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Il sogno come luogo sicuro per l’integrazione del trauma nel PTSD?

La funzione dei sogni potrebbe essere terapeutica nel PTSD permettendo di integrare le memorie e di rendere le emozioni associate meno pervasive

Di Elisa Andreoli, Maria Pia Zonno

Pubblicato il 05 Ott. 2020

Qual è la funzione dei sogni nel PTSD? I sogni, in special modo quelli REM, hanno un ruolo nella regolazione emotiva quindi ci si è chiesti se possano facilitare anche l’integrazione di vissuti emotivi minacciosi, come negli incubi dei soggetti che hanno vissuto un trauma.

Elisa Andreoli e Maria Pia Zonno – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

 

Nel corso della storia, gli esseri umani hanno interpretato i sogni in modo diverso. Per gli antichi egizi e per i greci, i sogni erano messaggi degli dei; è toccato poi ai filosofi farsi affascinare per migliaia di anni, fino a quando anche psicologi e psichiatri hanno iniziato ad occuparsene. Tra questi, il primo ad elaborare una complessa teoria fu Sigmund Freud, per il quale i sogni sarebbero l’espressione di desideri repressi, la via maestra per giungere all’inconscio. Recentemente, sonno e sogni costituiscono un terreno di studi soprattutto per neurologi e neurofisiologi, impegnati a scoprire quali siano le funzioni dell’attività onirica nel nostro cervello.

Oggi sappiamo che il sonno non è un fenomeno passivo, omogeneo e statico, ma, al contrario, è un processo dinamico, complesso e attivo, in cui il nostro cervello non smette mai di lavorare (Stickgold, Walker, 2009).

La comprensione del sonno è stata profondamente modificata dalle scoperte di Aserinsky e Kleitman (1953) e Kleitman e Dement (1963) che permisero di introdurre il concetto di architettura del sonno, distinto in due fasi: una fase non–REM o sonno lento (a sua volta suddivisa in quattro stadi) e una fase REM (rapid eye movement). Quest’ultima viene definita come sonno paradosso in quanto mentre il soggetto dorme profondamente, la sua attività cerebrale è simile a quella della veglia. Per questo si è ipotizzato, e poi confermato, che fosse questa la fase del sonno maggiormente associata all’attività onirica. A partire da questa scoperta molti lavori scientifici hanno cercato di dare una risposta al perché dormiamo e sogniamo.

Ormai è noto il ruolo che il sonno gioca nel consolidamento dell’apprendimento e della memoria. È soprattutto durante il sonno REM che si formano nuove sinapsi che consolidano ciò che si è appreso durante il giorno (Boyce et al., 2016). L’influenza positiva del sonno sulla memoria è collegata anche all’azione dei sogni.

Oggi sappiamo che sogniamo durante tutta la notte, ma esistono delle differenze tra i sogni della fase NREM e REM. I sogni del sonno lento servirebbero alla stabilizzazione della memoria, con contenuti prevalentemente riferiti alla vita quotidiana e con una minore risonanza emotiva (Stickgold et al., 1994), mentre i sogni della fase REM servirebbero alla riorganizzazione dei ricordi, confrontando e integrando le nuove esperienze con quelle già immagazzinate. Questi sogni sono molto più complessi, hanno contenuti emotivi più intensi; in essi crediamo di correre, di arrampicarci, possiamo vedere noi stessi fare qualcosa, come nel caso dei cosiddetti ‘sogni ad occhi aperti’ o sogni lucidi, in cui chi sogna è consapevole che sta sognando ed è in grado di agire volontariamente sul proprio sogno, modificandolo (Antrobus e Wamsley, 2009). Mentre quindi il corpo riposa, il cervello impara. Curiosamente, il contenuto dei sogni pare possa essere correlato con il consolidamento dell’apprendimento: tra i soggetti che imparano una seconda lingua, ad esempio, coloro i quali mostrano progressi sin dalle prime fasi, dichiarano di aver esercitato le loro abilità linguistiche durante i loro sogni (Stickgold e Walker, 2009). Non a caso una delle funzioni che avrebbe l’attività onirica è aiutare le persone a risolvere i problemi e a fare scoperte creative. Alcuni studi hanno infatti mostrato come studenti risvegliati dalla fase REM utilizzino strategie differenti, più creative per risolvere anagrammi rispetto a quelle utilizzate se risvegliati dalla fase NREM che assomigliano invece molto più a quelle solitamente usate da svegli (Stickgold e Walker, 2009).

Da un punto di vista evolutivo, invece, la funzione dei sogni potrebbe essere quella di far rivivere le esperienze della veglia in un’ottica di sopravvivenza della specie. Riproponendo, infatti, le esperienze vissute durante il giorno, il sogno permetterebbe sia di affinare le capacità di coping verso tali situazioni, sia di ridurre il tempo di latenza della risposta ai pericoli; una sorta di vero e proprio simulatore ‘offline’, che dà la possibilità di aumentare il successo riproduttivo della specie (Revounso, 2000).

