in diversi periodi della vita (adolescenza, maturità, età adulta) e in cui affronterà tematiche sempre propriamente legate al suo sviluppo: “[blockquote style=”1″]L’amore a vent’anni, baci rubati, non drammatizziamo…è solo questione di corna e l’amore fugge[/blockquote]”.

Il ciclo Antoine Doinel è stato il primo esperimento unico e d’avanguardia nel cinema (ci ha provato recentemente Richard Linklater con la pellicola da lui scritta e diretta “Boyhood” chiaramente ispirata all’opera del regista francese) e attraverso questo personaggio Trouffot si traspone e parla anche di sé, delle istituzioni, dei rapporti genitori figli, dell’indifferenza, della voglia di affermazione e ricerca della propria identità.

Per devianza abbiamo visto si intende la tendenza a compiere gesti trasgressivi nei confronti dell’autorità e dell’ambiente, è una scelta di comportamento che l’adolescente assume per “andare contro”. E’ l’incapacità ad esprimere in modo sereno i propri conflitti e bisogni ai genitori e che nasce dall’incapacità e non volontà all’ascolto di questi ultimi. Il conflitto è interno ma si manifesta con azioni.

Il comportamento quindi è chiaramente il risultato del contesto in cui vive Antoine, nel film non sorride mai, quando ha il colloquio con la psicologa chiarifica di netto la sua posizione, infatti tutte le giustificazioni che dà sembrano avere un senso, non sono gravi ai suoi occhi e neanche agli occhi di noi spettatori che abbiamo seguito il personaggio e non riusciamo ad attribuirgli colpe, poiché essenzialmente legate alle circostanze. Le istituzioni non aiutano, i genitori sono assenti e oppositivi e quando viene messo in un istituto rieducativo, lo abbandonano definitivamente. Truffaut si insinua contestualizzando il crimine, le gesta del giovane Antoine non sono criminali perché attraverso la narrazione non urtano la coscienza comune anzi, si tende a giustificarle.

Rileggendo le diverse teorie, né scioglie in parte il cruccio, ne dà un’interpretazione pienamente giustificabile, non assoluta ma da non biasimare.
E’ importantissimo quindi sottolineare come l’arte cinematografica quando non strettamente correlata al mero intrattenimento ponga importanti quesiti sociologici, apra questioni di rilevanza, metta in crisi certezze assodate, sensibilizzi e faccia riflettere. Il fatto che Antoine Doinel sia l’alter ego del regista ne giustifica ancor di più l’interpretazione, avendo infatti sulla sua pelle fatto esperienza di un’ infanzia deviata, non si può che accoglierne la narrazione e giustificarne il divenuto capolavoro che non si può non citare nella storia del cinema.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Rabbia & Impulsività: le conseguenze sullo stile di guida e statistiche incidenti

FLASH NEWS

Ricerche passate avevano già suggerito che persone caratterizzate da tendenza all’ impulsività e rabbia di tratto corrono maggiori rischi di avere un atteggiamento aggressivo anche alla guida, rispetto agli individui che non possiedono tali caratteristiche.

Una ricerca più recente conferma i precedenti risultati, contribuendo ad approfondire la tematica della guida pericolosa e offrendo degli spunti per la messa in atto di una campagna di prevenzione che educhi i guidatori più aggressivi ad un comportamento più paziente e prudente. 

Coloro che si arrabbiano di più di fronte a certi imprevisti, quali ad esempio un guidatore particolarmente lento, deviazioni stradali o qualsiasi situazione che comporti un rallentamento del traffico, dovrebbero prendere coscienza delle loro reazioni per imparare a controllarle e gestirle meglio, diminuendo in questo modo il rischio di incidenti stradali.

Un nuovo studio, “Trait predictors of aggression and crash-related behaviors across drivers from the United Kingdom and the Irish Republic”, di Amanda N. Stephens del Accident Research Centre, Monash University, Australia, and Mark J. M. Sullman della Cranfield University, Inghilterra, è stato recentemente pubblicato dalla Society for Risk Analysis.

La ricerca coinvolgeva 268 maschi e 281 femmine inglesi e irlandesi in possesso di patente, con età compresa tra i 18 e i 75 anni, ai quali era richiesto di compilare un questionario online. Esso era basato su sistemi specifici per la misurazione di certi tratti comprendendo, ad esempio, il Driving Anger Expression Inventory e il Road Rage Questionnaire, i quali includono item relativi a certi comportamenti: tendenza a gridare mentre si guida o ad insultare gli altri conducenti, cercare di ferirli, colpire intenzionalmente un altro veicolo o ferire un altro guidatore.

Lo scopo degli autori era quello di verificare una supposta relazione causale tra tratti comportamentali e tendenza a provocare incidenti stradali, e confrontare questo modello con i dati relativi alla popolazione inglese e irlandese. I risultati ottenuti mostrano l’esistenza di una correlazione tra tratti di personalità quali tendenza ad annoiarsi, impulsività, ricerca di sensazione e la propensione ad uno stile di guida piuttosto aggressivo. Questo, a sua volta, contribuirebbe a creare le condizioni per un incidente stradale.

Lo studio, dunque, conferma l’ipotesi iniziale, secondo cui tratti rabbiosi predirebbero uno stile di guida improntato all’aggressività, il quale sarebbe infine alla base di molti incidenti. Tale affermazione si è dimostrata vera sia per i conducenti inglesi che per quelli irlandesi.

Per quanto questo studio confermi ipotesi precedenti, esso contribuisce tuttavia ad approfondire tali tematiche. La più importante novità è quella di un campione proveniente dalla popolazione generale: gli studi passati, infatti, si sono sempre basati su dati provenienti da studenti americani, limitando in questo modo la possibilità di generalizzare i risultati. Inoltre, questa ricerca include per la prima volta cittadini irlandesi.
Sarebbe allora importante, sulla linea di tale scoperte, mettere in atto strategie di prevenzione degli incidenti stradali, programmi che rendano i guidatori più consapevoli delle loro condizioni e che li rendano in grado di gestirle nel migliore dei modi, in un mondo dove guidare è diventato necessario ma vogliamo ancora sentirci sicuri.

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BIBLIOGRAFIA:

EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita!

EdiTouch non è solo il nome del primo Tablet in Europa pensato il trattamento dei disturbi dell’apprendimento, EdiTouch nasconde molto di più…

EdiTouch non è solo il nome del primo Tablet in Europa pensato il trattamento dei disturbi dell’apprendimento, EdiTouch nasconde molto di più: nasce dall’idea di un padre, l’ingegnere informatico Marco Iannone che, accortosi delle difficoltà scolastiche del figlio dovute alla sua dislessia, non si è lasciato abbattere ma ha cercato di pensare a uno strumento mirato ad aiutare bambini e ragazzi che presentano disturbi dell’apprendimento.

EdiTouch, che all’aspetto si presenta molto simile a un quaderno cartaceo, contiene numerose applicazioni di facile utilizzo, pensate grazie al contributo di genitori, logopedisti e terapisti esperti in DSA. Tra queste troviamo un e-book reader, una calcolatrice parlante, un’app pensata per la creazione di mappe concettuali e molto altro ancora. Vi sono inoltre diverse versioni del tablet, pensate rispettivamente per la scuola elementare, la scuola media e la scuola superiore.

L’efficacia del Tablet è stata inoltre testata con una sperimentazione all’interno di otto scuole romane. Per questi e per altri motivi, un’attenzione speciale è stata riservata a EdiTouch dall’ultimo Annual Report on innovation in materia di Special Educational Needs network (SENnet).

Per maggiori informazioni vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato e al sito internet di EdiTouch.

 

Un dispositivo che, per come concepito, può quindi diventare molto utile anche come strumento integrativo per tutti quei ragazzi con bisogni educativi speciali (BES) o addirittura per i non dislessici. Per questo il progetto va avanti senza sosta (…) con il sogno di avviare la sperimentazione anche all’estero e far conoscere in tutta Europa cosa può fare la buona tecnologia.

 

 

EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita!Consigliato dalla Redazione

EdiTouch: combattere la dislessia a tocchi di dita! - Immagine: 53373200
È munito di software pensati per risolvere i Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) ed è stato sviluppato da un ingegnere informatico. (…)

Tratto da: Repubblica.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Linus, il controllo genitoriale e il senso di colpa – Peanuts Nr. 04

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA  (04)

Il tono comunicativo che la madre di Linus utilizza nella lettera esprime apparentemente calore, protezione e desiderio di cura verso il figlio. Allora perché Linus, invece di sentirsi amato e accudito, si sente in colpa?

Linus e il senso di colpa - Peanuts Nr.04

Analizzando da vicino i vari passaggi, diventa sempre più chiara la strategia persuasiva utilizzata dalla madre, finalizzata, più o meno consapevolmente, a manipolare il comportamento e le scelte del figlio. Se Linus non dovesse seguire i suoi consigli, che cosa succederebbe? Con molta probabilità, lei si mostrerebbe delusa e lui non all’altezza delle aspettative genitoriali.

La manipolazione è quindi a fondo cieco. Qualunque decisione prenda Linus, dovrà rinunciare a qualcosa e non sarà felice: se asseconda la madre abbandonerà la possibilità di scegliere, se non la asseconda perderà la sua approvazione. La critica può essere immediata:

“Come fa un bambino a sapere cosa sia giusto per lui? Sono le madri che si devono occupare del bene dei loro figli!”

Vero. Ma l’errore in cui talvolta si cade è quello di confondere il bene del figlio con i propri desideri, i propri gusti e i propri interessi.

Ad esempio, Linus potrebbe odiare stare al sole, oppure potrebbe essere timido e preferire essere chiamato dalla maestra piuttosto che offrirsi volontario. E’ vero che mangiare le carote fa bene, ma lui potrebbe preferire i pomodori.

La madre pone l’accento non sul gusto personale di Linus, ma sull’idea generalizzata che mangiare le carote sia giusto e necessario per raggiungere buoni risultati, ovvero fornisce le indicazioni come se fossero le uniche oggettivamente plausibili:

“Si fa così perché è giusto”

 

Tamponico - Mammese - Autore dell'immagine: Costanza Prinetti
Madri e manipolazioni

I bambini abituati a questa modalità rischiano di non saper più distinguere il loro punto di vista dalle aspettative altrui e di essere tiranneggiati dal senso di colpa, ovvero da una visione inadeguata e svalutante di sé, che si attiva nel momento in cui non si rispettano gli standard imposti dal contesto familiare.

Il tema del controllo psicologico come strategia genitoriale è stato oggetto di interessanti e recenti studi. E’ una strategia educativa finalizzata a indurre il figlio al raggiungimento di particolari risultati, spesso attraverso modalità intrusive e iperprotettive (Grolnick et al., 2002).

Quando i genitori utilizzano modalità controllanti, vengono meno le caratteristiche supportive in grado di sviluppare il senso di indipendenza nel bambino, che gli permette di esplorare da solo l’ambiente e di prendere decisioni in autonomia (Patrizi et al., 2010).

