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Teatro Sociale e potenziamento dei processi di autonomia nella persona Down

Il teatro sociale si fonda su un cambio radicale di prospettiva che mette in luce quanto normalmente resta nascosto dell’esperienza teatrale

Di Federica Capriotti

Pubblicato il 13 Gen. 2020

Il Teatro Sociale è una forma di teatro che si occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi, comunità attraverso attività performative di diverso tipo. In scena però non è la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi, ma ciò che è socialmente sottratto, occultato.

Capriotti Federica – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

 La sindrome di Down è la causa più frequente di ritardo mentale. Ha una prevalenza di circa 1:700 nati vivi. Attualmente l’aspettativa di vita di un soggetto con la sindrome di Down è di circa 60 anni. In Italia i dati epidemiologici del Centro Internazionale dei Difetti Congeniti (CIDC) rilevano che la vita media dei soggetti con sindrome di Down è di 45-46 anni con una percentuale di sopravvivenza nella fascia di età tra i 45 e i 65 anni pari al 13%. In Italia vivono 49.000 soggetti con sindrome di Down (Arosio et al., 2004).

Sviluppo cognitivo nella sindrome di Down

I bambini con sindrome di Down oscillano tra un grado medio e un grado severo di disabilità intellettiva. Lo sviluppo cognitivo sembra subire ritardi importanti soprattutto dopo il secondo anno, in concomitanza con i rallentamenti dei processi di mielinizzazione (Barone, 2009). Si riscontrano difficoltà nel mantenere le abilità acquisite e la tendenza a utilizzare strategie non funzionali alla soluzione di problemi nuovi.

In età scolare e in adolescenza, l’elaborazione spaziale tende ad essere relativamente conservata in rapporto all’età verbale, mentre l’elaborazione verbale, alla base di alcuni compiti di memoria di lavoro o memoria a breve termine, risulta particolarmente deficitaria. La memoria a lungo termine sembra più compromessa rispetto ad altre forme di ritardo mentale (Barone, 2009).

Deficit nella competenza linguistica sono caratterizzati dalla presenza di competenze morfosintattiche deficitarie in compiti di produzione, comprensione e ripetizione di frasi. In uno studio volto a valutare le abilità lessicali e morfosintattiche in un gruppo di bambini con sindrome di Down con un’età mentale di 30 mesi, Vicari, Caselli e Tonucci hanno evidenziato che in questi soggetti la performance lessicale correlava con quella grammaticale, suggerendo in tal modo la possibile presenza di un ritardo nell’acquisizione lessicale e grammaticale che tuttavia non prende le sembianze di uno sviluppo atipico. Tali caratteristiche sembra siano ascrivibili a specificità della sindrome piuttosto che a un generalizzato effetto della disabilità intellettiva (Caselli et al., 2000).

Il teatro sociale come potenziamento dei processi di autonomia

Il Teatro Sociale è una forma di teatro che si occupa dell’espressione, della formazione e dell’interazione di persone, gruppi, comunità attraverso attività performative di diverso tipo. Esso coniuga l’attenzione al livello teatrale e artistico con quella dello sviluppo di comunità, promuovendo esperienze di messa in gioco e messa in azione personale e collettiva (Impresa Sociale Onlus Stranaidea).

E’ una pratica innovativa che promuove la consapevolezza, la crescita e l’empowerment (Amerio, 2000) delle persone, dei gruppi e delle comunità utilizzando diversi tipi di linguaggi artistici, processi creativi e forme di performance. Ha come finalità la crescita e il cambiamento della singola persona, nel rapporto mente-corpo-emozioni-spirito, e della comunità locale, nella sua dimensione umana, sociale e culturale (De Marinis, 2000).

Il teatro sociale è uno spazio per rafforzare legami solidali e rigenerare coesione sociale con la creazione artistica di simboli e significati condivisi: sviluppa il benessere delle relazioni nei luoghi della comunità. Può quindi essere considerato a tutti gli effetti una pratica efficace e innovativa per promuovere il benessere e per formare degli operatori che si occupano di cura e educazione, inoltre favorisce il benessere e la salute delle comunità locali e delle loro reti sociali (Impresa Sociale Onlus Stranaidea).

Il teatro sociale è oggi una forma di teatro contemporaneo su cui criticamente si sta facendo chiarezza in termini storici, teorici e metodologici (De Marinis, 2000).

