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Intervista con Dacia Maraini: la raccoglitrice di storie

Letteratura & Psicologia: In questa intervista, che ha voluto sottolineare “è molto intima” la scrittrice va oltre, accetta di parlare del sé più interiore

Di Cristiana di San Marzano

Pubblicato il 19 Gen. 2015

 

Una raccoglitrice di storie, così si è definita una volta Dacia Maraini. A cominciare dalla sua, che ha raccontato con la passione dell’indagatrice in Bagheria. In questa intervista, che ha voluto sottolineare “è molto intima”, la scrittrice va oltre, e accetta di parlare del sé più interiore. Le paure, le ansie, anche i momenti di depressione. E analizza il senso di inadeguatezza con cui devono fare i conti molte donne, anche lei.

 

In un’intervista “a tema” come questa, ha difficoltà a parlare di se stessa, ad aprire il suo mondo interiore?

Ma no, lo faccio continuamente. Sembra un paradosso, per una persona timida come me, ma scrivere vuol dire mettersi a nudo.

 

Nel suo libro Amata scrittura, si legge: “Scrivere è come andare in analisi”. La scrittura per lei è stata terapeutica?

Certo, terapeutica. Ho capito, scrivendo, molte cose di me e dei miei rapporti col mondo. Mi ha tenuta lontana dalle nevrosi che appartengono al nostro tempo, anche se qualche periodo di depressione l’ho patito.

 

Ci può parlare di quei periodi?

Quando ho sofferto di depressione, di panico, non dormivo più. Mi sentivo mancare l’aria e mi girava la testa. Ho consultato un medico che mi ha subito prescritto degli ansiolitici. Li ho presi ma dopo un poco mi sono stancata. Ho una istintiva antipatia per i farmaci. Li prendo per un po’ ma poi smetto. Al massimo mando giù un tranquillante per dormire. Ho sempre sofferto di insonnia. Il che ha giovato alle mie letture, ma non al mio riposo.

 

Ha mai avuto esperienze di psicoterapia?

Ho consultato un medico molto simpatico di Salerno, consigliatomi da una amica. Ma non ho fatto analisi, solo qualche chiacchierata. Lo scrivere in effetti mi aiuta a superare i momenti difficili, che poi sono quelli della vita quotidiana: una sorella morta troppo presto, un uomo amato che muore di leucemia.

 

Le succede di avere crisi d’ansia, addirittura di panico?

Sì, mi è successo qualche anno fa. Lì per lì ho avuto paura. Pensavo che fosse il cuore. Ho fatto tutte le analisi e non è venuto fuori niente. Ho capito che era depressione quando ho cominciato a leggere sui sintomi e sul fatto che è una malattia molto comune . E’ allora che ho parlato con il medico di Salerno. L’ho visto in tutto cinque o sei volte. Per fortuna poi le cose si sono sistemate da sole.

 

Cosa intende quando dice che le cose si sono sistemate da sole?

Vuol dire che non ho più avuto attacchi d’ansia e non ho più preso gli ansiolitici

 

Rabbia, aggressività, sono sentimenti con cui le capita di dovere fare i conti?

Per fortuna ho un carattere tollerante. Non mi arrabbio facilmente e sono quasi sempre disposta a capire l’altro. Anzi, quello è proprio il mio problema. Mi metto troppo nei panni degli altri. Tanto che, come un famoso personaggio di Calvino, tendo a cadere dentro l’altro. Probabilmente è un processo che conoscono gli scrittori, o forse anche gli attori, cercando di raccontare e immedesimarsi nei personaggi.

L’aggressività, credo di averla sublimata, come succede a tante donne. La storia ha insegnato alle donne come sublimare. Era un loro dovere a cui non potevano sottrarsi. La sublimazione è proprio questo: trasformare l’aggressività in attenzione verso l’altro, comprensione, cura. Certo qualche volta questo processo non funziona. E la rabbia diventa rabbia. Ma sinceramente non ho mai sofferto di crisi di aggressività.

La rabbia me la suscitano le ingiustizie. E le donne ne subiscono molte. Ma cerco, scrivendo, di trasformarla in buone forze di denuncia, di comprensione del problema, e cerco il modo di risolvere le cose, soprattutto creando rete, creando solidarietà. L’aggressione è sempre fine a se stessa. E di solito rifiuta il ragionamento e ogni progetto per il futuro.

