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Stili di vita e benessere psicologico degli adolescenti: uno studio pilota

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Stili di vita e benessere psicologico degli adolescenti: uno studio pilota

Autrice: Chiara Schembari (Università degli Studi di Bologna- Facoltà di Cesena)

Abstract

Carol Ryff sostiene che il benessere si presenta come un processo multidimensionale e dinamico che comprende vari e molteplici aspetti. Le sei dimensioni delle Psychological Well – Being Scales (PWB) di Ryff (autonomia, autoaccettazione, scopo nella vita, crescita personale, controllo ambientale e relazioni positive con gli altri) rilevano importanti aspetti dell’individuo necessari per valutare il benessere psicologico soggettivo. L’ipotesi principale dello studio è che le diseguaglianze a livello socio – economico negli adolescenti possono influenzare il benessere psicologico ed avere un impatto sull’autostima, sulla capacità di controllo dell’ambiente circostante e sull’individuazione di uno scopo nella vita.

English abstract

Carol Ryff argues that well-being is presented as a multidimensional and dynamic process which includes many and varied aspects. The Six Dimensions of Psychological Well – Being Scales (PWB) of Ryff (autonomy, self-acceptance, purpose in life, personal growth, environmental control and positive relations with others) reveal important aspects of the individual needed to assess the psychological well-being subjective. The main hypothesis of the study is that inequalities in socio – economic adolescents may affect the psychological well-being and have an impact on self-esteem, the ability to control the surrounding environment and the identification of a purpose in life.

 

 

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Secondo un recente rapporto dell’OCSE, pare che tra gli studenti di 15 anni i ragazzi ottengano risultati scolastici inferiori rispetto alle loro coetanee. Il dato non è certamente nuovo, ma una nuova chiave di lettura sull’argomento è stata proposta dal Dr. Andreas Hadjar, professore di sociologia dell’educazione presso la Université Du Luxembourg. 

Secondo un recente rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), pare che tra gli studenti di 15 anni i ragazzi ottengano risultati scolastici inferiori rispetto alle loro coetanee. Il dato non è certamente nuovo, né all’opinione pubblica, né agli ambienti accademici, che hanno cercato in più riprese di spiegare il fenomeno attraverso le più varie prospettive.

Una nuova chiave di lettura sull’argomento è stata proposta dal Dr. Andreas Hadjar, professore di sociologia dell’educazione presso la Université Du Luxembourg. Lo studio da lui condotto, pubblicato sulla rivista Masculinities & Social Change, fa parte di un più ampio progetto di ricerca chiamato Lazy boys, ambitious girls? (2008-2011), frutto della collaborazione tra la Berne School of Teacher Education e l’Università di Berna.

Il lavoro del prof. Hadjar, nello specifico, si è posto l’obiettivo di analizzare i meccanismi sottostanti al minore successo scolastico dei maschi attraverso una prospettiva studentocentrica, focalizzata cioè sul punto di vista e le percezioni degli alunni, ben 872, frequentanti la terza media in 19 scuole diverse del cantone di Berna.

L’ipotesi del professore era che il basso successo scolastico dei ragazzi, misurato attraverso la media dei voti ottenuti a scuola, potesse essere spiegato da alienazione e devianza scolastica e da un’ideologia di genere di tipo patriarcale, fattori valutati attraverso l’utilizzo di questionari e la conduzione di discussioni di gruppo.

Per alienazione scolastica s’intende una condizione caratterizzata da basso attaccamento alla scuola, scarso impegno scolastico e distacco emotivo rispetto agli obiettivi e ai valori accademici. L’attitudine dei pari rispetto alla scuola e gli stili di insegnamento sembrano giocare un ruolo fondamentale a questo proposito. L’alienazione scolastica spesso trascende in devianza scolastica, con comportamenti attivamente diretti ad ostacolare gli insegnanti e a disturbare i compagni.

Per ideologia di genere, infine, si fa riferimento alle credenze individuali circa i ruoli tipici di uomo e donna nell’ambiente domestico e lavorativo. Nella loro formazione gioca un ruolo fondamentale la trasmissione intergenerazionale. Un’ideologia di tipo patriarcale, nello specifico, associa l’idea che ci siano differenze naturali tra uomo e donna ad una visione di ineguaglianza tra i sessi, con l’attribuzione di un ruolo di superiorità all’uomo.

Dai risultati dello studio è emerso che l’alienazione scolastica rappresenta il principale predittore dello scarso rendimento scolastico e, consideratone il più alto livello tra i ragazzi, si mostra anche come la principale causa del gap di genere. Inoltre, è stata osservata un’associazione tra opinioni di tipo patriarcale rispetto ai ruoli di genere e devianza scolastica, a sua volta ricollegabile, specie nei maschi, ad uno scarso successo scolastico.

Questo lavoro non fornisce soltanto una chiave descrittivo-esplicativa dello scarso rendimento scolastico dei ragazzi, ma propone anche ad insegnanti e genitori delle soluzioni operative per farvi fronte. Suggerisce il prof. Hadjar

Nello specifico la presenza di insegnanti autorevoli, che forniscano strutture, controllo e cura, ma che non trascendano in condotte autoritarie, può offrire una decisa opposizione al fenomeno. Allo stesso modo i genitori devono adoperarsi per rendere consapevoli i ragazzi dei ruoli di genere e che imparare a scuola può essere parte sia dell’identità femminile che di quella maschile.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Hadjar, A. (2015). School Alienation, Patriarchal Gender-Role Orientations and the Lower Educational Success of Boys. A Mixed-method Study. Masculinities & Social Change, 4(1), 85-116

Un’epidemia di paura: quando l’eccessiva preoccupazione nasconde più rischi della stessa epidemia

Per comprendere al meglio cosa succede durante i periodi di allarmismo, ci viene incontro la psicologia della percezione, in particolare della percezione del rischio.

Una delle notizie che più è circolata negli ultimi giorni riguarda la presenza, tra immigrati, di alcuni casi di Scabbia. Ciò ha dato il via a un feroce allarmismo spesso alimentato, ahinoi, da posizioni politiche estreme esposte sotto forma di spicciola demagogia. Eppure siamo riusciti a sopravvivere, non molto tempo fa, alla pericolosa diffusione dell’Ebola e, meno recentemente, ai letali rischi di Aviaria, Sars e altri ancora.

Non si può negare dunque che certe notizie abbiano un impatto molto forte sul pubblico: basti pensare che in America è stato coniato il termine Fearbola, proprio per indicare il panico suscitato dalla notizia della diffussione della malattia. D’altra parte, trattasi comunque di rischi per la salute che preferiremmo tener lontani dal nostro vivere quotidiano.

Per comprendere al meglio cosa succede durante questi periodi di allarmismo, ci viene incontro la psicologia della percezione, in particolare della percezione del rischio.

Secondo vari studi, alcuni dei quali svolti proprio in merito alla notizia del rischio Ebola, durante la diffusione delle notizie di possibili epidemie, vengono toccati dei tasti particolarmente sensibili della nostra percezione: ci viene infatti riferito che può essere fatale, invisibile e difficile da proteggere, che l’esposizione è involontaria e che non vi è un chiaro controllo della situazione da parte delle autorità.

In tutto questo un ruolo chiave è svolto dalla nostra amigdala: quella parte del cervello coinvolta sia nell’attivazione della paura che nell’elaborazione della novità. Questo spiegherebbe come mai la paura sia più sentita verso malattie a noi estranee, rispetto a malattie per noi più familiari. Vi siete mai chiesti per quale motivo l’influenza, causa comunque di numerosi decessi, non sia temuta quanto la Sars di turno? In realtà, spiegano gli esperti in psicologia della percezione del rischio, l’effetto ottenuto sugli individui non è lo stesso poichè l’influenza è per questi familiare e conosciuta, così come familiari ci sono tutte quelle persone che hanno avuto l’influenza ma adesso stanno bene.

Quali sono i suggerimenti che gli esperti in psicologia della percezione del rischio ci danno?

Prima di tutto una tempestiva ed onesta comunicazione da parte di una fonte ritenuta credibile dal pubblico: i governi dovrebbero avere il duro compito di spiegare i rischi alla gente e dire cosa va fatto, senza creare allarmismi.

Inoltre, secondo gli esperti, i media dovrebbero diventare un grande alleato nella diffusione di informazioni utili e precise: spiegare in modo preciso e concreto come proteggere la propria salute è un metodo efficace per ridurre l’ansia e lo stress nelle persone preoccupate dalla diffusione di un’epidemia. In questo caso le immagini delle azioni da svolgere per evitare il contagio sono molto potenti: quando si usa la parte più primitiva del cervello, infatti, gli input visivi sono più efficaci degli stimoli di ordine superiore.

Per conoscere gli altri suggerimenti e saperne di più sull’argomento, vi rimando alla lettura dell’articolo consigliato. Prima però vi lascio con una riflessione: mentre aspettiamo che media e governi colgano i consigli degli esperti, cerchiamo di diventare ricercatori attivi di informazioni esatte e fondate. Solo così potremmo evitare il vero pericolo che si sta oggi diffondendo: l’essere vittime di disinformazione o, peggio, di informazioni strategicamente pilotate.

 

Although there were only 10 confirmed U.S. cases — all of them people who had direct, prolonged contact with Ebola patients — parents in Texas, Mississippi and New Jersey pulled children out of school after other students or administrators had chance encounters with Ebola patients or visited West Africa, and a teacher in Maine was put on leave after attending a conference in Dallas where the first U.S. case was discovered. The states of New York, New Jersey and Illinois mandated 21-day quarantines for health workers who had treated Ebola patients in West Africa, and Connecticut reserved the right to quarantine anyone believed to have been exposed to the virus.