Inoltre numerosi studi esaminati indicano che il sonno e la perdita di sonno possono rispettivamente influenzare positivamente e negativamente il recupero di ricordi, sia emotivi che neutri (Tempesta et al., 2018). Un’altra importante funzione del sonno è correlata alla regolazione delle emozioni: l’umore è più influenzato dalla perdita del sonno rispetto a prestazioni cognitive o motorie e la perdita del sonno è comunemente associata a cambiamenti dell’umore, ad un aumento dell’irritabilità soggettiva e volatilità affettiva. (Tempesta et al., 2015). Non solo, i potenziali effetti della perdita del sonno o della sua scarsa qualità sono stati notati anche su processi emotivi più complessi, come quelli coinvolti nell’empatia: diventiamo meno capaci di comprendere i sentimenti degli altri e di essere empatici con loro (Kilgore et al., 2008). Anche i sogni, in special modo quelli REM, hanno un ruolo nella regolazione emotiva: essi sembrano limare l’impatto emotivo di ricordi spiacevoli, facilitandone ulteriormente l’integrazione in memoria.

Se, dunque, i sogni ricoprono un ruolo nel processo di consolidamento delle memorie emotive, ci si è chiesti se possano facilitare anche l’integrazione di vissuti emotivi minacciosi, come negli incubi dei soggetti con disturbo da stress post-traumatico (post-traumatic stress disorder, PTSD) e se ci possa essere quindi una funzione dei sogni, in un certo senso, ‘terapeutica’ fornendo un luogo sicuro per l’integrazione del trauma.

Chi soffre di PTSD sperimenta vissuti emotivi di angoscia e paura che li perseguitano sia di giorno, attraverso flashback e memorie intrusive, che di notte, con gli incubi (Rothbaum e Mellman, 2001). Circa il 90% delle persone che sviluppano PTSD, riferisce una maggiore compromissione del sonno, frequenti risvegli e sogni inquietanti legati all’evento, che possono persistere persino per decenni dopo il trauma (Mellman et al., 2001). Infatti, la presenza di sintomi intrusivi e incubi rappresenta uno dei criteri per la diagnosi del disturbo da stress post traumatico del DSM-5 (APA, 2013).

Gli incubi e i disturbi del sonno sono fortemente correlati con la gravità dei sintomi del PTSD, contribuendo al suo sviluppo e mantenimento, oltre a favorire l’insorgenza di problemi psichiatrici quali ansia e depressione (Rothbaum e Mellman, 2001). L’insonnia è associata anche ad un aumento del rischio di sviluppare disturbi della salute fisica (ipertensione, malattie cardiovascolari), ad un aumento dell’uso di alcol e, infine, incide negativamente sulla qualità della vita e su alcune funzioni come attenzione, memoria e strategie di coping (Stickgold, Walker, 2009; Talbot et al., 2014; Miller et al., 2017).

Tra le terapie evidence based per il PTSD vi è il protocollo di esposizione prolungata di Foa (Foa et al., 1986), che consiste nel sostenere il paziente a confrontarsi con informazioni relative al trauma vissuto, riattivando in questo modo il ricordo traumatico. Tale riattivazione costituisce un’opportunità per il paziente di integrare informazioni correttive modificando così gli elementi patologici della memoria traumatica, in un contesto sicuro come il setting terapeutico. Questa terapia si fonda sulla teoria dell’elaborazione emotiva (Foa e Kozak, 1986) secondo la quale il PTSD emerge a causa dello sviluppo di una rete di paura nella memoria che suscita comportamenti di evasione e fuga (Foa et. al., 1989), in quanto le informazioni associate al trauma sono copiose e molto accessibili, dunque rischiano frequentemente di attivare la struttura della paura facendo rivivere l’esperienza traumatica. La terapia di successo per il PTSD comporta quindi la correzione di elementi patologici della struttura della paura e questo processo correttivo è l’essenza dell’elaborazione emotiva.

Sono state avanzate diverse teorie per spiegare quale sia allora la funzione dei sogni, degli incubi in particolare, nel PTSD e il loro ruolo nella patogenesi e nel mantenimento del disturbo. Freud presupponeva che gli incubi riflettessero i tentativi di dominare l’ansia e la colpa associate ad un’esperienza traumatica e di integrarle nella propria psiche durante il sonno. Studi recenti, combinando le osservazioni empiriche sul ruolo del sonno REM nell’apprendimento, nel consolidamento della memoria, nell’elaborazione emotiva e nell’adattamento allo stress, giungono ad una considerazione simile a quella freudiana, ovvero che la funzione dei sogni sia una funzione di adattamento emotivo agli eventi emotivamente salienti o traumatici (Stickgold, Walker, 2009).