Uno degli aspetti del teatro sociale è quello della drammaturgia (l’arte di comporre drammi; trattato o precettistica sull’arte drammatica; in senso concreto, complesso delle opere drammatiche di un autore o di un periodo), l’azione che si occupa del dire “drammatico” della comunità: crea le condizioni perché la comunità possa compiere delle azioni di espressione-comunicazione, raccoglie e sviluppa i diversi linguaggi-esperienze con cui il gruppo/comunità comunica, ne coglie la specificità teatrale sul piano della performance e della comunicazione, li mette in contatto con l’orizzonte storico e simbolico di una più ampia collettività, li compone in un’azione di rappresentazione nei termini di un evento di comunità. La drammaturgia fa tutto questo in un costante dialogo tra poetica individuale e creatività collettiva (De Marinis, 2000).

L’altro che è in scena non è però la realtà che ogni giorno è sotto ai nostri occhi. La messa in scena di ciò che è socialmente sottratto, occultato è lo scandalo di questo teatro, il suo maggior rischio, ma anche il suo atto politico più significativo, tanto più rivoluzionario quanto più ciò che ci viene mostrato modifica la nostra percezione della realtà e ciò che prima avremmo detto brutto ora ci pare bello (De Marinis, 2000).

C’è in molti di questi spettacoli un’interazione comunicativa forte: ne nascono spettacoli che provocano, commuovono, ma raramente lasciano indifferenti, rivolti a, fatti per chi sta seduto là oltre la scena. Questa interazione segna anche l’estetica con una presenza di segni popolari, quotidiani, comuni.

Il laboratorio nel teatro sociale

Nel teatro sociale, il laboratorio, inteso come pratica creativa di gruppo sviluppata in una situazione extraquotidiana e orientata, in una dinamica relazione anche affettiva, all’autorappresentazione, offre una condizione particolarmente efficace di lavoro. Articolato in termini di conduzione sul modello dei riti di passaggio – separazione, margine, reintegrazione -, il modello generale del laboratorio di teatro sociale si sviluppa su tre percorsi (Pontremoli et al., 2007):

  • il training psicofisico, centrato sulla scoperta del corpo come strumento di espressione, comunicazione e di relazione;
  • il training relazionale, fatto di giochi ed esercizi, finalizzati alla formazione del gruppo attraverso l’esplorazione delle dinamiche di fiducia e conflitto;
  • l’esplorazione drammaturgica, attraverso l’improvvisazione, l’invenzione narrativa, la creazione di rappresentazioni.

Nelle tre fasi del laboratorio, gli stimoli forniti dal conduttore creano dei setting teatrali nei quali quella che viene agita è la totalità della persona e del gruppo, sul piano dei vissuti, dei linguaggi, dell’immaginario, del mondo simbolico e di valori a cui fa riferimento.

Attraverso l’esperienza laboratoriale (ed in particolar modo di quella teatrale) si può migliorare significativamente la qualità di vita e dare dignità a soggetti che spesso non hanno alcuna prospettiva di vita. E’ evidente che l’organizzazione di un laboratorio teatrale richiede risorse umane e materiali considerevoli. Il personale educativo e formativo, per esempio, dev’essere messo in grado di lavorare senza improvvisazione, avere conoscenze di base specifiche da aggiornare continuamente per raggiungere la massima professionalità (Associazione Italiana Persone Down).

Un’altra chance attraverso il teatro

La presenza di una persona con disagi in scena è un segno teatrale complesso. Innanzitutto è un frammento di realtà, qualcosa che ha il sapore della “vita vera”, soprattutto delle emozioni e dei sentimenti che appartengono all’esperienza della vita. In questa ricerca di una contiguità estrema c’è forse il bisogno di uscire dai confini di un teatro autoreferenziale tanto nella sua antropologia e sociologia quanto nei suoi linguaggi. Un desiderio di mondo (parlare “di” e “con” l’altro) ha attraversato, nei primi anni Novanta, una parte del teatro. In questo senso, anche il teatro di narrazione ha cercato oggetti di discorso reali e linguaggi affabulativi che ricostruissero nella comunicazione una condizione di comunità civile (De Marinis, 2000).

Lo strumento teatro diviene sociale nel momento in cui agisce per il bene di una comunità, a favore della trasformazione e del cambiamento (Pontremoli et al., 2007).

