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Sindrome da Burn-out – CIM nr. 22 – Storie dalla psicoterapia pubblica

CIM – CENTRO DI IGIENE MENTALE #22

Sindrome da Burn-out

Che psichiatri, psicologi, psicoterapeuti e affini non brillino per sanità mentale è voce comune confermata dalla ricerca epidemiologica. Il CIM di Monticelli aveva già in passato dovuto affrontare la penosa e drammatica vicenda del dottor Altamura psichiatra e direttore generale della ASL conclusasi con l’omicidio annunciato della sua seconda moglie. Quasi sempre nelle improvvise esplosioni di follia tutti i parenti e i semplici conoscenti, intervistati dai giornalisti descrivono il soggetto come assolutamente equilibrato e l’episodio del tutto inaspettato. Si potrebbe pensare che la normalità sia prognosticamente infausta.

Non fu così nel caso di Biagioli che da alcuni mesi aveva peggiorato il suo già scostante carattere. Sempre più chiuso e maniacalmente immerso nel lavoro si avvertiva che covava qualcosa cui nessuno aveva accesso. Si trascurava anche fisicamente ed aveva allontanato persino gli amici storici. Secondo il dottor Irati che lo conosceva da più tempo degli altri senza che tuttavia fosse mai scoccata la scintilla dell’amicizia, assumeva degli antidepressivi sottraendoli dall’infermeria dell’ambulatorio ma a suo avviso avrebbe avuto bisogno di ben altro. Questo dopo lo dissero tutti sentendosi in colpa ma, a onor del vero, prima dei ben noti fatti l’unico a sostenerlo era proprio Irati. Dopo il ricovero all’ospedale di Vontano, ottenuto soprattutto con la paziente opera di Giovanni Brugnoli e Luisa Tigli che per il grande affetto nei suoi confronti volevano assolutamente evitare un T.S.O., il caso venne assegnato al dottor Luigi Cortesi con il pieno accordo dello stesso Carlo che stimava moltissimo il collega.

L’incertezza su quale diagnosi dichiarare vide fino all’ ultimo in ballottaggio “sindrome da burn out” e “disturbo post traumatico da stress. Entrambe mettevano in connessione la sofferenza di Biagioli con il suo lavoro e forse ne avrebbe avuti dei vantaggi pensionistici. Cortesi però si comportò come con qualsiasi altro paziente andando alla ricerca degli eventi scompensanti che si erano succeduti nell’ultimo anno dell’esistenza del suo capo e lo avevano sprofondato in una depressione delirante. Come al solito gli eventi scatenanti che avevano impattato su una struttura già vulnerabile erano molti. Il primo episodio era stata l’assunzione che aveva fortemente voluto di Carlotta, una sua ex paziente per un disturbo di panico adolescenziale. Si era trattato di un avviso pubblico e contrariamente alle sue abitudini aveva fatto pressioni per l’assunzione a tempo determinato della giovane.

Carlotta, 28 anni, era l’archetipo della fragilità con una storia di abbandoni infantili che l’avevano portata prima in una casa famiglia, poi in due coppie affidatarie che non l’avevano poi adottata ed infine in un collegio di suore che l’aveva ospitata fino ai 18 anni gratuitamente e poi avviata alla professione infermieristica che aveva esercitato in alcune cliniche religiose private prima di tentare l’entrata nel servizio pubblico. Era stata la badessa Suor Renata, sua amica d’infanzia ( per la precisione la prima con cui aveva provato il “gioco del dottore” forse in tal modo innescando il desiderio di consacrare la vita a Dio rinunciando agli uomini), a chiedergli di vedere questa povera ragazza squassata da attacchi di panico e paralizzata dall’angoscia abbandonica.

Fisicamente Carlotta, a dispetto del suo nome tondeggiante da benestante debuttante al ballo, era lunga, asimmetrica e con l’aspetto patito dell’orfanella. Gambe e braccia sembravano troppo lunghe e, nell’insieme, dava l’impressione di un cerbiatto appena nato che stenta a reggersi sulle zampe. Ciò suscitava in Biagioli una fortissima tenerezza e una incontenibile voglia di accudimento che avrebbero dovuto metterlo in allarme. Non era la prima volta che quello fosse il cavallo di Troia con cui erano state aggirate le sue attente difese. Un naso lungo sottile e storto verso destra separava due languidi occhi neri circondati da lisci capelli corvini che si fermavano a metà del collo modiglianesco. Somigliava fortemente, se non fosse stata per l’estrema magrezza, a Rossy De Palma una delle attrici preferite da Almodovar o, meglio ad un “head of woman” di Picasso.

Il giorno stesso che prese servizio al CIM Biagioli si pentì di averla accolta nel tentativo di dare qualche sicurezza alla sua esistenza. Notava tutto quello che faceva e la cercava continuamente con lo sguardo. Anche dopo mesi gli tornava alla mente un flash che con il dottor Cortesi avevano nominato “imprinting 1”. Carlotta si toglieva con un solo armonioso gesto lo zainetto e la giacca di jeans facendo salire improvvisamente la camicetta di cotone a fiori rossi e blu. Inaspettatamente, per una ragazza della sua età, compariva sotto una vera e propria canottiera bianca di cotone ( la maglia della salute delle nonne) che arrotolata e stropicciata di sudore lasciava intravedere in basso una carnagione rosea vellutata da una peluria bionda che si perdeva nei pantaloni larghi di lino trasformandosi di lì a poco in prorompente sedere con fiero atteggiamento antigravitazionale. Questo era solo il più ricorrente dei tanti flash che si erano stampati nella sua mente e si chiedeva se l’EMDR potesse essere utile per cancellare tali immagini ossessive.

Se ci fosse riuscito avrebbe potuto brevettare un protocollo contro le infatuazioni. Sin da adolescente aveva cercato di mettere a punto delle tecniche contro il montare inarrestabile dell’innamoramento. Ciò dimostrava che la stranezza non era conseguente alla professione ma l’aveva preceduta e forse determinata. Dopo appena una settimana notò due segni prognostici nefasti. Ragionava continuamente tra sé e sé sul fatto che non fosse poi un granchè, cercava di concentrarsi sui suoi difetti che però finiva per considerare commoventi e trovava continue somiglianze con lei nelle altre donne. Stava diventando un pensiero intrusivo che si imponeva di allontanare con il risaputo risultato di rinforzarlo. In sua assenza gli tornavano in mente tutti gli scambi che avevano avuto e si accorgeva di porre ai fatti sempre la stessa domanda “Quanto gli interesso?”. La mattina prima di arrivare al lavoro immaginava come sarebbe stata vestita, preparava le frasi che le avrebbe rivolto e cosa le avrebbe raccontato per rendersi interessante.

Ricordava a se stesso che 25 anni di differenza ne facevano il padre e che sarebbe apparso ridicolo e patetico qualsiasi tentativo di avvicinamento. Dall’altra parte sapeva anche che quando si impegnava in questi tentativi di contenimento del sentimento il guaio era già avvenuto. Come un incubo gli tornava alla mente il periodo in cui aveva conosciuto la sua attuale moglie Ornella che aveva fatto precipitare il già zoppicante rapporto con Maria, la prima moglie. Ora però c’erano due meravigliosi figli e non avrebbe retto un’altra separazione. Sarebbe certamente morto di crepacuore. Per questo negli anni si era assestato in un sereno menage che lo vedeva marito, padre devoto e amante attento e prudente di Luisa Tigli interessata quanto lui a tenere nascosta la loro storia dal carattere matrimoniale.

Carlotta era venuta a sparigliare questo consolidato equilibrio. Aveva di nuovo paura e rammentava rassegnato il verso di Lucio Battisti “ come può uno scoglio arginare il mare” preparandosi al peggio. Nella ricostruzione che ne fece con il dottor Cortesi chiamò questo periodo “il nascondimento” che fu caratterizzato soprattutto dall’isolamento. Si vergognava di parlarne persino con il suo amico Giò. Naturalmente Luisa Tigli se ne accorse ugualmente e chiese proprio a Giò di proteggere l’amico che stava correndo verso un evidente guaio. Quando fu certa, erroneamente, che Carlo e Carlotta avessero iniziato ad avere rapporti sessuali presentò domanda di trasferimento nel reparto ospedaliero al dottor Rodolfo Torre direttore del Dipartimento di salute mentale che, felicissimo di fare un dispetto a Biagioli lo accolse immediatamente. Biagioli volle precisare a Cortesi che, in verità, per il suo timore di fare una brutta figura non c’erano mai stati rapporti sessuali ma solo strofinamenti attraverso i vestiti in auto durante le visite domiciliari. Quella fu l’unica mezza verità che disse al suo curante: un vero record per un bugiardo patologico come lui.

Il trasferimento dell’ amante storica, la sua base sicura, fu per lui un altro duro colpo. Un ulteriore evento scompensante anche se in parte lo distrasse dal pensiero intrusivo di Carlotta. L’imprevisto scossone comportò, però, una insonnia resistente ai farmaci peggiorata dall’incremento del consumo alcolico. Era sempre stato un maestro nell’autoinganno. Così, anche in questa occasione, gli piaceva raccontarsi che fosse stato l’intervento dei figli Luca e Antonio a motivare la solenne decisione di tagliare con Carlotta. Preoccupati per la sua salute lo coinvolsero in un trekking di tre giorni sul Gran Sasso. Lo avvolsero di affetto ma furono anche molto crudi nel sottolineargli che stava ricoprendosi di ridicolo per una donna che poteva essere sua figlia e, a parte quell’aria da cucciolo spaurito non aveva nulla di eccezionale. Avrebbe voluto prenderne le difese ma riuscì a trattenersi. Promise solennemente guardando con vergogna negli occhi i suoi ragazzi. Chissà forse avrebbe mantenuto se non ci fosse stata la trasferta al manicomio criminale di Montelupo fiorentino. Si trattava di prendere contatti in vista della dimissione di un paziente. Un tempo sarebbe stata la classica spedizione affidata a Biagioli e Tigli, ma ora Luisa non lavorava più al CIM e la scelta di Carlo cadde sulla giovane Carlotta per farle vedere una realtà, quella degli OPG, in via di estinzione che avrebbe arricchito la sua esperienza.

Al CIM appena la macchina di servizio si allontanò verso l’autostrada iniziarono le scommesse. Certamente, dicevano i maligni, per entrare sarebbero state necessarie pratiche burocratiche che avrebbero reso necessario un pernottamento in zona. Per altri sarebbe stata la macchina a non sopportare il viaggio di andata e ritorno in un sol giorno. Oppure il paziente sarebbe stato in licenza di prova fino all’indomani. Il malore di uno dei due operatori o un piccolo incidente automobilistico erano le ipotesi meno accreditate. A vincere fu l’ipotesi della burocrazia aiutata dai due. L’ingresso fu facile ed il colloquio con il paziente immediato e proficuo. Il medico curante e il direttore dell’OPG avevano compilato tutti i documenti necessari con una efficienza inconsueta per il Lazio. Ma, per fortuna, c’era un ma. Essendo pomeriggio l’unico assente era il tecnico della riabilitazione psichiatrica che si occupava del paziente, sarebbe tornato in servizio il mattino successivo. Guardandosi dritti negli occhi decisero che non potevano fare a meno di un così prezioso contributo. Firenze era molto vicina e Carlo conosceva “La Locanda del Gallo Nero” dove, oltre ad assaggiare i piatti tipici della cucina toscana, si poteva avere, a prezzi compatibili con i rimborsi ASL, delle stanze decorose e pulite.

A Cortesi raccontò di un pomeriggio di travagliati conflitti interiori, di decisioni prese e poi ritrattate. In verità la decisione fu immediata al primo cenno di assenso di Carlotta che tuttavia voleva scaricare tutta la responsabilità sul capo. La cena fu ottima e il Chianti all’altezza della situazione. Sul seguito della nottata Biagioli fu reticente anche con il dottor Cortesi e forse soprattutto con se stesso. Per la simpatia che ci suscita rispetteremo questa sua riservatezza di maschio umiliato. Al ritorno, vilmente, lasciò che l’ironia degli altri accreditasse la tesi più scontata. Il vecchio marpione aveva ottenuto ciò che voleva per poi perdere rapidamente interesse per l’insignificante ragazzetta. Insomma proprio quella “una botta e via” che mai nella vita aveva sperimentato.

Il rimuginio autosvalutativo su questo episodio era ancora presente al momento del ricovero e si era portato appresso una slavina di altre considerazioni negative sulla sua vita che andavano via via ingigantendosi come una valanga che si autoalimenta. Tuttavia, a suo onore, Cortesi riconobbe che il dottor Biagioli non era impazzito per una donna, anzi una ragazzina. Infatti il cupo concentrarsi sui fallimenti esistenziali fu incrementato dalla richiesta dell’osservatorio epidemiologico regionale che chiese un report sugli esiti dei trattamenti degli ultimi 5 anni. Si trattava di riprendere in mano tutte le vecchie cartelle e valutarne l’esito, un lavoro pesante e noioso da fare come al solito in tempi brevi. Biagioli che aveva molte ferie arretrate si chiuse in casa sommergendola di cartelle e limitandosi a passare al CIM ogni tre giorni per firmare le carte più urgenti. A dirigere l’attività clinica lasciò la dottoressa Mattiacci, felice di mostrare il suo valore di capo. Luca e Antonio erano contenti della decisione del padre di stare a casa per un periodo e se ne attribuivano orgogliosamente il merito per l’intervento sul Gran Sasso. Ornella che non amava averlo tra i piedi per casa aveva ampliato i suoi turni nel reparto di pediatria. Non si spiegava perché i ragazzi la sollecitassero a prendersi del tempo e fare cose insieme al padre. Regalarono loro biglietti per il teatro Sistina ed un week end in Umbria acquistato su Groupon. Nella mente di Biagioli il posto progressivamente lasciato vacante da Carlotta e da Luisa non veniva però riconquistato da Ornella che al tempo di Maria ne era stata imperatrice assoluta. Erano piuttosto i fantasmi che uscivano dalle cartelle cliniche a ripopolarlo minacciosi.

Nella ricostruzione fatta con il dottor Cortesi chiamarono questo periodo “la pressurizzazione” che esprimeva la sensazione di Carlo del progressivo incremento di una intollerabile pressione interna. Le cose forse sarebbero andate diversamente se in quella fase avesse avuto una valvola come le pentole, ma lo sfogo con gli altri era precluso dalla vergogna. Solo per ore nel suo studio si chiedeva se tra le vittime della sua cattiva attività clinica oltre ai numerosi suicidi dovesse mettere anche i 77 gatti di Cristina Forni e il povero cane impiccato di Alessandro Pezzato. Aveva negli occhi il suo corpo penzolante col filo di ferro stretto al collo e le feci a terra sotto di lui. Povera bestia! All’Osservatorio epidemiologico regionale non sarebbero interessati ma lui li aveva sulla coscienza. Ricordava perfettamente i volti della vecchia Cristina Forni che era stata la prima, della fragile Violetta che gli ricordava Carlotta e del giovane Mario bello come James Dean. Il fantasma più fastidioso, come da vivo, era quello di Dante il fratello alcolista di Gilda morto in ambulanza con a fianco lei ed il suo amico Giò al cui funerale c’era il CIM al completo, la sua vera famiglia. E dove mettere Clotilde schiantatasi a 180 KM/h con la sua Honda? o Olly crivellato di colpi da una banda rivale? e Salvatore Misano giustiziato con sodomia esplosiva dal padre di un bambino da vendicare? Quante di queste morti, anche se nessun giudice lo avrebbe mai condannato, erano da attribuire alla sua incompetenza e superficialità! Per fortuna Alberto il pilota scomparso in una base del circolo polare artico non rientrava ufficialmente nella categoria “suicidi” ma questo valeva solo per la statistica. Se alcuni di questi erano chiaramente soltanto dei suoi scrupoli interiori di cui parlare col suo supervisore o, per come andarono effettivamente le cose, con il suo psichiatra curante il dottor Cortesi, di altri fatti era certamente colpevole e forse persino penalmente perseguibile. Non sarebbe dovuto intervenire con più decisione agli spaventati appelli della quarantenne Livia sua amica e seconda moglie di Altamura evitandone la morte violenta, avendo per altro da sempre nutrito dubbi sullo strano suicidio di Armida la prima moglie? Non era forse possibile che la signora Olga Simoni, rimessa in libertà grazie alla sua perizia compiacente, imperversasse in questo momento nel continente africano dove la sua missione di angelo della morte che pacifica ogni dolore avrebbe potuto concretizzarsi in stragi di bambini innocenti?