Un’epidemia di paura: quando l’eccessiva preoccupazione ha più rischi della stessa epidemia Consigliato dalla Redazione

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Secondo alcuni studi, durante la diffusione delle notizie di possibili epidemie, vengono toccati dei tasti particolarmente sensibili della nostra percezione. (…)

 

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Il mito dell’obesità causata dalla scarsa forza di volontà

Ridurre l’obesità a mancanza di forza di volontà è irrispettoso verso le persone che convivono quotidianamente con le conseguenze fisiche e sociali di questa condizione cronica.

Le ultime tre decadi sono state testimoni di un preoccupante aumento dei casi di obesità negli USA e in altri paesi industrializzati (Hu, 2008). Nonostante molta ricerca abbia dimostrato la natura multifattoriale dell’obesità, e il complicato meccanismo implicato nella regolazione del peso corporeo, questa condizione più che una malattia cronica, è considerata una colpa e fallimento personale. “Con l’impegno e la forza di volontà puoi ottenere i cali di peso e le forme che desideri” è uno slogan che abbiamo sentito più volte come riferimento alla perdita di peso.

La magrezza è associata a grande autocontrollo e forza di volontà mentre vale il contrario per il peso in eccesso. Scarsa forza di volontà, pigrizia, poca cura sé, golosità ecc., sono tra i più comuni stereotipi che ruotano attorno alle persone obese. (Puhl & Brownell; 2003).

L’obesità è vista come responsabilità della persona in quanto è diffusa l’idea che il peso sia sotto il controllo dell’individuo. È vero che l’autocontrollo è un potente strumento umano e che le persone che ne hanno di più sono più propense a riuscire meglio, per esempio nella scuola o nel lavoro, rispetto a chi ne ha meno. La forza di volontà però sembra non avere effetto quando si guarda alla gestione del peso, poiché l’alimentazione, rispetto ad altri comportamenti, è meno influenzata dalla capacità di autocontrollo.

Traci Mann, professoressa di psicologia all’università del Minnesota dedica un capitolo dal titolo “Il mito della forza di volontà” all’interno del suo libro “Secrets from the Eating Lab”. La dottoressa Mann fa riferimento a uno studio del 2009 degli psicologi Malte Friese e Wilhelm Hofmann nel quale dei volontari, dopo avere completato un questionario che misurava la forza di volontà, erano posti in una condizione nella quale dovevano resistere il più possibile a non mangiare delle patatine che venivano poste di fronte a loro.

I ricercatori volevano vedere se i soggetti, che erano risultati avere maggiore forza di volontà nei test, resistevano di più rispetto a chi aveva ottenuto punteggi più bassi. Questo non avvenne evidenziando che la capacità di autocontrollo non determina il resistere a un alimento molto palatabile.

Bisogna pensare all’obesità come a un complesso puzzle, dice Rebecca Puhl, una delle massime autorità nel campo dell’obesità e stigma, dove il comportamento individuale è solo uno dei numerosi pezzi. Prendere in considerazione la sola forza di volontà oscura la natura multifattoriale dell’obesità e i meccanismi biologici, ambientali e psicologici coinvolti.

L’idea della persona obesa come pigra, golosa e incapace di autocontrollo alimenta lo stigma verso questa condizione che può risultare in penalizzazioni nei domini più importanti della vita come lavoro, istruzione, relazioni interpersonali e cure sanitarie. (Puhl & Heuer., 2009).

Ridurre l’obesità a mancanza di forza di volontà è irrispettoso verso le persone che convivono quotidianamente con le conseguenze fisiche e sociali di questa condizione cronica. Sfatare il mito della forza di volontà e considerare l’obesità come una malattia e non come una colpa, come è già stato detto in altri interventi per questa rubrica, è fondamentale nella lotta all’obesità. Perché bisogna combattere l’obesità e non le persone obese. 

 

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Sogno o realtà? La sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie

Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie indica un gruppo particolare di sintomi intimamente associati all’emicrania e all’epilessia, che riguardano distorsioni percettive e che alterano, cioè, le informazioni sensoriali su se stessi e sul mondo circostante.

Angelica Gandolfi – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  Modena

 

Il nome Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie (AIWS: dall’inglese Alice in Wonderland Syndrome) è stato coniato per la prima volta dallo psichiatra britannico John Todd nel 1955 per indicare un gruppo particolare di sintomi intimamente associati all’emicrania e all’epilessia (Todd, 1955) che riguardano distorsioni percettive, che alterano, cioè, le informazioni sensoriali su se stessi e sul mondo circostante.

L’interesse nacque quando Todd notò che alcuni suoi pazienti, che soffrivano di emicrania o di epilessia, avevano vissuto illusioni relative al proprio corpo quali, ad esempio, sentirsi troppo alti o troppo bassi o avere l’impressione che parti corporee mutassero forma o dimensione. I dati clinici erano simili a quelli indicati precedentemente da Lippman (1952) relativi a due pazienti che affermavano di avere avuto la sensazione di diventare piccoli o grandi durante un attacco di emicrania. Tali percezioni sembravano richiamare quelle descritte nel libro Alice’s Adventures in Wonderland, scritto nel 1865 da Charles Lutwidge Dodgson sotto lo pseudonimo Lewis Carroll. La storia narra di Alice, una bambina che, saltando nella tana di un coniglio bianco, entra in un mondo dove vive esperienze fantastiche, tra cui aumentare e diminuire di dimensione. L’ipotesi avanzata da alcuni autori (Todd 1955; Lippman, 1952; Fine, 2013) è che lo scrittore, soffrendo egli stesso di emicrania, si sia ispirato alle sue personali sensazioni per ideare tale vicenda.

Nel corso del tempo l’interesse per la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie è cresciuto notevolmente. Sono stati svolti molti studi che hanno cercato di definirne le cause e le forme di manifestazione. Il problema è, infatti, che i sintomi possono facilmente essere scambiati per quelli di alcuni disturbi psicotici. Alcuni autori (Lippman, 1952; Todd, 1955) hanno notato che molti pazienti erano reticenti a spiegare ciò che provavano per vergogna e per paura di non essere creduti e che, molto spesso, nasceva in loro il dubbio di essere pazzi. Dare un nome a questa sindrome è di grande utilità per queste persone, in modo che non sviluppino credenze erronee che rischiano di creare sofferenza e che riescano a chiedere aiuto più facilmente.

 

I sintomi della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie

Montastruc et al., in un loro articolo, hanno descritto le varie espressioni della sindrome (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012). Per maggiore chiarezza, i sintomi verranno qui riportati secondo la divisione proposta da Podoll et al. (Podoll, Ebel, Robinson, Nicola, 2002), che li differenziano in due gruppi: sintomi essenziali e sintomi accessori.

I primi sono gli aspetti più tipici dell’AIWS, che emergono più frequentemente, e si riferiscono a percezioni alterate della dimensione o della forma del proprio corpo per intero o di alcune parti di esso. Gli individui possono, ad esempio, sentirsi più alti, più bassi, più magri o più grassi rispetto alla realtà (microsomatognosia e macrosomatognosia). È anche possibile che sia solo un arto, una mano o un piede, perfino la testa a essere visto diverso da come dovrebbe essere (aschematia).

 I secondi, invece, sono sintomi aggiuntivi che, solitamente, accompagnano quelli più comuni. Tra essi troviamo le illusioni visive, per cui si percepiscono le altre persone o gli oggetti più piccoli o più grandi (micropsia e macropsia), più distanti o più vicini (teliopsia e peliopsia) o mutati di posizione (allestesia). Sono possibili anche illusioni nello scorrere del tempo (distorsioni temporali), sensazioni di levitazione e difficoltà a riconoscere i volti (prosopagnosia). Non di rado si aggiungono anche sensazioni soggettive di dissociazione per cui, ad esempio, si ha l’impressione di osservarsi dall’alto (depersonalizzazione) o che ciò che sta avvenendo non sia reale (derealizzazione).

I sintomi sono di solito riconosciuti dai pazienti e, come affermato precedentemente, vissuti spesso come qualcosa di strano e anormale (egodistonia). Questo è un aspetto di differenziazione dagli individui psicotici, che vivono invece le allucinazioni come reali e come parte di se stessi (egosintonia). I sintomi della sindrome si differenziano da quelli psicotici anche per essere, di solito, temporanei e di breve durata e per avere un’origine neurologica chiaramente identificabile (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012).

Non sembra esserci ancora molta chiarezza sulle origini (Liu, Liu, Liu e Liu, 2014) e sui criteri diagnostici (Lanska e Lanska, 2013) della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Dai dati disponibili, è possibile supporre che venga diagnosticata qualora si presentino uno o più sintomi in determinate condizioni: assenza di danni al sistema visivo, anormale flusso di sangue alle aree cerebrali deputate alla percezione visiva (verificabile tramite esami appositi che utilizzano tecniche di neuroimmagine), riconoscimento delle dei sintomi da parte dei pazienti come irreali e di durata temporanea.

Per quanto riguarda l’esordio, invece, molti studi hanno cercato di indagare quali siano le cause che portano allo sviluppo della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. L’idea oggi più diffusa è che, nella maggior parte dei casi, i sintomi siano dovuti a un’anormale eccitazione corticale. Ciò significa che i pazienti hanno percezioni sensoriali, cioè sensazioni date dai cinque sensi, corrette, e che sia la trasmissione elettrica alterata di questi segnali, che avviene nel cervello, a causare le allucinazioni, modificando il normale apporto di sangue alle aree deputate alla formazione delle percezioni (Hamed, 2010). È stato dimostrato (Kitchener, 2004) che tale cambiamento può essere dovuto a differenti quadri clinici.

 

Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie: anamnesi e diagnosi differenziale

Grande importanza assume, quindi, una corretta anamnesi e una precisa diagnosi differenziale del paziente. Questi passaggi permetterebbero innanzitutto di escludere un disturbo psicotico e, in secondo luogo, di identificare la corretta problematica medica, attuale o regressa, che ha portato allo sviluppo dei sintomi. In seguito sono riportati studi che hanno identificato alcune situazioni sanitarie implicate nell’esordio della sindrome. Va specificato, però, che tali disturbi non necessariamente comportano anche alterazioni percettive e che possono presentarsi anche senza causare la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie.