Se consideriamo il teatro una delle maggiori arti e se consideriamo le arti un modo per interagire con il contesto socioculturale in cui viviamo, giungeremo a considerare il teatro di cui ora discutiamo come l’arte sociale per eccellenza. Un’arte che parte dall’individuo per inserirlo in un gruppo; un gruppo che diventa famiglia prima, comunità dopo. Molti (critici, storici e filosofi) infatti, definiscono il teatro come l’arte delle arti, in quanto consente a più persone di comunicare l’una con l’altra, di crescere insieme, e di farlo attraverso modalità differenti. Arte dell’incontro, arte dello sguardo che si rispecchia nell’altro, nel corpo che si rispecchia in un altro corpo, del comunicare in senso naturale, come scambio biunivoco di energie. La teatralità si esprime potenziata nel disagio, quando si ha bisogno di stringere relazioni più strette, sincere e lo scambio diventa necessità di crescita, materiale e spirituale. La terapia diventa realizzazione di obiettivi e autorealizzazione. Questo è possibile primariamente, com’è chiaro, nell’accezione di un teatro fisico, dove i corpi si incontrano e le energie si scontrano, e la fusione è data da questo contrasto (Pontremoli et al., 2007). Il teatro non è di per sé sociale, ma diviene anch’esso un ambiente fertile all’insegnamento, alla pedagogia, alla crescita personale. Ne risulta l’altissimo valore ed efficacia del teatro come terapia, appunto, per vincere le proprie resistenze e rigidità, per capire le ragioni degli altri, per superare le diffidenze e gestire gli scontri. Il teatro, in mano all’operatore esperto, è una chiave per riconoscere ad ogni persona, anche la più difficile, il proprio valore, e nello stesso tempo non lasciarla prevaricare. Teatralizzare i conflitti è ben espresso dalla locuzione “facciamo come se”: in questa maniera diventa più facile superarli, perché li si guarda dall’esterno. I conflitti diventano racconto ed esperienza. Si può scoprire di avere in sé la capacità di raccontare, di esprimersi anche in forma semplice, e lo si fa in una atmosfera non giudicante in cui tutti collaborano e condividono le loro esperienze. Il teatro rimane insomma uno dei pochi ambienti in cui è possibile sperimentare le proprie potenzialità e le relazioni con l’altro, formare un gruppo e dare alle persone un senso di appartenenza e una comunanza di intenti. È un territorio privilegiato per creare un ambiente culturale, vivere in società in modo più consapevole e accettare le nostre reciproche diversità (Pontremoli et al., 2007).

Per un disabile, per un disagiato, per una qualunque persona in difficoltà, dimostrare le proprie qualità comunicative e artistiche rappresenta la possibilità di darsi un’altra chance, dimostrare al mondo e a sé stessi che si è in grado di percorrere altre vie da quella della sofferenza e della mancanza. L’effetto della necessità interiore e dunque anche l’evoluzione dell’arte coesistono, anche se solo per l’istante dell’azione scenica, giungendo ad un picco di emozionalità personale e collettivo (Pontremoli et al., 2007).

Chi ha modo di lavorare per persone con disabilità intellettiva si accorge, con il passare degli anni, di trovarsi di fronte ad una dimensione peculiare del vivere, della percezione di sé e del mondo. Fare teatro in questa dimensione pensando di poter applicare metodi, tecniche, categorie drammaturgiche, chiavi di lettura come si utilizzano comunemente con la normale attorialità non può che portare ad un lavoro superficiale, potenziale origine di frustrazioni nell’operatore e nei partecipanti, a meno che non si voglia produrre la solita performance adattata intorno agli stereotipi, spesso non supportati da una reale conoscenza (Anffas Milano).

Non possiamo ragionare sulla categoria “disabile intellettivo” come se descrivesse un tipo dai tratti univoci e definiti. Infatti, ed è una questione universale per il teatro, le proposte di lavoro devono procedere progressivamente verso una loro declinazione individuale, persona per persona; sarebbe impensabile un lavoro efficace racchiudendo tutto il gruppo nella stessa tipologia di esercizi e di proposte.

Gli elementi tecnici, pratici, psicologici del teatro permangono, ma subiscono limitazioni o totali impedimenti secondo la condizione cognitiva ed emozionale (e naturalmente fisica) del soggetto. La memoria, l’immaginario, il simbolico, l’autoanalisi e poi l’attenzione, che nel lavoro teatrale si deve districare consapevolmente tra processi percettivi, riflessivi e di fluttuazione, si presentano con limiti e potenzialità mutevoli, non solo da persona a persona, ma per lo stesso soggetto nel corso del tempo, e contrariamente a quanto potrebbe accadere per un sedicente normale, questo impasto condizionante non riesce a divenire consapevole e governabile. Tutto il lavoro è come in balia di una condizione che non può essere vista, valutata e sfruttata a pieno dall’interessato e, conseguentemente, tantomeno dall’operatore (Anffas Milano).