Altro che resoconti epidemiologici per la Regione. Ebbe il sospetto prima, la certezza poi, che quella fosse l’ultima possibilità che gli era offerta. Volevano vedere (l’utilizzo del “loro” per indicare gli altri segnava il preciso punto di ingresso nel delirio paranoico, avrebbe detto se si fosse trattato di un altro) se si fosse pentito da solo, spontaneamente, prima di doverlo fare schiacciato dalle prove. Da un giorno all’altro gli sarebbe stato consegnato il mandato di cattura da un giovane appuntato dell’Arma, orgoglioso per un arresto tanto importante (il narcisismo trovava comunque modo di far capolino). In genere ciò avviene alle prime luci dell’alba. Sperava fosse una notte di turno in ospedale per Ornella. Per risparmiare il brutto spettacolo ai ragazzi, aveva preso l’abitudine di alzarsi alle 4 del mattino e aspettare il compiersi del suo destino frugando al computer sui giornali locali i più interessati a vicende di questo genere. Le settimane passavano senza che nulla accadesse tranne il montare di una angoscia incontenibile che gli faceva preferire qualsiasi conclusione purchè tutto avesse presto fine. Aveva pensato di costituirsi per evitare le manette e le sirene spiegate. Quando ne parlarono Cortesi gli fece notare come anche in questo si esprimesse il suo “fottuto narcisismo” ( disse proprio così dando probabilmente voce più al dipendente di Carlo che all’attuale ruolo di curante). Fantasticava il suo arresto come quello di Bernardo Provenzano con un dispiegamento di forze pari a quelle utilizzate dal pentagono per la cattura vivo o morto ( meglio la seconda delle due) di Bin Laden. Per evitare conflitti a fuoco e vittime incolpevoli si aggirava gran parte delle vuote mattinate intorno al palazzo di giustizia di Vontano in attesa di una incruenta cattura.

Durante quell’inconcludente girovagare in attesa del compiersi del suo destino incontrò l’avvocato Vincenzo Sarno un ex compagno di liceo che non vedeva dai tempi della vicenda di Villa Santovino quando gli aveva dato alcune dritte che si erano dimostrate efficaci. Gli parlò della sua intenzione di costituirsi. Ai tempi del liceo il Sarno, figlio unico del principe del foro Salvatore Sarno e per questo destinato ad una brillante carriera a dispetto degli evidenti limiti intellettivi, gli stava assolutamente sulle palle. La bellezza aiutata dall’abbondanza di denaro lo rendeva competitivo e inviso agli altri maschi nonostante la goffagine interpersonale. Per tentare di risultare simpatico si vantava di conoscere i segreti più intimi degli altri e li divulgava. Ciò gli aveva meritato il soprannome di “amplificatore” e lo aveva progressivamente isolato. Brillava anche per totale assenza di empatia come fosse del tutto privo dei non ancora scoperti “neuroni specchio”. Non riusciva a cogliere gli stati d’animo altrui e aveva una capacità di comprensione psicologica pari ad un aspirapolvere spento.

Ebbene persino l’ottuso Vincenzo Sarno di fronte alle dichiarazioni di Biagioli circa le sue colpe e l’intenzione di costituirsi si allarmò. Considerato che la loro conversazione non era coperta dal segreto professionale chiamò Brugnoli che sapeva essere intimo amico di Carlo per esprimergli le sue preoccupazioni. In effetti nessuno al CIM si era reso conto di quanto la situazione stesse precipitando. Quando passava per firmare le carte più urgenti Carlo scambiava poche parole, si informava sommariamente dei casi più gravi e fuggiva immediatamente. Il deterioramento igienico era evidente ma giustificato come la trascuratezza nell’abbigliamento dal fatto di non uscire praticamente di casa. La verità è che non si vuole vedere la gravità nelle persone che si hanno a cuore ed è proprio per questo che è buona norma non curare amici e parenti. Si nega l’evidenza che persino il cecato Vincenzo Sarno aveva avvertito. L’evidenza che sarebbe saltata agli occhi di qualsiasi psichiatra estraneo era che il dottor Biagioli stava precipitando in una depressione profonda con aspetti francamente deliranti e un consistente rischio suicidiario. Il momento peggiore era al risveglio mattutino precocissimo intorno alle 3, 3 e mezzo. Inarrestabile gli scorreva in mente il film in bianco e nero della sua esistenza che gli appariva vuota, inutile, senza senso passato nè futuro. Cercava di opporsi al flusso magmatico di autodenigrazione elencando sul piano professionale le cose fatte, gli indubitabili risultati raggiunti, da dove era partito e dove era arrivato. Il disgusto per sé non recedeva di un passo. Le colpe maggiori le riferiva all’ambito affettivo dove si rimproverava superficialità e incapacità di sentimenti autentici. Gli sembrava di aver causato sofferenze gratuite a tutte le persone che lo avevano amato. Si sentiva come un insaziabile predatore che alla fine di una caccia spietata rimane solo in un deserto di carcasse putrescenti e l’incolmabile pancia vuota. Quasi a discolparsi elencava le diagnosi che si attribuiva ( borderline, antisociale, narcisista maligno) e quanto altro potesse attribuire ad una incolpevole malattia il suo abietto comportamento ( sperava fosse riconosciuto almeno parzialmente non in grado di intendere e di volere).

Ma il senso di ontologica indegnità non se ne andava mai. Tutt’al più poteva essere accantonato da quando con una doccia dava inizio alle attività frenetiche e inconcludenti della giornata e giungeva all’appuntamento delle 8.00 con la prima dose di benzodiazepine e soprattutto alle 10.00 con il primo Martini della giornata. Al massimo all’ora di pranzo la sobrietà era definitivamente perduta fino alle 3,00 del mattino successivo. il bere e il trascinare così le sue giornate erano un ulteriore motivo di disprezzo di sè. Ornella che da tempo si era accorta, tra un turno in ospedale e un altro, del malessere del marito gli aveva suggerito di riprendere la terapia tentata qualche anno prima. Si era sentita rispondere che non credeva in quelle cose nonostante le avesse mendacemente proposte agli altri per una vita intera. Le disse che se anche fosse stato possibile cambiare non ne aveva più voglia. Era troppo tardi per diventare un altro migliore, per gioire della vita. Ormai non doveva mancare molto e non se la sentiva di deludere tutti smontando il castello di falsità che aveva costruito. Nella prossima esistenza si sarebbe comportato diversamente ma per questa volta era andata così, non aveva saputo far meglio. Aspettava solo che calasse il sipario. Con lei e con i figli aveva un atteggiamento eccessivamente accondiscendente come a chiedere continuamente scusa. Nonostante tutti in famiglia lo rassicurassero continuava a ripetere che il danno provocato era irreversibile, non si poteva tornare indietro e non era possibile risarcimento o riparazione. Il corso delle cose era stato da lui irrimediabilmente deviato. Non era in suo potere far nulla per rimediare. Restava solo la sterile espiazione. Ornella gli leggeva negli occhi questo pensiero e si angosciava per le conseguenze sui figli. Fu per questo che decise di andare personalmente al CIM per capire quanto i colleghi fossero consapevoli della gravità e cosa intendessero fare. Era persino disposta ad una tregua transitoria con Luisa per il bene di Carlo. L’apprendere del suo trasferimento da un lato la rincuorò per non doverla incontrare, dall’altro le sollevò lo sgradevole dubbio che la crisi del marito fosse dovuta proprio a quel distacco.

Di Carlotta al contrario ignorava l’esistenza e si meravigliò molto dell’insistenza con cui la ragazzina chiedeva notizie del marito. Ornella partecipò ad una vera e propria riunione clinica sul caso in cui si doveva decidere la sorte psichiatrica del capo degli psichiatri momentaneamente fuori di testa. Brugnoli, troppo amico per non finire nel ruolo del medico pietoso…… sosteneva che bisognasse tentare un trattamento domiciliare e si offrì di ottenerne da Carlo il consenso. Per Irati non c’era altra soluzione che un ricovero che caldeggiava la stessa Ornella senza perdere altro tempo. Irati propose la Clinica “Castello della quiete”di Roma dove aveva delle conoscenze e il ricovero sarebbe potuto rimanere riservato. Cortesi disse che Carlo non avrebbe mai voluto andare in privato e si sarebbe voluto ricoverare proprio nel suo SPDC di Vontano. Per salvare la faccia magari si sarebbe potuto sostenere che il capo aveva voluto ricoverarsi per un periodo al semplice scopo di osservare le dinamiche interne al reparto e gli scostamenti dalle procedure di eccellenza in modi da migliorarne l’efficienza. Insomma si poteva sostenere che non di ricovero si trattasse ma di una sorta di ispezione interna ( come il ricovero in manicomio di Jasper o la beffa di Rosenham agli ospedali psichiatrici statunitensi). La figura di Carlo ne sarebbe uscita persino rafforzata.

A questa ipotesi si oppose con fermezza Brugnoli. Carlo non avrebbe mai voluto che la sua malattia mentale fosse nascosta come si trattasse di una vergogna: avevano sempre combattuto contro lo stigma. La delegazione incaricata di comunicare la decisione a Carlo non come suggerimento ma come risoluzione non negoziabile presa per il suo bene e per quello dell’intero servizio fu scelta per votazione e tra mille incertezze. La composizione prevedeva cinque membri. La dottoressa Mattaccini in veste di responsabile pro tempore del CIM nominata dallo stesso Biagioli. Brugnoli e Gilda in quanto amici più fidati di Carlo e con un certo ascendente su di lui. Luigi Cortesi scelto come il terapeuta che avrebbe seguito Carlo durante il ricovero e si sarebbe trasferito in SPDC. Luisa Tigli che, rassicurata dal mancato rinnovo del contratto di Carlotta e sinceramente preoccupata per le notizie che arrivavano in ospedale sulla salute di Carlo, si disse felice di potersi prendere cura del suo Carlo nel reparto in cui da qualche mese lavorava. Ornella e soprattutto i figli temevano una reazione molto negativa del padre nel momento in cui si fossero presentati i colleghi del CIM per comunicargli che, non se ne rendeva conto ma era ufficialmente matto e se non lo avesse capito gli avrebbero fatto un TSO. Luca temeva un gesto eclatante come un tentato suicidio o più probabilmente una fuga e già immaginava la notorietà che gli avrebbe dato la partecipazione in prima serata a ”Chi l’ha visto??” per lanciare accorati appelli per un pronto ritorno del padre. Nonostante i successi scolastici non aveva mai del tutto rinunciato al sogno di un facile successo nel mondo dello spettacolo. Antonio invece immaginava un TSO piuttosto movimentato e l’insopportabile vergogna che avrebbe coperto l’intera famiglia. Entrambi preferirono non esserci.

Ad aprire la porta alla numerosa delegazione restò la sola Ornella, peraltro indispettita dall’aggiunta di Luisa quantunque sapeva potesse essere decisiva. Passata l’emergenza avrebbe fatto pulizia anche su questa annosa vicenda. Biagioli li fece accomodare in soggiorno e servì personalmente ad ognuno le bevande che sapeva preferire. Nell’ascoltare i loro discorsi imbarazzati, le frasi smozzicate, le reciproche interruzioni e i goffi passaggi di testimone nei momenti in cui bisognava esprimere i concetti decisivi e più duri il suo volto si faceva sempre più rilassato. Li aveva accolti con lo sguardo torvo e allarmato di chi si sente minacciato. Ora la tensione andava sciogliendosi quasi in un sorriso. Brugnoli immancabile ottimista quando si trattava dell’amico arrivò a pensare che si trattasse di uno scherzo. Biagioli si sarebbe messo a ridere confessando di aver inventato tutto e poi li avrebbe rimproverati per il ritardo nell’intervento. Avevano fatto passare troppo tempo e se si fosse trattato di un paziente vero chissà cosa sarebbe potuto succedere. Infine avrebbe concluso con aria paternalistica che non poteva ancora lasciarli soli e gli toccava lavorare ancora per chissà quanti anni, felice di sentirsi indispensabile. Non era così o se lo era nessuno lo seppe mai. Tuttavia realmente con il passare dei minuti Carlo si rasserenava e tornava ad essere quello di sempre.

Chi si incupiva progressivamente era piuttosto Ornella che aveva messo in relazione, come avrebbero fatto malignamente gli altri colleghi rimasti al CIM in attesa di notizie pronti ad un intervento muscolare se si fosse reso necessario, il rifiorire di Carlo con il ritorno di Luisa. Il calore affettuoso che lo circondava sciolse il delirio come neve al sole d’agosto. Carlo ripercorse in senso inverso in meno di un’ora la costruzione del delirio di indegnità e di colpa che lo aveva impegnato negli ultimi mesi. Di fronte alle attestazioni di stima e soprattutto di affetto dei colleghi i fantasmi dei pazienti suicidi si dissolsero e le paure paranoiche di un arresto con conflitto a fuoco lo fecero sorridere.

Effettivamente era proprio impazzito e loro stavano lì a certificarlo. Meno male. Non era gradevole scoprirsi pazzo e giurò che si sarebbe fatto curare ma, in compenso, era meraviglioso che tutte quelle cose non fossero vere. Almeno non del tutto, suggerì una vocina residua. Convenne con gli altri che gli serviva un momento di stacco da dedicarsi per capire cosa diavolo gli fosse successo e perchè. Carlotta non ricordava quasi più chi fosse, non poteva essere stato a causa sua tutto questo casino. Mentre preparava la valigia con il minimo indispensabile per l’igiene e qualche libro da studiare sempre in arretrato pensò che era contento che a guidarlo in questa scoperta delle parti più fragili e imputridite di sé fosse quella brava persona di Luigi Cortesi, uomo di poche teorie e tanta amorevole curiosità. Volle andare con la sua auto che tanto aveva il permesso di parcheggio all’interno dell’ ospedale. Al CIM rinfoderarono i muscoli e abbassarono il livello di allarme.

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Il piacere e la ricompensa nel prurito cronico – Psiche e Dermatologia

FLASH NEWS

L’atto di grattarsi elicita una sensazione piacevole e gratificante al punto che può configurarsi come una vera e propria addiction nei pazienti affetti da eczemi atopici, psoriasi e altre dermatiti croniche. 

In tali quadri diagnostici il comportamento del grattarsi alcune parti corporee è la risposta al sintomo del prurito cronico. Il prurito cronico risulta essere molto diffuso nella popolazione, può riguardare specifiche parti del corpo (ad esempio le mani, le giunture) oppure l’intero corpo, e si associa spesso a diagnosi dermatologiche.

Il grattarsi può configurarsi come disfunzionale nel momento in cui, seppur piacevole e di sollievo nel breve termine, a medio-lungo termine porta ad un’intensificazione della sensazione di prurito, del dolore e a danni permanenti a carico della pelle.

Alcuni ricercatori hanno studiato quali sono i correlati neurali del comportamento cronico di sfregarsi la pelle. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale è stato dimostrato che le aree cerebrali relative alla ricompensa, al piacere, alla motivazione ad agire e al controllo motorio erano significativamente più attive durante l’atto del grattarsi nel gruppo di pazienti con prurito cronico rispetto a un gruppo di soggetti dermatologicamente sani.

L’iperattività di queste zone del cervello legate al piacere e alla ricompensa è dunque un’evidenza neuropsicologica che concorre a spiegare il mantenimento del circolo vizioso che include il comportamento patologico di grattarsi cronicamente la pelle.

 

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Ecco perché grattarsi aumenta il prurito – Neuropsicologia

BIBLIOGRAFIA:

Il Seminatore – Tracce del Tradimento Nr. 16

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XVI: Il Seminatore

Cosa pensa il seminatore? Proprio i pensieri che stanno alla base di questo comportamento disattento e che causano la semina delle tracce sono l’oggetto della nostra riflessione.

Colui che lascia le tracce del tradimento sarà chiamato d’ora in avanti per brevità il seminatore. Inoltre, per evitare lunghi giri di parole e in ossequio ad una tradizione antica, chiameremo convenzionalmente coniuge il partner che viene tradito e amante il partner che subentra e con cui viene consumato il tradimento.

Detto questo, cosa intendiamo per lasciare le tracce? Non si deve con ciò intendere che il seminatore consapevolmente e volontariamente lasci prove più o meno evidenti del suo tradimento; non è un comportamento intenzionale e consapevole. Quello che si verifica è che il seminatore non pone sufficiente interesse e attenzione a nascondere con la massima certezza possibile indizi del tradimento in quanto pensa che… Cosa pensa il seminatore?

Proprio i pensieri che stanno alla base di questo comportamento disattento e che causano la semina delle tracce sono l’oggetto della nostra riflessione. Perché non è attento, perché non si preoccupa di eliminare ogni prova? Le tracce possono essere le più varie; ogni seminatore ha le sue preferenze, un’area dove dà il meglio di sé, anche se una semina efficace finisce per riguardare diversi aspetti: a volte è la somma degli indizi che finisce per acquistare la consistenza di prova.