 

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BAMBINIGENITORIALITA’

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Abraham J. Twerski. Su con la vita, Charlie Brown! Ed. Oscar Mondadori, 2000.pag.67
  • Patrizi C., Rigante L., De Matteis E., Isola L., Giamundo V. (2010). Caratteristiche genitoriali e stili di parenting associati ai disturbi internalizzanti in età evolutiva. Psichiatria e Psicoterapia, 29, 2, 63-77.
  • Grolnick W.S., Gurland S.T., DeCourcey W., Jacob K. (2002). Antecedents and consequences of mothers’ autonomy support: An experimental investigation. Developmental Psychology, 38, 143-155.

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

L’ansia e le sue manifestazioni – Introduzione alla psicologia NR. 14

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (14)

 

 

L’ansia è un’emozione preventiva, poiché ci mette in guardia circa i possibili pericoli che potrebbero verificarsi da un momento all’altro. L’ansia, però, è anche una emozione reattiva, perché prepara all’azione aumentando i livelli di performance.

 

Esistono periodi di vita in cui si è assaliti costantemente dalla tensione al punto da terminare le risorse fisiche e cognitive disponibili, note fonti di fronteggiamento di situazioni a forte stress. Quando viviamo queste situazioni siamo costantemente in allerta, quindi siamo in ansia.

L’ansia è un’emozione preventiva, poiché ci mette in guardia circa i possibili pericoli che potrebbero verificarsi da un momento all’altro. Per questo è necessario essere guardinghi di fronte agli eventi ritenuti pericolosi, presunti o reali, che potrebbero palesarsi anche senza nessun preavviso.

L’ansia, però, è anche una emozione reattiva, perché prepara all’azione aumentando i livelli di performance.

Quindi, se l’ansia dura il tempo necessario ad affrontare una prestazione, è funzionale e adattiva e ci aiuta a perseguire al meglio l’obiettivo. Quando, invece, l’ansia perdura, supera una certa soglia e comincia ben prima di effettuare un compito mantenendosi nel tempo, allora diventa problematica o patologica. Succede che l’eccessiva ansia porta a superare il proprio autocontrollo, passando a una situazione altamente disfunzionale, perché si rimugina costantemente.

La sintomatologia con cui l’ansia si manifesta, può essere:

  • Fisica: tachicardia, aritmie, bocca asciutta, nausea, diarrea, stipsi, vampate di calore, vertigini, tensioni muscolari, nodo alla gola, palpitazioni, sudorazione, dispnea, sensazione di soffocamento, tosse, gonfiore addominale, difficoltà di minzione, perdita di desiderio sessuale, astenia, eruzioni, assenza di appetito, affaticamento e macchie cutanee, prurito;
  • Psichica o Cognitiva: disturbi dell’addormentamento, Insonnia, difficoltà di concentrazione, irritabilità, nervosismo, paure di non riuscire a farcela, di morire, di perdere il controllo, apprensione, incapacità a rilassarsi, emicrania, perdita di equilibrio e incoordinazione motoria.

Le persone affette da ansia patologica, invasiva in ogni campo, sono costantemente tese e impaurite, perché si preoccupano anche di un nonnulla e pensano che la catastrofe sia sempre dietro l’angolo.

Per questo evitano impegni relazionali, sociali, lavorativi e sentimentali, fino a rinunciare a vivere.

L’ansia, a questo punto, diventa insostenibile e angosciante limitando gravemente la vita quotidiana.

L’ansia è l’emozione comune a molti disturbi, ognuno dei quali ha caratteristiche sintomatologiche proprie. I principali sono:

  • Disturbo d’attacco di panico
  • Disturbo d’ansia generalizzata
  • Disturbo ossessivo-compulsivo
  • Disturbo di ansia sociale
  • Fobie specifiche
  • Disturbo da stress post-traumatico
  • Disturbi dell’alimentazione

Per concludere, i disturbi d’ansia possono essere curati ottenendo ottimi risultati che si mantengono stabili nel tempo. I trattamenti più diffusi sono la psicoterapia cognitivo-comportamentale coadiuvata, in alcuni casi, dall’assunzione di una terapia farmacologica con ansiolitici e antidepressivi.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Effetti persistenti del trauma: i meccanismi ormonali e molecolari – Report dal Convegno SOPSI

Il trauma è la reazione ad un evento che interrompe la continuità esistenziale, un’esperienza in cui il soggetto avverte una minaccia alla propria vita o alla vita di quelli che lo circondano, senza la possibilità di fronteggiarla.

Ormai è noto che trauma e stress sono due fenomeni distinti. Nella vita quotidiana viviamo molti eventi stressanti, sono parte della nostra esistenza, ad esempio un trasloco o il matrimonio, ma le conseguenze sull’ organismo sono a breve termine, gli effetti dello stimolo stressante (stressor) terminano quando cessa lo stimolo. Diversamente il trauma è la reazione ad un evento che interrompe la continuità esistenziale, un’esperienza in cui il soggetto avverte una minaccia alla propria vita o alla vita di quelli che lo circondano, senza la possibilità di fronteggiarla. Gli effetti del trauma non terminano quando l’esperienza traumatica si conclude e possono durare anche tutta la vita.

La ricerca negli ultimi trent’anni ha cercato di rispondere alla domanda se gli effetti a lungo termine siano una continuazione della risposta o qualcosa di diverso. Dall’esperienza clinica sappiamo che il trauma opera una trasformazione profonda nel superstite, di tipo persistente e perdurante. I paradigmi classici dello stress non sono d’aiuto per spiegare questi processi. Grazie alla biologia molecolare e all’epigenetica ovvero lo studio delle alterazioni genetiche che modificano il funzionamento del gene stesso, abbiamo scoperto che il trauma influenza il DNA, l’espressione genica, la struttura cerebrale, gli ormoni, la cognizione, la personalità, il comportamento e le future risposte allo stress.

E’ solo a partire dagli anni Ottanta che si incomincia a parlare di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD): un disturbo in cui gli effetti dello stress perdurano in assenza dello stressor. Le conoscenze che si hanno sul trauma fino a quel momento provenivano dalla cura dei reduci del Vietnam. Con l’apertura dell’ambulatorio per il trattamento dei PTSD presso il Mount Sinai Hospital di New York nel 1983, iniziano ad arrivare all’attenzione clinica della dr.ssa Yehuda e della sua equipe, i superstiti dell’Olocausto, ma anche i loro figli, questi ultimi presentavano sintomi riconducibili a un trauma come flashback, incubi, problemi relazionali e la pressione a dover compensare le perdite subite dai genitori. I sintomi, non venivano collegati direttamente, dai soggetti, con l’ Olocausto. Al contrario, riferivano che l’argomento era spesso oggetto di tabù nelle famiglie. Secondo i pazienti l’origine dei loro problemi era attribuibile all’ essere stati allevati da persone “danneggiate”, con problemi mentali.

Gli studi condotti sui superstiti e la loro prole confermano l’esperienza clinica: se è vero che non tutti quelli esposti al trauma sviluppano un PTSD è ormai accertato che gli effetti di un trauma possono essere intergenerazionali. Fino al 1983 la letteratura su ebrei e olocausto non si soffermava sulle conseguenze che l’esperienza aveva sulle generazioni successive, pochi erano gli studi in cui si sottolineava un legame tra l’essere sopravvissuti all’Olocausto e lo sviluppo di un PTSD, dalla letteratura emergeva solo la resilienza di questi superstiti e il successo sociale e lavorativo delle generazioni successive. La professoressa Yehuda ipotizza che, per gli ebrei, condividere quel dolore e i danni psicologici derivanti dall’internamento, avrebbe potuto costituire un’altra vittoria per il nazismo, la cosiddetta “politica della vittimizzazione”. Ma non si può lodare SOLO la resilienza, minimizzando le cicatrici che il trauma lascia.

Da allora sono state condotte diverse ricerche sui figli dei superstiti all’Olocausto. I quesiti a cui hanno cercato di rispondere la professoressa Yehuda e la sua equipe sono diversi: i figli dei superstiti vanno incontro a più disturbi mentali rispetto la popolazione generale? La vulnerabilità ai disturbi psichiatrici è qualcosa che viene trasmesso ai figli biologicamente oppure è il comportamento di questi genitori che ha modificato il genotipo dei figli rendendoli più vulnerabili verso le malattie mentali? Un trauma può portare modificazioni biologiche nel figlio, anche se non sono manifestate nel genitore?

I risultati delle ricerche sembrano confermare che i figli dei sopravvissuti all’Olocausto sono stati influenzati in molti modi dall’esperienza dei genitori.

Da uno studio condotto dalla dr.ssa Yehuda nel 1998 la probabilità di PTSD nei figli dei superstiti risulterebbe tre volte maggiore e presenterebbero una probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia maggiore del 50% rispetto alla popolazione generale. In un altro studio condotto in Ohio, su un gruppo di superstiti all’Olocausto, è stata rilevava una prevalenza del 50% di PTSD a 50 anni dall’evento, ma diversamente ai risultati del 1998, i figli di questi sopravvissuti presentavano il disturbo solo se uno dei due genitori aveva la stessa diagnosi, con un tasso di corrispondenza del 100%.

Per cercare di capire se le risposte acute al trauma sono universali o dipendono anche da caratteristiche soggettive, la dr.ssa Yehuda ha studiato i livelli di cortisolo in soggetti con PTSD. Il cortisolo è un ormone glucocorticoide, prodotto dalle ghiandole surrenali ed è coinvolto nel contenimento della risposta allo stress di tipo adrenalinico. Le ricerche hanno effettivamente mostrato una disregolazione in soggetti con PTSD dell’asse ipotalamico, da cui dipende il rilascio di questo ormone. In uno studio del 1998 è emerso che più bassi livelli di cortisolo dopo un trauma correlano con l’esordio del PTSD, perché non essendo contenuto l’arousal dal cortisolo, lo stato di eccitazione del sistema nervoso perdura nel tempo. I livelli di cortisolo nei campione testato sono stati significativamente più bassi, rispetto al campione di controllo (soggetti che avevano subito un trauma, ma non avevano sviluppato il PTSD). Nel 2000 lo stesso studio è stato replicato sui discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto: anche questi soggetti mostravano livelli più bassi di cortisolo anche senza PTSD, ma solo nel caso in cui il genitore aveva avuto un PTSD.

I soggetti testati nelle interviste cliniche riferivano di essersi sentiti trascurati durante l’infanzia, un dato che in letteratura risulta essere associato a livelli di cortisolo più bassi. Per stabilire quanto i livelli di cortisolo siano influenzati dall’esposizione all’ambiente (cioè un genitore con disturbo mentale) o siano dovuti ad un’alterazione biologica, la dr.ssa Yehuda ha condotto uno studio dopo la caduta delle Torri Gemelle su un campione di donne incinte. In follow up a 7 mesi dal parto i neonati di madri che avevano sviluppato un PTSD dopo l’11 settembre, avevano più bassi livelli di cortisolo. Ne deriverebbe che secondo questo studio il trauma influenza i figli prima della nascita.

Nel 2015 uno studio prospettico su superstiti dell’Olocausto e sopravvissuti all’11 settembre ha cercato di stabilire se il fenotipo per il PTSD sia trasmesso solo dalla madre o anche dal padre. I risultati mostrerebbero che effettivamente il fenotipo è diverso a seconda che il PTSD lo abbia la madre o il padre.