Il primo a ipotizzare un ruolo terapeutico per il sonno, fu Hartmann (1995) che notò molte similarità tra il sonno (REM) e la psicoterapia. Entrambi, infatti, prevedono associazioni libere tra pensieri, memorie e immagini, la creazione di connessioni mentali e la prevenzione dell’acting out; tutto, all’interno di un ambiente sicuro: l’alleanza terapeutica per la psicoterapia, il proprio letto e l’atonia muscolare per il sonno REM. Per dimostrare la sua ipotesi, Hartmann analizzò gli incubi delle vittime di traumi come incendi, stupri, rapine, e notò che in essi si verificavano delle connessioni tra diverse memorie che avevano a che fare con l’emozione predominante vissuta dal sognatore: la paura (Hartmann, 1996). Nello specifico, gli incubi, inizialmente riproducono il trauma più o meno fedelmente a come è stato vissuto, per poi integrare altri ricordi simili presenti nella memoria del soggetto. Non appena avviene la connessione tra il trauma e il resto del materiale mnestico, l’emozione diviene meno potente e sopraffacente ed il trauma viene gradualmente integrato. Col tempo la memoria traumatica gioca un ruolo sempre meno importante all’interno dell’incubo, che pian piano si trasforma in un sogno relativamente tranquillo e con una carica emotiva meno forte.

Se ciò è quanto avviene in un incubo, Hartmann (1996) ipotizzò che tutti i sogni potessero avere una funzione terapeutica dal momento che permettono di integrare le memorie; qualcosa di simile a quello che succede durante un’esposizione in terapia (Rothbaum e Mellman, 2001).

È ormai noto in letteratura il ruolo del sonno REM nel consolidamento delle memorie affettive (Van Der Helm e Walker, 2009; 2012), le quali sono ricordate meglio rispetto a quelle neutre. Con la teoria ‘sleep to forget, sleep to remember’, Van Der Helm e Walker (2009) dimostrano in che modo il sonno REM contribuisce all’immagazzinamento dei ricordi emotivamente salienti. In questa fase del sonno, si ha l’attivazione di amigdala e ippocampo, responsabili del processamento e della ritenzione a lungo termine delle memorie a carattere emotivo e, contemporaneamente, si ha una soppressione dell’attività adrenergica, che implica una riduzione dell’attivazione fisiologica associata al ricordo emotivo (Van Der Helm e Walker, 2009). Secondo questa teoria, quindi, dormiamo per dimenticare (forget) l’emozione e dormiamo per ricordare (remember) l’esperienza. Sulla base di tali caratteristiche neurofisiologiche del sonno REM, che permettono sia il consolidamento del ricordo, sia la dissipazione della carica emotiva ad esso associata, si ipotizza che esso possa avere una funzione simile a quella di ‘terapia notturna’ (Van der Helm e Walker, 2012).

 Il grado con cui l’informazione relativa all’esperienza emotiva viene immagazzinata nella memoria a lungo termine, è però direttamente proporzionale all’ammontare del sonno REM raggiunto durante la notte. Se il processo di separazione dell’emozione dalla memoria non viene raggiunto durante la prima notte di sonno successiva all’esperienza traumatica, avverranno ulteriori tentativi nelle notti successive. In questo modo, notte dopo notte, si verificano gli incubi (Van der Helm e Walker, 2012). La letteratura riporta infatti di un sonno REM più attivo in pazienti con PTSD rispetto a quelli senza PTSD, caratterizzato nello specifico da una maggiore frequenza dei movimenti oculari, frequenti riattivazioni motorie e risvegli (Rothbaum e Mellman, 2001). Non solo, ma lo stato di iperarousal notturno e la riduzione dell’attività parasimpatica della fase REM, sono stati correlati agli incubi (Miller et al., 2017), suggerendo che l’esposizione al trauma produce uno stato di maggiore eccitazione neurobiologica che causa l’interruzione del sonno, che, a sua volta, può impedire l’elaborazione adattiva delle memorie emotive a seguito di un evento traumatico.

Secondo questa prospettiva, gli incubi sarebbero quindi il risultato di una interruzione dei processi di regolazione emotiva, un’elaborazione non riuscita durante il sonno REM (Levin e Nielsen, 2007). Secondo Rothbaum e Mellman (2001), infatti, la minaccia dell’evento traumatico rivissuta nei sogni dei pazienti con PTSD, può sembrare talmente reale che il soggetto può svegliarsi sentendosi come appena sfuggito al pericolo, confermando la natura minacciosa del materiale traumatico. Ciò è indice del fallimento del processo di integrazione e promuove una sensibilizzazione, anziché una desensibilizzazione, alle memorie traumatiche. Negli incubi, infatti, l’esposizione sarebbe di durata insufficiente per la desensibilizzazione, ma sufficientemente minacciosa, tanto che la persona può sentirsi incapace di fronteggiarla. Inoltre, la paura degli incubi e la relativa paura di andare a dormire, vengono considerate dal soggetto come un ulteriore segnale di debolezza.