Primo fra tutti, identificato già da Lippmann (1952) e da Todd (1955) è l’emicrania. Todd (1955) parla anche di due pazienti con emicrania associata ad epilessia. Secondo gli autori, in questi casi erano frequenti sintomi di illusioni visive, alterate percezioni del proprio corpo e sensazioni di dissociazione.

Anche alcune malattie virali sembrano essere associate alla Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. Copperman (1977) parla di tre pazienti con il virus Epstein-Barr (un herpesvirus) che presentavano distorsioni nella percezione degli oggetti. Lahat (1999) ha ritrovato queste caratteristiche anche in pazienti con mononucleosi. Studi recenti hanno evidenziato ulteriori associazioni con l’enterovirus Coxsackie B1 e il virus da influenza H1N1 (Wang, Liu, Chen, Chan e Huang, 1996). Losada-Del Pozo et al. (Losada-Del Pozo, Cantarin-Extremera e Garia-Penas, 2011) hanno identificato tra le cause possibili il citomegalovirus e il virus della varicella. Sono state prese in considerazione anche le infezioni batteriche, tra le quali sembra avere un ruolo nella sindrome il batterio Borrelia (Binalsheikh, Griesemer, Wang e Alvarez-Altalef, 2012).

Si ricorda che, anche in questo caso, i fattori elencati non causano necessariamente l’AIWS, è possibile e frequente attraversare le infezioni senza sviluppare sintomi della sindrome. Complicazioni di queste malattie possono portare a infiammazioni focalizzate a livello cerebrale, alterando così la funzionalità e il flusso sanguigno nelle zone colpite. Eventuali alterazioni nella percezione sembrano essere dovute a tali effetti aggiuntivi, nel caso le aree interessate siano quelle deputate a tale funzione (Kuo, Chiu, Shen, Ho e Wu, 1998).

 

La cause della sindrome di Alice

Sono state fatte alcune ipotesi anche riguardanti eventuali cause psichiatriche. Bui et al. (Bui, Chatagner e Schmitt, 2010) descrivono un’associazione tra l’AIWS e i disturbi depressivi. Sembrerebbe possibile, infatti, che i sintomi si manifestino durante un episodio depressivo maggiore. Altri autori (Todd, 1955; Blom, Looijestijn e Goekoop, 2011) hanno indagato le somiglianze con i sintomi psicotici, arrivando a ipotizzare che sia la schizofrenia sia il disturbo schizoaffettivo possano accompagnarsi alla sindrome. Come affermato in precedenza, le differenze tra i sintomi dell’AIWS e i sintomi psicotici sono generalmente il loro riconoscimento, da parte del paziente, come non reali e la durata temporanea (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012). È possibile anche eseguire un esame dell’attività elettrica e sanguigna (fMRI, risonanza magnetica funzionale) nelle aree del cervello percettive, la quale, ricordiamo, risulta anormale in caso di AIWS (Hamed, 2010). Soprattutto in questi casi, è importante un’attenta analisi dei sintomi per inserirli nella giusta categoria. Anche certe sostanze stupefacenti, come ecstasy o cannabis (Losada-Del Pozo, Cantarin-Extremera e Garia-Penas, 2011), possono indurre fenomeni come quelli che si manifestano nell’AIWS.

 

Studi evidenziano che alla base dei sintomi possa esserci perfino l’assunzione di alcuni farmaci. In particolare, Jürgens et al. (Jürgens, Stork e May, 2011) mostrano come la sindrome possa verificarsi per gli effetti secondari dell’anticonvulsivante topirimato, usato proprio nel trattamento dell’emicrania. Tra i prodotti farmaceutici che, a certi dosaggi, scatenano i sintomi dell’AIWS troviamo anche il destrometorfano, impiegato nella cura della tosse (Losada-Del Pozo, Cantarin-Extremera e Garia-Penas, 2011), e l’oseltamivir, utilizzato contro alcuni tipi di influenza (Jefferson, Jones, Doshi e Del Mar, 2009).

 Come affermano Montastruc et al. (Montastruc, Schwarz, Schmitt e Bui, 2012) nella loro review, il legame tra emicrania e Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie AIWS, legame ipotizzato gli albori da Todd (1955), è quello maggiormente riportato in letteratura ed è la linea principalmente considerata nell’inquadramento della sindrome. Le informazioni ad oggi a disposizione sono supportate da dati derivanti dall’utilizzo di tecniche di stimolazione elettrica transcranica e di neuroimmagine. Hamed (2010), riferendosi proprio a un caso di concomitanza tra emicrania e AIWS, afferma l’implicazione del lobo occipitale e del lobo parietale. Tale dato è confermato dallo studio di Brumm et al. (Brumm, Walenski, Haist, Robbins, Granet e Love, 2011), che per primi hanno registrato l’attività cerebrale, di un paziente con la sindrome, durante un attacco di micropsia. Utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI), che permette di descrivere l’attività delle zone corticali in base al rilevamento del flusso sanguigno, gli autori hanno rilevato un’anormale attivazione del lobo occipitale, nelle regioni primaria ed extrastriata delle aree corticali visive, e del lobo parietale. I risultati sono in accordo anche con quanto sostenuto da Cau (1999) sulla possibilità del manifestarsi di alterazioni percettive, come quelle presenti nell’AIWS, in caso di lezioni temporo-occipitali e parieto-ocipite-temporali, sottolineando il ruolo de tali aree nella formazione delle percezioni.

Dati interessanti riguardano il manifestarsi spontaneo dei sintomi della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie nei bambini dai 2 ai 13 anni. Sembrerebbe infatti che non sia così raro incontrare alterazioni nelle percezioni nel periodo infantile, che solitamente rientrano dopo poco tempo. Grant Liu, pediatra del Children’s Hospital di Philadelphia, ha effettuato uno studio volto a indagare l’espressione dei sintomi della sindrome in 48 bambini con tale diagnosi (Liu, Liu, Liu e Liu, 2014). Le illusioni più frequenti riguardavano il vedere gli oggetti più piccoli (micropsia) o più lontani (teliopsia). Il dato curioso, però, è che nel 52% dei casi non sono state individuate cause scatenanti e, nella maggior parte dei soggetti, i sintomi sono regrediti spontaneamente. Rimandando a quanto già accennato precedentemente, è difficile per le famiglie affrontare una situazione simile, per la poca conoscenza e per la vergogna e la paura derivanti dal non sapere cosa stia accadendo. Lo stesso Liu, in un’intervista, ha affermato di aver posto così tanto interesse alla definizione della sindrome per dare una voce ai bambini, una voce ai genitori, per renderli in grado di comprendere ciò che sta accadendo ai loro figli.

In sintesi, è possibile definire la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie come una costellazione di sintomi che portano a distorsioni percettive. Le alterazioni più comuni riguardano il proprio corpo o parte di esso, le quali si accompagnano spesso a illusioni visive, temporali e a sensazioni psicologiche di dissociazione. La sindrome è solitamente causata da altri disturbi, quali l’emicrania, l’epilessia, infezioni virali e batteriche, intossicazione da droghe o farmaci o concorrere insieme a patologie psichiatriche. Un discorso a parte riguarda i bambini, che sembrano poter manifestare i sintomi in maniera spontanea.

 

Ad oggi non esiste un trattamento specifico per la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. La linea seguita dai medici è la cura del fattore che l’ha scatenata.

Gli studi sulla sindrome hanno avuto una grande utilità nella normalizzazione dei sintomi. Come precedentemente spiegato, molti pazienti, non essendo a conoscenza della loro reale condizione, vivevano le distorsioni percettive come qualcosa di non normale, e questo provocava in loro sentimenti di confusione, di vergogna e di paura, che spesso li portava a non parlare delle loro difficoltà e a non chiedere aiuto. Dare nome e forma a quest’insieme di sintomi bizzarri, permette ai soggetti che ne soffrono di riconoscerli per quello che sono e di distaccarli dalla vita reale, proprio come Alice che, alla fine del libro, scopre che la sua avventura fantastica altro non era che un sogno, vivido nella sua mente ma comunque altro dalla realtà.

 

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Le abilità cognitive nell’infanzia predittori delle future capacità di leadership

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Leadership Quarterly pare ora suggerire che le differenze cognitive individuali possano prevedere, già a dieci anni, la probabilità di ricoprire posizioni di comando in ambito professionale.

In letteratura è stata frequentemente evidenziata una relazione piuttosto consistente tra abilità cognitive generali e un ampio ventaglio di outcome di vita, tra cui anche il successo professionale. Abilità cognitive di alto livello come memoria di lavoro, ragionamento e problem solving, per esempio, possono favorire la ricerca di soluzioni valide e creative in risposta a situazioni nuove, complesse o poco definite, quali quelle che spesso caratterizzano l’ambito lavorativo. Le persone che ricoprono un ruolo di comando, in particolare, si misurano quotidianamente con una vasta serie di compiti cognitivamente impegnativi e devono prendere decisioni e pianificare strategie sotto costante pressione temporale.

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Leadership Quarterly pare ora suggerire che le differenze cognitive individuali possano prevedere, già a dieci anni, la probabilità di ricoprire posizioni di comando in ambito professionale. I 17000 partecipanti dell’imponente ricerca, condotta da Michael Daly, Mark Egan e Fionnuala O’Reilly, ricercatori dell’Università di Stirling, sono stati selezionati da due diversi grandi studi longitudinali, il British Cohort Study (BCS) e il National Child Development Study (NCDS).