Alcune tracce sono tuttavia un classico e meritano una sommaria descrizione. La riduzione delle attenzioni verso il proprio partner ufficiale è spesso l’innesco del processo di ricerca delle tracce del tradimento da parte della vittima: compleanni dimenticati, regali una volta sontuosi che diventano pensierini perché è quello che conta, anniversari che perdono di importanza, abbigliamenti casalinghi che diventano sempre più approssimativi e trasandati, telefonate quotidiane che diminuiscono, distrazione, disinteresse ad ascoltare i problemi dell’altro, persino insofferenza per quelle sue goffaggini che un tempo erano definite adorabili difetti ed ora suscitano evidente irritazione.

Al contrario talvolta il sospetto si innesca per motivi esattamente opposti: nascono attenzioni e gentilezze inconsuete e inaspettate, spuntano mazzi di fiori senza precedenti e dichiarazioni di amore improbabili che fanno chiedere alla vittima c’è qualcosa di strano, cosa avrà da farsi perdonare? La vita sessuale presenta analoghe oscillazioni, avviene un cambiamento inaspettato: o aumenta o diminuisce. In genere se la storia segreta ha una connotazione prevalentemente sessuale anche la vita sessuale della coppia originaria aumenta: sesso chiama sesso e così dopo anni una folata di passione investe la coppia. Al contrario se la storia parallela si configura come un innamoramento la sessualità si affievolisce, l’innamoramento è esclusivo e non consente investimenti esterni.

Giuseppe iniziò a sospettare che la moglie Livia avesse una relazione affettiva a motivo di due fenomeni che avvennero in un tempo piuttosto breve e che dunque non potevano ricondursi alla quotidianità della convivenza che rende naturale anche ciò che prima era straordinario e scontato ciò che un tempo era l’oggetto supremo del desiderio. Livia era disattenta nella vita di tutti i giorni, non solo nei confronti del marito non mostrava quelle attenzioni e quelle piccole delicatezze che la caratterizzavano, ma anche verso i figli piccoli sembrava distratta; si preoccupava meno dei loro vestiti, si irritava se le chiedevano un sostegno per i compiti, era divenuta intollerante ai loro capricci; i compiti familiari sembravano diventati un peso molto gravoso.

Tuttavia Giuseppe si spiegò in un primo momento questo mutato atteggiamento con l’aumento delle responsabilità di Livia sul suo lavoro e dunque non si allarmò più di tanto. Ciò che davvero lo preoccupò e lo spinse a ricercare altre tracce, puntualmente trovate, fu la contemporanea comparsa di attenzioni straordinarie, inconsuete e in qualche modo incongrue in cui Livia sembrava voler sottolineare il suo interesse per Giuseppe e l’importanza di averlo come amante e marito. Se le attenzioni quotidiane diminuivano, i regali di rito diventavano sempre più imponenti; se la vicinanza veniva sottilmente evitata ogni tanto venivano organizzate situazioni speciali come weekend senza figli destinati a diventare palestre sessuali; mai Livia aveva parlato così bene di lui con gli altri e mai egli l’aveva sentita così distante.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

‘Ma che colpa abbiamo noi’: le nostre scelte musicali? Nel bene o nel male, merito dei nostri genitori

La musica considerata più nostalgica sembra quella ascoltata negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in quanto evocatrice di ricordi autobiografici: gli autori hanno chiamato questo picco di nostalgia Reminescence Bump. Ma c’è di più…

Vi è mai capitato di ritrovare, a distanza di anni, una vostra vecchia audiocassetta e di provare ad ascoltarla? Quasi sicuramente vi sarà scesa una lacrima dovuta non tanto alla consapevolezza di non avere più 13 anni, quanto alla vergogna provata per il tipo di musica che ascoltavate quando eravate pre-adolescenti! Eppure le corde vocali partono in automatico e vi ritrovate, quasi fosse un duetto con il vostro cantante preferito d’allora, a cantare a squarciagola il ritornello (giurando a voi stessi che nessuno saprà mai quel che sta accadendo). Stessa cosa succede ai matrimoni: tutti timorosi e imbarazzati, fin dalle prime note, all’idea di dover ballare eppure, nel momento in cui il dj mette I will survive, non resistete ad alzarvi dalla sedia e a scatenarvi con gli sposi in pista!

Gli psicologi hanno studiato i meccanismi di questa nostalgia musicale e hanno fatto delle interessanti scoperte. In uno studio del 2013 sono stati reclutati 62 soggetti, età media 20 anni, e sono stati fatti loro ascoltare pezzi delle hit musicali di ogni anno, dal 1955 al 2009. E’ stato poi chiesto quale canzone avesse suscitato loro una maggiore sensazione di nostalgia.

Ovviamente la musica considerata più nostalgica era quella ascoltata negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in quanto evocatrice di ricordi autobiografici: gli autori hanno chiamato questo picco di nostalgia Reminescence Bump.

Ma non è tutto: la scoperta più sorprendente è che altri picchi di Reminescence Bump si sono registrati per le canzoni degli anni 60 e dei primi anni 80, prima ancora della nascita dei soggetti. I ricercatori spiegano questo fenomeno, indicato col nome Cascading Reminiscence Bumps, alla luce di una trasmissione transgenerazionale: le canzoni che hanno segnato la giovinezza dei nostri genitori e, forse, anche dei nostri nonni possono avere per noi lo stesso impatto nostalgico delle canzoni ascoltate durante la nostra adolescenza. In fin dei conti siamo cresciuti con dei genitori che ascoltavano o canticchiavano davanti a noi alcuni ritornelli, anche quelli possono dirsi dei piacevoli ricordi.

I genitori, mentre allevavano noi fanciulli, hanno dunque contribuito alla nostra formazione musicale? Qual è invece la spiegazione del picco degli anni 60? Si è propensi a credere che, nella trasmissione delle preferenze musicali, vi sia anche una influenza nonni-genitori-figli. Tuttavia, non avendo in realtà studiato l’effettiva influenza dei nonni in questa trasmissione, i ricercatori hanno avanzato anche un’altra spiegazione: la musica degli anni 60 è stata sempre considerata di qualità superiore e, quindi, i brani di quel periodo sono rimasti nel repertorio popolare guadagnandosi lo status di evergreen o classic rock e dunque una maggiore diffusione via radio.

E così, proprio come la nostalgia porta a una maggiore nostalgia, allo stesso modo la popolarità porta ad ulteriore popolarità: siamo condannatti a ballare I will survive anche ai matrimoni dei nostri nipoti?

Per saperne di più sull’argomento, vi rimando alla lettura dell’articolo consigliato…capirete che, se i vostri amici criticano tanto la musica che ascoltate, è solo colpa dei vostri genitori! Nel frattempo però pensate anche alla vostra canzone preferita, siete proprio sicuri di volerla cantare davanti ai vostri figli?

 

“… Baby, One More Time” is not a good song. You could make a convincing argument, in fact, that it is an actively terrible song: devoid of musical merit, underdeveloped, overproduced, eroding our collective IQs one oh, baby, baby at a time—a notable roadblock, basically, on humanity’s long march toward the hazy destination of Progress. And yet: I love “… Baby, One More Time”

I nostri gusti musicali? Nel bene o nel male, merito dei nostri genitoriConsigliato dalla Redazione

'Ma che colpa abbiamo noi' le nostre scelte musicali? Nel bene o nel male, merito dei nostri genitori - Immagine: 84432422
Le canzoni che hanno segnato la giovinezza dei nostri genitori e, forse, anche dei nostri nonni possono avere per noi lo stesso impatto nostalgico delle canzoni ascoltate durante la nostra adolescenza. (…)

Tratto da: The Atlantic

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Violenza psicologica sul luogo del lavoro: il triste fenomeno del mobbing e le sue conseguenze

Una lunga serie di studi e ricerche hanno messo in luce che la condizione che viene a crearsi sul luogo di lavoro non sempre è idilliaca, questo perché sono parecchi i fattori che contribuiscono a generare stress e tensioni lavorative. Quando le relazioni tra colleghi sono caratterizzate da frequenti contrasti, e hanno lo scopo di ledere la dignità di un soggetto, si parla di Mobbing.

Il lavoro e le sue relative mansioni professionali stimolano e concorrono a creare l’identità personale e sociale dell’individuo; così come i rapporti interpersonali che vengono a crearsi nell’ambiente professionale e tra colleghi concorrono a sviluppare la cosiddetta soddisfazione al lavoro.

Però una lunga serie di studi e ricerche hanno messo in luce che la condizione che viene a crearsi sul luogo di lavoro non sempre è idilliaca, questo perché sono parecchi i fattori che contribuiscono a generare stress e tensioni lavorative.

Quando le relazioni tra colleghi sono caratterizzate da frequenti contrasti, e hanno lo scopo di ledere la dignità di un soggetto, si parla di Mobbing. Il vocabolo deriva dal termine inglese To Mob che vuol dire Attaccare, e sta ad indicare un fenomeno che riguarda i rapporti interpersonali sul luogo del lavoro, dove una o più persone vengono fatte oggetto di violenza psicologica con intento persecutorio e lesivo, sistematicamente e con una certa ripetitività nel tempo.

Una definizione condivisa in letteratura di questo fenomeno è questa: Forma di terrore psicologico sul luogo del lavoro esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte di colleghi e/o superiori (Ege, 1996).

Si tratta quindi di un’azione, o una serie di azioni, che si ripetono nel tempo da parte di uno o più prevaricatori al fine di danneggiare qualcuno in modo sistematico e con uno scopo ben preciso. La vittima viene aggredita intenzionalmente con strategie che hanno come fine la sua alienazione psicologica, sociale e professionale. Spesso infatti ne consegue un diradamento dei rapporti sociali della vittima, la quale si relega nell’isolamento e nell’emarginazione.

Secondo un sondaggio condotto nei Paesi d’Europa, l’8% dei lavoratori della Comunità dichiara di essere stato vittima di mobbing sul posto di lavoro (Monaco e all, 2004); si tratta di circa 12 milioni di persone.

Sono numerose le cause per cui si scatena questo triste fenomeno, ma possono essere raggruppate in due insiemi:

  • Ragioni strategiche, dove chi esercita il mobbing prevarica l’altro al fine di averne un suo tornaconto;
  • Ragioni emozionali, dove vi sono conflitti tra personalità, e il prevaricatore può in questi casi contare sull’omertà di alcuni colleghi suoi alleati per danneggiare l’altro.

L’azione prevaricatoria ha solitamente il seguente obiettivo: perseguitare la vittima affinché essa sia indotta a lasciare il lavoro di sua iniziativa.

Vi sono varie tipologie di mobbing:

  • Mobbing Orizzontale: se messo in atto da colleghi che hanno il medesimo livello professionale della vittima.
  • Mobbing Verticale: se attuato da un superiore verso una vittima sua dipendente.
  • Mobbing dal Basso: quando viene messa in discussione l’autorità del superiore da parte di un certo numero di dipendenti.
  • Mobbing Collettivo: se le prepotenze vengono esercitate su un gruppo di lavoratori.
  • Mobbing Sessuale: molestie sessuali senza un necessario contatto fisico, ma con insinuazioni o battutine sgradevoli.

Vi è un’ampia varietà di azioni mobbizzanti, tra le più frequenti vi è l’isolare il lavoratore bloccando i mezzi di comunicazione a sua disposizione o estromettendolo da decisioni e isolandolo da conversazioni; screditarlo umiliandolo e attaccando le sue convinzioni; ridurre la sua autostima affidandogli incarichi poco gratificanti; compromettere il suo stato di salute negandoli giorni di ferie o di malattia.

Anche un comportamento lecito da parte del datore di lavoro verso un dipendente (lettere di richiamo, controllo dell’operato) può divenire mobbing se nasconde in sé un intento persecutorio.

Si tratta di un fenomeno insopportabile per chi lo subisce, non solo perché causa un inevitabile senso di rifiuto nei confronti dell’ambiente lavorativo, ma soprattutto perché porta con sé delle conseguenze non trascurabili, sia sul lavoratore sia sull’azienda – luogo lavorativo.

Per quanto riguarda le conseguenze sul lavoratore viene a determinarsi una riduzione dello stato di benessere complessivo della persona.

Questi gli effetti negativi più frequenti che si verificano nelle vittime di mobbing messe in luce dalle varie ricerche (Ege, 2001):

  • Alterazione del tono dell’umore: depressione, isolamento, calo dell’autostima.
  • Alterazione dell’equilibrio psicofisiologico: disturbi del sonno, calo della memoria e della concentrazione.
  • Disturbi d’Ansia: Disturbo d’Ansia Generalizzato, Disturbo Post Traumatica da Stress, Fobie, Disturbo da Attacco di Panico.
  • Disturbi del Comportamento: Cattiva alimentazione, alcolismo, tabagismo.
  • Burnout: Sindrome complessa, a componente prevalentemente psichica, con caratteristiche ben precise, quali esaurimento emotivo, depersonalizzazione e mancata realizzazione personale.

Non è da trascurare che il mobbing determina una serie di conseguenze negative anche a livello organizzativo e aziendale, in quanto può cagionare maggiore assenteismo, minore efficacia e produttività per tutti i lavoratori che vivono l’ambiente e che inevitabilmente risentono del clima psicosociale negativo presente.

Dati ISPESL mettono in luce che il fenomeno è purtroppo in crescita, e affrontarlo non è semplice (Monaco e all, 2004).

La legislazione presente in merito è abbastanza scarsa e ambigua, inoltre, non trattandosi di un problema medico, bensì di comunicazione all’interno dell’ambiente lavorativo, non ci sono cure o farmaci volti a risolvere il problema del mobbing, ma al massimo utili a curare gli effetti conseguenti (ansia, insonnia, depressione).

Al fine di debellare questa cattiva condotta che sovente si manifesta sul lavoro sarebbe opportuno mettere in atto adeguate strategie preventive, con il principale scopo di instaurare una cultura aziendale caratterizzata da una linea di condotta dei dirigenti e dei dipendenti basata sul rispetto reciproco e sull’interesse collettivo.

Ciò sarà indispensabile al fine di annientare la comparsa di qualsiasi comportamento vessatorio e aggressivo e per garantire il successo economico dell’ambiente lavorativo nel suo complesso.

 

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Analisi di un caso di mobbing: la storia di Marco – Psicologia del Lavoro

 

BIBLIOGRAFIA:

Video: parlare d’amore, le parole che salvano l’amore – di Alain de Botton

Il broncio di solito comincia con una delusione e si concretizza in un profondo rifiuto di spiegare il motivo della delusione, un disperato bisogno di essere capiti e un persistente impegno a non spiegare se stessi.

All’interno delle relazioni uno dei comportamenti più tragicomici è il broncio. Ma che cos’è un broncio?

Il broncio di solito comincia con una delusione e si concretizza in un profondo rifiuto di spiegare il motivo della delusione, un disperato bisogno di essere capiti e un persistente impegno a non spiegare se stessi.

Spiegare se stessi è il problema centrale: se il partner richiede una spiegazione, allora questa è la prova che non è degno di averne alcuna.

Questo porta allo strano privilegio di ricevere il broncio: si mette il broncio alle persone che si ritiene dovrebbero capire. È uno dei regali d’amore più strani.

Ciò che ne consegue è una vera e propria guerra fredda. Perchè non diciamo al partner cosa ci turba? A causa di un assunto: l’amore significa non dover dire tutto per filo e per segnò, ma il regalo più grande che possiamo fare alla persona che amiamo è dare spiegazioni.

Il broncio può essere superato quando siamo in grado di sorridere di questa folle ambizione e bussare alla porta chiedendo se gentilmente è possibile entrare per una parola.

Scopri di più visitando il Book of life. Di seguito il video ideato da Alain de Botton, fondatore della The school of Life.

 

Per visionare il video con i sottotitoli in Italiano clicca qui.

 

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Come NON smettere di fare sesso – Video

Riconoscere la menzogna: in gruppo è più facile!

FLASH NEWS

Scovare le menzogne non è semplice: in letteratura è appurato che le percentuali di accuratezza nel riconoscimento della menzogna sono solo lievemente superiori alla percentuale del caso. Tuttavia riconoscere la menzogna in gruppo può facilitare la vita.

Uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) ha dimostrato che i gruppi sarebbero più competenti rispetto al singolo individuo nell’identificare e riconoscere la menzogna. E la cosa più interessante è che il fattore che spiegherebbe questo vantaggio comunitario sta proprio nella discussione di gruppo.

In due esperimenti a partire dalla visione di videoregistrazioni i soggetti dovevano cercare di riconoscere frasi menzognere sia individualmente che in gruppi di tre persone: i gruppi risultarono significativamente più accurati nello scovare le menzogne rispetto a individui singoli.

Un terzo studio ha confermato lo stesso trend di risultati nel caso di menzogne ad altro rischio: è dimostrato, dunque, che i gruppi sarebbero più competenti sia nella rilevazione delle bugie bianche “innocenti” che di bugie più complesse e ad alto rischio per il mentitore.