Le conclusioni a cui i ricercatori sono arrivati è che nello sviluppo di un PTSD abbiano un ruolo preponderante i meccanismi epigenetici, più che quelli genetici, non essendovi differenze a livello cromosomico, ma solo nella programmazione dei glutocorticoidi e che la programmazione epigenetica avvenga già nell’utero. Da ciò, conclude la dr.ssa Yehuda, non si sottintende che la madre abbia tutte le responsabilità, ma che anche il padre influisce nella trasmissione epigenetica, solo in maniera diversa, tramite meccanismi di modellamento durante lo sviluppo del bambino.

Questi studi si sono rivelati essenziali per la comprensione dei meccanismi alla base del trauma, mettendone in luce la natura epigenetica. Riuscire a capire l’interazione tra biologia ed esposizione ambientale potrebbe essere la chiave per definire il trattamento del disturbo in maniera più efficace.
Non possiamo cambiare il nostro DNA, ma possiamo cambiare il modo in cui funziona.

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Cosa si intende con la parola “Stress”?
Una completa definizione potrebbe essere la seguente: “Reazione interna a stimoli interni ed esterni che producono un’attivazione fisiologica e uno sforzo emotivo, che mettono in moto risposte cognitive o comportamentali” (Westen, 2002).

Non si tratta di qualcosa di piacevole in quanto lo stress viene dalla persona percepito come qualcosa dalla difficile gestione, che compromette tranquillità ed equilibrio, causando poi una reazione sgradevole.
La cosa potrebbe essere anche abbastanza gestibile se lo stress facesse la sua comparsa in situazioni impreviste o comunque isolate dal quotidiano. Questo perché in tali casi si tratterebbe di fenomeni sporadici, e che stressano raramente. Di contro viene generalmente percepito come un autentico problema se a stressarci fossero le situazioni di routine, quegli eventi che fanno parte della quotidianità, che si è costretti ad affrontare per forza, dai quali diviene difficile sottrarsi.

Una di queste situazioni (di routine, frequenti e necessarie) potrebbe essere il lavoro.
Osservando le statistiche degli ultimi anni emerge che circa un lavoratore su quattro dell’Unione Europea soffre di stress legato all’ attività lavorativa (Eurostats Statistics, 2004).
Questi dati non sono trascurabili, e infatti tale questione è stata considerata meritevole di una regolamentazione negoziale definita a livello europeo e nazionale.

La normativa di riferimento, riguardante la valutazione dei rischi da stress, è il nuovo D. lsg 81 introdotto nell’Aprile 2008, il quale sancisce l’obbligo per il datore di lavoro, a tutela della salute dei lavoratori, di valutare i rischi da stress lavoro – correlato (Deitinger e all, 2009).
Questo però non sempre avviene, o meglio non avviene in misura articolata e soddisfacente, soprattutto nel contesto della nostra nazione (Galli, Mencarelli, 2011).
Ciò è in parte anche dovuto al fatto che, una volta appurato che il personale lavorativo è stressato, si tende spesso a intervenire al fine di risollevarsi dalle tensioni presenti, senza analizzare bene quelle che sono le reali cause che determinano stress. Detto in termini più semplici: non vi è un’adeguata prevenzione.

È inoltre da tener presente che spesso il cosiddetto stress viene concepito come un qualcosa di positivo, uno stimolo insomma. Questo perché lo stesso lavoratore, osservandosi a posteriori dopo aver superato la fase stressante, percepisce lo stress come un elemento importante che gli è in parte servito ad avere la carica giusta per dare il meglio di sé.
Di certo lo stress è fondamentalmente una stimolazione, e in termini di adattamento è funzionale e necessario; è la forza motrice che ci porta all’ azione senza la quale saremmo inermi e passivi (Galli, Mencarelli, 2011).
Ciò che invece è nocivo è lo stress prolungato, il cosiddetto “stress cronico”.
Volendo fare un’accurata analisi è possibile asserire che lo stress è un vero processo, e si articola in fasi (Bonetti, 2011). Tre passaggi, e nello specifico:

Allarme: l’organismo viene stimolato e si attivano dunque una serie di processi psicofisiologici (quali potrebbero essere la tachicardia, l’affanno).
Resistenza: l’organismo, percepiti i campanelli d’allarme, tenta di adattarsi e prova a normalizzare i sintomi fisiologici.
Esaurimento: se lo stimolo stressante persiste, nonostante i tentativi di fronteggiarlo, ne viene fuori uno squilibrio psicofisico, e la naturale capacità di adattamento viene a mancare.

In ambito lavorativo lo stress viene considerato come una difficoltà di adattamento reciproco, tra l’individuo e l’organizzazione, che comporta uno squilibrio tra le richieste organizzative e le risorse personali del soggetto di affrontarle.
Volendo dare una definizione più precisa, lo stress dovuto al lavoro è un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore (Minchie, 2002).

Quali potrebbero essere le cause che scatenano tale processo sul luogo del lavoro?
Non vi sono dei veri e propri fattori causali, in quanto ogni situazione va considerata in relazione con le peculiarità personologiche di ogni singolo individuo, poiché ciascuno di noi attribuisce ad ogni evento un significato soggettivo.
Comunque varie ricerche hanno messo in luce una serie di fattori scatenanti (Falco e all, 2010). Questi i principali:
Mole di lavoro eccessiva: se la quantità di lavoro è massiccia, il tempo per svolgere le varie mansioni è di conseguenza insufficiente. Ciò potrebbe causare stato di tensione o compiti svolti in modo sommario.
Incertezza nei ruoli ricoperti: ciò riguarda soprattutto quei casi in cui vi sono più persone a lavorare tra loro. Un’incertezza nei ruoli assunti potrebbe causare un’assenza di punti di riferimento a cui rivolgersi per le varie evenienze. Se gli incarichi non sono ben definiti la situazione lavorativa potrebbe non essere chiara, e l’andamento lavorativo risulterebbe poco lineare. A risentire poi le conseguenze di ciò sarebbe l’efficienza dell’intero gruppo di lavoro.
Pressione da parte dei superiori: spesso in un ambiente lavorativo c’è qualcuno al vertice che assume un certo potere e che non sostiene i propri dipendenti, bensì li critica incrementando stati conflittuali. Le critiche potrebbero essere nocive al lavoratore, in quanto potrebbero condurre a un calo dell’autostima, poiché viene in questo modo sminuito il valore personale.
Conflittualità con i colleghi: ciò incrementa tensioni relazionali sul luogo del lavoro che ostacolano la cooperazione. Senza tralasciare il fatto che i lavoratori potrebbero assentarsi o incrementare assenteismi al fine di evitare litigi.
Ambiente di lavoro inadeguato e poco confortevole: le attrezzature lavorative poco adatte sono scomode e rallentano il lavoro. Tenendo inoltre presente che abbassano il tono dell’umore del personale.
Inadeguatezza del ruolo assunto: magari a rivestire un ruolo di responsabilità è una persona con buone doti organizzative; tuttavia potrebbero però mancargli quelle capacità di leadership. Ciò potrebbe generare nel soggetto interessato inadeguatezza, in quanto egli è costretto ad assumersi responsabilità dalla difficile gestione, a causa di una personalità poco idonea al ruolo rivestito.
Mobilità, trasferimenti: non consentono una stabilità personale e potrebbe venirne fuori una conseguente disorganizzazione extralavorativa, con possibili difficoltà nell’ attuare progetti di vita.
Mobbing: prepotenze, da parte di chi ha in qualche modo “il potere”, verso chi è più debole e non è in grado di difendersi. Una corretta definizione di Mobbing potrebbe essere la seguente: “Forma di terrore psicologico esercitata sul luogo del lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori” (Bartalucci, 2010). Si tratta di un fenomeno ripetuto nel tempo, verso una medesima vittima.
È opportuno ricordare che i fattori sopra elencati non sono degli elementi causali di per sé, bensì dei fattori di rischio che vanno sempre analizzati in relazione alle peculiarità esistenziali e personali del soggetto.
Inoltre i fattori extralavorativi hanno la loro importanza, in quanto fanno sì che l’individuo trascini con sé, sul luogo del lavoro, le tensioni personali, rendendo i propri compiti carichi di nervosismo e per nulla soddisfacenti.

Si crea dunque un circolo vizioso, nel senso che tale squilibrio stressante che l’individuo avverte sul luogo del lavoro porta con sè delle conseguenze, le quali pesano in primo luogo a livello personale, sull’ individuo stesso, ed in secondo luogo sull’ organizzazione lavorativa.

Quali sono dunque le principali conseguenze generate dallo stress lavorativo?
Molte di esse potrebbero essere di tipo fisico o organico, ad esempio mal di testa, digestione difficile, gastrite, dolori muscolari senza grosso affaticamento fisico.
Inoltre le manifestazioni dello stress, soprattutto se sono prolungate nel tempo, possono determinare nella persona una compromissione delle funzioni emotive, che comprendono delle reazioni d’ansia, depressione, senso di impotenza e di disperazione. E tutto ciò aumenta la propensione del lavoratore a considerare le condizioni lavorative come pericolose per la propria salute (Frascheri, 2009).
Alle conseguenze emotive si affiancano quelle cognitive, ossia la difficoltà di concentrazione e di memoria, le quali tendono sovente a perdurare anche al di fuori dell’ambiente lavorativo. La cosiddetta “stanchezza mentale”, o “sovraccarico cognitivo”.
Senza tralasciare gli effetti comportamentali. Molti lavoratori stressati lamentano di essere facilmente irritabili e aggressivi. Altri si descrivono come “asociali” o con una tendenza a estraniarsi o evitare le situazioni di confronto (Falco e all, 2010).
In alcuni casi vi potrebbe essere il ricorso all’alcol o al tabagismo o una ricerca di conforto nel cibo (Richardson, Rothstein, 2008).

Queste considerazioni fanno riflettere e introducono un concetto già noto: quello del burnout.
È un termine inglese, la cui traduzione letterale è “Bruciato”, e sta ad evidenziare una sindrome derivante da un processo stressogeno che colpisce le persone in ambito lavorativo e porta con sé una perdita della motivazione, ossia un disamoramento verso il proprio lavoro, con conseguente impedimento di vedere il reale obiettivo delle proprie mansioni (Lloyd e all, 2002).
Una definizione corretta e condivisa è la seguente: “Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, che si instaura come risposta a una condizione di stress lavorativo prolungato” (Tomei, Tomao, Sancini, 2003).

Ad approfondire esaustivamente questo processo è stata la Maslach, la quale ha descritto il burnout come una malattia professionale specifica degli operatori impegnati in professioni di aiuto, ossia infermieri, medici, psicologi, assistenti sociali, ma anche poliziotti, insegnanti e via dicendo. Pare che queste figure professionali siano caratterizzate da una duplice fonte stressante: il proprio stress personale e quello della persona aiutata (Maslach, Leiter, 1997).
Sembrerebbe che questi soggetti si facciano carico dei problemi delle persone con cui si rapportano, e di conseguenza hanno una certa difficoltà nel discernere tra la propria vita e la loro.
Con l’andare avanti degli anni si sono susseguite varie definizioni di burnout: insoddisfazione, nervosismo, senso di svuotamento, perdita di entusiasmo e di impegno personale, sensazione di fallimento e disamoramento verso il proprio lavoro.