Le abilità cognitive generali dei bambini reclutati sono state misurate intorno ai 10 anni attraverso, rispettivamente, la British Ability Scale e l’80-item General Ability Test; le capacità di leadership sono state invece periodicamente valutate fino ai 42 e i 50 anni in base all’assunzione e al mantenimento di posizioni professionali manageriali o di coordinamento. Come atteso, i bambini caratterizzati da alti punteggi ai test di intelligenza hanno dimostrato di raggiungere con maggiore frequenza (+12%) posizioni di leadership in ambito lavorativo.

[blockquote style=”1″]Le abilità cognitive generali sembrano formare, sin dall’età infantile, l’architettura cognitiva necessaria per supportare le capacità di leadership e paiono influenzarne profondamente l’andamento nel corso dell’intero ciclo di vita. La relazione tra abilità cognitiva e leadership è certamente correlata, sebbene solo in parte, dal livello di istruzione formale raggiunto.[/blockquote] affermano gli autori.

Lo studio ha inoltre osservato un “leadership gap” tra uomini e donne: a parità di abilità cognitive generali la percentuale di donne che ha raggiunto posizioni manageriali è inferiore di circa il 20% rispetto ai colleghi uomini. Tale differenza di genere ha dimostrato di ridursi soltanto marginalmente passando dalla coorte del 1958, seguita nel British Cohort Study, a quella del 1970, studiata dal National Child Development Study.

[blockquote style=”1″]Potrebbe sembrare poco sorprendente che elevate capacità cognitive generali possano favorire il raggiungimento di alti livelli di leadership in contesti cognitivamente richiestivi come quelli delle moderne organizzazioni.[/blockquote]

Forse davvero sorprendente potrebbe essere la scoperta di un annullamento, visto il trend in riduzione, del gap di genere nelle carriere professionali delle nuove generazioni. Ma per questo bisogna necessariamente attendere (fiduciosi) i risultati di ricerche future.

 

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Sovrastimare le proprie conoscenze: attenzione all’effetto Dunning-Kruger!

 

All’epoca di Twitter e Facebook, in cui le notizie sui più svariati temi circolano in tempo reale, in cui l’informazione è a portata di tutti, possiamo ancora dirci ignoranti su alcuni temi?

Tutti conosciamo la ben celebre frase di Socrate So di non sapere, con la quale il filosofo esprime l’ignoranza come consapevolezza di una conoscenza non definitiva, che funge però da spinta fondamentale verso il desiderio di conoscere.

Ma all’epoca di Twitter e Facebook, in cui le notizie sui più svariati temi circolano in tempo reale, in cui l’informazione è a portata di tutti, possiamo ancora dirci ignoranti su alcuni temi?

In realtà la risposta giusta da dare sarebbe proprio sì, ignorare o non conoscere a fondo un argomento o un concetto è una cosa possibilissima per ciascun essere umano, eppure la quantità di post e di pensieri condivisi su determinate tematiche fa pensare che i following ne sappiano davvero tante!

E così ti ritrovi a scorrere la bacheca di Facebook e a trovare notizie con tanto di riflessioni personali pubblicate dall’amico esperto di pedagogia dell’ età prescolare, quello esperto in etologia dei pesci rossi d’acqua dolce, quello esperto di politica pronto a sfoggiare tutta la sua competenza in tema di costituzione e cittadinanza oppure, opzione frequente e più temuta, c’è l’amico eclettico: quello che sa tutto di tutto, quello con cui getti la spugna ancor prima di iniziare una discussione, pensando che sarebbe l’ideale per la tua salute psicofisica rispondere ai suoi attacchi di saggezza con un Oh! Ma quante cose conosci! Sapessi la metà di ciò che sai tu! 

In psicologia ci si è chiesti cosa succede negli individui che li porta a sovrastimare le proprie conoscenze, si è giunti così alla teorizzazione dell’ Effetto Dunning- Kruger, dal nome dei due studiosi che per primi hanno scoperto e spiegato tale fenomeno.

I due ricercatori hanno sottoposto i soggetti del loro studio a dei test di umorismo, grammatica e logica. Hanno poi selezionato gli individui con punteggi inferiori, punteggio medio reale 12, e hanno chiesto loro di fare una stima dei punteggi ottenuti ai test. I soggetti hanno notevolmente sovrastimato i loro risultati, fino ad ottenere un punteggio medio stimato pari a 62!

Dunning e Kruger hanno spiegato questo effetto alla luce della stessa incompetenza dei soggetti, che non consente loro di padroneggiare quelle strategie metacognitive che permetterebbero una maggiore consapevolezza dei propri limiti.

Sarebbe comunque errato ora sovrastimare la nostra conoscenza sull’effetto Dunning- Kruger e mettere in discussione tutte le notizie che leggiamo: fidarsi delle fonti e conoscere la loro competenza è il primo passo per informarsi in modo corretto.

Adesso però mi sorge un dubbio…sarò stata anch’io troppo convinta di quel che ho scritto e vittima dell’ Effetto Dunning- Kruger? A scanso di equivoci, per informarvi al meglio sul tema, vi rimando all’articolo consigliato!

 

Come fanno i profili di Twitter che seguiamo a mostrarsi sempre così competenti? Si tratti di geofisica, nazionale di calcio, spending review, carte nautiche, procedura penale o diritto costituzionale, di volta in volta la nostra timeline si riempie di profondi conoscitori del settore. Possibile che ci siano così tanti esperti e siano tutti tra i nostri following? No.

Le notizie on-line sono davvero fondate? Attenzione all’effetto Dunning-Kruger!Consigliato dalla Redazione

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All’epoca di Twitter e Facebook, in cui le notizie sui più svariati temi circolano in tempo reale, in cui l’informazione è a portata di tutti, possiamo ancora dirci ignoranti su alcuni temi? (…)

 

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Perchè lasciare tracce? – Tracce del Tradimento Nr. 14

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XIV: Perchè lasciare tracce?

Vogliamo ripeterci: come abbiamo già scritto troppe volte, in questa serie di articoli vogliamo chiederci come mai una persona che tradisce non sia sufficientemente attenta a che il tradimento resti effettivamente tale e dunque segreto.

Caratteristica distintiva del tradimento è proprio l’essere segreto; se vado con un’altra avvisando di ciò il mio partner non ci sono gli estremi del tradimento, manca l’elemento essenziale dell’inganno che sottrae intimità e confidenza alla coppia iniziale.

Sto tradendo finché inganno, perché è in quell’avere una verità dalla quale l’altro è escluso che sta il vero allontanamento tra i due; subito da uno dei due, provocato dall’altro. Nel momento in cui confesso il tradimento stesso finisce, la vicinanza, per quanto dolorosa è ristabilita; la vittima torna ad essere il punto di riferimento, smette di essere l’escluso sia che si ricerchi la sua comprensione, sia che lo si voglia far soffrire esibendo la passione per un altro. Lasciar tracce del proprio tradimento, qualora l’intenzione sia di farle scoprire, vuol dire mettere fine al tradimento stesso, riaprire una comunicazione interrotta, ridare importanza a chi fino a quel momento era trascurato.

La signora Clara era donna raffinata ed integerrima, madre e moglie perfetta, che giunta alla soglia dei quarant’anni poteva dirsi con orgoglio di aver vissuto esclusivamente per la felicità del suo amato Giovanni e dei suoi figli. La prima ad essere sorpresa del suo affetto (all’inizio preferiva chiamarlo così piuttosto che amore o passione) per il più giovane Carlo, architetto che aveva ristrutturato la casa di campagna, fu proprio lei. Terminato il periodo degli ammiccamenti, delle intese sottili, degli sguardi che tanta dolce apprensione provocano nell’animo, i due iniziarono a vedersi con regolarità. Non passò più di una settimana che Clara si rese perfettamente conto che stava, ne più ne meno, seguendo la strada delle sue amiche che ravvivavano la loro noiosa esistenza matrimoniale con un amante. Solo il pensiero di ciò le dava i brividi: per prima cosa lei amava suo marito, in secondo luogo era stata sempre sincera con lui e non aveva nessuna intenzione di iniziare a mentirgli, per ultimo avvertiva chiaramente che i due rapporti, per quanto entrambi profondi e impegnativi, erano altresì del tutto compatibili.

Risolse così di parlare la sera stessa al marito, si sentì immediatamente più sollevata e si mise a fantasticare sulle possibili reazioni del suo amato Giovanni. Giovanni, appunto, fu estremamente comprensivo ed attento (fino al punto da spegnere col telecomando il televisore) mentre lei narrava la sua breve storia e gioiva nel vederla sempre più rasserenata quanto più il racconto procedeva ed il suo animo andava svuotandosi di quel segreto che le procurava un doloroso senso di colpa.

Al termine le disse di apprezzare la sua sincerità, di fidarsi completamente di lei e le fece capire che non voleva in alcun modo che ponesse brusca fine alla sua relazione con Carlo.
Il giorno dopo Clara aspettando che il suo Carlo uscisse dallo studio non stava più nella pelle, non vedeva l’ora di raccontargli il colloquio chiarificatore avuto con il marito, la sua comprensione, la loro reciproca stima, la profondità del loro rapporto. In un remoto angolo del suo animo sentiva di aver tradito Carlo con suo marito la sera prima e voleva che lui lo sapesse.