Infine il quarto esperimento ha analizzato le ragioni sottostanti a questa maggiore competenza dimostrata dai gruppi: sarebbe proprio la discussione di gruppo a elicitare lo sviluppo di riflessioni e osservazioni più articolate per arrivare ad un assessment più accurato della menzogna e della verità.

 

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Menzogne: capite quando qualcuno sta mentendo? Psicologia

BIBLIOGRAFIA:

Le relazioni di attaccamento tra bambino e caregiver – Introduzione alla Psicologia nr. 21

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA  Nr. 21

 

 

Gli studi svolti da Bowlby sottolineano come il legame iniziale che si instaura tra bambino la madre deriva da un bisogno congenito di entrare in contatto con i suoi simili.

Cosa si intende per attaccamento? Il comportamento di attaccamento è quel comportamento che il bambino attua nei confronti di una persona che ritiene significativa perché considerata adeguata nel riuscire ad affrontare il mondo.

L’attaccamento si manifesta soprattutto nel momento in cui il bambino si mostra evidentemente spaventato, malato, stanco e attua una strategia per riuscire a ricevere cura da parte della madre. Lo scopo del sistema di attaccamento è garantire la vicinanza fisica e emotiva da parte della figura di attaccamento. Il compito dell’adulto di riferimento è diventare una base sicura per il bambino, permettendogli in questo modo di esplorare e poi tornare alla base sicura dove, dopo essere stato accolto, è certo di ricevere anche nutrimento, rassicurazione e amore.

Il ruolo svolto dalla madre o dal padre è di essere disponibili e responsivi se è richiesta la loro attenzione. Di conseguenza il bambino percepirà di essere parte di un tutto, la famiglia, anche quando è in difficoltà o si trova ad affrontare un problema. In questo modo si crea un circolo vizioso in cui il bambino aumenterà la sua autostima e la capacità di gestione delle situazioni e delle emozioni.

Nel caso in cui le cose non andassero esattamente in questo modo durante i primi scambi relazionali, il bambino tenderà a difendersi, anche se in modo disfunzionale e non adattivo per la sua crescita e il suo benessere futuro. La mancanza di disponibilità da parte dell’adulto di riferimento determinerà nel bambino una predisposizione alla paura di poter perdere, prima o poi, l’altro.

La percezione di essere sicuro o insicuro nella relazione con l’altro significativo sarà la base che porterà alla formazione della sensazione di autorealizzazione e alla formazione una buona o scarsa autostima. Infatti, l’essere in grado di affrontare gli eventi critici o il cambiamento dipende proprio da come il bambino percepisce se stesso e le sue capacità.

La sicurezza interiore e il senso di autostima partono dell’integrazione di due bisogni: il bisogno di autorealizzazione, essere se stessi, e il bisogno di appartenere, sentirsi parte di un tutto. Diventare autonomi riuscendo anche ad allontanarsi dalla famiglia dipende chiaramente dal senso di fiducia in se stessi sviluppato nei primi anni di vita. Tutto questo processo è facilitato se si è avuta la fortuna di avere una madre responsiva e non invasiva o invischiante.

Sono stati individuati quattro stili di attaccamento:

  • Sicuro,
  • Insicuro evitante,
  • Insicuro ambivalente,
  • Insicuro disorganizzato.

Nell’attaccamento sicuro, una madre accessibile emotivamente e comportamentalmente porta il bambino a esplorare senza problemi. Coloro che mostrano un attaccamento sicuro sono fiduciosi nelle proprie idee e nelle proprie capacità.

I bambini con attaccamento insicuro-evitante hanno avuto difficoltà ad accedere alla figura di attaccamento così tante volte da aver deciso di poterne fare progressivamente a meno. Le persone con questo tipo di attaccamento si comportano come se gli altri non esistessero. Lo stile cognitivo è quello dell’immunizzazione: minimizzano e svaluto per annullare gli effetti dell’invalidazione.

I bambini con attaccamento insicuro-ambivalente, sono vittime dell’imprevedibilità della figura di attaccamento. Per questo, spaventati, cercano una vicinanza strettissima, fino a rinunciare a qualsiasi tipo di esplorazione autonoma. Lo stile cognitivo corrispondente è quello dell’evitamento: queste persone vogliono evitare le invalidazioni per evitare di soffrire.

L’attaccamento disorganizzato-disorientato si manifesta quando la figura di attaccamento è minacciosa. Il bambino individua dallo sguardo o dai comportamenti segnali di pericolo che lo mettono in uno stato di allerta. Lo stile cognitivo è quello dell’ostilità: reagisce creando una realtà fallimentare basta sull’ignorare e sul sopraffare l’altro.

I bambini con attaccamento sicuro affrontano il mondo in maniera adattiva, mentre quelli con attaccamento insicuro mostrano disagi nella tarda infanzia, che si trasformeranno in una eccessiva dipendenza, in una minore competenza sociale e scarsa capacità di credere in se stessi.

In generale, un attaccamento sicuro predispone a creare in futuro relazioni stabili e gratificanti. Al contrario, un attaccamento insicuro interferisce con il sano sviluppo psichico e predispone alla patologia, come difficoltà nella gestione emotiva, problemi del comportamento, abusi di sostanze.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Un’analisi critica dei modelli biomedici per i disturbi psicologici

In questo appassionante articolo del 2013 (pubblicato nella Clinical Psychology Review), Brett J. Deacon spiega, partendo da una attenta analisi critica del vigente modello biomedico, perché le cause di molti disturbi psichici non sono unicamente ascrivibili a fattori di ordine biomedico.

 

Da parecchi decenni molti scienziati sostengono che le cause della psicopatologia dipendono da disregolazioni neurotrasmettitoriali, da anomalie genetiche e da deficit nel funzionamento e nella struttura cerebrale. Tuttavia, ad oggi, nessuno ha identificato una sola causa biologica, né un solo biomarker, responsabile di uno specifico disturbo psichico. Mentre si sostiene che i farmaci psicotropi abbiano un ruolo nel correggere lo sbilanciamento chimico, causa della psicopatologia, in realtà gli psicofarmaci non hanno dimostrato avere nessuna effettiva influenza curativa superiore a quanto già rilevato oltre mezzo secolo fa.

In compenso, invece, la patologia mentale è divenuta più cronica e più grave rispetto al passato, coinvolgendo un numero sempre crescente di individui. In parallelo è spaventosamente aumentata la stigmatizzazione verso chi soffre di tali disturbi.

In sostanza, il modello biomedico (approccio predominante negli Stati Uniti e nelle culture occidentalizzate) assume che disturbi come la schizofrenia, il disturbo depressivo maggiore, il disturbo di attenzione e di iperattività (ADHD) e l’abuso di sostanze siano condizioni causate da deficit del cervello. Questo significa che 1) i disordini mentali sono causati da anomalie biologiche che hanno la loro sede nel cervello, 2) non esiste una netta e chiara distinzione tra disturbi fisici e mentali e 3) che il trattamento biologico rappresenta l’unica cura possibile. L’obiettivo principale della ricerca biomedica è studiare le cause biologiche dei disturbi psichici, nel tentativo di scoprire la pillola magica per ciascun disturbo psichico, negando completamente l’influenza di altri possibili fattori eziologici, quali i fattori sociali, psicologici e comportamentali.

La stessa Associazione Psichiatrica Americana (APA), nel 2003, ha affermato che le cause di qualsiasi disordine mentale sono esclusivamente riconducibili ai fattori biologici.

Nella storia della cura della psicopatologia, le prime tecniche utilizzate negli anni ’30 (i.e., la terapia elettroconvulsiva, la lobotomia e la terapia di insulina) hanno incoraggiato la credenza che i disturbi psichici si potessero curare con le sole terapie biologiche. In seguito, la rivoluzione “biochimica” degli anni ’50 ha permesso di scoprire che alcune componenti chimiche erano in grado di limitare la gravità di alcune manifestazioni cliniche (anche in conseguenza a patologie organiche, come la neuro sifilide), riducendo sintomi psicotici, depressivi, maniacali, ansiosi e legati all’iperattività. Man mano, con l’avvento della psicoanalisi, sono state mosse forti critiche alla teoria dello squilibrio chimico, sia da parte della stessa psichiatria che dai freudiani, che rifiutavano con convinzione questo approccio come unica cura della patologia mentale. Nel 1980, l’uscita del DSM III rappresentò un influente traguardo scientifico che favoriva la comunicazione tra clinici di diversi paesi. Tuttavia, nonostante tutte le incertezze e le controversie in corso, il DSM si era nettamente schierato a favore del modello biomedico. Da quello stesso anno, guarda caso, le case farmaceutiche ricevettero l’autorizzazione di sponsorizzare gli interventi scientifici alle conferenze annuali dell’APA. Nel giro di un paio di anni la collaborazione tra case farmaceutiche e APA si intensificò notevolmente ed ebbe inizio una vera e propria collaborazione, che si estendeva anche alla formazione e all’aggiornamento medico.

In parallelo, il National Institute of Mental Health (NIMH) ed altre organizzazioni, iniziarono a devolvere fondi di ricerca ad enti e università che indagavano le basi scientifiche dei modelli biomedici applicati alla psichiatria, con il dichiarato benestare della National Alliance on Mental Illness (NAMI). I modelli biomedici si erano proposti anche la funzione di ridurre lo stigma verso la patologia mentale, basata, secondo loro, non su fattori socio-ambientali, ma unicamente su disfunzioni organiche.

Ad esempio, la terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) promossa dal NIMH nel 2009 si basava unicamente sulla farmacoterapia. I “consumatori” che soffrivano di DOC sono stati incoraggiati a farsi prescrivere antidepressivi, ansiolitici o beta-bloccanti, dai loro medici di base (anche senza una accurata valutazione psicodiagnostica), poiché le numerose evidenze scientifiche a favore della terapia basata sull’esposizione e prevenzione della risposta (ERP) erano state completamente trascurate dal NIMH. È importante ricordare che negli USA, così come in Nuova Zelanda, le case farmaceutiche possono pubblicizzare direttamente ai consumatori i propri farmaci. Questo significa che gran parte degli investimenti economici sono orientati in questa direzione e all’educazione dei pazienti sui loro disturbi, sulle loro presunte cause biologiche e quindi sulla loro cura, a carattere unicamente biochimico.

In uno studio del 2005, Kravitz e collaboratori hanno rilevato che il 50% dei pazienti che si erano rivolti al medico per problemi di depressione, assieme alla richiesta di aiuto, e indipendentemente dalla correttezza della diagnosi, indicava già il nome esatto del farmaco per cui desiderava la prescrizione! Nonostante questo dato tristemente noto negli USA, la Food & Drug Administration (FDA), non è intervenuta ed è rimasta in silenzio! Ricordiamo che, oggi, gli antidepressivi rappresentano la terza categoria di farmaci più prescritta negli USA ed è la prima tra gli adulti tra 18 e 44 anni. Diversi clinici rilevano che circa la metà dei farmaci psicotropi viene prescritta ad individui che non hanno una diagnosi psichiatrica certa e si teme che, con il DSM5, e l’aumento delle etichette diagnostiche, questo dato possa ulteriormente aumentare.

In seguito alla “rivoluzione” biomedica, negli ultimi decenni, sono stati investiti miliardi di dollari nella ricerca nell’ambito delle neuroscienze e della genetica; ma se si fossero ottenuti dei risultati significativi, questi dati non si sarebbero già dovuti trovare all’interno dell’ultimissimo DSM5? Al contrario, i neuroscienziati, ancora, non hanno nemmeno ben compreso come definire propriamente un “circuito cerebrale”, né come tradurre l’attività o le immagini mentali (derivate dalle metodiche di neuroimmagini) nei termini di “cosa effettivamente accade nel cervello”. Una semplice “cartografia” cerebrale, che eventualmente spiega “dove” certi processi mentali hanno luogo, non è sufficiente per “spiegare” i processi che sottendono al funzionamento psichico (Castelfranchi, 2015).

Infine, altro problema irrisolto, quello della stigmatizzazione. Il tentativo di eguagliare la condizione psichiatrica a un problema organico, in modo da ridurre le discriminazioni ed evitare colpevolizzazioni, nella realtà, ha potenziato l’interpretazione di tipo biomedico e ha accresciuto i comportamenti di isolamento e rifiuto verso chi soffre di patologie mentali. Il problema della stigmatizzazione è complesso e coinvolge più aspetti, mentre il riduzionismo organicista, invece, contribuisce all’aumento della cronicità e all’irreversibilità dei problemi psichici. Di fatti, gli USA hanno una delle più alte prevalenze di malattie psichiatriche, che si sono ulteriormente cronicizzate e intensificate nelle ultime decadi. Ad esempio, la depressione maggiore è sempre più cronica e resistente al trattamento, sebbene, dalla fine degli anni ’80, la somministrazione dei nuovi farmaci antidepressivi sia aumentata del 400%! Si teme, persino, che l’uso prolungato di questi farmaci aumenti il deterioramento mentale, anziché contenerlo. La stessa cosa è accaduta per altre tipologie di psicofarmaci. Se in ambito infantile, ad esempio, il numero di problemi non-psichiatrici si è drasticamente ridotto (come per il cancro o la Sindrome di Down), i disturbi mentali, oggi, rappresentano la prima causa di disabilità in età evolutiva. Vista la scarsa efficacia dei dati relativi a questo approccio sarebbe imperativo chiedersi: “Quanto, ancora, dobbiamo aspettare per mettere definitivamente a nudo i suoi limiti e le sue inconcludenze?”.

All’interno del panorama psichiatrico, all’ombra del modello biomedico, si è sviluppata la psicologia clinica, con le sue teorie e le sue modalità di intervento e di cura. I trial clinici randomizzati (RCT) rappresentano il metodo di ricerca utilizzato per valutare l’efficacia degli interventi psicoterapici e farmacologici. Per essere riconosciuti “efficaci” dal NIMH, gli RCT devono provare l’efficacia di un certo trattamento standardizzato e manualizzato, assegnando in modo casuale i pazienti ad un trattamento o ad una condizione di controllo e basando la selezione dei partecipanti sui rigidi criteri diagnostici del DSM.

Nell’ambito dell’intervento psicoterapico, gli RCT hanno dimostrato ampiamente l’efficacia, anche considerando i costi, di molti disturbi psichici (i.e., depressione, disturbi alimentari, disturbi d’ansia, ADHD, disturbo borderline di personalità, etc.). Alcuni limiti nel testare l’efficacia degli interventi psicoterapeutici riguardano l’estendibilità dei dati osservati al mondo reale, l’utilizzo di manuali standardizzati e un numero definito di sedute. Ovviamente, questo rigore taglia fuori dalla ricerca una serie di psicopatologie più articolate e, cosa osservata di frequente, coloro i quali soffrono di disturbi sub-clinici che, pur essendo fonte di sofferenza, non soddisfano completamente i criteri del DSM. Nella maggior parte dei casi gli RCT hanno indagato l’efficacia di trattamenti specifici, come, ad esempio, gli effetti dell’esposizione in vivo a stimoli fobici, dell’esposizione tramite immaginazione ad episodi traumatici e di interventi per i pensieri ossessivi.

Molte di queste tecniche derivano da approcci terapeutici più complessi che non sono facilmente operazionalizzabili all’interno di un trial clinico rigorosamente controllato. Nella pratica clinica, inoltre, è abbastanza frequente incontrare pazienti che presentano più di un singolo disturbo psichico. Spesso è possibile osservare delle comorbilità e una sovrapposizione sintomatologica condivisa con più disturbi.

Ad esempio, il disturbo da attacchi di panico, la fobia specifica, il disturbo post-traumatico da stress, il disturbo d’ansia generalizzato e il DOC sono tutti accomunati dalla presenza di convinzioni patogene, da distorsioni nell’elaborazione di informazioni e da comportamenti “di sicurezza” che mantengono la patologia. In tutti questi casi, l’esposizione e prevenzione della risposta rappresenta l’intervento elettivo (ma non l’unico) nel trattamento. Il clinico che utilizza l’approccio del “singolo-disturbo” per diagnosticare e curare i suoi pazienti rischia di vedere l’albero, ma non la foresta.

Il modello biomedico applicato alla psicopatologia rischia di aumentare ulteriormente il gap tra la pratica Reale e la psicologia sperimentale, quando, invece, sarebbe fondamentale che la psicologia clinica conquistasse individualmente il suo spazio, alla luce, soprattutto, dei costi ridotti e degli outcome efficaci, ad oggi emersi.

Conclusioni

Il paradigma biomedico è stato spinto e sostenuto da interessi economici, politici e ideologici, senza però portare ad un effettivo miglioramento nella diagnosi o nel trattamento della psicopatologia. Ad oggi, considerando i fattori genetici, la disregolazione neurotrasmettitoriale, le esperienze traumatiche o le credenze irrazionali, non è stata identificata neanche una sola causa biologica per uno specifico disturbo.