Spesso manca una visione d’insieme del lavoro, intesa non solo nello svolgersi della struttura, ma anche nella comprensione del suo senso. La preparazione della performance diventa allora la preparazione della propria porzione da mostrare, nell’impossibilità di abbracciare contemporaneamente i cinque piani attentivi (sé stesso, la parte drammaturgica, lo spazio, il compagno, il pubblico), con l’attenzione convogliata sugli aspetti pratici ed esteriori del dire e del fare.

Il rischio è quello di avere come termine di paragone la “normalità” e di far tendere a quella il risultato del laboratorio (Anffas Milano). Calare il Teatro nel mondo della disabilità intellettiva non significa riportarvi il teatro della norma con riduzioni di intenti, di pretese, o semplicemente semplificandolo. Significa creare un teatro specifico incontro per incontro, delle situazioni individuali e di gruppo, in cui la tecnica teatrale è continuamente messa in discussione, a volte utile a volte limitante, da riadattare, da buttare via, da reinventare completamente; impossibile e riduttivo tentare di sistematizzarla in metodi, perché spesso ciò che nel laboratorio abbiamo trovato oggi, domani sarà scomparso e la ripetizione non basterà a ricreare le medesime condizioni soggettive per il ritorno di una parola o di un gesto (Anffas Milano).

Scopo del teatro sociale è creare ritualità civile, fare comunità, stimolare la partecipazione di tutti al bene di tutti (Bernardi et al., 2014). Le esperienze del teatro sociale e di comunità appaiono non solo modello di integrazione sociale e di mirabile intesa tra ente pubblico, privati e associazioni, ma l’annuncio di una nuova politica.

Tutte le esperienze sono caratterizzate da una magnifica disponibilità degli operatori, che funzionano come animatori: oper-attori (Bernardi et al., 2014).

Emerge il ruolo dinamico dei soggetti pubblici, delle istituzioni (ASL, comuni, province, regioni, università), che trovano, nel promuovere questi percorsi, una dimensione diversa da quella imprigionata dal circuito programmazione-acquisto-controllo (Bernardi et al., 2014).

Il teatro sociale si fonda su un cambio radicale di prospettiva che mette in luce quanto normalmente resta nascosto dell’esperienza teatrale. Questo spostamento porta in primo piano le funzioni antropologiche e sociali della teatralità, dando luogo ad una serie di conseguenze quali l’allargamento della partecipazione all’esperienza, la rottura degli statuti codificati, l’apertura delle forme, la diversa e dinamica distribuzione delle funzioni teatrali, un rapporto proficuo tra cultura e sviluppo sociale, tra arte e vita che sviluppa nuove relazioni inedite e legami sociali (Bernardi et al., 2014).

Il lavoro di teatro sociale sembra sia adeguato, proprio per la sua capacità di dialogo, di confronto e di lavoro sulle potenzialità individuali e collettive, come strumento per costruire percorsi di Empowerment individuale e comunitario (Centro Regionale di Documentazione per la Promozione della Salute).

Il teatro sociale, attraverso la gestione dei rapporti orizzontale e non verticistica che lo caratterizza, vuole produrre un cambiamento personale che nel lavoro di gruppo diventa anche un cambiamento sociale, partecipazione e collaborazione.

Protagonisti, azioni e materie che agiscono su un palcoscenico, ci consentono di capire in che modo possiamo lavorare in termini di promozione della salute.

Il laboratorio teatrale e lo spettacolo conclusivo, posti in quest’ottica, oltre a registrare miglioramenti riguardanti la fonetica, la gestualità, la sicurezza di sè, il rispetto dell’altro e delle regole, hanno mostrato che far cooperare con pari dignità ragazzi con sindrome di Down e ragazzi normodotati, sia vincente soprattutto per le ripercussioni notevoli a livello di immagine sociale efficace sugli atteggiamenti e sulle motivazioni al cambiamento, favorendo lo sviluppo dei processi di inclusione e coesione sociale che raggiunge rapidamente un ampio numero di persone e avendo ricadute positive sulla qualità della vita dell’intera comunità.

 

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