Passeggiarono sul lungotevere in quell’ora tenerissima che accompagna il tramonto; Clara non smise mai di parlare per due ore e sentì di aver di nuovo messo al posto giusto Carlo. Ora era lui il punto di riferimento, colui con il quale non c’erano segreti.
Purtroppo la sera stessa ritenne opportuno comunicare al marito che aveva detto a Carlo che la sera prima aveva parlato chiaramente con lui della loro relazione. Ora si che poteva sentirsi a posto: sincera fino in fondo.
Erano passate da poco le tre di notte e il notturno era arrivato per la sesta volta sotto le loro persiane socchiuse e tutte e sei le volte era stato udito da Clara che non riusciva a chiudere occhio. Alle tre e tre quarti si risolse ad alzarsi; raggiunse il telefono nel salone e gonfia d’ansia chiamò il numero di Carlo.
Il giovane architetto, impastato dal sonno e ancora inconsapevole dell’ora, fu travolto dalla spiegazione di Clara che non poteva dormire al pensiero che lui non sapesse che lei aveva parlato con il marito del fatto che nel pomeriggio aveva detto a lui che aveva messo al corrente, la sera prima, il marito del loro bellissimo rapporto nascente.
Carlo cercò di tranquillizzarla, la ringrazio per aver pensato a lui (ma qui la sua voce non apparve sincera) e dopo un ultimo bacio alla cornetta cercò di riprendere il sonno bruscamente interrotto.

Stessa sorte toccò alle cinque e venti al povero marito Giovanni che fu svegliato da Clara che proprio non se la sentiva di non dirgli che aveva telefonato in piena notte a Carlo per dirgli che lo aveva messo al corrente del loro incontro pomeridiano in cui aveva detto a Carlo che la sera prima lei aveva parlato chiaramente a lui del nuovo e inaspettato rapporto.
Nei tre mesi successivi la situazione ebbe una svolta perché Carlo si trasferì a Milano per un nuovo lavoro che lo avrebbe impegnato per almeno due anni.

La vita di Clara divenne un inferno. Per lo più dormiva sul treno. Partiva con il rapido delle 23.55 dalla Stazione Termini in una cuccetta di seconda classe ed arrivava a Milano Centrale alle 8.05 dove c’era Carlo ad aspettarla. Dopo un abbraccio lei iniziava la sua lunga spiegazione in cui doveva dirgli cosa aveva detto al marito ripercorrendo ogni volta tutti i passaggi che diventavano sempre più numerosi. Poi, finalmente serena, uscivano dalla cupa stazione, facevano colazione, lei lo accompagnava allo studio dove lo baciava per l’ultima volta alle 9.30 del mattino.

Di nuovo sola faceva un po’ di spesa per la cena, qualche panino e l’acqua minerale per il suo pranzo e poi alle 11.07 il rapido per Roma. Con la metropolitana era a casa alle 18.00 Il marito sospendeva immediatamente di leggere per ascoltare il suo racconto altrimenti non c’era tempo sufficiente per la cena, qualche parola con i figli, una rassettata alla casa e poi via di nuovo accompagnata in auto da Giovanni al rapido delle 23.55 per un’altra notte di treno.

Dopo due mesi di questa corsa la poverina era sfinita ma contenta di essere sempre sincera e leale con entrambi e di tentare in ogni modo di vivere i due rapporti profondamente e alla pari. La massima gioia la provava tra le stazioni di Firenze e Bologna quando si trovava a metà del viaggio. Il marito capì che era in gioco la salute della moglie alla quale era davvero affezionato e una sera, al termine della sua consueta spiegazione, le disse che pur apprezzando la sua sincerità, il suo cuore non reggeva ulteriormente al racconto di tutti i particolari della sua storia di amore con Carlo e proprio in nome del loro amore le chiedeva di non dirgli più alcunché. Se lei davvero lo amava doveva imbrogliarlo, nascondergli ogni cosa, fingere: solo così non sarebbe morto di crepacuore. Solo per quella sera Clara partì con il rapido delle 23.55. Da allora, sono ormai tre anni, vive, come le sue amiche, un noioso matrimonio e un buon rapporto con Carlo, il suo amante nascosto che ora vive nuovamente a Roma. E questo Giovanni non lo sa.

 

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Nati a perdere (2015) di Giampaolo Salvatore – Anteprima –

Trame interiori di bambini e adolescenti non compresi, invalidati, violati nel senso profondo del valore personale, capri espiatori della vulnerabilità lesiva che è solo di certi adulti.

Una sequenza rapida, implosiva, di personaggi-racconti. Trame interiori di bambini e adolescenti non compresi, invalidati, violati nel senso profondo del valore personale, capri espiatori della vulnerabilità lesiva che è solo di certi adulti.

L’autore, Giampaolo Salvatore, si interroga sulla lotta che questi nati a perdere conducono per adattarsi alla vita.

Nati a perdere non vuole essere semplicemente letto. Si rivolge all’organismo del lettore iniettandogli un rumore sordo. La narrazione si fa strumento di una condivisione corporea dello scenario interno dei personaggi. Perché queste vicende esistono. Prendervi contatto rappresenta il primo passo per comprendere quanto male un adulto inconsapevole può fare a chi dice di amare, e quanto ciascuno di noi, da adulto, possa riscrivere la propria storia.

 

In anteprima per State of Mind, uno dei racconti del volume:

 

Margherita

Ha notato che se fa scorrere forte l’acqua di qualche rubinetto non c’è il rischio di sentire quella voce. Per questo ha preso l’abitudine di lavarsi i denti molte volte al giorno. Fa anche molte docce. Spesso fa scorrere l’acqua e basta. Se è fredda è meglio. E quando l’acqua scorre per un tempo sufficiente dal rubinetto, dopo un po’ diventa veramente fredda, ed è buona anche da bere.

Ha contato quanti secondi ci vogliono per farla diventare fredda. Ne bastano una decina. Però ha notato una strana incongruenza. Quando inizia a farla scorrere, dopo pochissimo, massimo due secondi, l’acqua diventa più fredda, ma poi è come uno che si incammina in una direzione e poi cambia idea. Ritorna indietro. Diventa di nuovo tiepida e rimane così per un’altra manciata di secondi. Dopodiché diventa fredda, ma stavolta per restare fredda con convinzione.

Margherita ha capito che se hai abbastanza esperienza con l’acqua che scorre dal rubinetto, non ti fai ingannare dal primo accenno della volontà dell’acqua di diventare fredda. Sai aspettare. Se hai sete puoi mettere le labbra vicino all’acqua che scorre dal rubinetto e aspettare quella decina di secondi facendotela scivolare sulla lingua, senza inghiottirla. Allora sei testimone di quella finta. Quella falsa transizione che ti illude di poter bere acqua fredda dopo soli due secondi. Se invece sai aspettare puoi osservare l’acqua che scorre mentre cessa di essere un oggetto passivo che viene spinto da qualche congegno idraulico fatto di tubi, e diventare vitale. Quel cambiamento improvviso e definitivo della temperatura, che sembra pure un cambiamento di consistenza – anche se l’acqua non dovrebbe averne di consistenza – che è come se le servisse per dire qualcosa, a quell’acqua.

Qualche volta, specie se non ha sete in quel momento, la guarda scorrere, senza accostare le labbra. Ha imparato ad accorgersi del cambiamento di temperatura anche attraverso la vista. Può starci anche per ore. Cerca di mettere a fuoco un punto preciso all’interno del getto d’acqua e di seguirlo nel suo percorso. Trasforma i suoi occhi in un dispositivo capace di operare un fermo immagine istantaneo, separare un elemento puntiforme dal flusso liquido, rallentarlo. Osservarlo da quando si affaccia dalla bocca del rubinetto; vederlo tirato, strattonato, spinto contro la sua volontà; poi rassegnato e rassicurato dallo scoprirsi simile agli elementi di quel flusso; infine, proprio un attimo prima di esplodere sulla superficie del lavandino, realizzare che non è mai esistito.

Una volta ha provato a chiudere all’improvviso il rubinetto mentre era così concentrata. Giusto per provare quello che sarebbe successo. Era rilassata al punto che ha compiuto quel gesto senza programmarlo. La voce non è ricomparsa subito. Per qualche secondo ha continuato a sentire il suono dell’acqua dal rubinetto, come quando fissi per tanto il fuoco di una candela e poi quando chiudi gli occhi continui a vederla come il negativo di una foto. Poi si è fatta annunciare da una specie di ronzio che ha azzerato i rumori dell’ambiente circostante. Non proprio un ronzio. Più come quando in tv c’è un’interferenza che riempie lo schermo con quel magma di puntini bianchi e neri. O alla radio, pensa Margherita, quando passi da una frequenza all’altra. Ecco. Proprio come alla radio. Proprio come se nella testa ci fosse qualcun altro che sta girando una manopola per risintonizzarsi su qualche frequenza conosciuta.

Margherita immagina questo qualcun altro che gira la manopola nella sua testa, attraversa una serie di interferenze fatte di quel suono discontinuo. Per poi trovare la stazione giusta. Una canzone che gli piace, anche se la trova già iniziata.

«Ti piaceva vero?!»

Margherita pensa che è stranissima questa sensazione di sentire una voce contemporaneamente fuori e dentro la sua testa. È stranissimo sapere esattamente a cosa si riferisca la voce quando le fa questa domanda e rimanerne comunque sorpresa. È stranissimo sapere che non riuscirebbe a rispondere se qualcuno le chiedesse se è una voce maschile o femminile, o se urla o sussurra. Sapere di determinarla e contemporaneamente subirla. Essere soggetto e oggetto della stessa cosa. Ed è stranissimo pensare come tutto questo sia ogni volta diverso, nuovo, e nello stesso tempo appartenga indissolubilmente al suo mondo conosciuto.

«Ti piaceva vero, guardare l’acqua che scorre?!»

Vorrebbe rispondere ma si sentirebbe stupida, perché l’entità senza corpo che genera la voce già conosce la risposta nel momento stesso in cui Margherita la pensa. E lo sa che Margherita lo sa. La voce lo sa che Margherita sta già iniziando ad aver paura. Rimane in silenzio come un bambino che pensa di non essere visto se chiude gli occhi.

«Non puoi scappare, lo sai questo, vero?!»

Hanno spesso punto esclamativo e interrogativo insieme, le frasi che pronuncia.

«Che vuoi che mi freghi di punti esclamativi e interrogativi?!»