Per quale motivo allora continuare ad insistere su un solo modello, se, ad oggi, dopo i numerosi investimenti, non si sono ottenuti i risultati sperati?

È ovvio che tutti i fenomeni psicologici abbiano un corrispettivo biologico. Affermare che un disturbo del comportamento alimentare o un disturbo d’ansia abbia una base biologica ha senso, senza che, però, questo implichi che quest’ultima sia la causa della patologia stessa. Le correlazioni cervello->mente e mente->cervello esistono, è evidente, ma non spiegano la loro reciproca relazione. Sino ad oggi, infatti, non sembra che la ricerca sulla psicopatologia abbia aiutato molto a comprendere questa connessione. Un disturbo psichico può essere spiegato, e studiato, a diversi livelli di organizzazione (i.e., molecolare, ambientale, cognitivo, neuronale, etc.) e nessuno di questi è sovraordinato rispetto agli altri, poiché appartengono tutti allo stesso fenomeno.

Al contrario, ciascun livello dovrebbe contribuire alla spiegazione del disturbo in sé e può essere oggetto di studio per diversi motivi. Ad oggi, il modello biomedico non ha considerato né i diversi livelli, né ha contribuito a creare un dibattito costruttivo e aperto con chi si occupa delle altri componenti coinvolte. Negli ultimi decenni i sostenitori del modello biomedico si sono cocciutamente opposti e chiusi a qualsiasi forma di confronto con altri professionisti, ad esempio con chi proponeva un nuovo modello medico, basato sull’approccio bio-psico-sociale di Engel (1977).

Per citarne alcuni. Nel 2003, il gruppo di attivisti MindFreedom è stato screditato e ignorato pubblicamente dall’APA quando era intervenuto per richiedere evidenze scientifiche a favore del modello biomedico. Nel 2005, l’intervento televisivo a Today Show di Tom Cruise, il quale aveva pubblicamente dichiarato che non esistono prove a favore della teoria dello sbilanciamento chimico. E, ancora, nel 2010, dopo la pubblicazione del libro “Anatomy of an Epidemic” di Robert Whitaker il quale, dopo essere stato invitato come speaker a diverse conferenze internazionali, dove aveva sollevato parecchi dubbi relativi all’infondatezza e alle incoerenze del modello biomedico, è stato duramente ripreso e screditato apertamente, senza che poi gli venisse data la possibilità di difendere o di discutere i suoi interventi. Sarebbe auspicabile, invece, utilizzare un approccio multi-disciplinare, in modo da favorire uno scambio e un dialogo collaborativo tra le numerose professionalità interessate alla diagnosi e alla cura dei disordini mentali.

 

Le domande che restano indiscutibilmente aperte, sottolinea Deacon, sono:

1) Com’è possibile considerare i disturbi mentali su base unicamente organica, se i ricercatori non sono stati ancora in grado di identificare almeno un marker biologico (ammesso che riuscirci abbia un ruolo, poi, nel trattamento) utile per la diagnosi o per distinguere un individuo con psicopatologia da uno sano?

2) Come si può considerare la teoria dello squilibrio chimico la causa dei disturbi psichici se gli scienziati non hanno identificato una baseline di come il cervello umano funzioni in condizioni di normalità?

3) Perché psichiatri, medici, biologi e organizzazioni come l’APA, il NIHM o il NAMI hanno continuato a promuovere il modello biomedico della patologia mentale, se ancora non esistono prove chiare a suo sostegno? E qual è il ruolo delle case farmaceutiche?

4) Perché vengono ancora investiti milioni di dollari nella promozione della ricerca biomedica se, ad oggi, dopo diverse decadi, non sono stati identificati farmaci, test biologici o trattamenti efficaci?

5) Se è vero che gli psicofarmaci hanno migliorato il malfunzionamento psicologico e sono ormai ampiamente diffusi, come mai i disturbi psichici sono aumentati? Non ci si dovrebbe, invece, aspettare una riduzione della psicopatologia, vista l’enorme diffusione di terapie su base biochimica?

6) L’attribuzione della patologia mentale a cause mediche non ha ridotto la stigmatizzazione ma, anzi, questa è drasticamente aumentata, contribuendo ad un sempre maggiore isolamento e rifiuto, da parte della popolazione sana, dei pazienti affetti da malattia mentale.

Considerando tutti questi interrogativi, un dibattito leale e aperto sarebbe chiaramente necessario. Fortunatamente, ultimamente il confronto è stato avviato, sia in alcune conferenze internazionali (i.e., International Society for Ethical Pshychology and Psychiatry) che sul sito www.madinamerica.com. Per la prima volta nella sua storia, conseguentemente a queste obiezioni, il DSM5 rischia di essere screditato da parecchie comunità di salute mentale che non possono ignorare quanto proposto, spesso con la forza e evitando confronti e dibattiti, dai sostenitori del modello biomedico. Il dialogo dovrebbe portare alla ricerca di una reale comprensione ed integrazione, basata su tutti i livelli di analisi possibili (dal micro al macro e viceversa), dei disturbi psichici, senza, però, scadere in un compromesso politico, invece di una reale soluzione scientifica. Quest’ultima si dovrebbe basare sulla risoluzione di alcuni punti chiave, tra i quali, il rapporto mente/cervello (per un recente approfondimento, vedi Castelfrachi, 2015) e la comprensione chiara della distinzione tra psicopatologia e neuropatologia (che coinvolge i disturbi della motilità, della sensibilità, dell’equilibrio e del linguaggio).

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BIBLIOGRAFIA:

L’anima desiderante dell’industria del divertimento

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 28/06/2015

 

Che il divertimento sia ormai un’industria è una (divertente) contraddizione dei giorni nostri, a cominciare dall’etimologia, latina per entrambe le parole.

Operosità, impegno e concentrazione si radunano intorno all’origine della parola “industria”, mentre divertimento è –letteralmente- volgere altrove, è allontanamento dall’impegno, è distrazione. E per distrarci l’industria del divertimento ci propone intrattenimento, parchi a tema, parchi giochi, mondiali di calcio, bordelli, Dubai e perfino cultura! Come mi dice il direttore Cancellato, ormai girano più soldi per farci divertire che per produrre cose. Miracoli dell’economia delle esperienze. Ma ogni pianeta ha il suo lato oscuro.

Forse il problema sono i desideri che tormentano l’esistenza. O forse no. Il problema non sono i desideri. Come scrivono Spada e Caselli (2011) il problema è come reagiamo mentalmente ai desideri quando essi balzano davanti alla nostra coscienza. Alcuni di noi sanno discriminare meglio i desideri su cui vogliono soffermarsi da quelli che in realtà non vogliono perseguire. Altri, purtroppo, si soffermano a elaborare mentalmente questi desideri, a immaginare le sensazioni che si provano a esaudirli, a pianificare mentalmente (come fosse un film) le azioni da compiere per raggiungerli e a identificare le ragioni valide che ci possono “concedere” o “permettere” di sceglierli. Questo processo di pensiero talvolta è tanto automatico che le persone non si rendono conto di esservi immerse. Sono fuse dentro questo canale di elaborazione. Tutto questo ha un impatto forte sulla sensazione di desiderio o di ‘fame’ per un oggetto o per un’attività.

La psicologia ha già provveduto a dare un nome tecnico alle varie aberrazioni patologiche dell’industria del divertimento. Si inizia naturalmente con lo shopping, che può diventare un obbligo, una schiavitù. L’atto dell’acquisto nello shopping compulsivo è sperimentato come un impulso incontrollabile e irresistibile, che comporta attività singole eccessive, costose e dispendiose in termini di tempo.

Tipicamente è un comportamento messo in atto in risposta ad emozioni negative, dando origine così a difficoltà finanziarie, personali e/o sociali. Nel momento dell’acquisto i compratori compulsivi sperimentano un restringimento dell’attenzione indicativo di uno stato mentale “assorbito” e che compromette qualsiasi processo cognitivo esecutivo/riflessivo. Durante questo stato dissociato/assorbito si potenziano gli effetti positivi per il proprio umore dovuti all’acquisto. Si origina, quindi, un circuito di feedback positivo: “acquistare mi fa stare bene”. In questa fase si sperimentano stati emotivi come: sollievo, gratificazione, miglioramento dell’umore e dell’autostima, che risultano però temporanei.

Con lo shopping siamo ancora in un ambito tutto sommato accettabile. Più in là inizia l’antro dei divertimenti più inquietanti. Naturalmente il divertimento sessuale è in prima fila. Accanto all’esercizio antichissimo in strada o nei bordelli, si presentano le forme tecnologiche più moderne, il cosiddetto cybersesso. Nella definizione di cybersesso rientrano tutte le modalità di utilizzo di internet che possono determinare eccitazione e gratificazione sessuale.

Si tratta di attività fra loro differenti, che comprendono la scrittura e la lettura di storie a contenuto erotico, la frequentazione di chat rooms a contenuto sessuale, la visione di filmati pornografici, l’uso di web-cam per attività erotiche a distanza e la ricerca d’incontri con persone che si prostituiscono. C’è di tutto, c’è il sesso vissuto e poi mostrato su internet, c’è il sesso procurato tramite internet, ma c’è anche il sesso vissuto esclusivamente in maniera virtuale.

La cybersexual addiction è la dipendenza da queste attività sessuali virtuali. Kimberly S. Young, docente di Psicologia presso l’Università di Pittsburgh e direttrice del Center for Online Addiction, ha tracciato un profilo del cybersexual addicted:[blockquote style=”1″] Il soggetto si dedica in modo sempre più compulsivo all’uso di internet per trovare un partner o materiale erotico, fino a considerare l’eccitazione che ne deriva come forma primaria di gratificazione sessuale, e fino a ridurre l’investimento sul partner reale. Inoltre il disagio scaturito dalla dipendenza porta il soggetto a nascondere le proprie relazioni virtuali agli altri, provando sentimenti di colpa o vergogna.[/blockquote]

Infine, in questa processione di piaceri industriali, incontriamo il gioco d’azzardo, il gambling.
Si tratta di un fenomeno in costante crescita. Studi epidemiologici stimano tassi di prevalenza compresi tra 1.1% e 5.3% nella popolazione adulta e in particolare nel contesto italiano si stimano tassi di prevalenza pari al 2.3% per i giovani e il 2.2% per gli adulti. Slot machine, video lottery, gratta e vinci, poker online e lotterie istantanee, sono centinaia le forme di gioco d’azzardo legalizzate in Italia.

A disposizione di ogni cittadino italiano ci sono più slot machine che posti letto in ospedale. Un dato allarmante, che negli ultimi anni ha contribuito all’impennata del numero di persone cadute nel vortice del gioco. Comincia così la testimonianza di Antonio, giocatore di azzardo patologico che ha perso tutti i suoi averi, alle slot e videolottery: [blockquote style=”1″]A volte ci parlavo con le slot, vedi a che livello ero arrivato[/blockquote].

I nuovi giochi d’azzardo (videopoker, slot-machine, bingo, giochi online) definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, decontestualizzato, globalizzato, con regole semplici e universalmente valide e pertanto ad alta soglia di accesso. È un nuovo popolo del desiderio, differente dagli elitari e annoiati debosciati ottocenteschi che frequentavano le case da gioco in un’atmosfera decadentista e raffinata. Ora è un comportamento di massa che si rivolge a un pubblico che pensavamo estraneo e lontano dai luoghi culto dell’azzardo: adolescenti, casalinghe, pensionati, bambini e interi nuclei familiari, che popolano le sale gioco infestate da slot-machine e videopoker o le affollate sale da bingo.

Eccitazione e delusione definiscono un’oscillazione che il giocatore d’azzardo conosce bene, ma dalla quale non riesce a difendersi. La trappola risiede nel senso di prestigio, di onnipotenza, oltre che nelle vivide fantasie di vincita che da un certo punto in poi diventano certezza di potersi rifare, irrinunciabile modulatore dell’umore depresso che consegue alle frequenti perdite. Da qui in poi, aumentano la frequenza del gioco e il desiderio di recuperare, ma diminuiscono le possibilità di sottrarsi a questo pericoloso inganno.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Riflessioni circa l’importanza delle scale di valutazione del DSM-5

Filippo Turchi

Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore a contratto presso l’Università di Firenze. Socio SITCC e SIP. Docente presso la Scuola Cognitiva di Firenze.

 

L’organizzazione di ogni capitolo del nuovo DSM avrebbe l’ambizione, o la presunzione, di indicare come i disturbi possano essere interdipendenti a seconda di vulnerabilità preesistenti o di caratteristiche dei sintomi. Con lo stesso criterio sono stati ulteriormente suddivisi alcuni disturbi sulla base di una maggiore comprensione delle loro cause, sposando un’ottica evolutiva dei disturbi.

L’avvento della pubblicazione dei manuali proposti dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) con le scale di valutazione da utilizzare, mi ha spinto a fare delle riflessioni sull’importanza di queste scale in questo momento della storia dei disturbi mentali.

Il DSM-5 nasce, secondo le intenzioni del coordinatore della Task Force del DSM 5 David J. Kupfer, come un manuale che dovrebbe aiutare i clinici e i ricercatori a diagnosticare e classificare i disturbi mentali con più precisione, così da migliorare la diagnosi e la terapia conseguente. [blockquote style=”1″]Con la nuova edizione del DSM, noi volevamo promuovere la condivisione e la partecipazione più larga possibile e raccogliere la più ampia gamma di opinioni. Volevamo inoltre facilitare l’utilizzo finale del manuale per i clinici, i pazienti ed i ricercatori. Abbiamo raggiunto entrambi gli obiettivi e ci aspettiamo che il DSM abbia un’immediata utilità per i clinici e beneficio per i pazienti.[/blockquote] ha dichiarato Dilip Jeste, Presidente dell’American Psychiatric Association (APA).

È intenzione dell’APA promuovere futuri processi di revisione [blockquote style=”1″]con una sempre maggiore attenzione agli elementi innovativi nel campo della ricerca, con aggiornamenti continui fino a quando sarà necessaria una nuova edizione del DSM. Così come la ricerca di base sui disturbi mentali sta evolvendo a diverse velocità per diversi disturbi, anche le linee guida diagnostiche non devono essere vincolate a pubblicazioni statiche ma, al contrario, devono essere dinamiche e correlate ai progressi scientifici.[/blockquote]

L’organizzazione di ogni capitolo del nuovo DSM avrebbe l’ambizione, o la presunzione, di indicare come i disturbi possano essere interdipendenti a seconda di vulnerabilità preesistenti o di caratteristiche dei sintomi. Con lo stesso criterio sono stati ulteriormente suddivisi alcuni disturbi sulla base di una maggiore comprensione delle loro cause, sposando un’ottica evolutiva dei disturbi. Questo è un primo punto d’interesse, in quanto si propone, in questo DSM, un modello di malattia che di fatto è ibrido, a differenza di quello proposto nei precedenti manuali DSM.

La parte “ufficiale” del sistema diagnostico ripropone un modello dicotomico, per cui la malattia c’è quando ci sono i criteri e c’è salute quando non vengono soddisfatti tutti i criteri necessari. Nella sezione III del manuale, tuttavia, ci sono le dimensioni psicopatologiche e le scale di valutazione che dovrebbero misurarle e valutarle, facendo riferimento ad un modello di malattia che prevede una continuità tra normale e patologico che sfuma l’una nell’altra. Da qui la nuova proposta di concettualizzazione dei disturbi di personalità.

Un altro elemento esplicitamente sottolineato nel DSM 5 è la necessità di valutare meglio la comparsa, la durata e la gravità dei sintomi. Questo ultimo elemento ha di nuovo messo in risalto implicitamente l’importanza delle scale di valutazione nella pratica clinica quotidiana, e ne sponsorizza un maggiore utilizzo, rispetto a quanto venga fatto nella realtà odierna.

La stima della gravità offre vantaggi a cui credo non possiamo più rinunciare se vogliamo offrire trattamenti di qualità: consente di differenziare i pazienti sulla base della quantità (per la diagnosi non conta se hai 5 o 10 criteri positivi perché avrai comunque sempre e solo quella diagnosi) e della qualità dei sintomi; consente di capire e dimostrare meglio l’efficacia dei trattamenti, perché potrebbe chiarire quanto e su quali elementi agiscono maggiormente i diversi trattamenti, e in che tempi (inutile dire che questa è una delle sfide che devono essere raccolte dai clinici e dai ricercatori anche per le varie forme di psicoterapia); consente, infine, di avere elementi per personalizzare un trattamento sulla base di elementi discreti, e di poter verificare quali tra gli elementi è un indicatore migliore di risposta alla terapia nel tempo.