Analizzando le cause che potrebbero contribuire all’insorgere della sindrome è stato possibile classificarle in tre categorie (Anchisi, Gambotto, 2009):
Eccesso di aspettative precedente all’entrata nel mondo del lavoro;
Mansione lavorativa frustrante rispetto alle aspettative;
Disorganizzazione lavorativa.

Il burnout è una fonte di stress che rende insostenibile la situazione lavorativa, per un soggetto che si percepisce come sempre più distante dai suoi personali obiettivi iniziali.
Edelwich e Brodsky (cit. in Anchisi, Gambotto, 2009) hanno messo a punto quattro stati progressivi che caratterizzano l’evolversi della sindrome del burnout:
Stadio dell’entusiasmo: gli operatori sono motivati dal proprio lavoro e ne percepiscono di esso soprattutto i lati positivi.
Stadio della stagnazione: inizia a sentirsi il peso dell’impegno lavorativo, vi è un calo dell’entusiasmo con conseguenti sentimenti di noia e preoccupazione. Il proprio lavoro viene percepito come banale, non più entusiasmante.
Stadio della frustrazione: sorge la rabbia per l’eccessiva discrepanza tra le aspettative del lavoratore e la realtà. Vi è una percezione di inutilità e di impotenza.
Stadio dell’apatia: disimpegno emotivo – affettivo verso la propria situazione lavorativa. Il desiderio di aiutare l’altro scompare. Si diventa apatici.
Tutto ciò porterebbe il lavoratore a comportarsi in maniera meccanica, senza il giusto entusiasmo. I compiti vengono visti come un obbligo e portati avanti per necessità.

Le varie ricerche che hanno investigato le cause che conducono un soggetto verso la sindrome del burnout hanno messo in luce numerose variabili (Maslach, Schaufeli, Leiter, 2009) raggruppabili nei tre seguenti insiemi:
Variabili organizzative: ossia ambienti di lavoro sfavorevoli (poco confortevoli), orari inadeguati, retribuzione non soddisfacente, prospettive di lavoro limitate, rapporti poco costruttivi con i colleghi, prestazioni lavorative troppo routinarie.
Variabili socio – culturali: ossia tutti i fattori relativi all’organizzazione sociale collettiva, alla storia politica e culturale, all’ evoluzione dei costumi che risultano essere dannose per i lavoratori. Soprattutto negli ultimi anni si è assistito ad una riduzione delle spese per sanità, assistenza e educazione. Senza dimenticare che, conseguentemente a ciò, molti utenti hanno scarsa fiducia in tali servizi, e ciò pesa gravemente sull’autostima dei lavoratori coinvolti.

Variabili individuali: anche fattori quali età, sesso, titolo di studio, motivazione lavorativa, soddisfazione extralavorativa hanno rilievo sul possibile rischio burnout. Inoltre problemi emotivi non risolti, seppur non legati all’ ambito lavorativo, possono interagire con esso in modo non costruttivo.

Talvolta la sindrome del burnout potrebbe scaturire anche dall’interazione di più variabili correlate tra loro.
Studi recenti hanno sottolineato che non si tratta di un fenomeno circoscritto solo alle professioni di aiuto, bensì può verificarsi in qualsiasi tipo di contesto organizzativo (Lloyd e all, 2002).
Attualmente oggi si sente spesso parlare di Job Burnout, in un’ottica dove il burnout può riguardare effettivamente tutte le professioni, dove le help profession saltano maggiormente all’occhio per via del forte impegno emotivo a cui si trovano sottoposti i lavoratori che esercitano tali professioni.
Quindi il burnout può definirsi l’esito di un processo stressogeno a cui i lavoratori sono sottoposti qualora questi non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il proprio lavoro li porta ad assumere.

Ma è pur vero che un semplice squilibrio tra richieste organizzative e capacità personali di gestione delle stesse causano stress, il quale a sua volta porta con sé la perdita della soddisfazione lavorativa (Rothmann, 2008).
E un lavoratore insoddisfatto pesa sull’organizzazione, in quanto non opera con lo spirito giusto, ed è principalmente questo “spirito giusto” che consente al sistema lavorativo di funzionare adeguatamente.

Senza dimenticare che è proprio il sentirsi soddisfatti e gratificati del proprio mestiere che garantisce quella spinta in più, che permette all’individuo di impegnarsi perseguendo i propri obiettivi con la giusta motivazione.
Sono queste considerazioni che nell’ultimo periodo hanno stimolato varie ricerche e interventi in materia di stress lavoro – correlato (Galli, Mencarelli, 2011).
Perché lo stress non è una malattia, ma “una situazione prolungata di tensione”, e non è difficile trovarvi un rimedio, se anzitutto non viene sottovalutato e minimizzato.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Anchisi R., Gambotto Dessy M. (2009), “Il Burnout del Personale Sanitario”, Restless Architect of Human Possibiliets sas: Sassari.
  • Bartalucci T. (2010), “Conoscere, comprendere e reagire al fenomeno del mobbing”, Firenze University Press.  DOWNLOAD
  • Bonetti D. (2011), “Lo Stress Lavoro – Correlato: Definizione e Modelli Causali – Review”, G Ital Med Lav Erg; 33: 3, Suppl 2.
  • Deitinger P., Nardella C., Bentivenga R., Ghelli M., Persechino B., Iavicoli S.(2009), “D. Lgs. 81/2008: conferme e novità in tema di stress correlato al lavoro”, G Ital Med Lav Erg; 31: 2, pp 154 – 162.  DOWNLOAD
  • Eurostats Statistics (2004), “Work and Health in the European Union – a Statistical Portrait. Data 1994 – 2000”. Office for the Official publication of the European Community, in Focus 3.  DOWNLOAD
  • Falco A., Dal Corso L., Sarto F., Vianello L., Girardi D., Marcuzzo G., Magosso D., De Carlo N. A., Bartolucci G. B. (2010), “Il ruolo degli indicatori oggetti e intersoggettivi nella valutazione del rischio stress lavoro – correlato: il Metodo di Valutazione per gli Indicatori di Stress”, Italian Journal of Occupational and Environmental Hygiene, n. 1 (3 – 4).
  • Frascheri C. (2009), “Punti fondamentali alla base dell’analisi dello stress lavoro – correlato”, G Ital Med Lav Erg; 31: 3, pp 270 – 276.
  • Galli G., Mencarelli P. (2011), “Valutazione e Gestione dello Stress”, Stampa CSR – Roma.
  • Lloyd C., King R., Lesley C. (2002), “Social Work, Stress and Burnout: a Review”, Journal of Mental Healt, Vol. 22, N. 3, pp. 255 – 265.  DOWNLOAD
  • Maslach C., Leiter M. P. (1997), “The Truth about Buornot”, San Francisco, CA: Jossey – Bass.
  • Maslach C., Schaufeli W. B., Leuter M. P. (2009), “Burnout: 35 years of research and practice”, Career Development International, Vol. 14, No. 3, pp 204 – 220.  DOWNLOAD
  • Minchie S. (2002), “Causes and management of stress at work”, Occupational & Environmental Medicine, N. 59, pp 67 – 72.
  • Rothmann S. (2008), “Job satisfaction, occupational stress, burnout and work engagement as components of work-related wellbeing: empirical research”, SA journal of industrial psicology, Vol. 34, N. 3, pp 11 – 16.
  • Richardson K. M., Rothstein H. R. (2008), “Effect of Occupational Stress Managements Intervention Programs: A Meta – Analysis”, Journal of Occupational Healt Psicology, Vol. 13, N. 1, pp 69 – 93.
  • Tomei C., Tomao G., Sancini A. (2003), “Burn – Out”, Giornate Romane di Medicina del Lavoro “Antonello Spinazzola” Sezione regionale Laziale – Abruzzese della S.I.M.L.I.I. – Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro – Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
  • Westen D. (2002), “Psicologia. La storia , i metodi, i meccanismi fisiologici e cognitivi del comportamento”, Volume 1, Bologna: Zanichelli.

Quelle camminate che fanno bene al cervello!

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

La capacità cardio-respiratoria si presenta come un fattore protettivo rispetto ai processi di invecchiamento cerebrale, oltretutto potenziabile attraverso l’esercizio aerobico, come quello che possiamo fare con una semplice camminata, un’attività facilmente accessibile e gratuita.

È ormai ampiamente documentato che all’avanzare dell’età si verifica una riduzione progressiva del volume della sostanza grigia cerebrale. Solo recentemente, grazie agli ultimi sviluppi nel campo delle neuroimmagini, è stato possibile studiare l’effetto dell’invecchiamento anche sulle fibre di sostanza bianca, che trasmettono le informazioni da una regione all’altra del cervello. Dai risultati ottenuti emerge una chiara riduzione età-correlata anche dell’integrità microstrutturale delle connessioni cerebrali.

Questo progressivo declino neurale, tuttavia, non interessa tutti gli anziani allo stesso modo; alcuni di essi mostrano una maggiore resistenza agli effetti dell’età. Perché? Questa è la domanda che sta canalizzando sempre più l’interesse dei neuroscienziati che si occupano di invecchiamento cognitivo. Uno dei fattori potenzialmente implicati in queste differenze individuali è il cardiorespiratory fitness (CRF), ossia la capacità dell’apparato cardiaco e respiratorio di fornire ossigeno ai vari distretti corporei durante un esercizio sostenuto.

In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Annals of Clinical and Translational Neurology, dei ricercatori statunitensi hanno indagato, in giovani adulti e anziani, la relazione tra CRF e integrità microstrutturale della sostanza bianca, rilevata per mezzo di una tecnica di neuroimmagine chiamata Diffusion Tensor Imaging. Per ottenere un indice quantitativo del CRF, i partecipanti sono stati sottoposti ad un test da sforzo al tapis roulant, durante il quale è stato misurato il consumo massimale di ossigeno (VO2max). Dai risultati ottenuti è emersa una chiara associazione tra CRF e integrità della sostanza bianca, osservata tuttavia soltanto negli anziani e limitatamente alle regioni cerebrali posteriori.

Il CRF pare dunque esercitare un’influenza minima sulla struttura cerebrale del giovano adulto, ma fortemente positiva su quella dell’anziano, le cui funzioni cognitive si trovano tipicamente in una condizione di progressivo declino. In alcune regioni, addirittura, le differenze età-correlate nell’integrità della sostanza bianca sono risultate pressoché del tutto annullate negli anziani con più alti indici di CRF.

Il CRF, tuttavia, non può certo essere considerato una panacea contro l’invecchiamento neurale, in quanto non ha presentato alcuna associazione con l’integrità delle connessioni anteriori, che subiscono solitamente un importante declino all’avanzare dell’età. Il meccanismo che sottostà a questa specificità regionale rimane un mistero, che probabilmente terrà impegnati ancora per lungo tempo i ricercatori. “[blockquote style=”1″]Questo studio, evidenziando l’impatto positivo del CRF sull’integrità neurale, ravviva in ogni caso la possibilità, spesso ipotizzata, che l’attività fisica, specie se di natura aerobica, possa essere in grado di ridurre il rischio di demenza o rallentarne la progressione[/blockquote], conclude Scott M. Hayes, primo autore del lavoro.