Impedirsi di pensare è peggio. Anche pensare di impedirsi di pensare significa pensare.

«Non cercare di distrarti da me, non puoi».

Vorrebbe rispondere «Non sto cercando di distrarmi».

«Ora facciamo i conti, io e te».

La paura le spalanca la bocca: «Su cosa?» 

«Ora facciamo i conti».

«Non ho fatto niente, io».

«Non pensare di riaprire l’acqua. Non la puoi tenere aperta per sempre».

Margherita apre e chiude l’acqua due volte.

«Non riaprire l’acqua, ho detto».

Tiene la mano sul rubinetto dell’acqua fredda e rimane immobile. Fermare il corpo per sottrarle un po’ di forza. Rendere inutile ogni lotta. Ma quando si pietrifica così dimentica sempre che è proprio questo che la fa infuriare di più.

«Sei una troietta, lo sai vero?! Brutta troietta con la faccia da santarella. Pure lui lo ha capito che sei una troietta e fai finta di fare la santarella».

«No!», urla Margherita.

«Nooo?! Lo hai fatto salire quando mamma e papà non c’erano, e secondo te cosa ha pensato lui? Che lo facevi salire per giocare alla play station?».

«Smettila».

«Glielo avevi detto».

«Smettila, ho detto».

«Glielo avevi detto che i tuoi non c’erano, ricordi? Per invitarlo, per fargli capire che andava a colpo sicuro. Che troietta. Ma voi lo vedete quanto è troietta questa?».

Qualcuno bussa alla porta e urla: «Margherita, che fai? Con chi parli?».

«Con nessuno mamma».

«È un’ora che ti sei chiusa in bagno. Non consumare troppa acqua come al solito. Non te lo dico un’altra volta, capito?».

«No, mamma, ora esco subito».

«Diglielo a mammina che quando lei non è in casa tu fai salire i ragazzi, vediamo come la prende. Che dite, volete scommettere che la caccia di casa?».

Una risata, simile a quella che sottolinea le battute delle sit-com americane, che va calando in una specie di mormorio sommesso come se chi sta ridendo di lei ne provasse anche pena, le scoppia dietro le spalle.

«Ora ti faccio cacciare di casa, troietta».

«Smettila, ti prego», sussurra piangendo.

«Ora vi dico una cosa molto piccante».

Risate di approvazione e attesa.

«Questa troietta fa entrare i ragazzi nella sua stanza quando non ci sono i genitori. Ieri per esempio… Margherita? Margheeeriiitaaa? Margheritucciaaa? Come si chiama il ragazzo che è venuto ieri?».

Apre il rubinetto lottando contro i suoi stessi muscoli. Sente un risata che si allontana.

«Stavolta il trucco di far scorrere l’acqua non ti servirà a niente».

«Margherita, adesso hai rotto, chiudi questa cazzo di acqua ed esci subito».

«Subito, subito mamma, scusa».

«Ma che scusa e scusa? Ho appena pagato una bolletta salatissima per colpa delle tue manie. Se ne arriva un’altra così ti giuro che ti faccio fare a pezzi da tuo padre. Non sai fare altro che stare in quel cesso a far scorrere l’acqua».

«Esco subito!», urla piangendo forte.

«Ma che piangi, cretina? Ora chiamo il dottore. Chiamo il dottore. Mi hai rotto, hai capito? Apri questa cazzo di porta. Sono stanca, stanca, stanca. Non ne posso più di te».

«Ora chiudo, non ti preoccupare. Vedi, ho chiuso. Però non ho ancora finito».

«Ti do un minuto».

«Troieeettaaa?! Anche lei lo sa. Non te lo dice ma ti tratta come meriti. Come la troietta che sei».

Si copre le orecchie.

«Lo sai benissimo che non serve a niente coprirsi le orecchie. Sei pure cretina. Ieri lui è salito e hanno mangiato tè e biscotti. Poi a un certo punto le ha chiesto di usare il bagno e… Lo dici tu o lo dico io quello che hai fatto mentre lui era in bagno?».

Margherita respira forte.

«Questa troietta si è messa a origliare dietro la porta. L’orecchio attaccato alla porta. Si è bagnata mentre sentiva lo scroscio che faceva la pipì mentre lui pisciava. Ha immaginato che se faceva tutto quel rumore doveva avercelo bello lungo e grosso».

Risata fragorosa del pubblico della sit-com. Lunghissima. Una di quelle risate che sottolineano le battute decisive, che poco prima di sfumare si associa a un applauso, e anche gli attori vanno in stand-by per attendere che finisca.

«Si è bagnata mentre lo sentiva pisciare. Vi rendete conto? Si è bagnata mentre lo sentiva pisciare. Mentre lo sentiva pisciare. Pisciare. Pisciare. Pisciare. Troietta. Pisciare. Troietta. Pisciare. Pisciareee!».

«Non è vero, smettila».

«Con chi stai parlando? Stai facendo di nuovo la pazza? Ho detto esci da questo bagno, cretina».

«Sì mamma sto uscendo, solo un momento».

«No, non aspetto più, ora vado a chiamarlo e lo faccio venire qui. Giuro che questa volta ti facciamo ricoverare».

«No, ti prego, esco subito».

Sente il suono ritmico delle ciabatte che si allontana.

«Ha ragione la mamma, ci vuole un bel ricovero per calmare i bollenti spiriti. Ti addormentano per bene, così ti svegli con la fica meno calda».

«Smettila, ti prego». Stavolta glielo chiede a voce bassa.

«Ricominciamo. Quando poi è uscito dal bagno, te lo ricordi che è successo?».

Chiude il rubinetto dell’acqua e si guarda allo specchio, e l’immagine che vede ha il viso deformato da uno strano ghigno.

«Lui ha spalancato la porta all’improvviso. Ti ha trovato davanti alla porta con quella faccia da scema. Se n’è accorto che lo avevi spiato».

Fa un cenno impercettibile con la testa per dire sì. Il pubblico ora è ammutolito, concentratissimo.

«Per questo è andato sul sicuro».

Sente le ciabatte che si riavvicinano. Non sa quanto tempo sia passato.

«Margherita, ti avevo avvertito. Il dottore arriva subito. Gli ho già detto che stavolta voglio farti ricoverare. Margherita, mi hai sentito? Che stai facendo, si può sapere?».

«Ti ha abbracciato e lo hai lasciato fare. Lo hai lasciato fare. Sei rimasta ferma. Come se fossi una bambola gonfiabile. Anche quando ti ha aperto la camicetta».

«Lo hai capito che il dottore viene a prenderti per ricoverarti nella sua clinica, brutta cretina?».

«Avevi i capezzoli durissimi, e quando ha iniziato a succhiarteli hai pensato che questo al prete non lo avresti mai confessato».

Un «Ooohhh» corale del pubblico la fa muovere dallo specchio. Apre la porta. La madre, accovacciata contro la porta, cerca di mettersi in piedi più in fretta che può, arrampicandosi sulle sue cosce grasse con movimenti scomposti, gemendo per il dolore alle articolazioni.

«Un vizio di famiglia, spiare dal buco della serratura».

Per un attimo le viene da ridere. Una soluzione di continuità brevissima nell’orrore. Che lo rende ancora più grottesco.

«Cretina, per colpa tua ora mi devo pure far male».

Il pubblico ride per la battuta.

«Quando ti ha sollevato la gonna e ti ha toccato, avevi un solo pensiero. Uno solo. Per questo ti sei bloccata, e il coraggio di scopare non l’hai avuto».

Mormorio di tensione nel pubblico.

«Hai pensato che aveva le mani grandi come quelle di tuo padre».

«Adesso che fai lì impalata?».

«Come quelle di tuo padre».

Margherita stringe i pugni, e si colpisce le tempie. Una, due, tre volte. Ogni volta più forte.

Il pubblico urla: «Basta, basta!».

«Come quelle di tuo padre quando è lui che ti tocca».

«Smettila, pazza di merda».

«E hai capito che se ti piace con lui, vuol dire che ti piace anche con tuo padre».

Il suono del citofono.

Margherita passa di corsa davanti alla madre che urla cose che lei non sente. Invece sente: «Sarai una troietta anche da morta».

Apre la finestra lentamente mentre sente: «Anche da morta, anche da morta».

Si butta, e mentre cade non sa distinguere se è il pubblico o sua madre a gridare: «Nooo!».

 

 

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La regolazione emotiva e la disregolazione – Introduzione alla Psicologia nr. 19

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La regolazione emotiva è volta a sostituire uno stato emotivo inadeguato alle circostanze che si vivono in quel momento con un altro più funzionale.

 

Col termine regolazione emotiva si è soliti fare riferimento a una serie di comportamenti messi in atto dall’individuo per regolare l’emozione provata in quel momento.

La regolazione emotiva è volta a sostituire uno stato emotivo inadeguato alle circostanze che si vivono in quel momento con un altro più funzionale.

Per questo motivo adattare le emozioni è un aspetto fondamentale per l’individuo non solo da un punto di vista sociale, ma anche relazione e soggettivo.

La regolazione emotiva è considerata pertanto un costrutto multidimensionale, caratterizzato da:

  • disponibilità a sperimentare emozioni negative o positive
  • consapevolezza, comprensione e accettazione dei diversi stati emotivi;
  • impegnarsi nel raggiungimento dell’obiettivo, in risposta ad emozioni sia positive che negative;
  • uso flessibile di strategie adeguate al contesto per modulare l’intensità e/o la durata della risposta emotiva,
  • spostamento e non soppressione l’emozione disfunzionale.

La presenza di carenze in una di queste aree sono considerate indici di difficoltà di regolazione emotiva. In questo caso si parlerà di disregolazione emotiva, ed è indice di psicopatologia (Gross e John, 2004).