Non credo di poter essere smentito se affermo che in ambito clinico (SPDC, ambulatori ASL, CSM), si sente una maggior affinità con la psicodiagnostica. Come scrivono Fossati, Borroni e Somma, curatori del manuale sulle “Linee Guida di Psicometria”, psicometria e psicodiagnostica non sono ortogonali: sono poli estremi di una stessa dimensione dell’agire (e del pensare) psicologico.

La psicometria, a cui le scale rimandano, ha come interesse centrale lo sviluppo di misure (test, tecniche di intervista, prove di laboratorio ecc.) che siano quanto più affidabili e valide possibile (e anche lo sviluppo di nuovi modelli, metodi statistici e approcci computazionali alla definizione delle proprietà psicometriche delle misure psicologiche): lo sguardo è al comportamento di una misura in campioni rappresentativi di persone. L’ottica della psicodiagnostica ha a che vedere con il saper scegliere un sistema di provata affidabilità e validità per arrivare a dare una risposta a quesiti – usualmente, ma non esclusivamente, clinici – relativi a una singola, specifica persona. Senza psicometria non sarebbe possibile alcuna valutazione psicologica credibile; senza assessment psicologico (ossia psicodiagnosi) la creazione di test avrebbe un significato puramente “accademico”.

Non c’è dubbio che i clinici debbano riconciliarsi con le basi psicometriche dell’attività testologica, allo scopo di promuovere un uso sempre più competente dei test e anche il desiderio di “mettere alla prova” in prima persona nuove misure, conducendo degli studi di affidabilità e di validità, perché è un altro elemento problematico che deve essere superato. A questo punto della storia delle scienze psicologiche emerge con forza la necessità di una maggiore condivisione e standardizzazione degli item delle scale e degli score nella valutazione, che ci consentano di avere strumenti affidabili di valutazione della risposta a breve e lungo termine.

Nella sezione III del manuale viene dedicata tutta la prima parte nel tentativo di coinvolgere, spiegare l’importanza e promuovere l’utilizzo delle scale e lo studio di questi parametri. Essendo il DSM 5 manuale di transizione, e coerentemente con questa volontà d’integrazione di un sistema categoriale con quello dimensionale, si esorta all’utilizzo delle scale di valutazione per superare le limitazioni derivanti da un approccio diagnostico categoriale.

Queste scale di valutazione del paziente sono state messe a punto per essere somministrate nel colloquio iniziale e per monitorare i progressi del trattamento. Dovrebbero essere utilizzate per migliorare il processo diagnostico e non come base unica per formulare una diagnosi clinica. I vantaggi portati dall’utilizzo delle scale di valutazione includono, per gli autori del DSM 5, anche: il superamento delle difficoltà di individuare zone di discontinuità tra le diagnosi; la possibilità di definire meglio i soggetti che ricevono una diagnosi di un disturbo non altrimenti specificato; dare la possibilità di un resoconto soggettivo dei sintomi; fornire una valutazione più completa dello status mentale.

Sono sostanzialmente 5 i pacchetti di scale di valutazione nel DSM 5: 1) Le Scale di valutazione dei sintomi trasversali; 2) Le Scale di valutazione della gravità; 3) Gli Inventari di personalità per il DSM-5 (PID-5); 4) I Questionari relativi allo sviluppo infantile e all’ambiente domestico; 5) Le Interviste per l’inquadramento culturale (IIC) .

Le scale di valutazione dei sintomi trasversali si compongono di due livelli: le domande di livello 1 costituiscono un breve esame di 13 domini di sintomi per pazienti adulti (Depressione, Rabbia, Mania, Ansia, Sintomi somatici, Ideazione suicidaria, Psicosi, Sonno, Memoria, Pensieri e Comportamenti ripetitivi, Dissociazione, Funzionamento della personalità, Uso di sostanze) e 12 domini per pazienti in età infantile e adolescenziale. Le domande di livello 2 forniscono una valutazione più approfondita di alcuni domini.

Le scale di valutazione della gravità sono disturbo-specifiche e sono strettamente correlate con i criteri che definiscono il disturbo. Alcune scale possono essere compilate dal soggetto, mentre altre richiedono l’intervento del clinico.

Gli Inventari di personalità per il DSM-5 (PID-5) misurano i tratti di personalità non adattivi in cinque domini: Affettività negativa, Distacco, Antagonismo, Disinibizione e Psicoticismo. Tali domini seguono una sorta di consenso su 5 dimensioni che costituiscono la sintesi di 3 strumenti di misura di elementi personologici differenti: il modello psicobiologico a 7 fattori di Cloninger, la Valutazione dimensionale della patologia di personalità secondo il Dimensional Assessment of Personality Disorder (DAPP) e il modello di personalità “BIG FIVE”.

Sono disponibili – per gli adulti e i soggetti sopra gli 11 anni – la versione breve costituita da 25 item e la versione completa costituita da 220 item. In questa transizione del concetto di disturbo di personalità molto deve essere fatto perché si possa creare un modello condiviso ed affidabile.
I Questionari relativi allo sviluppo infantile e all’ambiente domestico possono essere utili nella valutazione delle prime fasi dello sviluppo e delle esperienze attuali relative all’ambiente domestico del bambino assistito. Sono fornite due versioni: una che deve essere compilata da un genitore, o da un tutore, del bambino; l’altra che deve essere compilata dal clinico.

Le Interviste per l’inquadramento culturale (IIC) possono essere utilizzate per ottenere informazioni durante una valutazione della salute mentale a proposito dell’influenza della cultura sugli aspetti chiave della presentazione clinica e dell’assistenza di un individuo. Contengono: l’Intervista per l’inquadramento culturale (IIC), l’’Intervista per l’inquadramento culturale (Versione per l’informatore) e i Moduli supplementari all’IIC.

 

La sensazione è di essere storicamente di fronte ad un momento di grande evoluzione della comprensione della mente e dei sui disturbi, e che ognuno di noi sia chiamato a fare la sua parte. In questo contesto, le scale di valutazione, che escono dal DSM 5 in questo modo, forse arbitrario e molto sperimentale, offrono comunque un substrato di lavoro perfettibile, ma che richiama tutti a fare un significativo passo in avanti nella definizione più accurata delle malattie, riproponendo un modello complesso; richiama alla necessità della condivisione scientifica e della verifica della confrontabilità e dell’efficacia dei trattamenti.

 

 

Un altro articolo dello stesso autore:

Primo, non curare chi è normale. Di Allen Frances – Recensione

Primo, non curare chi e normale. Allen Frances 2013 - SLIDE

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2015). DSM-5. Raffaello Cortina Editore: Milano.
  • Fossati, A., Borroni, S., Somma, A. (2015). Linee guida di psicometria. Raffaello Cortina Editore: Milano.

Ricadute nella depressione & attenzione selettiva verso volti rabbiosi

FLASH NEWS

Più dell’80 % delle persone che hanno avuto un episodio di depressione maggiore rischiano che l’episodio si ripresenti di nuovo nel corso della loro vita. Tra i meccanismi cui può essere attribuita l’elevata percentuale di ricaduta vi è l’attenzione selettiva verso certi stimoli.

In una recente ricerca è stato analizzato il bias attentivo verso determinate espressioni facciali in un gruppo di donne con un passato di episodi depressivi e in un gruppo di controllo.

A ogni soggetto venivano mostrate espressioni facciali neutre, tristi, felici o arrabbiate.

Il risultato è interessante: utilizzando la tecnica dell’eye-tracking è emerso che le donne con una storia anamnestica di depressione prestavano maggiore attenzione ai volti che esprimevano rabbia e collera.

Inoltre, i ricercatori hanno rivalutato nel corso dei successivi due anni le medesime donne per monitorare gli episodi di ricadute depressive. Tra le donne con storia di depressione, sono proprio coloro che prestano maggiore attenzione ai volti rabbiosi ad avere maggiore rischio di recidiva del disturbo nel medio termine.

In qualche misura è come se i soggetti a maggior rischio di ricaduta depressiva fossero iper-vigili alle espressioni facciali frequentemente legate al criticismo, al conflitto e alla svalutazione. Infine gli autori speculano sulle ricadute applicative considerando la possibilità di mettere a punto training attentivi sulle espressioni facciali nelle psicoterapie per la depressione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Linus e la strategia di evitamento – Peanuts Nr. 07

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA Nr. 07

 

Linus e la strategia di evitamento

La strategia di evitamento è un tema caro alla psicologia, in particolare agli esperti del settore che si occupano di ansia sociale, disturbi evitanti di personalità, fobie specifiche, attacchi di panico e ansia generalizzata.

Aldilà degli inquadramenti diagnostici, l’evitamento è una strategia che a tutti è capitato di mettere in atto, anche quando non è un tratto distintivo della personalità. L’evitamento non ha solo una connotazione negativa, infatti permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale.

Perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006).

 

 

Peanuts Nr. 07 - Evitamento

Cos’è che cerchiamo di evitare?

Quando temiamo le conseguenze di una decisione, o se non ci sentiamo sufficientemente competenti, o abbiamo il timore di sbagliare, ecco che la soluzione migliore diventa una non-soluzione. Ad esempio, ci chiediamo: “Che cosa succederebbe se non superassi l’esame all’università? O se non riuscissi a portare a termine quel compito come vuole il mio capo-ufficio? O se uscissi con quella persona e non sapessi cosa dire?” Più lo scenario che ci immaginiamo sarà catastrofico, più tenderemo a evitare le tragiche conseguenze che si disegnano nella nostra mente. Il motto di Linus è infatti un vero e proprio mantra per chi utilizza questa strategia come paradossale soluzione: non esiste problema che non possa essere evitato.

Gli effetti collaterali sono però dietro l’angolo. Più evitiamo le situazioni, meno ci sentiremo efficaci, e questo andrà a rinforzare l’idea che non siamo in grado di metterci in gioco. Inoltre, nel momento in cui decidiamo di evitare, l’ansia derivante dal rimuginio tenderà a diminuire, regalandoci un immediato senso di sollievo e facendoci credere che la strategia protettiva è stata efficace, perché ci allontana momentaneamente dallo stato emotivo negativo.

Questa vignetta può essere molto utile per aumentare la consapevolezza su questi meccanismi, che spesso diventano automatici, e per aprire il dialogo verso la ricerca di soluzioni alternative più funzionali.

 

 

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Riferimento bibliografico:

  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (a cura di), Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Memorie di Scienza: nuova edizione del Premio Bassoli: tremila euro per la migliore raccolta di testimonianze orali in ambito scientifico

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E’ uscito il nuovo bando del premio SISSA/INFN dedicato a Romeo Bassoli, inserito nel progetto Memorie di scienza.

Il premio finanzia con 3mila euro il miglior progetto per la raccolta di interviste e testimonianze orali in ambito scientifico. Tema di quest’anno sono le malattie infettive. Romeo Bassoli, scomparso nel 2013, è stato giornalista scientifico, ha collaborato a lungo con il Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA e e ha guidato per 7 anni l’Ufficio Comunicazione INFN. Per presentare la domanda c’è tempo fino al 20 ottobre 2015. Per maggiori informazioni visitate la seguente pagina.

A lungo docente del Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA e responsabile della comunicazione di INFN, giornalista scientifico di razza, Romeo Bassoli è scomparso nell’ottobre 2013. In sua memoria la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) promuovono un premio annuale di 3mila euro per il miglior progetto di interviste e raccolta di testimonianze orali in ambito scientifico. SISSA e INFN contribuiscono in parti uguali (50%) al premio che ogni anno è incentrato su un tema diverso. L’argomento dell’edizione 2015 sono le malattie infettive, in particolare le paure, le percezioni, le idee che le persone hanno delle malattie infettive e i rapporti tra cittadini ed esperti sul modo di affrontarle.

Il concorso è aperto a tutti gli appassionati e a tutte le appassionate di storia e comunicazione della scienza sul territorio nazionale. La scadenza del concorso è il 20 ottobre 2015, i vincitori saranno comunicati a novembre.

Il bando di concorso è disponibile al seguente link. Per informazioni contattare Nico Pitrelli, del Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA: 0403787462, [email protected].

Più in dettaglio…

L’obiettivo del premio è accrescere il valore delle testimonianze orali nella storia e nella comunicazione della scienza, nell’ambito di un progetto più ampio. L’iniziativa, dal titolo Memorie di scienza, è promossa dalla moglie e dai familiari e amici di Romeo Bassoli, e si appoggia all’archivio di storia orale del Circolo Gianni Bosio di Roma, con la partecipazione dell’agenzia di comunicazione della scienza Zadig. Memorie di scienza raccoglie testimonianze orali, racconti e narrazioni delle più diverse figure che vivono il mondo della scienza: ricercatori, tecnici, giornalisti, decisori, persone comunque coinvolte nella progettazione e nello svolgimento della ricerca scientifica e delle sue applicazioni. La raccolta costituirà il fondo di un archivio orale consultabile online in modalità open access. La raccolta prevede sia contributi originali, sia l’individuazione di materiali già esistenti ma di difficile reperimento o comunque di difficile fruizione.

Il corpus di testimonianze è organizzato per temi e filoni narrativi, per facilitare la ricerca e l’accesso ai materiali raccolti, ma anche per privilegiare l’aspetto della narrazione, in una raccolta che vuole avere sia una valenza storica, sia una valenza comunicativa.

Memorie di scienza organizza, almeno una volta all’anno, una giornata dedicata alla presentazione dell’archivio e dei materiali raccolti, oltre a offrire un’occasione di confronto tra chi ha contribuito alla raccolta e gli interessati: storici della scienza, ricercatori, giornalisti, personalità della cultura.

Link utili e Contatti:

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Premio Internazionale per Ricerche su Trauma e Disturbi della Personalità: il premio per i giovani ricercatori

Intervista a Joanne Stubley, responsabile dell’Unità Trauma Adulti presso la Tavistock Clinic

LEGGI L’INTERVISTA IN INGLESE

Joanne Stubley è Supervisore Psichiatra presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica sita presso la Clinica Tavistock di Londra e Responsabile dell’Unità Trauma Adulti presso Tavistock and Portman NHS Foundation Trust (Londra).

Dirige la Sezione Adulti del Tavistock Trauma Service e ha una considerevole esperienza nel lavoro con individui, gruppi e organizzazioni che affrontano questo tema. È direttamente coinvolta nella formazione e nella pratica clinica, con un interesse specifico per iI trauma complesso. Dr. Stubley è membro della Società Psicoanalitica Britannica (BPS) e membro del UK Gruppo Trauma.

1. Come responsabile del Servizio Trauma Adulti presso la Tavistock and Portman NHS Foundation Trust di Londra, potrebbe brevemente descrivere cosa offre il servizio?

Il Servizio Trauma è parte dell’offerta per adulti proposta dalla Tavistock all’interno del sistema sanitario pubblico (NHS). Esso è una piccola unità, nata nel 1986. Inizialmente fondata dalla psicanalista Caroline Garland e principalmente rivolta a pazienti con diagnosi di PTSD. Per queste persone, che soffrivano di singoli episodi traumatici in età adulta, il servizio disponeva di una breve consulenza, 4-6 incontri, sufficiente per alcuni di loro. Per altre persone, dopo la consulenza iniziale, era possibile essere inseriti in un generico servizio per iniziare una psicoterapia, con interventi individuali o di gruppo. Gli incontri potevano durare da un’ora e un quarto a un’ora e mezza, oltre i soliti 50 minuti, per dare alle persone il tempo di esprimere la loro sofferenza durante l’incontro, prima del successivo stabilito circa 15 giorni dopo.
Negli anni, abbiamo incrementato l’offerta del servizio. Attualmente esso dispone di un Approccio Psicoanalitico al trauma accanto a interventi TF-CBT (Trauma Focused Cognitive Behavioural Therapy) e EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, di cui siamo in fase di formazione): in tal modo disponiamo di una diversificata opportunità terapeutica, per indirizzare al trattamento di traumi singoli, complessi o dello sviluppo.

2. Rispetto al profilo dei pazienti che afferiscono al servizio, quali sono le età, il background, le diagnosi più frequenti?

Questa popolazione può includere rifugiati e persone che necessitano di asilo politico, vittime di violenze domestiche o abusi sessuali, etc.. Il trattamento è ad oggi rivolto principalmente a traumatizzazioni croniche, sebbene ci occupiamo anche di individui con singoli episodi traumatici in età adulta. L’unità dispone di un ottimo collegamento con i servizi per adolescenti, per adulti e con altri servizi all’interno del sistema sanitario.