La capacità cardio-respiratoria si presenta dunque come un fattore protettivo rispetto ai processi di invecchiamento cerebrale, oltretutto potenziabile attraverso l’esercizio aerobico, come quello che possiamo fare con una semplice camminata, un’attività facilmente accessibile e gratuita. Forse, specie con la bella stagione alle porte, può davvero valere la pena lasciare un po’ più spesso la macchina in garage.

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BIBLIOGRAFIA:

La rivista italiana Psicoterapia cognitiva e comportamentale: cos’è?

Psicoterapia cognitiva e comportamentale nasce nel 1995 dall’ esigenza riscontrata da tempo e da più parti di una rivista scientifica nel panorama italiano che potesse fornire un luogo d’incontro e un punto di riferimento a quanti fossero interessati alla psicoterapia cognitiva e comportamentale.

Scopo della rivista è pubblicare articoli originali che contribuiscano allo sviluppo delle conoscenze teoriche e al progresso della prassi clinica. L’ambito di interesse della rivista si allarga all’intero spettro delle applicazioni e dei principi, delle metodologie e delle tecniche cognitive e comportamentali all’individuo, alla famiglia, al gruppo e alle organizzazioni. In tale ambito di interesse sono incluse le problematiche epistemologiche e metodologiche, le ricerche di base e le ricerche interdisciplinari rilevanti per la psicoterapia, l’intero processo della valutazione clinica (assessment), la medicina comportamentale nelle sue varie ramificazioni e la riabilitazione.

Psicoterapia cognitiva e comportamentale segue alcune linee programmatiche:
– Garantire un alto profilo scientifico e, nel contempo, valorizzare quanto di originale ed innovativo si sta facendo in Italia e all’estero nei vari settori;
– Avvicinare la comunità scientifica italiana alla più ampia comunità internazionale;
– Esprimere effettivamente l’intera gamma di interessi scientifici e culturali presenti nella scena italiana e non identificarsi con l’una o l’altra delle molteplici tendenze presenti al suo interno;
– Garantire efficienza organizzativa, in particolare regolarità della uscita nei vari numeri della rivista e celerità dei tempi di pubblicazione.

La rivista, rispetto alle principali società italiane di terapia cognitiva e comportamentale, si contraddistingue per la massima autonomia e il pieno rispetto della sua collocazione esclusivamente scientifica; Psicoterapia cognitiva e comportamentale non rappresenta pertanto l’organo ufficiale di associazioni, ma l’espressione di tutti coloro che in Italia coltivano la comune area scientifica e professionale.

Relativamente ai contenuti, la rivista pubblica:
– contributi di ricerca;
– brevi sintesi di protocolli di ricerca che vengono trasmessi sia al fine di favorire le collaborazioni e ricerche poliedriche sia al fine di far sapere alla più vasta comunità degli interessati le ricerche in corso;
– articoli rivolti allo sviluppo teorico della nostra disciplina;
– rassegne critiche;
– casi clinici;
– brevi comunicazioni.

Oltre a ciò, Psicoterapia cognitiva e comportamentale tende a stimolare il confronto critico, dando spazio ai dibattiti, e vuole inoltre promuovere l’attenzione per le radici anche remote dell’approccio cognitivo e comportamentale riproponendo, in una apposita sezione denominata “Archivio storico”, la ristampa di lavori di rilievo storico.

Scopo preminente della rivista è diffondere i molteplici aspetti e le diverse ramificazioni della psicoterapia cognitiva e comportamentale italiana; parimenti Psicoterapia cognitiva e comportamentale accoglie occasionalmente rappresentativi contributi internazionali.

Psicoterapia cognitiva e comportamentale è una rivista quadrimestrale; il direttore è il professor Ezio Sanavio, professore ordinario di Psicologia clinica dell’Università degli Studi di Padova e Past President dell’AIAMC.

Ogni articolo sottoposto alla rivista viene indirizzato a due referee indipendenti ed anonimi, sia per filtrare i lavori proposti per la pubblicazione sia per educare alla comunicazione scientifica i più giovani, offrendo loro feedback e consiglio ed aiutandoli ad avvicinarsi agli standard delle riviste internazionali.

Psicoterapia cognitiva e comportamentale è presente in rete; sono disponibili tanto in italiano quanto in inglese gli indici di ogni fascicolo e i sommari degli articoli pubblicati.

La rivista è indicizzata su PsycINFO, EBSCO, EMBASE, Psychological abstracts, PsycSCAN, PsycLIT, ClinPSYC.

 

GLI ABSTRACT DEI CONTENUTI DELL’ULTIMO NUMERO:

PER ACQUISTARE LA RIVISTA: Edizioni Centro Studi Erickson

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Come funziona la psicoterapia cognitiva?

Self Mirroring Therapy per disturbo da attacchi di panico e disturbo ossessivo-compulsivo: due incontri formativi a Genova

Si terranno a Genova, nei mesi di giugno e luglio, i due incontri formativi sull’utilizzo della Self Mirroring Therapy in caso di Disturbi da Attacchi di Panico e in caso di Disturbo Ossessivo Compulsivo.

La Self Mirroring Therapy (SMT) è una nuova metodica che, integrandosi con i vari approcci clinici, ne incrementa l’efficacia terapeutica. Tale metodologia nasce dall’esigenza di integrare nel setting terapeutico le più recenti conoscenze neuro-scientifiche, in particolare quelle sul sistema dei neuroni specchio, con lo scopo di migliorare l’efficacia del trattamento. La SMT utilizza come principale strumento terapeutico la videoregistrazione di se stessi durante alcuni momenti emotivamente  significativi della seduta terapeutica, al fine di incrementare in un modo diverso le capacità metacognitive del soggetto  

Infatti, con la SMT il paziente, osservandosi come se fosse il personaggio di un film, riconosce le proprie emozioni non attraverso le sue capacità autoriflessive (spesso alquanto deficitarie), ma dal di fuori, ossia attraverso l’osservazione diretta della propria espressione emotiva. In questo modo la SMT fa sì che il paziente sfrutti verso se stesso quella capacità innata, mediata principalmente dal  sistema dei neuroni specchio, che normalmente usa per comprendere in modo automatico, intuitivo e inconscio l’emozione altrui. Tale tecnica terapeutica nasce anche a partire da recenti studi di neuroimaging, che dimostrano come il sistema dei neuroni specchio si attivi in misura maggiore proprio quando osserviamo il nostro volto rispetto a quello altrui (Uddin et al 2005, 2007; Kaplan et al 2008; Iacoboni 2008).

Inoltre la visione di sé attraverso il video permette al paziente di evidenziare e rendere esplicite anche a se stesso le discrepanze tra il contenuto verbale e le sue espressioni  emotive, svelando così i propri meccanismi di autoinganno che contribuiscono al mantenimento delle convinzioni disfunzionali correlate ai vari quadri psicopatologici.  

Per il paziente l’effetto terapeutico finale è duplice: da una parte, una sorta di insight sulle convinzioni che ha sviluppato nel tempo su di sé e sugli altri, dall’altra l’attivazione di sentimenti empatici di accudimento, compassione e di perdono verso se stessi; tutto ciò gli consente di entrare più in sintonia e di migliorare il rapporto con quel personaggio che osserva nel video e, quindi, in ultima analisi, di raggiungere in tempi relativamente brevi un maggior livello di benessere psichico.   

Durante il workshop introduttivo i partecipanti sperimenteranno, utilizzando il protocollo della Self Mirroring Therapy, come l’auto osservazione da una posizione esterna faciliti la comprensione empatica delle proprie emozioni. Impareranno inoltre ad applicare la Self Mirroring Therapy per incrementare l’efficacia dei protocolli già esistenti per il trattamento del disturbo da Attacchi di Panico. Al termine di ogni corso sarà rilasciato un attestato di frequenza.

 

1° Incontro:

La self mirroring therapy  applicata al trattamento del

disturbo da attacchi di panico

Genova, sabato 20/6/2015

 

Programma del corso – sabato 20/6/2015:

  • 09.00-10.00: Psicopatologia e psicoterapia del disturbo da attacchi di panico secondo la psicoterapia cognitivo comportamentale
  • 10.00-11.00: La  Self Mirroring Therapy: basi teoriche
  • 11.00-13.00: La Self Mirroring Therapy nella pratica clinica, esercitazioni pratiche
  • 14.00-18.30: La Self Mirroring Therapy applicata al trattamento del disturbo da attacchi di panico: teoria ed applicazioni pratiche su casi clinici

Docenti:

Dott. Piergiuseppe Vinai, medico, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, didatta di Studi Cognitivi di Milano,  socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, direttore del Self Mirroring Therapy Institute

Dott. Maurizio Speciale, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, docente di Studi Cognitivi di Milano, socio ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, responsabile del Self Mirroring Therapy Institute

Dott.ssa Michela Alibrandi, psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, responsabile del Centro Clinico Genovese di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Modalità di iscrizione:

Il costo del corso è di 120€ IVA compresa, da pagare secondo le modalità indicate nella scheda di iscrizione. Per rendere effettiva la propria iscrizione occorre inviare la scheda d’iscrizione e una copia del bonifico di pagamento effettuato alla mail [email protected]

Scarica la brochure informativa con la scheda di iscrizione.

 

2° Incontro:

La self mirroring therapy  applicata al trattamento del

del disturbo ossessivo compulsivo

Genova, sabato 11/7/2015

 

Programma del corso – sabato 11/7/2015

  • 09.00-10.00: Psicopatologia e psicoterapia del disturbo ossessivo compulsivo secondo la psicoterapia cognitivo comportamentale
  • 10.00-11.00: La  Self Mirroring Therapy: basi teoriche
  • 11.00-13.00: La Self Mirroring Therapy nella pratica clinica, esercitazioni pratiche
  • 14.00-18.30: La Self Mirroring Therapy applicata al trattamento del disturbo ossessivo compulsivo: teoria ed applicazioni pratiche su casi clinici

Docenti:

Dott. Piergiuseppe Vinai, medico, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, didatta di Studi Cognitivi di Milano,  socio didatta della SITCC, direttore del Self Mirroring Therapy Institute

Dott. Maurizio Speciale, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, docente di Studi Cognitivi di Milano, socio ordinario della SITCC, responsabile del Self Mirroring Therapy Institute

Dott.ssa Michela Alibrandi, psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, responsabile del Centro Clinico Genovese di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale

Dott.ssa Ursula Catenazzi, psicologa, psicoterapeuta cognitiva e terapeuta EMDR. Co fondatrice del centro Mente e Corpo di Bologna.

Modalità di iscrizione:     

Il costo del corso è di 120€ IVA compresa, da pagare secondo le modalità indicate nella scheda di iscrizione. Per rendere effettiva la propria iscrizione occorre inviare la scheda d’iscrizione e una copia del bonifico di pagamento effettuato alla mail [email protected]

Scarica la brochure informativa con la scheda di iscrizione.