Chi è in grado di riconoscere le proprie emozioni, capire come funzionano, dotarle di significato, usare l’informazione da loro derivante, e gestire l’esperienza, apparirà, dunque, più capace di rispondere efficacemente alle richieste e alle situazioni della vita quotidiana rispetto a chi non è in grado di farlo.

 

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Mindfulness: stato mentale o funzione della mente?

Commento di Andrea Bassanini all’articolo di Claudia Perdighe: Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?

Leggo con molto interesse l’articolo pubblicato in questi giorni su State of Mind “Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?” di Claudia Perdighe, con cui ho avuto il piacere di condividere la co-conduzione di un workshop ACT & Mindfulness nel 2014, e mi sento spinto a rispondere aggiungendo alcune considerazioni e alimentando la discussione su un tema, accettazione e mindfulness, a me molto caro e che continua a diventare più intricato in modo direttamente proporzionale con la sua diffusione nel mondo della psicoterapia.

Che la pratica della Mindfulness sia un potente strumento terapeutico ormai è un dato supportato da molti dati di ricerca (il testo citato dalla collega, Baer, 2012 lo dimostra)… Sul fatto che la pratica di mindfulness sia una procedura che faciliti il distanziamento dagli stati interni mi vengono in mente alcune prime considerazioni.

 

Il distanziamento nella mindfulness

Ciò che nella mia mente sta entrando con potenza mentre scrivo è Ma nell’esperienza della pratica non c’è distanziamento! E poi distanziamento da cosa? Dagli stati interni o dal grado di adesione e di identificazione con quegli stessi stati?

detto in altro modo: “Dal contenuto e dalla presenza di quegli stessi stati (che forse sarebbe un evitamento?) o dalla identificazione acritica e automatica con essi?”

Credo che questo sia un punto cruciale, che spesso porta con sé grandi fraintendimenti, soprattutto perché credo sia un concetto che vada oltre le facoltà della nostra mente concettuale, logica e narrativa e che richiede esperienza di pratica, conoscenza implicita e intuitiva per comprenderne il funzionamento. E questo sembra essere un primo paradosso della mindfulness…

 

La definizione di accettazione

Sono d’accordo che il concetto di accettazione sia complesso e molto articolato e che tutt’oggi non esista una definizione operativa univoca. Visto che tutti noi terapeuti, prima o poi, facciamo scelte sui riferimenti cui ispirarci, io prendo come riferimento la definizione di Steven Hayes, fondatore della Acceptance and Commitment Therapy, che definisce la accettazione come

“An adoption of an intentionally open, receptive, and flexible posture with respect to moment-to-moment experience. Acceptance is not passive tolerance or resignation but an intentional behavior that alters the function of inner experiences from events to be avoided to a focus of interest, curiosity and observation as part of living a valued life” (Hayes et al., 2012, p.6, credo che mantenere il testo in lingua originale permette di ridurre al minimo l’errore semantico nella traduzione…).

Fatico a intendere l’accettazione come una “rinuncia a opporsi, anche solo psicologicamente, a un evento interno o esterno”. Nella mia esperienza di pratica, che credo sia esperienza abbastanza condivisibile da chi pratica, l’accettazione riguarda più che altro l’impegno, l’intenzione, il prendere atto, il dirigere l’attenzione, il fare un atto di consapevolezza, il partecipare, il vedere e constatare le cose e gli eventi (anche e soprattutto quelli interni) per come sono, per come si presentano nel momento, cioè come oggetti dell’esperienza, come parte dell’esperienza del momento, in continua evoluzione per sua natura.

E qui ci troviamo di fronte ad un secondo paradosso, da cui, anche in questo caso, non credo si possa uscire con le nostre procedure “concettuali-logiche”: lascio andare deliberatamente uno sforzo, una lotta, come ad esempio il controllo o l’evitare a tutti i costi il dolore e le difficoltà, per trovarmi di fronte ad un’altra lotta, chiamiamola impegno e responsabilità, se quest’ultima è utile e funzionale alle cose che per me sono importanti (NON uso di proposito il termine “valori” perché a mio parere spariglia troppo le carte e connota il termine con significati che il termine inglese “value” non ha…).

Una lotta che ha a che fare con l’impegno dell’azione, la committed action per come viene chiamata nella ACT basata su ciò che per il singolo individuo ha peso nella vita, è importante.  

 

Accettazione vs scopi e obiettivi

Sebbene la terminologia scopistica non sia a me molto affine, nell’articolo della collega Perdighe viene fatto riferimento all’accettazione come ad un ultimo e finale “abbandono dello scopo”. Mi aiuta di più pensare a un investimento diverso delle risorse verso qualcosa che per l’individuo è più soddisfacente rispetto all’abbandonare qualcosa. Leggendo “abbandono” i pensieri saltano alla famosa frase di Russ Harris che chiama gli obiettivi nella forma negativa (ad es., NON provare più tristezza” come a “Dead Man Goals”, obiettivi da uomo morto… Nell’intendere l’accettazione come a una rinuncia si rischia, a mio parere, di connotare un processo vitale, energico e soddisfacente come se fosse una rassegnazione masochistica, da stoici, in cui nulla e niente mi tocca e faccio anche finta di non esserne ferito…

 

Stoicismo vs Buddhismo

Accostare gli stoici e Abhidharma (la psicologia buddhista, per come viene considerato in Occidente) mi lascia un senso di inquietudine e di ingiustizia che provo a trasformare in parole… Lo stoicismo, in breve, rientra nel campo delle filosofie razionaliste influenzate dal Cinismo, che professava un atteggiamento ramingo, indifferente alle emozioni e alla preferenze, in cui l’aspetto della vitalità, della partecipazione é pressoché assente.

Mettendo insieme questa mia visione semplicistica dello stoicismo e le definizioni di Mindfulness date dai suoi maggiori diffusori, ci troviamo di fronte a un fraintendimento che fa riflettere: Marlatt & Kristeller (1999): “portare la propria completa attenzione sull’esperienza vissuta nel presente, momento per momento”; Brown & Ryan (2003): “stato in cui si è attenti e consapevoli di quanto avviene nel momento presente”; Segal et al. (2002): “il focus dell’attenzione è aperto ad ammettere qualsiasi cosa entri nell’esperienza e che contemporaneamente un atteggiamento di gentile curiosità consenta di indagare qualsiasi cosa si manifesti, senza essere vittima di giudizi automatici o reattività” ; Kabat-Zinn (2003): “la mindfulness include una partecipazione affettuosa e compassionevole, una presenza e un interesse sinceri e amichevoli”; Carol Wilson (2004): “attenzione pienamente partecipatoria all’esperienza mentre essa accade”.

In queste definizioni non sembra essere presente quell’idea presente nell’immaginario collettivo del monaco ritirato in monastero che sfugge alla vita mondana. Nella concretezza della pratica di consapevolezza, che include sì i ritiri di pratica, il ritiro dalle attività quotidiane per periodo di tempo stabiliti e brevi è soltanto un mezzo, una condizione privilegiata grazie alla quale le abilità legate alla pratica possono essere allenate e migliorate, non una metà cui aspirare…

 

Cosa rende la mindfulness un intervento di psicoterapia?

E mi trovo ora a riflettere su un terzo paradosso, sollecitato dalla domanda inserita nell’articolo dalla collega Perdighe: cosa renda la mindfulness un intervento di psicoterapia? Paradosso perché la pratica della mindfulness, almeno per come era nelle intenzioni iniziali di Jon Kabat-Zinn è e dovrebbe rimanere in primis pratica di consapevolezza; che ciò sia terapeutico, in un senso forse diverso dalla concettualizzazione di terapia come di “riparazione di qualcosa che si è rotto” (citando Rachel Remen…), risiede nel fatto che la pratica della mindfulness, come molte altre terapie cosiddette di Terza Ondata, ha come obiettivo principale la flessibilità psicologica, la riduzione della rigidità degli schemi abituali di reazione e di funzionamento, partendo da una prospettiva di completa fiducia nelle risorse individuali per così dire “naturali”.

Questo, come scrive la collega, “apre la questione su cosa qualifica un intervento come psicoterapeutico, e la questione è certamente assai complessa e di non facile soluzione”, ma credo sia un argomento di importanza cruciale, in luce dei nuovi sviluppi della psicoterapia e più in generale della integrative mind-body medicine, che richiede a mio parere una riflessione sui nostri paradigmi di riferimento.

 

Mindfulness: stato mentale o processo della mente?

Un’altra questione che ha sollevato il mio interesse è la domanda inclusa nell’articolo in merito a “che tipo di stato mentale stiamo promuovendo nei nostri pazienti quando offriamo la mindfulness?” Credo sia importante riflettere sul fatto che la mindfulness sia davvero uno stato mentale. Diversi ricercatori che si occupano di studi sulla coscienza ritengono che la consapevolezza (cosiddetta mindfulness) di fatto non sia uno stato mentale bensì un processo, una funzione della mente “vuota” da un punto di vista del contenuto, e soprattutto da una connotazione valoriale (nel senso di ideologia) e piena dal punto di vista del contatto partecipato con l’esperienza.

Certo, il campo dello studio delle funzioni della coscienza spesso scollina nella filosofia ma può essere un valido sostegno a predisporre chi propone la pratica di consapevolezza in una prospettiva diversa, in cui non stiamo proponendo una visione del mondo, nemmeno un culto, e nemmeno una via nobile per diventare “buddhisti”, e nemmeno una visione ideologica fricchettona e New Age.

Stiamo proponendo un addestramento alla consapevolezza (obiettivo peraltro di moltissime psicoterapie, la consapevolezza…), perché la ricerca ci dice che è un mezzo utile e perché, ancor prima della ricerca, è una funzione che accomuna tutti gli esseri umani e che può essere allenata. Proporre un sistema di valori, nel senso ideologico del termine, credo sarebbe un illecito disciplinare che andrebbe molto oltre la nostra professione e che ci farebbe tornare indietro di almeno cento anni, non differenziando il nostro praticare come psicoterapeuti dal consulente spirituale, dal prete o dal Vecchio del villaggio, che dispensa consigli e “saggezze” a tutta la comunità.