3. Quali tipi di trattamento offrite? Individuali o di gruppo? Che modelli terapeutici sono adottati?

La mia idea è che per lavorare con pazienti traumatizzati noi abbiamo bisogno di un trattamento flessibile, quindi seguire più di un modello di intervento può essere efficace. Tutti coloro che lavorano nell’Unità Trauma hanno un percorso formativo psicoanalitico: il principale riferimento teorico per noi. Inizialmente, infatti, ai pazienti offriamo una consulenza psicoanalitica, ma successivamente decidiamo il tipo di intervento quindi anche un trattamento TF-CBT è disponibile. È importante la flessibilità fra gli approcci d’intervento terapeutico.

Allo stesso modo, ritengo che molti pazienti necessitino di un adattamento al protocollo di intervento scelto per quanto riguarda i fattori psicosociali, che possono interferire nel trattamento. Così, molto spesso, ci occupiamo anche di cercare una sistemazione abitativa, un sostegno economico, una formazione scolastica e/o professionale, un lavoro, una soluzione alle pratiche burocratiche per i rifugiati e coloro che cercano asilo politico.

La questione della flessibilità: ogni paziente segue un intervento individuale e come tutti i pazienti ha ricevuto un’iniziale consulenza psicoanalitica. Da qui, possiamo offrire interventi TF-CBT, EMDR o diverse opzioni psicoanalitiche. Esse possono consistere in terapie di gruppo (1-2v/sett), occasionalmente un percorso intensivo (3v/sett), ma la maggior parte dei pazienti segue ciò che noi chiamiamo ‘un trattamento intermittente’(ha cioè una frequenza di meno di una volta a settimana). In questo modo è offerta la possibilità di gestire il tempo, per lo sviluppo di una relazione; alcuni pazienti frequentano ogni 2 settimane, alcuni ogni 3 o 4 settimane. Noi possiamo negoziare, in modo da disporre di una flessibilità che permetta di osservare ciò di cui hanno bisogno. Infatti, dopo un certo periodo di tempo il trattamento potrebbe evolvere in modo diverso.

Può dire qualcosa rispetto al termine del trattamento? Noi non abbiamo una definizione formale dal dipartimento, rispetto a quando terminare un trattamento. Noi utilizziamo i nostri incontri regolari (un trauma meeting 1v/15 giorni e un incontro di intervisione 1v/mese) per riflettere sul progresso dei pazienti. Ogni tanto la domanda è se il paziente è pronto o no a muoversi verso un altro intervento terapeutico. Noi, inoltre, cerchiamo di creare collegamenti tra organizzazioni esterne al servizio sanitario (es. organizzazioni di volontariato). Il termine del trattamento è una questione difficile, poichè questi tipi di pazienti spesso hanno bisogno di un percorso a lungo termine, ai fini della costruzione di una relazione.

Può dire qualcosa rispetto ai fondi? La Tavistock ha contratti con commitenti locali. Noi siamo pagati in blocco (il lavoro sul trauma è parte di tale blocco). Noi non siamo pagati a singolo paziente, ma per il lavoro psicoterapeutico generale che offriamo.

4. Come è organizzato il team, in termini di professionalità presenti e numero di operatori nel servizio?

Tutto il lavoro dello staff è part-time, presso il Trauma Unit, e il resto del tempo è dedicato ad altre responsabilità nel servizio sanitario. Ci sono 4 senior: io, Joanne Stubley (Psichiatra), dirigo l’Unità Trauma e anche una Unità Generica nel Dipartimento; Linda Young (Psicologo) dirige un team nel Dipartimento per Adolescenti; Maxine Dennis (Psicologo) dirige la Terapia di Gruppo nel Dipartimento per Adulti; Birgit Kleeberg (Medico) conduce l’Unità Fitzjohn. Noi disponiamo di esperti diversi in campi differenti. Disponiamo anche di un Patient Advice and Liaison (PALS), un ufficiale che frequenta il servizio trauma per aiutare i pazienti nelle difficoltà pratiche. Noi non abbiamo un numero definito di pazienti nè di personale sanitario.

5. Cosa prevedi per il futuro del servizio che conduci?

La mia preoccupazione sul futuro è relativa allo sforzo da mettere in campo, con le risorse che arrivano principalmente dalla Tavistock, in relazione ai problemi (n.d. tagli dei fondi) presenti nel servizio pubblico. C’è anche un problema esterno: un servizio pubblico psichiatrico frammentario, che rende difficile per i pazienti ricevere un supporto in rete. Inoltre, sono da tenere in considerazione le politiche sulla salute, che impattano questa tipologia di pazienti (es. fattori sociali).

 

L’intervista con Joanne Stubley ha evidenziato il valore della flessibilità nell’utilizzo di modelli teorici, ai fini dell’organizzazione di un piano di lavoro con pazienti che soffrono di traumi complessi, nella pratica clinica. Inoltre, mi ha permesso di riflettere sulla necessità di organizzare servizi simili al Trauma Unit, al fine di facilitare e rendere più efficace il lavoro dei colleghi in dipartimenti di salute pubblica differenti. Integrazione e flessibilità teorica risultano quindi le parole chiave per descrivere un’efficiente pratica, con effetti diretti sulla salute della comunità!

 

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Fondamenti per l’interpretazione del MMPI-2 e del MMPI-A – Recensione

 

Un viaggio di 450 pagine in quindici capitoli che affronta gli aspetti più importanti legati alla somministrazione, allo scoring e all’interpretazione dello strumento per l’assessment psicologico più usato al mondo. Un testo tanto valido quanto utile attraverso cui s’impara a conoscere e apprezzare lo strumento.

Fondamenti per l’interpretazione del MMPI-2 e del MMPI-A pubblicato da James N. Butcher e Carolyn L. Williams è una guida preziosa all’uso del Minnesota Multiphasic Personality Inventory. La sua pubblicazione ha costituito una testimonianza concreta del decennale progetto di ricerca rivolto alla sua ristandardizzazione.

Un viaggio di 450 pagine in quindici capitoli che affronta gli aspetti più importanti legati alla somministrazione, allo scoring e all’interpretazione dello strumento per l’assessment psicologico più usato al mondo. Un testo tanto valido quanto utile attraverso cui s’impara a conoscere e apprezzare lo strumento.

Gli autori forniscono un’illustrazione pulita e coerente che parte dagli albori della sua nascita nel servizio psichiatrico del Minnesota e non trascura le difficoltà della sua costruzione e applicabilità, per poi introdurre una riflessione sul suo diffusissimo impiego, in medicina generale, nelle scuole, in ambito di selezione, per ricerche di tipo psichiatrico e psicologico.

Era davvero necessario un passo di adeguamento al futuro, si pensi al campione normativo di contadini bianchi di ceto medio del Minnesota su cui era stato costruito, alla nosologia krapeliana e agli item datati, che conservasse tuttavia la sua originalità. L’impegno di un comitato di esperti come Butcher, W. Grant Dahlstrom, Johnn R. Graham e Auke hanno reso questo progresso possibile, attraverso l’introduzione di nuove scale rispondenti a nuovi problemi e utilizzando punti T uniformi che potessero essere equivalenti ai valori percentili delle scale.

Nel tempo l’attenzione riservata alla sua applicabilità, non poteva che crescere fino a rendere possibile la produzione di diverse tipologie quali, carta e matita con copertina morbida e rigida, adatta dove non ci sono supporti, su audiocassetta per coloro che hanno problemi di vista, lettura o impedimenti fisici, computerizzata che riduce il tempo di compilazione.

Il volume si propone come valido e prezioso ausilio per il clinico che intende utilizzare questo inventario con diverse raccomandazioni rivolte alla sua somministrazione, scoring e interpretazione. Si consiglia un setting controllato, un atteggiamento serio e il rispetto della riservatezza. Con gli adolescenti si sostiene l’importanza di verificare che siano collaborativi, abbiano compreso il testo e l’ampia disponibilità di tempo, di fornire intervalli e rinforzi.

Il passo successivo che corrisponde all’elaborazione del test può essere compiuto ricorrendo a griglie trasparenti applicate sul test, o preferendo la modalità computerizzata.

Le norme di questo questionario si basano su una trasformazione lineare di punti T con media 50 e deviazione standard 10, indicati in punti T uniformi. L’intervallo clinico è definito da un punto T uguale o superiore a 65 che corrisponde al 92° percentile per le 8 scale cliniche e per le scale di contenuto.

Per la valutazione della validità del protocollo l’attenzione deve ricadere sulle misure di validità. Più precisamente ciò che il soggetto è o vorrebbe farci credere è affrontato dagli autori attraverso una rassegna completa e attenta delle scale di validità Lie, Frequency, Superlative, Correction.

La prima fornisce informazioni sulla tendenza del soggetto a difendersi dal test, pertanto quando il punto T ha un’elevazione uguale o superiore a 65, il profilo non è più valido, la presentazione del soggetto appare come troppo virtuosa. Viceversa la seconda invalida il profilo quando si eleva a 110 e suggerisce che il soggetto sta esagerando i propri problemi. La scala S indaga se il soggetto si sta presentando sotto una luce eccessivamente positiva, quando il punteggio è uguale o superiore a 65 e per finire la scala K informa il clinico se il soggetto sta tentando di negare i propri problemi.

Terminata questa prima fase è importante valutare i punteggi del soggetto nelle scale cliniche, esse misurano rispettivamente l’ipocondria, la depressione, il disturbo di conversione, la deviazione psicopatica, la mascolinità e femminilità, la paranoia, la psicoastenia, la schizofrenia e l’ipomania.

La scala della mascolinità e femminilità e la scala dell’introversione sociale forniscono informazioni rilevanti sia nel caso di elevazione, sia di punteggio molto basso. La prima fu costruita per identificare la tendenza verso interessi femminili e maschili, ed è influenzata dallo stato socio-economico e culturale, punteggi estremi (70 o superiori) possono riferirsi a persone insicure nel ruolo maschile o femminile, punteggi estremamente bassi, informano su dubbi circa la loro mascolinità e femminilità e sull’abilità intellettuale limitata. Nella seconda gli alti punteggi valutano l’introversione sociale e i bassi l’estroversione sociale.

Ognuna di queste scale è costituita da sottogruppi di item raggruppati per contenuto che formano le scale Harris Lingoes che forniscono informazioni aggiuntive sull’elevazione riscontrabile in ciascuna scala.

Oltre che all’interpretazione scala per scala si può ricorrere all’interpretazione per codici, essa si riferisce ai punteggi più elevati delle scale cliniche collocate in ordine secondo la loro elevazione. È possibile riscontrare un codice a una sola punta, a due punte, due scale cliniche hanno un punteggio uguale o superiore a 65, a tre punte e quello a quattro punte che è piuttosto raro. Nel testo si dedica un ampio spazio ai più comuni codici riscontrati nei setting clinici e alla loro importanza per la diagnosi.

Un altro importante contributo alla comprensione dell’elevazione delle scale cliniche è offerto dalle scale di contenuto, che forniscono informazioni sulla personalità e su ciò che il soggetto riconosce di provare. Le prime sei scale, ANX (ansia), FRS (Paure), OBS (Ossessioni), DEP (Depressione), HEA (preoccupazioni per la salute), BIZ (ideazione bizzarra) misurano sintomi, preoccupazioni e percezioni particolari provate dalla persona. Le successive quattro scale, ANG (rabbia), CIN (cinismo), ASP (comportamenti antisociali) e TPA (tipo A) rilevano la capacità di controllare il comportamento e l’espressione delle emozioni. Un ulteriore gruppo di scale supplementari raccoglie informazioni su disturbi da abuso di alcol, droghe, disagio coniugale e ostilità.

Per procedere alla stesura di un profilo mediante una relazione gli autori raccomandano di interrogarsi sull’atteggiamento di risposta al test, i sintomi, e così via in modo da costruire un quadro coerente della personalità del soggetto e della necessità di un trattamento.

La seconda sezione del test conduce il lettore alla conoscenza del MMPI costruito appositamente per gli adolescenti. Ancora una volta una descrizione onesta di potenzialità e limiti della sua introduzione e diffusione. Il MMPI-A nasce per studiare la predisposizione giovanile alla delinquenza. La prima ricerca in tale ambito è da attribuire a Dora Capwell, in seguito a questa fu condotto un imponente studio su 15.300 scolari provenienti dal Minnesota, che dimostrò la validità dello strumento. Dalla somministrazione del MMPI e MMPI-A emersero importanti differenze tra adulti e adolescenti. Gli adolescenti per esempio manifestano un tipo di risposta più emotivo, inoltre prediligono il divertimento rispetto alle attività intellettuali. La validità di un profilo può essere indagata ricorrendo a sei misure raggruppabili in due categorie, che si riferiscono all’atteggiamento difensivo e stile di risposta e allo stile di risposta esagerato e a caso. Come per il MMPI per adulti si procede a valutare le scale di base, di contenuto e supplementari.

Un merito particolare deve essere riconosciuto alle qualità di questo testo, per indicarne alcune, una ricca raccolta d’informazioni, tabelle di rapida lettura e il riferimento a casi clinici, che lo rendono un indispensabile strumento per il clinico interessato a indagare problematiche e comportamenti disadattavi, compiere previsioni e individuare caratteristiche strutturali della personalità attraverso il questionario autodescrittivo più conosciuto al mondo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Quando le esperienze traumatiche non colpiscono solo il paziente: il trauma vicario nel terapeuta

Michela Grandori – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  San Benedetto del Tronto

I professionisti che lavorano con pazienti traumatizzati in maniera aperta, impegnata ed empatica e che sentono la responsabilità o l’impegno di aiutare queste persone, sono più vulnerabili a sviluppare un trauma vicario. Ciò significa che saranno trasformati dalla loro attività dato che lavorare sul trauma può essere sì molto importante e gratificante, ma allo stesso tempo anche molto difficile e doloroso.

Infatti non è facile mantenere un atteggiamento di neutralità terapeutica quando un paziente espone le sue memorie traumatiche. Questi racconti suscitano emozioni molto forti non solo nel paziente ma anche nel terapeuta. Il rapporto empatico con le persone traumatizzate può causare un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo. Ascoltando i dettagli delle esperienze traumatiche che vengono riportate dal paziente in seduta, il terapeuta diventa testimone della realtà traumatica del paziente e questa esposizione può portare ad una trasformazione all’interno del suo funzionamento psicologico. Queste modificazioni negli schemi cognitivi del terapeuta possono avere effetti negativi sulla sua vita personale e professionale (Blair et al., 1996; McCann et al., 1990).

Una prima concettualizzazione di questo fenomeno si è avuta con l’introduzione del termine Traumatizzazione Vicaria, intesa come un cambiamento in negativo degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze in colui che svolge una professione d’aiuto, che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche dei pazienti. In tal senso è opportuno ritenere che la traumatizzazione vicaria nel terapeuta non derivi necessariamente dall’evento in sé ma dalla relazione di aiuto con un individuo che sta soffrendo a causa di quell’evento (McCann et al., 1990). Il costrutto è stato successivamente esteso fino a comprendere sintomatologie di tipo post-traumatico ed è stato indicato da Figley come Stress Traumatico Secondario, ovvero l’insieme di reazioni comportamentali ed emotive alla conoscenza di eventi traumatici sperimentati da altri o in seguito all’aiuto o al tentativo di aiuto a persone traumatizzate.

Se si esclude il fatto che in questa particolare condizione l’esposizione all’evento traumatico è indiretta, la tipologia di sintomi che ne consegue è la stessa riscontrabile in un quadro clinico di disturbo da stress post-traumatico: pensieri intrusivi, evitamento, aumento dell’arousal e, più in generale, una compromissione del funzionamento dell’individuo (Figley, 1995; Jenkins et al., 2002). Lo stesso Figley propone successivamente il costrutto di Compassion Fatigue che principalmente descrive i sentimenti di profonda partecipazione e comprensione per qualcuno colpito da sofferenza, accompagnati da un forte desiderio di alleviare la sofferenza stessa o eliminarne la causa (Figley, 1995).


Sebbene ci siano alcune differenze in termini di origine teorica del costrutto, i concetti Traumatizzazione Vicaria, Stress Traumatico Secondario e Compassion Fatigue possono essere considerati largamente sovrapponibili. La Compassion Fatigue può, pertanto, essere considerata un rischio professionale a pieno titolo. In questo senso Figley propone che la risposta all’esposizione a un evento traumatico si inserisca in un continuum che va da un estremo positivo, di soddisfazione lavorativa (Compassion Satisfaction) a un estremo negativo, di logoramento (Compassion Fatigue). L’autore delinea inoltre un modello causale per cui lo sviluppo della Compassion Fatigue è influenzato sia dalle strategie di coping sia da fattori contestuali come un’esposizione prolungata all’evento traumatico (Craig et al., 2010; Figley, 2002; Sprang et al., 2007).