 

 

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I Neuroni Specchio: dalla ricerca alle applicazioni in Psicoterapia – Congresso SITCC 2014

Droghe, impulsività e dipendenza: cannabis e cocaina a confronto

La cannabis è la droga maggiormente utilizzata nell’Unione Europea, seguita subito dopo dalla cocaina. Sebbene la cannabis indebolisca le funzioni neurocognitive nei consumatori occasionali, questi indebolimenti appaiono meno prominenti nei consumatori abituali, a causa della possibile tolleranza sviluppata.

 È proprio su queste premesse che si basa uno studio abbastanza recente, pubblicato nel 2013, dei ricercatori di Psicologia e Neuropsicologia dell’università di Maastricht in Olanda. L’obiettivo era infatti quello di indagare se gli effetti indebolenti del THC, il principio attivo della cannabis, in consumatori abituali, si fossero presentati in un ampio spettro di funzioni neuropsicologiche oppure selettivamente in specifici aspetti.

Lo studio è stato condotto in Olanda su 61 consumatori regolari sani di cannabis e cocaina, i quali hanno partecipato all’esperimento assumendo sia una dose di cannabis che una di cocaina, sia un placebo, il tutto svoltosi in condizioni controllate di laboratorio. In seguito hanno poi completato un test che li portava a riflettere prima di fare un’azione. Infine i partecipanti allo studio sono stati osservati anche in situazioni nelle quali dovevano compiere un’azione e poi fermarsi.

In questo pacchetto di test le persone impulsive generalmente fanno più errori e hanno tempi più lenti per fermarsi nei compiti, come afferma infatti la responsabile della ricerca Janelle van Wel:

Se la tendenza di una persona ad essere impulsiva aumenta, tenderà a prendere decisioni affrettate, con l’aumento della probabilità di errore da parte sua.

I risultati di questo studio sono decisamente interessanti, sia la cannabis che la cocaina sembrano aumentare la risposta impulsiva, ma in maniera opposta. Sotto l’influenza della cannabis, i soggetti erano più lenti nel rispondere ai compiti e facevano più errori. La somministrazione di cocaina invece causava una risposta più veloce al compito, ma se il partecipante era messo nella condizione di dover controllare il suoi impulsi, faceva comunque più errori.

Come afferma Janelle van Wel, i risultati indicano che i consumatori abituali di cocaina e cannabis si mostrano più impulsivi sotto l’effetto delle due droghe rispetto a quando gli vengono somministrati dei placebo.

Ma qual è quindi il rischio? La stessa vanWell afferma che quest’aumento dell’impulsività dopo l’utilizzo di droga può aumentare la probabilità di sviluppare una dipendenza, con evidenti implicazioni e conseguenze per il soggetto utilizzatore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985) di Oliver Sacks – Recensione

Francesca Rigobello

Parlare delle malattie è un intrattenimento da Mille e una notte: in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Oliver Sacks professore di Neurologia alla Albert Einstein College of Medicine di New York, racconta le sue esperienze cliniche affrontando la malattia mentale sotto l’aspetto umano più profondo.

Nella prefazione l’autore si descrive:

Mi sento infatti medico e naturalista al tempo stesso; mi interessano in pari misura le malattie e le persone; e forse sono anche insieme, benché in modo insoddisfacente, un teorico e un drammaturgo, sono attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico, e li vedo continuamente entrambi nella condizione umana, non ultima in quella che è la condizione umana per eccellenza, la malattia: gli animali si ammalano, ma solo l’uomo cade radicalmente in preda alla malattia. 

 Nelle 24 storie di cui si compone l’opera, viene posta l’attenzione sulla realtà del paziente, non solo in quanto sofferente, bensì come individuo in lotta per conservare la propria identità. L’autore riflette in maniera intima e alle volte ironica e surreale l’aspetto più profondo della malattia, creando situazioni paradossali.

Il saggio è diviso in quattro sezioni: Perdite, Eccessi, Trasporti e Il mondo dei semplici, le cui storie sono accostate a particolari sindromi e disfunzioni quali sindrome di Tourette, di Korsakov, di Conard, atassie, agnosie, afasie, amnesie.

La prima storia, che dà il titolo al libro, racconta del dottor P., musicista affetto da prosopagnosia, ovvero l’ incapacità di dare significato visivo alle cose, confondendo la testa di sua moglie per il suo cappello. Qui viene a crearsi una situazione quasi comica, il dottor P, ignaro del suo problema, conduce le sue attività quotidiane canticchiando…

Penso che la musica avesse preso per lui il posto dell’immagine. Invece di un’immagine corporea aveva una musica corporea: ecco perché era in grado di muoversi e agire con tanta disinvoltura, ma si bloccava completamente, confuso, se s’interrompeva la musica interiore.

Così anche in Ray dai mille tic, si descrive il caso particolare di un ragazzo di ventiquattro anni affetto dalla sindrome di tourette i cui tic, movimenti incontrollati, e le improvvise esclamazioni, avevano reso la sua vita molto difficile. La terapia indicata dal Dottor Sacks aveva previsto l’utilizzo dell’aloperidolo, portando il paziente ad un notevole miglioramento ma imponendolo a dei ritmi troppo ponderati, privandolo di energia ed entusiasmo, di esuberanza e di gioia. Così Ray decise, insieme al medico, di sospendere l’utilizzo del medicinale durante il fine settimana per potersi sfogare:

Voi normali che nel vostro cervello avete sempre i trasmettitori giusti al posto giusto, e al momento giusto, avete sempre a disposizione tutti i sentimenti tutti gli stili: gravità, esaltazione, tutto quello che il momento richiede. Noi tourettici no: siamo costretti all’esaltazione della nostra sindrome e costretti alla serietà quando prendiamo l’aloperidolo. Voi siete liberi, avete un equilibrio naturale: noi dobbiamo cavarcela come meglio possiamo con un equilibrio artificiale.

 Molto intensa è la storia della disincarnata, Christina una donna colpita da un’ infiammazione alle radici dei nervi cranici e spinali perde completamente la propriocezione ovvero la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio. La donna mantenne la capacità di muoversi attraverso la vista; osservandosi infatti riusciva a compiere piccoli spostamenti goffi:

Questa propriocezione è come se fosse gli occhi del corpo, il mondo in cui il corpo vede se stesso. E se scompare, come è successo a me, è come se il corpo fosse cieco. Il mio corpo non può ‘vedere’ se stesso se ha perso i suoi occhi , giusto? Così tocca a me guardarlo, essere i suoi occhi. Giusto?

L’utilizzo del linguaggio scientifico accompagna il lettore alla scoperta delle malattie nuerologiche e dei comportamenti che ne derivano, stimolando la curiosità del lettore e allo stesso tempo mantenendo scorrevole la lettura.

 

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Comprendere i figli con disturbi alimentari: grande successo al primo incontro Fuori-Expo dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia

Il primo evento pubblico del cartellone psicologico Fuori-EXPO ‘Comprendere i figli con disturbi alimentari’, organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia, ha aperto la stagione culturale 2015 OPL-Alimentare la mente.

comprendere i figli con disturbi alimentari

Il ciclo di eventi in programma quest’anno verterà sui contributi della psicologia verso ciò che nutre e ciò che danneggia la mente e, più in generale, il contributo della psicologia verso alcuni aspetti rilevanti per il benessere della società. Un buon numero tra professionisti e cittadini hanno quindi avuto la possibilità, in questa prima serata, di ascoltare due relatori di caratura internazionale rispetto al dramma contemporaneo dei disturbi alimentari e ai relativi interventi professionali. 

Milano, 11 maggio 2015 – Un incontro interessante e ricco di spunti quello organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia nell’ambito del cartellone ‘OPL – Fuori Expo’, realizzato lo scorso 8 maggio presso la Sala Falck Fondazione Ambrosianeum a Milano. Protagonista la patologia del comportamento alimentare, di cui si è discusso nel panel denominato “Comprendere i figli con disturbi alimentari”.

Di primissimo livello i relatori messi in campo: l’apertura è stata affidata a Gianluca Lo Coco, Professore Associato presso l’Università di Palermo, che ha presentato una panoramica sul problema analizzando l’aspetto clinico e generale, mettendo in evidenza i cambiamenti diagnostici nell’analisi dei disturbi alimentari con la nuova edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V). Lo Coco ha sottolineato come oggi le manifestazioni sintomatiche delle ‘spie alimentari’ siano sempre più diffuse e più difficili da classificare in maniera oggettiva.

comprendere i figli con disturbi alimentari

Altro ospite di caratura internazionale è stata la Prof.ssa Janet Treasure, specializzata nella ricerca e nel trattamento dei disturbi alimentari, Direttore dell’Eating Disorder Unit e Prof.ssa di Psichiatria presso l’Institute of Psychiatry del King’s College di Londra. Il suo intervento ha mostrato come un intervento di supporto con i genitori dei pazienti, in base al modello del New Maudsley di Londra, possa ottenere dei risultati clinici significativi sia nella riduzione della sintomatologia del paziente sia nel benessere psicologico del familiare stesso, divenendo quest’ultimo capace di gestire lo stress della patologia del figlio in maniera più adattiva. Al termine delle relazioni si è aperto un dibattito nel pubblico circa l’efficacia di tali interventi e la possibilità di un loro utilizzo diffuso anche nella realtà sanitaria italiana.

[blockquote style=”1″]Divulgare, far conoscere una ‘buona psicologia è l’obiettivo dichiarato di questo ciclo di incontri. La società spinge sempre più persone a ricercare contenuti e informazioni del mondo psicologico, purtroppo però, questo bisogno non incontra sempre professionisti e contenuti qualificati. L’impegno centrale della comunità lombarda degli psicologi per questo 2015 sarà proprio quello di mostrare il grande valore scientifico e culturale del proprio contributo. L’incontro dell’8 maggio, primo di molti, ha fatto focus verso un problema drammatico e in continua espansione sul quale era necessario sensibilizzare e avviare un processo virtuoso in grado di mettere in contatto la cittadinanza con i migliori esperti in materia[/blockquote] ha dichiarato Riccardo Bettiga Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

comprendere i figli con disturbi alimentari

Per tutte le informazioni sulle attività dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia e sui prossimi incontri www.opl.it

Prossimo appuntamento il 28 maggio alle 20,00 presso la Sala Falck Fondazione Ambrosianeum a Milano: Massimo Cirri, psicologo e conduttore radiofonico e Gianrico Carofiglio, noto scrittore e magistrato, parleranno della creazione del ‘racconto’ nell’ambito della relazione terapeutica.

Ordine degli Psicologi della Lombardia
Corso Buenos Aires 75 – 20124 Milano
tel. 02/67071596 – fax 02/67071597
[email protected] – www.opl.it
C.F. 97134770151

UFFICIO STAMPA
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Solitudine & livello di fame: quale relazione? – Psicologia

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

Recenti studi suggeriscono che la disregolazione dell’appetito fornisce una potenziale via attraverso la quale la solitudine o altre forme di disconnessione sociale influenzano la salute.