 

Può dirci che cosa la fa più soffrire? Mi spiego, quasi tutti dobbiamo fare i conti con una parte di noi che ci provoca dolore, per esempio “mi sento orfano”, “non sono all’altezza”, “non sono amato”…

Come tutte le donne – o per lo meno la maggioranza di esse – mi sento spesso inadeguata, incapace, insufficiente.

 

Che cosa le provoca questo senso di inadeguatezza?

Inadeguatezza vuol dire non sentirsi all’altezza del compito che ci siamo prefissi, sia professionalmente che sentimentalmente. Vorrei fare di più ma mi sembra di non riuscirci. Qualche volta vengo smentita dalle reazioni degli altri e allora capisco che avevo esagerato nel buttarmi giù. Ma istintivamente – però forse dovrei dire culturalmente, perché è un atteggiamento storicamente acquisito soprattutto dalle donne che si sono        sempre sentite dire che erano inferiori, erano colpevoli, erano impure, erano pericolose, erano dannose, eccetera – tendo a criticarmi severamente e sentirmi incapace.

 

Quando arriva la sofferenza, mette in atto una reazione difensiva?

Di fronte a qualsiasi sofferenza, penso di scriverne, per capire meglio e forse anche per superarla.

 

Negli anni come si è modificata questa reazione difensiva?

Con l’età, credo di avere imparato a prendere le distanze forse meglio di prima. Mi aiuta la curiosità verso l’altro, l’ironia, il giudizio.

 

Il dolore, nelle sue diverse manifestazioni, ansia, depressione, rabbia, se accolto e riconosciuto, può diventare un punto di forza?

Credo che non si possa sfuggire al dolore. Ciascuno si crea delle strategie per superarlo. La cosa più sbagliata è cacciare la testa sotto la sabbia. Le cose vanno affrontate. Con sincerità, per lo meno verso se stessi.

 

Secondo lei le donne riconoscono e affrontano il dolore in maniera diversa dagli uomini?

Sì, ma non per una tendenza naturale. Io credo che gli esseri umani nascano uguali, nel senso della natura, ma poi ci pensa la cultura a modificarli, suggerendo, anzi forzandoli a entrare dentro dei ruoli che a volte stanno stretti, sia agli uomini che alle donne.

Ma i ruoli, sono ancora molto vivi, sotto la crosta dell’emancipazione. Le donne infatti hanno imparato a soffrire con più interiorità e pudore degli uomini. E questo alle volte è una forza. Alle volte invece diventa una debolezza, ovvero si trasforma in incapacità di reagire, di difendere i propri diritti. Nelle forme estreme, diventa puro masochismo.

 

La parola malinconia cosa le suggerisce?

Un quadro di Dürer, con una donna seduta, che appoggia la testa sulla mano, e tiene il gomito appoggiato al ginocchio sollevato. La donna ha due ali piegate ma molto gonfie che si capisce molto adatte per i lunghi voli. Porta una coroncina in testa, e ha l’aria più scocciata che malinconica. Ma Dürer mi piace molto e trovo che quell’angelo imbronciato si adatti bene alla parola malinconia.

Albrecht Durer - Melancholia I - 300px
Albrecht Dürer – Melancholia I

 

E la parola felicità?

La parola felicità mi rallegra. Ma so che è rarissima la felicità e di solito ci si accorge di essere stati felici dopo che è passato il momento.

 

Possono convivere questi due sentimenti?

Felicità e malinconia? Direi proprio di no: La felicità è un sentimento in movimento, qualcosa di proiettato verso il futuro. Anzi direi che la felicità viene da un senso di leggerezza verso un presente che vede davanti a sé un futuro aperto. Mentre la malinconia è un sentimento di limite. C’è un muro davanti, come sembra vedere l’angelo di Dürer, e ci si chiede se riusciremo mai ad abbatterlo.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Maraini D. (1993). Bagheria. Rizzoli Editore, Milano.
  • Maraini D. (2002). Amata Scrittura. Rizzoli Editore, Collana Bur La Scala, 320 p. 
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