Nielsen e Levin (2007; 2009) supportano la tesi secondo la quale il sogno svolgerebbe una funzione di estinzione della paura, in modo che il cervello non ne venga sopraffatto. Un brutto sogno riesce quindi a gestire un’emozione, seppur intensa e negativa, ed è funzionale perché da esso non ci svegliamo. Gli incubi, invece, consentendoci una fuga precoce dal contenuto onirico, cioè un risveglio, rappresentano un fallimento del sistema di estinzione della paura. Il modello proposto dai ricercatori, supporta la tesi secondo la quale gli incubi e la sintomatologia del PTSD sono associati ad un’interruzione all’interno di una rete cerebrale di regioni limbiche, paralimbiche e prefrontali che costituiscono il centro di controllo per una serie di processi emotivi, tra cui la percezione e la rappresentazione di stimoli emotivi, l’espressione e la regolazione delle risposte emotive (Levin e Nielsen, 2007; 2009). Queste strutture, note con il nome AMPHAC, includono l’amigdala, l’estensione della corteccia prefrontale mediale, l’ippocampo e la corteccia cingolata anteriore. È stato osservato che l’attività di queste regioni risulta in qualche modo compromessa nei soggetti con PTSD e correlata ai disturbi del sonno (iperarousal, insonnia) ad un aumento della frequenza ed intensità degli incubi, e ad alcune caratteristiche specifiche, comunemente osservate, come la mancanza di controllo emotivo, le caratteristiche bizzarre del sogno e la riproduzione di memorie traumatiche (Levin e Nielsen 2007; 2009; Stickgold e Walker, 2009). Per questo i ricordi traumatici continuano a perseguitare chi non riesce ad elaborare ansie e paure durante il sonno. Tuttavia, esistono prove a sostegno della possibilità che i sogni possano svolgere funzioni adattive. Sogni che sono di natura più integrativa (cioè incorporano riferimenti relativi all’evento traumatico e non) e meno perturbatori, avrebbero una maggiore probabilità di favorire l’integrazione emotiva (Rothbaum e Mellman, 2001).

Riassumendo, i sogni hanno, in una certa misura, una funzione terapeutica in quanto favoriscono l’integrazione di nuove memorie con quelle esistenti, oltre a rendere le emozioni ad esse associate meno pervasive (Stickgold, Walker, 2009; Hartmann, 1995, 1996; Van Der Helm e Walker, 2009; 2012, Nielsen e Levin 2007; 2009; Rothbaum e Mellman, 2001), ma per poter svolgere questa funzione, devono verificarsi certe condizioni. La premessa più importante è che sia presente una buona quantità e qualità di sonno, in particolare della fase REM (Van der Helm e Walker, 2012); inoltre i sogni non devono essere eccessivamente perturbatori ed invalidanti dal punto di vista del contenuto emotivo, per poter permettere l’integrazione del ricordo e promuovere la desensibilizzazione al vissuto emotivo (Rothbaum e Mellman, 2001), e per poter evitare il risveglio e dunque l’interruzione di questo processo (Nielsen e Levin, 2007; 2009).

Alcuni studi (Forbes et al. 2003; Moore e Krakow 2007) hanno dimostrato l’esistenza di un approccio efficace nel diminuire per frequenza e intensità gli incubi e i disturbi del sonno in pazienti con PTSD, oltre ad attenuare la severità di altri sintomi intrusivi. Si tratta della terapia di ripetizione immaginativa (Imagery Rehearsal Therapy, IRT) ideata da Krakow (Krakow et al., 2001), nella quale si incoraggia il paziente a cambiare l’incubo, provando a immaginarselo in maniera differente (per esempio, modificando il finale) creando una nuova versione meno angosciante, e a ripeterlo mentalmente finché l’incubo non riduce la sua frequenza.

Inoltre la letteratura suggerisce che trattare i disturbi del sonno immediatamente dopo l’esposizione al trauma possa ridurre lo sviluppo o la severità del PTSD permettendo di consolidare e generalizzare l’estinzione delle memorie traumatiche (Socci et al. 2020). In particolare ripristinare il sonno REM, sulla base delle importanti funzioni che abbiamo visto appartenergli, può comportare un’appropriata estinzione delle paure nel PTSD, e può anche promuovere l’iniziale consolidamento delle memorie di paura, esercitando così un effetto opposto sulla reattività emotiva delle prime conseguenze del trauma. Ciò implica che l’individuazione di una precisa e strategica finestra temporale per il trattamento del sonno sia un punto di partenza importante per le future ricerche sui disturbi trauma-correlati.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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