Sono state esaminate le relazioni tra solitudine e livelli di grelina postprandiale e la fame testando se tali collegamenti differivano per le persone con più alto o basso indice di massa corporea (BMI).

La solitudine è stata testata tramite questionario mentre la grelina è stata campionata sia prima che dopo il pasto. La fame autoriferita è stata misurata prima e immediatamente dopo il pasto e poi dopo 2, 4 e 7 ore più tardi. Le donne più sole avevano più alto livello di grelina postprandiale e la fame aumentava rispetto alle donne meno sole e solo tra i partecipanti con un indice di massa corporea più basso.
La solitudine, la grelina postprandiale e la fame non erano legate tra i partecipanti con un più alto indice di massa corporea.
Gli effetti sono stati coerenti in entrambi i pasti.

I dati suggeriscono che la grelina ( importante ormone della regolamentazione dell’appetito) e la fame possono collegarsi alla solitudine, ad un aumento di peso e ad un corrispondente effetto negativo sulla salute tra le persone non obese. Il desiderio e la necessità di relazioni strette probabilmente deriva dall’ importanza della vita di gruppo per la sopravvivenza dell’uomo nel suo passato evolutivo. Poiché la necessità di connessione sociale è fondamentale per la natura umana, il mancato sviluppo di questa esigenza dovrebbe avere un effetto mentale negativo e conseguenze sulla salute fisica.

Una questione chiave è quello di determinare quali meccanismi sono alla guida di questi effetti negativi sulla salute. Uno studio recente ha dimostrato che le donne non obese che hanno sperimentato fattori di stress interpersonali avevano maggiori livelli di grelina rispetto a chi aveva sperimentato un numero minore di agenti stressanti interpersonali.

L’attuale ricerca dimostra che i livelli di grelina ampliano la fame autoriportata, inoltre i dati suggeriscono che le diverse forme di disconnessione sociale ( come fattori di stress interpersonali o solitudine) hanno condiviso le caratteristiche che influenzano i livelli di grelina e di fame. Queste forme di distacco sociale minano il bisogno fondamentale di appartenenza degli essere umani e può essere il nucleo sottostante questi effetti.

Un’ ipotesi del motivo per cui la solitudine influenzi i livelli di grelina e di fame sta nel fatto che la sensazione di fame in risposta allo stress interpersonale sia socialmente adattivo. La necessità di connessione sociale è fondamentale per l’uomo e di conseguenza sentirsi isolati socialmente dovrebbe motivare le persone a legarsi con gli altri e ripristinare il senso di appartenenza.

Inoltre mangiare era un’attività altamente sociale in tutta l’evoluzione umana, di conseguenza le persone possono sentirsi più affamate quando si sentono socialmente distaccate perché hanno implicitamente o esplicitamente imparato che mangiare li aiuta a rimanere in contatto con gli altri e fornisce loro una possibilità di connessione sociale. Questo discorso viene meno tra le persone obese forse perché l’obesità mette le persone a rischio per la stigmatizzazione sociale e depressione.

Questi dati, in sintesi, suggeriscono che la grelina, un ormone che regola l’appetito e la fame può collegare lo stress interpersonale all’aumento di peso e al suo corrispondente effetto negativo sulla salute tra le persone non obese.

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BIBLIOGRAFIA:

Disturbo di dismorfismo corporeo (2015) di Scarinci e Lorenzini

Una rapida ricognizione tra le librerie presenti online permette di capire rapidamente che non esistono in italiano manuali sul disturbo di dismorfismo corporeo. Il volume di Scarinci e Lorenzini copre dunque una lacuna importante. Il disturbo in oggetto è esplorato nei dettagli e al tempo stesso è trattato con concisa semplicità, un bel segno di rispetto nei confronti del lettore.

Scarinci Lorenzini - DISMORFISMO CORPOREO - COPERTINAIl volume inizia con un’analisi dello sviluppo del disturbo nell’adolescenza, età di grandi cambiamenti e crisi che può essere vissuta con disagio proprio per quanto riguarda la valutazione del corpo e può portare a idee del tutto distorte e patologiche. Gli autori applicano il modello dello stile cognitivo al disturbo di dismorfismo corporeo. Esso appare come una generale difficoltà a fare i conti con una discrepanza tra i propri scopi, aspettative, bisogni e i desideri e la realtà sia interiore sia esterna. Questa discrepanza viene espressa in un aspetto molto concreto: come si pensa sia il proprio corpo e come si vorrebbe che fosse. Tale discrepanza può essere così forte da far percepire al soggetto imperfezioni e mal- formazioni inesistenti.

Dopo aver definito e spiegato il disturbo, gli autori proseguono illustrando il processo di assessment, e passano in esame gli strumenti di valutazione più utilizzati, per poi proporre una terapia cognitivo comportamentale, qui illustrata attraverso schede a uso del terapeuta e numerosi casi clinici.

Al centro dell’intervento viene posta la rielaborazione cognitiva delle di- storsioni, la critica degli errori più gravi di valutazione del proprio corpo, accanto a un processo di accettazione del sé che costituisce il vero problema sottostante all’espressione sintomatologica.

I due autori danno molto rilievo agli interventi di ristrutturazione cogni- tiva e alla ricostruzione e rilettura della storia di vita, intesa come sequenza di esperienze dolorose in cui si apprende a evitare, a controllare e a iper compensare patologicamente stati mentali ritenuti insopportabili. Nel caso del dismorfismo, il luogo mentale insopportabile è l’immagine di un sé imperfetto, che viene metaforicamente espresso come malformazione corporea. La consapevolezza che l’immagine corporea non rappresenta l’unica qualità che definisce l’identità e l’accettazione dell’identità stessa costituiscono il passo decisivo della terapia. Scarinci e Lorenzini offrono numerosi strumenti al terapeuta per accompagnare i pazienti lungo questo difficile percorso.

 Giovanni Maria Ruggiero

 

 

INTRODUZIONE

Il dottor Carlo Biagioli, giovane psichiatra, inizia a lavorare nel servizio pubblico. Siamo negli anni Ottanta, il cammino verso la terra promessa da Basaglia è appena iniziato. Come per gli ebrei provati dall’esodo, c’è il rischio di rimpian- gere il periodo della schiavitù in Egitto. Per non cedere ai momenti di fatica e di sconforto e rendere i nuovi arrivati consapevoli di quale fosse l’inferno da cui si cercava di scappare, il primario faceva visitare loro il manicomio di Siena dove aveva lavorato. Il giro dei reparti dedicati a famosi psichiatri del passato era una consuetudine (la fama dello psichiatra cui era dedicato il reparto era direttamente proporzionale alla gravità dei pazienti che conteneva, e il verbo «contenere» non è utilizzato a caso).

Personaggi bizzarri, comportamenti stranissimi attirano l’attenzione e l’inte- resse di un giovane entusiasta, convinto che riuscirà a spiegare tutto e tutto guarirà. Biagioli nell’attraversare corridoi lunghi e tenebrosi resta sorpreso nel vedere tra i pazienti «pericolosi» un ragazzetto di una ventina d’anni. Sembrava un collegiale, curato nel vestire, educato nel comportamento, assorto in pensieri filosofici o forse in preghiere. Nulla faceva sospettare violenza, pericolosità e neppure follia.

«Perché sta qui? E come mai non è stato ancora dimesso», pensò tra sé il giovane psichiatra e chiese al primario il motivo della sua presenza in quel reparto. Si sentì rispondere che Marcellino era tra i pazienti più gravi. In quel momento in realtà non stava pregando. Osservava il suo mignolo destro e lo confrontava con il sinistro perché era certo che fosse storto. Si era fissato così da quando la fidanzatina lo aveva lasciato. Secondo il primario erano state tentate tutte le cure e non c’era nulla da fare. Prima o poi Marcellino si sarebbe ucciso. Questa sì che suonava come una follia alle orecchie del giovane psichiatra.

Tre anni dopo, durante un soggiorno sul lago di Bolsena, mentre gli altri — pazienti, operatori e bagnanti — stavano chiassosi sulla riva, Marcellino si incamminò deciso verso il largo, camminando senza nuotare. Il corpo fu ritrovato tre giorni dopo a Capodimonte, l’antico borgo che si protende verso il lago.

Sono passati alcuni decenni, il dottor Biagioli è ormai in pensione, ma il disturbo di dismorfismo corporeo sovente conduce ancora al suicidio e la sua diffusione e gravità sono tutt’oggi sottovalutate.

I pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da coloro che si occupano di salute mentale e i casi trattati, non sempre con successo, non sono numerosi.

Anche la letteratura internazionale, che solo negli ultimi anni è cresciuta, non fornisce indicazioni univoche sull’eziologia e il trattamento.

A conferma di questi dati, di recente, Wilhelm, Phillips e Steketee (2013) hanno pubblicato un interessante e pregevole manuale di trattamento, dove vengono evidenziate le criticità che si incontrano con questi pazienti, segnalate, peraltro, da molti altri autori (Mian e Gerbino, 2009).

Il retroterra teorico e clinico dell’approccio utilizzato per analizzare le di- namiche psicopatologiche è quello cognitivo comportamentale. L’importanza dei contributi forniti sia dal modello standard, sia dagli ultimi sviluppi di terza generazione ha ricadute significative nell’approccio clinico e nell’intervento terapeu- tico, anche se va sottolineato il limite di una mancanza di adeguate e sistematiche verifiche empiriche per il disturbo di dismorfismo corporeo in grado di raccogliere e unificare le osservazioni cliniche.

Ci auguriamo, pertanto, che i contenuti di questo lavoro suscitino vivaci reazioni, anche critiche, e interesse, così che il faticoso cammino della scienza, che procede per ipotesi e confutazioni, possa essere avviato per formulare se non altro alcune linee guida per l’intervento, basate su studi clinici randomizzati.

La prima parte del volume è dedicata al momento esistenziale, con partico- lare riferimento all’adolescenza, periodo in cui è più frequente lo scompenso, e alla cultura dell’apparire, che è terreno fertile per lo sviluppo del disturbo. Ampi sono i riferimenti alla letteratura internazionale e alla ricerca. Vengono analizzati inoltre gli ingredienti cognitivi ed emotivi che caratterizzano il disturbo e com- promettono il funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti della vita dei soggetti che intrattengono il disturbo.

Il problema diagnostico assume un ruolo di particolare rilievo, dal momento che si tratta di un disturbo situato al crocevia nosografico tra i disturbi somatoformi, i disturbi alimentari, le ossessioni e il delirio. Il disturbo di dismorfismo corporeo prende qualcosa da ciascuno di essi e lo ricombina in una forma assolutamente caratteristica. Pertanto, la diagnosi differenziale, il decorso e la comorbidità sono considerati con particolare attenzione.

La valutazione del disturbo è l’argomento della seconda parte del volume, che presenta, oltre a una panoramica degli strumenti più diffusi e utilizzati, al- cune nostre proposte originali. L’assessment rappresenta una fase fondamentale in ogni trattamento, per capire il funzionamento del paziente, la dinamica dello scompenso, i fattori di mantenimento della patologia e per costruire una buona alleanza terapeutica. In modo particolare, l’assessment assume notevole rilevanza proprio nel trattamento del paziente con BDD (body dysmorphic disorder), che arriva spesso in terapia senza una grande motivazione e senza consapevolezza di malattia.

