La Sindrome di Urbach-Wiethe rappresenta una tipologia di anestesia emotiva, con forti implicazioni sulla natura difensiva e dunque evolutiva, della nostra emozione primaria più antica: la paura.
Erano gli anni intorno al 2000 e nel mio tempo libero seguivo spesso una serie di documentari emessi dalla nota emittente televisiva statunitense ‘Discovery Channel’, il tema era la mente ed in uno dei tanti episodi veniva trattata l’emozione della paura.
Puntate interessanti descrittive di tutte le tematiche riguardanti questa emozione primaria, dalla fisiologia, con al centro il ruolo dell’amigdala, ai vari temi riguardanti la psicopatologia, primo fra tutti il ben noto PTSD (Disturbo da Stress Post Traumatico).
Quello che fece breccia nella mia mente fu però la descrizione di una patologia con importanti implicazioni neuropsichiatriche, la Sindrome di Urbach-Wiethe.
La puntata raccontava di una giovane ragazza che, a Parigi, salita in cima alla torre Eiffel si sporgeva per vedere la città senza minimamente riconoscere il pericolo legato all’altezza.
L’assenza di timore per le situazioni di pericolo era presente anche in molte altre manifestazioni della sua vita (ragni e serpenti non la intimorivano) (Willyard, 2010) cosicché, dopo accurate indagini mediche, le era stato diagnosticato un disturbo genetico che comprometteva il funzionamento dell’amigdala, quella struttura a forma di mandorla che dalla parte più profonda del lobo temporale si attiva in presenza di un evento che percepiamo come pericoloso: in lei l’emozione della paura era completamente assente.
La Sindrome di Urbach-Wiethe (detta anche proteinosi lipoide) è una rara malattia genetica la cui descrizione risale a due medici viennesi di inizio novecento, da cui prende il nome, uno otorinolaringoiatra e l’altro dermatologo. La sindrome infatti è caratterizzata da manifestazioni sistemiche dovute al deposito anormale di lipidi e proteine nei tessuti che portano allo sviluppo di manifestazioni otorinolaringoiatriche, quali la raucedine fino alle difficoltà respiratorie, e a manifestazioni cutanee, con assottigliamento della cute fino a lesioni cicatriziali (sono caratteristiche le lesioni a papula presenti sulle palpebre) (Parida, Misra & Agarwal, 2015).
Dal punto di vista neurologico, la malattia colpisce varie zone cerebrali con la possibilità di sviluppare sintomatologia epilettiforme con presenza di crisi convulsive generalizzate; peculiare è la compromissione delle aree cerebrali temporali, in particolar modo della regione amigdaloidea (Conti & Arnone, 2015)
Al momento una terapia specifica non è stata individuata e viene impostata una terapia a base di antibiotici e corticosteroidi al fine di contrastare gli aspetti legati alla sintomatologia sistemica.
Per quanto riguarda la sintomatologia neuropsichiatrica, caratterizzata da aspetti legati alla totale inconsapevolezza dell’emozione della paura, che rendono il soggetto facile preda di comportamenti a rischio, al momento attuale l’unico trattamento individuato è quello di tipo cognitivo grazie al quale si aiuta il paziente a riconoscere e modificare il comportamento in alcune situazioni potenzialmente pericolose (Feinstein et al., 2013)
Ultimamente la ricerca sembra aver individuato nella somministrazione di anidride carbonica una possibile fonte di stimolo alla sensazione della paura in questi soggetti, ma i risultati sono ancora controversi (Thornton et al., 2008).
La Sindrome di Urbach-Wiethe è interessante in quanto lega aspetti legati alla cognizione ad aspetti più propriamente di carattere neurologico nella cornice più ampia della malattia; ne scaturiscono riflessioni di carattere generale: tale sindrome rappresenta, in definitiva, una tipologia di anestesia emotiva con forti implicazioni sulla natura difensiva e dunque evolutiva della nostra emozione primaria più antica.Vivere senza paura è dunque possibile? O ci espone ad incidenti ed insidie che fanno parte del nostro vivere quotidiano? L’assenza della paura comporta un appiattimento dal punto di vista emotivo? Quali sono le implicazioni dal punto di vista della socialità?
Queste ed altre domande trovano al momento difficile risposta in quanto la sindrome è una malattia estremamente rara, con una prevalenza maggiore tra la popolazione sudafricana di origine nordeuropea, e perciò è difficilmente indagabile.
Unico dato che sembra certo è che non comporti significative variazioni sulla curva della mortalità nella popolazione affetta anche se, chi ne è affetto, può andare incontro progressivamente ad una forma di alterazione del comportamento di tipo degenerativo simile all’autismo (Lynn et al., 2010).