Al quadro finora descritto si affianca il rischio di sviluppare una sindrome da Burnout, intesa come una combinazione di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e senso di ridotta efficienza nello svolgimento della propria professione, caratterizzata da cinismo, distress psicologico, insoddisfazione, difficoltà nel funzionamento interpersonale, ottundimento emotivo e conseguenze fisiologiche (Maslach, 1982). I fattori centrali determinanti il Burnout sembrerebbero essere la percezione del carico di lavoro, la pressione temporale e gli stressor riferiti alla relazione con l’utenza: tra questi si evidenzia, in particolare, il contrasto tra la richiesta di inibire le proprie emozioni sul lavoro (allo scopo di mantenere un buon livello di performance) e quella di mostrare empatia per il fatto di avere un ruolo da caregiver (Craig et al., 2010; Maslach et al., 2001).

Il Burnout e la Compassion Fatigue si distinguono su alcune dimensioni principali:

  • Il Burnout viene descritto come il risultato di uno stress psicologico generale dovuto al lavoro con pazienti difficili; il professionista ha la sensazione di essere sovraccaricato dal lavoro e le eventuali problematiche del paziente sono secondarie a tale sovraccarico. Invece la Compassion Fatigue è vista come una reazione specifica e diretta dovuta all’esposizione al materiale traumatico presentato dal paziente.
  • La Compassion Fatigue è improvvisa ed acuta e può emergere anche come il risultato di una singola esposizione ad un incidente critico. La sindrome da Burnout, invece, corrisponde ad un graduale e progressivo consumarsi del professionista che si sente sopraffatto dal proprio lavoro e incapace di promuovere un cambiamento positivo.
  • La Compassion Fatigue si verifica solamente tra coloro che lavorano con persone che hanno vissuto eventi traumatici, mentre il Burnout può presentarsi in persone che svolgono qualunque tipo di professione.

Nonostante queste differenze, il Burnout e la Compassion Fatigue condividono caratteristiche simili. Entrambi possono provocare sintomi fisici, emotivi e comportamentali, problemi lavorativi ed interpersonali. Inoltre, entrambi sono responsabili di una diminuzione di preoccupazione e di stima per il paziente, fattore che può determinare un calo nella qualità della cura del paziente stesso (Craig et al., 2010; Sprang et al., 2007).

E’ utile distinguere tre circostanze diverse in cui un terapeuta che lavora con pazienti traumatizzati può sviluppare un trauma vicario ed entrare in uno stato di stress e paralisi:

  • I terapeuti che non hanno mai vissuto personalmente un evento traumatico possono farsi sconvolgere da ciò che emerge nel corso del trattamento di persone con PTSD. Possono sviluppare, quindi, sintomi traumatici secondari sotto forma di incubi, senso di colpa, senso di impotenza, fantasie di salvezza o comportamento evitante/ottundimento. Ciò può creare un circolo vizioso in cui più il terapeuta diventa sintomatico, disadattivo e inefficace, più si immerge a fondo nel suo lavoro. Quando ciò avviene, il terapeuta tenderà a non rendersi conto della gravità del suo problema e a non cercare la supervisione e l’aiuto dei colleghi.
  • Il terapeuta può sviluppare un’autentica reazione di controtransfert in cui il materiale del paziente risveglia ricordi intrusivi di esperienze traumatiche vissute in passato dal terapeuta. Poiché l’esposizione a un evento traumatico non è un evento raro, e di certo gli psicoterapeuti non ne sono più esenti di altri, terapeuti e supervisori dovrebbero essere pronti a riconoscere ed affrontare queste reazioni di controtransfert.
  • Anche i terapeuti sono esposti alle esperienze traumatiche per cui cercano di aiutare gli altri. Per esempio, possono aver vissuto lo stesso disastro naturale (come un terremoto o un’alluvione) di un loro paziente. In queste circostanze, il terapeuta deve fare un debriefing o una terapia per i suoi sintomi post-traumatici prima di poter pensare di aiutare altre persone (Blair et al., 1996).

Il concetto di Traumatizzazione Vicaria è stato concettualizzato da McCann e Pearlman nell’ambito della Teoria Costruttivista dello Sviluppo del Sé (Constructivist Self Development Theory – CSDT). La CSDT cerca di integrare le teorie psicoanalitiche (della Psicologia del Sé e delle Relazioni Oggettuali) con le teorie cognitive della Social Cognition, allo scopo di creare una cornice dinamica per comprendere le esperienze dei sopravvissuti ad eventi traumatici e di chi si prende cura di loro (McCann et al., 1990; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

La premessa di questa teoria riguarda il fatto che ciascun individuo costruisce la propria realtà mediante percezioni e schemi cognitivi che facilitano la comprensione delle esperienze che accadono nella propria vita. La teoria sostiene che, nel momento in cui il terapeuta prende in carico pazienti traumatizzati e si espone alle loro memorie traumatiche, avvengono dei cambiamenti nei suoi schemi cognitivi e nei sistemi di credenze e questo può essere considerato il risultato di un adattamento cognitivo. Gli stili di adattamento individuali sono considerati come l’esito dell’interazione tra la personalità del terapeuta e gli aspetti salienti dell’evento traumatico, tutto ciò nel contesto delle variabili sociali e culturali che fanno da sfondo alle risposte e alle azioni psicologiche (Saakvitne et al., 1996; Smith et al., 2007).

La Traumatizzazione Vicaria causa un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo, coinvolgendo le sue relazioni interpersonali e il suo mondo interno. Questo è ritenuto normale, prevedibile e inevitabile ma, se il terapeuta non lavora con la trasformazione che sta prendendo piede, ciò può avere effetti negativi molto seri su di lui, sia come individuo che come professionista (Pearlman & Saakvitne, 1995).
Secondo la CSDT è possibile individuare diverse componenti del Sé che riflettono le aree in cui si verificano i cambiamenti nel sistema di credenze:

  • Quadro di Riferimento: si riferisce alla struttura dell’individuo che comprende la propria identità, visione del mondo e sistema di credenze e che gli consente di visualizzare e comprendere sé e il mondo. Eventuali rotture nel quadro di riferimento possono creare un senso di disorientamento nel terapeuta e possibili difficoltà nella relazione terapeutica. Ad esempio, nel tentativo di comprendere il dolore del paziente, il terapeuta, parlando dell’evento traumatico, può concludere attribuendo la colpa alla vittima. La rottura del quadro di riferimento potrebbe indurre il terapeuta a non accogliere la possibilità di una vittima incolpevole.
  • Capacità del Sè: si tratta delle capacità interne dell’individuo che permettono di mantenere un costante e coerente senso d’identità e una buona autostima. Queste capacità permettono all’individuo di gestire le proprie emozioni, sostengono le sensazioni positive e permettono di mantenere buone relazioni con gli altri. Eventuali rotture in questa componente possono verificarsi nel momento in cui il terapeuta sperimenta un trauma vicario. Egli può vivere la sensazione di perdere la propria identità e possono verificarsi difficoltà interpersonali e nella gestione delle emozioni negative. Ciò può avere implicazioni serie nel lavoro con i pazienti traumatizzati.
  • Risorse dell’Io: queste consentono agli individui di soddisfare le loro esigenze psicologiche personali e relazionali. Le rotture in questa componente possono determinare l’insorgenza del perfezionismo e un’eccessiva attenzione e dedizione nei confronti del proprio lavoro. Inoltre i terapeuti possono anche sperimentare una certa difficoltà ad essere empatici con i loro pazienti.
  • Esigenze Psicologiche e Schemi Cognitivi: tra le esigenze psicologiche troviamo le esigenze di sicurezza, di fiducia, di stima, d’intimità e di controllo. Queste esigenze si riflettono nella formazione degli schemi cognitivi di sé, degli altri e del mondo e nella loro eventuale modificazione qualora le esigenze stesse non venissero soddisfatte.

Esigenze di Sicurezza: possedere il senso di sicurezza è fondamentale per il benessere dell’individuo. Tali esigenze comprendono i bisogni di protezione, dipendenza, libertà dalla paura e un ambiente stabile, sicuro e strutturato.

  • Schemi Cognitivi: i terapeuti che sviluppano un trauma vicario possono sentire che non vi è alcun rifugio sicuro che li protegga dalle minacce alla propria sicurezza personale. Livelli elevati di timore, vulnerabilità e preoccupazioni possono essere i modi in cui si manifesta questa perturbazione nelle esigenze di sicurezza. I terapeuti possono così diventare eccessivamente cauti nei confronti dei loro figli, sentire un forte bisogno di seguire un corso di autodifesa, installare un sistema di allarme in casa, etc…

Esigenze di Fiducia: queste esigenze riflettono la capacità dell’individuo di fidarsi delle proprie percezioni e credenze e di quelle degli altri. Tutti gli individui hanno una naturale propensione a fidarsi di sé e degli altri.

  • Schemi Cognitivi: l’esposizione ripetuta al materiale traumatico del paziente rende il terapeuta vulnerabile al trauma vicario e scuote la fiducia che egli nutre nei confronti degli altri, del mondo e di sé stesso. Così, ad esempio, se il paziente è stato vittima di un attacco terroristico da parte di un gruppo minoritario, il terapeuta potrebbe diventare sospettoso, in generale, nei confronti di tutti i gruppi di minoranza; oppure il terapeuta potrebbe iniziare ad avere una minore fiducia in sé stesso e a mettere in discussione le proprie capacità di giudizio e di intervenire in modo efficace con il paziente.

Esigenze di Stima: si basano sul valore di sé e dell’altro.

  • Schemi Cognitivi: il terapeuta che sperimenta il trauma vicario potrebbe sentirsi inadeguato e mettere in discussione le proprie capacità di aiutare l’altro. La stima per l’altro, invece, potrebbe essere compromessa quando il terapeuta si trova a dover fare i conti con la capacità delle persone di essere crudeli e del mondo di essere ingiusto.

Bisogni d’Intimità: possono essere definiti come la capacità di sentirsi in contatto con sé stessi e con gli altri.

  • Schemi Cognitivi: eventuali rotture in questa componente possono generare sentimenti di vuoto, difficoltà a godere del tempo libero o un intenso bisogno di riempire il tempo libero e un ritiro dalle relazioni con gli altri. Il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può allontanarsi o, al contrario, diventare sempre più dipendente dalle proprie figure significative.

Esigenze di Controllo: queste esigenze sono relative all’autogestione.

  • Schemi Cognitivi: quando si creano rotture in quest’area, le credenze e i comportamenti risultanti possono essere di impotenza e/o di maggior controllo in altre aree. Queste credenze generano disagio e il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può mettere in discussione la propria capacità di farsi carico della sua vita, di essere l’artefice del suo futuro, esprimere i propri sentimenti e agire liberamente (Pearlman & Mac Ian, 1995; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

Secondo la teoria poc’anzi delineata, il trauma vicario comporta conseguenze nel terapeuta sia a livello personale che professionale. A livello personale il terapeuta può incrementare la propria consapevolezza dei pericoli e della frequenza dei traumi e sentirsi, pertanto, più vulnerabile. Il senso di protezione e quello di sicurezza possono risultare minacciati e il terapeuta può sperimentare un profondo senso di impotenza per non essere riuscito a proteggere il suo paziente dai traumi passati e dalla sofferenza presente. Il terapeuta, inoltre, può essere sopraffatto dalle narrazioni del paziente e provare paura, dolore e sofferenza simili a quelli del suo paziente così come può sentirsi in colpa per non essere stato risparmiato da quegli orrori (Janoff-Bulman, 1992). Questi sentimenti possono suscitare varie reazioni poco appropriate che interferiscono con la terapia. Il terapeuta potrebbe non rispettare i confini terapeutici (ad esempio, dimenticando gli appuntamenti, non rispondendo al telefono o, al contrario, contattando in maniera inopportuna il paziente); potrebbe provare rabbia qualora il paziente non rispondesse alla terapia; potrebbe dubitare delle proprie capacità e conoscenze e smettere di concentrarsi sui punti di forza e sulle risorse del paziente; infine, potrebbe evitare di parlare del trauma o, al contrario, mostrarsi eccessivamente intrusivo nell’esplorazione delle memorie traumatiche del paziente, sondandone ogni specifico dettaglio. Le forti emozioni provate nel corso della terapia potrebbero indurre il terapeuta a compiere tentativi di soccorso e diagnosi errate (Herman, 1992; Trippany et al., 2004).

Va sottolineato che il trauma vicario può avere effetti negativi anche sulle relazioni amicali e familiari del terapeuta il quale può risultare emotivamente meno accessibile. Ciò può portarlo a ritirarsi dalle relazioni amicali, familiari e dalle relazioni con i propri colleghi, oltre a sviluppare un certo cinismo che non apparteneva al proprio carattere. Il terapeuta può andare in burnout e diventare un peso per i colleghi o lasciare il campo di attività prematuramente, sfiduciato e inaridito (Herman, 1992; Saakvitne et al., 1996).

Per affrontare, o meglio, prevenire il trauma vicario la prima cosa da fare può essere limitare il numero di colloqui con pazienti traumatizzati per evitare di sfinirsi a causa del lavoro (Hellman et al., 1987; Trippany et al., 2003).

Inoltre, è essenziale mantenersi in collegamento con i colleghi e avere la disponibilità di una supervisione continua che riduca la sensazione di isolamento e aumenti l’obiettività e l’empatia del terapeuta (Dyregrov et al., 1996; Lyon, 1993; Pearlman et al., 1993). Possedere un’adeguata formazione in psicotraumatologia è di fondamentale importanza in quanto fornisce al terapeuta gli strumenti essenziali per un intervento efficace e può, pertanto, ridurre l’impatto del trauma vicario (Pearlman & Saakvitne, 1995). Importante è anche bilanciare lavoro, svago e riposo, mantenere attiva la propria rete amicale e curare le proprie relazioni familiari, effettuare una dieta adeguata, fare esercizio fisico e dedicarsi ai propri hobby e/o attività creative. Tutto questo, oltre a prevenire il trauma vicario, può aiutare a preservare un solido senso di identità personale (Stamm, 1995; Trippany et al., 2004).

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BIBLIOGRAFIA:

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  • Dyregrov A., Mitchell J.T. (1996). Work with traumatized children: Psychological effects and coping strategies. Journal of Traumatic Stress, Vol.5:5-17.
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  • Figley C.R. (2002). Compassion fatigue: Psychotherapists’ chronic lack of self care. Psychotherapy in Practice, Vol. 58:1433-1441.
  • Hellman I.D., Morrison T.L., Abramowitz S.I. (1987). Therapist experience and the stresses of psychotherapeutic work. Psychotherapy, Vol.24:171-177.
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  • Stamm B.H. (1995). Secondary traumatic stress: Self-care issues for clinicians, researchers and educators. MD: Sidran Press, Lutherville.
  • Trippany R.L., White Kress V.E., Wilcoxon S.A. (2004). Preventing vicarious trauma: What counselors should know when working with trauma survivors. Journal of Counseling & Development, Vol. 82:31-37.
  • Trippany R.L., Wilcoxon S.A., Satcher J.F. (2003). Factors influencing vicarious trauma for therapists of survivors of sexual victimization. Journal of trauma practice, Vol.2:47-60.

Il Gambling & l’happy-ending di una vincita: gli effetti del Temporal Markdown

FLASH NEWS

L’effetto delle esperienze molto recenti gioca un ruolo molto forte nei processi di decision-making: ciò che è appena accaduto può influenzare in modo preponderante quello che sceglieremo di fare nell’immediato futuro.

Questo accade frequentemente nel gambling patologico, in cui l’happy-ending di una vincita è in grado di distorcere ampiamente i pensieri e i comportamenti successivi, anche se tonnellate di esperienze accumulate nel passato suggerirebbero il contrario.

Una ricerca ha coinvolto soggetti sani e ha utilizzato task sperimentali di gambling: ai partecipanti veniva richiesto di accumulare quanti più gettoni possibili mediante una sorta di gioco d’azzardo.

Lo studio ha dimostrato che la stragrande maggioranza di essi ha ceduto alla “fallacia del banchiere”: l’individuo si focalizza sulla possibilità del guadagno immediato a discapito di una rendita più stabile a lungo termine.

Il meccanismo cognitivo che ci sta dietro è definito dai ricercatori “temporal markdown” e consiste in una svalutazione delle esperienze temporalmente precedenti: anche se ancora relativamente recenti le esperienze passate rispetto ad altre avrebbero un peso proporzionalmente minore nei processi di scelta.

Viceversa ciò che è appena stato vissuto godrebbe di un vantaggio enorme nell’influenzare il comportamento futuro, persino a discapito di una storia coerente di informazioni contrarie.

Solo un’esigua parte del campione (9 su 41 soggetti) è stata in grado di mantenere lucidità nel richiamare alla memoria in modo accurato le esperienze pregresse senza sottovalutarle rispetto a quelle recentissime, e attuando comportamenti più razionali.

Studi futuri dovranno rispondere al perché certi individui e non altri sarebbero più accurati nella valutazione cognitiva delle esperienze pregresse quando si tratta di gambling e guadagni economici.

 

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