Viene poi preso in considerazione l’intervento psicoterapeutico, definito in termini strategici e con ampi riferimenti alle tecniche da utilizzare. Questa parte contiene anche degli strumenti, concepiti ad uso del terapeuta, destinati al supporto sia del paziente sia dei suoi familiari.

Infine, un ultimo capitolo riporta alcuni casi clinici in cui emerge lo sforzo, spesso solo parzialmente efficace, di lenire il dolore e la sofferenza di persone ec- cessivamente preoccupate da difetti nell’aspetto fisico, che vengono percepiti come orribili e che procurano disagio e menomazioni nel loro funzionamento sociale e lavorativo. A volte gli altri cercano di attribuire a questi difetti il significato di piccole anomalie, ma così facendo non comprendono fino in fondo l’importanza che invece rivestono per chi vede queste piccole anomalie come il segno di una drammatica deformità.

 

ARTICOLI E RISORSE SUL DISMORFISMO CORPOREO / DISMORFOFOBIA

PROFILO DI ANTONIO SCARINCI

PROFILO DI ROBERTO LORENZINI

Come NON smettere di fare sesso – Video –

All’inizio di una relazione il desiderio sessuale è alle stelle. La voglia di conoscere e possedere l’altro ci porta alla continua ricerca del suo corpo, ogni gesto è vissuto con intensità e totale appagamento dei sensi e della mente. Perché, a un certo punto del rapporto, la magia è destinata a svanire?

Ce lo racconta in questo video Alain De Botton, saggista e imprenditore culturale, spiegandoci i dettagli delle fasi di una relazione di coppia, i desideri inespressi e le trappole auto-ingannevoli che minano il desiderio sessuale.

Che cosa ci spinge, ci chiede l’autore, a varcare i confini dell’altro mettendo fine alla nostra e altrui indipendenza? Perché ci costringiamo a perdere i sostegni della nostra autonomia?

Limitare la libertà dell’altro crea l’illusione di diminuire le possibilità di perderlo, ma questa strategia ha un costo molto alto che si paga nella camera da letto. Come fare dunque per tornare all’eccitazione dei primi tempi, senza dover arrivare al doloroso processo della separazione?

SOTTO AL VIDEO TROVATE LA RISPOSTA (traduzione della voce narrante):

Perché perdiamo interesse per il sesso?

Lo sanno tutti che all’inizio succede di continuo. E che poi, man mano che la relazione va avanti, non più. Diciamo che è perché siamo troppo indaffarati o stanchi, o solo che non siamo “dell’umore”. Ma perché questo importante umore sparisce? Per capire l’eccitazione dobbiamo tornare ai primi tempi, quando eravamo profondamente “dell’umore” quasi ogni ora.

La cosa eccitante era la nostra possibilità di toccare, stringere, accarezzare, in breve, di possedere una persona che non era completamente raggiungibile, una persona che era indipendente e libera di allontanarsi da noi e che tuttavia decideva miracolosamente di non farlo. Per dirla con un’equazione: Erotismo = possesso + libertà.

L’elettrizzante desiderio di varcare i confini del corpo di un’altra persona deriva dall’attiva e incantata meraviglia del fatto che lei ci ha autorizzati a esserle così vicini e, in qualche angolo della nostra mente non del tutto cosciente, dalla preoccupazione che potrebbe non farlo per sempre.

Purtroppo, desiderare qualcuno significa quasi sempre voler ridurre la sua capacità di sopravvivere senza di noi: nel modo più carino, cerchiamo incessantemente di erodere la libertà della persona che amiamo.

E così, gradualmente, uccidiamo proprio lo spirito di indipendenza che ha sostenuto il nostro desiderio fin dall’inizio. C’è un’altra cosa che logora l’impulso sessuale: la paura. Per quanto possa sembrare strano, chiedere a una persona di fare sesso con noi di solito porta con sé un elemento di rischio.

L’altra persona potrebbe dire no o persino, al limite: “Questo non lo farei mai!”. Il sesso è una richiesta e, per fare una richiesta, dobbiamo sentirci ragionevolmente sicuri rispetto a un rifiuto. All’inizio proviamo quella sicurezza perché, anche se non conosciamo così bene il nostro amante, siamo indipendenti. Abbiamo le nostre routine, le nostre alternative e la nostra autonomia. Se non funzionasse, potremmo andare via.

Per amore, gettiamo i sostegni della nostra vita indipendente, ci intrecciamo all’altro, non ci rimane più molto che possa essere considerato esattamente nostro. Inoltre, abbiamo continuamente delle richieste da fare all’altro: vogliamo che compri il divano che ci piace, vogliamo davvero tanto non andare a trovare i suoi genitori a Natale. Dipendiamo dal suo reddito quando ci rimettiamo a studiare per prendere un nuovo titolo di studio. In queste circostanze, un’ulteriore richiesta potrebbe sembrare eccessiva, per questo non parliamo davvero di quello che vorremmo fare con la maschera o con gli stivali che arrivano alla coscia.

Non abbiamo più voglia di perdere la faccia di fronte a un partner con cui negoziamo ogni giorno. Sembra più facile lasciare le cose come stanno.

Stranamente, c’è una cosa pressoché garantita per rianimare il sesso: una lite furiosa, con una reale possibilità di separazione.

Le peggiori litigate hanno la curiosa abitudine di concludersi in camera da letto, perché riportano alla luce due aspetti la cui apparente assenza ha gravemente minato il sesso: primo, l’idea che in teoria potreste allontanarvi entrambi; secondo, l’idea che entrambi potreste, anche se non è detto che sarebbe facile, sopravvivere l’uno indipendentemente dall’altra. Potreste, se voleste davvero, ricostruire il vostro castello, recuperare il vostro destino e salutare l’esistenza come anima indipendente.

Il buon sesso ha bisogno di tutto questo, si fonda su un senso di libertà e di ottimistica fiducia in se stessi, due cose che possono diventare molto scarse con il passare del tempo.

Per tornare all’eccitazione dei primi tempi, dobbiamo imparare le migliori lezioni del separasi, senza dover passare attraverso il tristissimo e doloroso processo di una vera separazione.

 

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L’insegnamento e l’apprendimento sono influenzati dalle variabili sociali che si creano fra docente e discente. Affinché ogni alunno possa apprendere nella maniera ottimale, non deve sentire minacciato lo schema di sé dall’alta competenza dell’insegnante.

Abstract

L’insegnamento e l’apprendimento sono influenzati dalle variabili sociali che si creano fra docente e discente. Affinché ogni alunno possa apprendere nella maniera ottimale, non deve sentire minacciato lo schema di sé dall’alta competenza dell’insegnante. È compito, quindi, di chi insegna far sentire il discente portatore di una ricchezza culturale, derivante dai precedenti apprendimenti, dai processi biografici e dalle esperienze di vita.

Keywords: psicologia sociale, insegnamento, apprendimento, psicologia dell’educazione

La dinamica insegnamento – apprendimento

Nell’ambito della dinamica insegnamento – apprendimento esistono una serie di variabili psico-sociali che possono influenzare entrambi i processi, come sottolineato da Monteil e Huguet (2002), citati in Carugati (2011, pag. 44).

Importante a questo riguardo è lo schema di sé che ciascun alunno costruisce nel corso della propria storia sociale. Tale percezione è alimentata anche dalle esperienze scolastiche che il bambino compie nell’ambito della sua scolarizzazione (Carugati, op. cit., pag. 44). Paradigmatico, in questo campo, è il confronto sociale che il minore effettua, paragonando se stesso agli altri scolari della classe che frequenta (Carugati, op. cit., pag. 47).

La valutazione

Un posto di rilievo nella vita quotidiana dei contesti scolastici lo occupa la valutazione che ogni scolaro riceve per le sue prestazioni. Questo giudizio è una variabile sociale che concorre alla costruzione dello schema di sé. In altri termini, il voto che ciascun alunno riceve assume significato non in rapporto al suo valore assoluto, ma in funzione di un relativismo sociale endemico alla classe. In pratica, avere la sufficienza in un ambiente dove tutti gli altri sono stati valutati con giudizi ottimi ha un significato sociale particolare per il soggetto, che trascende la votazione in sé.

L’autovalutazione

Il confronto sociale è alla base di un processo caratteristico di ogni persona che è l’autovalutazione, come messo in evidenza da Festinger (1954) a partire dalla metà del secolo scorso. Secondo lo psicologo sociale, citato in Carugati (op. cit., pag. 50), l’autovalutazione è un bisogno fondamentale dell’essere umano che ha la finalità di agevolare l’adattamento all’ambiente, dirigendo le azioni dell’individuo. Il confronto sociale, alla base dell’autovalutazione, avviene con persone che si sentono vicine a sé per estrazione sociale, storia personale, ma che raggiungono delle prestazioni migliori. Una ricerca fatta agli inizi del ventunesimo secolo (Huguet, Dumas, Monteil e Genestoux, 2001) in una scuola media francese dimostra che gli alunni tendono a confrontarsi …con compagni dello stesso livello sociale, ma con dei voti leggermente superiori ai propri… (Carugati, op. cit., pag. 51).

L’influenza sociale dell’insegnante

Nell’ambito delle dinamiche sociali, che si creano negli ambienti scolastici, il binomio insegnamento – apprendimento è anche frutto dell’influenza sociale che l’insegnante (fonte d’influenza) esercita sull’alunno (bersaglio) (Carugati, op. cit., pag. 52).

Affinché tale processo sia il più proficuo possibile, il bersaglio non deve sentire minacciato lo schema di sé e questo avviene nella misura in cui percepisce come non pericolosa per la sua autostima l’alta competenza della fonte d’influenza. Infatti, come sostiene Carugati ( op. cit., pag. 53)

una minaccia per il sé del bersaglio fa sì che il suo funzionamento cognitivo sia focalizzato sul confronto sociale, lasciando poche risorse socio-cognitive per la comprensione e l’elaborazione del compito…In altre parole, se due partner non riescono a riconoscere la reciproca complementarietà e si focalizzano sulla minaccia che per ciascuno rappresenta la competenza dell’altro, producono un rendimento cognitivo inferiore al potenziale di ciascuno, malgrado la loro competenza individuale…

L’alunno come portatore di una ricchezza individuale

Alla luce di queste considerazioni, il docente deve far sentire l’alunno portatore di una sua competenza individuale, frutto dei suoi apprendimenti, dei processi biografici e delle esperienze di vita. In pratica, latore di una perizia che si adatta in maniera complementare a quella dell’insegnante e che insieme ad essa concorre a formare un’unità globale. Questa sintesi è frutto di un processo cooperativo che lascia ad entrambi una certa libertà d’azione, che diventa la base della cultura dell’impegno. Con il termine di impegno si intendono …le condizioni in cui la realizzazione di una condotta può essere imputata soltanto a colui che la mette in atto… (Carugati, op. cit., pag. 59).

 

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BIBLIOGRAFIA:

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