 

Provo a ipotizzare una riflessione alla domanda del paziente indicata nell’articolo della collega Perdighe: “Capisco che imparare a prendere le distanze dalle mie ruminazioni e dalle mie ansie mi faccia star meglio, ma non è un ostacolo all’impegno massimo per i miei scopi? È sicura che sia meglio per me mirare alla riduzione dell’infelicità piuttosto che al perseguimento dei miei scopi?”

No, forse non è meglio! Vorremmo davvero passare la vita a impegnarci a ridurre l’infelicità? O forse sarebbe più soddisfacente ridurre la disidentificazione con i propri stati mentali e focalizzare l’attenzione su ciò che per me è importante, che sia raggiungibile, fattibile e vitale e impegnarci per questo?

 

“Che sistema di valori mi sta passando?” – Forse una risposta adatta dal mio punto di vista da istruttore mindfulness sarebbe: “Nessuno, stiamo allenando alcune funzioni, alcune abilità che ci permetteranno di essere più flessibili. Discutere di valori, nel senso di ideologia, non è compito di noi terapeuti, men che meno compito degli istruttori Mindfulness né dei terapisti ACT…” Sapere invece cosa per i nostri pazienti è importante, a cosa danno peso, come è la persona che vorrebbero essere sì, e a mio parere ha una importanza cruciale, in termini terapeutici e in termini relazionali.

Concludo questa breve riflessione citando Jon Kabat-Zinn, che nel 2003 scrive:

“Poiché è probabile che in futuro l’interesse per la mindfulness e la sua applicazione a specifici disturbi affettivi continui a crescere, soprattutto all’interno della comunità dei terapeuti cognitivisti (…) diventa di importanza cruciale che quelle persone che si avvicinano a questo campo con interesse professionale ed entusiasmo riconoscano l’aspetto peculiare e le caratteristiche distintive della mindfulness in quanto pratica di consapevolezza, con tutto ciò che implica; ossia che la mindfulness non va concepita come una nuova promettente tecnica o esercizio cognitivo-comportamentale, decontestualizzato, innestato in un paradigma cognitivista, il cui scopo sia di indurre un cambiamento desiderabile (…) La mindfulness non è solo una buona idea che, dopo averne sentito parlare, si possa immediatamente decidere di vivere nel presente, con la promessa di una riduzione dell’ansia e della depressione o di un aumento delle prestazioni e della qualità di vita, e che si possa poi rimettere in pratica all’istante in modo attendibile. È più somigliante invece a una forma di arte che si sviluppa col tempo, ed è grandemente incrementata attraverso una pratica regolare, quotidiana, sia formale che informale”.  

Forse è questo un buon punto su cui noi terapisti interessati alla pratica della mindfulness e alla sua integrazione in psicoterapia possiamo iniziare le nostre riflessioni e discussioni.

LEGGI L’ARTICOLO DI CLAUDIA PERDIGHE

ARTICOLI SULLA MINDFULNESS

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Steven C. Hayes, et al., Acceptance and Commitment Therapy and Contextual Behavioral Science: Examining the Progress of a Distinctive Model of Behavioral and Cognitive Therapy, Behavior Therapy (2011), 10.1016/j.beth.2009.08.002
  • Harris R. (2008). The Happiness Trap. Robinson Publishing ltd: London (UK).
  • Brown K.W. & Ryan R.M. (2003). The Benefits of Being Present: Mindfulness and Its Role in Psychological Well-Being. Journal of Personality and Social Psychology, 84(4): 822–848 – DOI: 10.1037/0022-3514.84.4.822
  • Kabat-Zinn J. (2003). Mindfulness-Based Interventions in Context: Past, Present, and Future. Clinical Psychology: Science and Practice, 10(2): 144–156.
  • Remen R. (2000). My Grandfather’s Blessings: Stories of Strength, Refuge, and Belonging. Riverhead Books: New York.

Il contenuto spaventoso dei programmi televisivi può facilitare la comparsa di disturbi internalizzanti nei bambini?

FLASH NEWS

L’esposizione dei bambini a programmi televisivi con contenuti paurosi, cioè contenuti che implicano situazioni in cui è presente una minaccia sociale, psichica o fisica reale o immaginaria, ha un impatto sulle emozioni dei più piccoli e può determinare la persistenza anche per mesi di stati di ansia e paura.

Le ricerche degli ultimi anni hanno messo in evidenza due dati significativi: il primo riguarda il fatto che i bambini trascorrono sempre più tempo di fronte ad uno schermo televisivo, addirittura il tempo stimato per i bambini inglesi dai 4 ai 9 anni è di quasi di 18 ore alla settimana, tempo che praticamente raddoppia per i bambini americani della stessa età; il secondo dato si riferisce all’evidenza che dalla metà del ’900 fino ad oggi i livelli di ansia e paura nei bambini sono decisamente aumentati, tanto che attualmente essi sembrano essere più elevati di quelli che si registravano negli anni ’50 per i pazienti psichiatrici.

Sembra che in parte tale aumento possa essere spiegato proprio dalla maggiore esposizione dei bambini a programmi televisivi con contenuti paurosi, cioè contenuti che implicano situazioni in cui è presente una minaccia sociale, psichica o fisica reale o immaginaria.

In particolare tale esposizione ha un impatto sulle emozioni dei più piccoli e può determinare la persistenza anche per mesi di stati di ansia e paura. Tuttavia questo effetto non è univoco, in quanto un’ampia percentuale di bambini (75%) non manifesta questo tipo di sintomatologia, per cui è possibile ipotizzare l’intervento di variabili individuali e contestuali.

Per quanto riguarda le prime sembra che ad avere un ruolo importante sia il livello di sviluppo delle capacità cognitive, infatti esso determina il modo che i bambini hanno di comprendere i messaggi della tv; ad esempio la ricerca ha evidenziato come nel tempo si riducano le reazioni di paura legate a contenuti fantastici e come invece aumentino quelle dovute a tematiche realistiche come guerre o attacchi terroristici, ciò accade perché i bambini più piccoli tendono ad interpretare ciò che vedono sulla base di aspetti percettivi e non soffermandosi sul significato.

Per quanto concerne le caratteristiche dei media, come in parte anticipato, nella primissima infanzia ad avere un impatto maggiore sono i programmi televisivi con contenuti di finzione, impatto che si riduce con il crescere dell’età per lasciare il posto a quello delle trasmissioni che trattano di fatti reali. Inoltre il miglioramento esponenziale della tecnologia ha fatto si che attualmente i programmi e i giochi per bambini, anche quando presentano contenuti fantastici, appaiono molto più realistici del passato e ciò ha determinato un aumento della violenza che essi trasmettono.

La maggior parte delle ricerche che ha affrontato queste tematiche si è concentrata sull’impatto che i programmi televisivi violenti hanno sullo sviluppo di tratti esternalizzanti come il disturbo della condotta e il comportamento antisociale; pochi studi invece hanno tentato di descrivere l’effetto che i contenuti paurosi della tv hanno nel determinare l’emergere di stati ansiosi e di terrore. Per questo motivo la presente meta-analisi ha cercato di stimare questo impatto con l’obiettivo di mettere in evidenza anche quali sono le variabili in grado di moderarlo e di dare ai genitori e a coloro che si occupano di programmare le trasmissioni televisive delle indicazioni più precise al riguardo.

A questo scopo nella meta-analisi sono state incluse 31 ricerche che hanno verificato l’effetto che i media hanno in particolare sui bambini più piccoli di 10 anni (questa età rappresenta una sorta di soglia per lo sviluppo delle capacità cognitive, infatti i bambini al di sotto dei 10 anni si concentrano maggiormente sulle caratteristiche percettive degli stimoli e per questo rispetto ai bambini più grandi sono più vulnerabili alle trasmissioni televisive con contenuti paurosi); non sono stati considerati gli studi che prendevano in esame giornali e/o internet in quanto le esperienze che quest’ultimi offrono sono del tutto diverse rispetto a quelle che si sperimentano d’avanti alla tv.

I risultati hanno mostrato che l’esposizione a programmi televisivi con contenuti paurosi è associata alla comparsa di disturbi internalizzanti come paura, ansia, depressione, difficoltà del sonno e sintomi caratteristici del disturbo da stress post traumatico e che tale affetto è del tutto paragonabile a quello che i contenuti violenti hanno nello sviluppo di tratti antisociali (tale corrispondenza può essere tuttavia spiegata anche dal fatto che i programmi televisivi paurosi spesso sono anche violenti). Inoltre sembra che la relazione sopradetta sia particolarmente vera per quei bambini caratterizzati da instabilità emotiva, tratti di ansia ed inibizione comportamentale, ma viene sottolineata la necessità di ulteriori ricerche che possano approfondire tali differenze individuali ed il peso che esse hanno nel determinare la risposta ai media.

Infine al contrario di altri studi e delle aspettative teoriche anche della presente meta-analisi, non sono state rilevate differenze tra i contenuti fantastici e quelli realistici negli effetti che i programmi televisivi hanno sui bambini e sui loro stati interni.

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Giornata nazionale contro il gioco d’azzardo patologico: NO al gioco d’azzardo patologico! – Comunicato Stampa

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COMUNICATO STAMPA

Giornata nazionale contro il gioco d’azzardo patologico

No al gioco d’azzardo patologico!

 

Primoconsumo nella persona dell’Avv. Marco Polizzi, Interessi Comuni nella persona del Dott. Angelo Santoro e Stare Bene nella persona della Prof.ssa Lolita Gulimanoska

Hanno chiesto l’indizione della Giornata Nazionale contro il Gioco d’Azzardo Patologico al Presidente del Consiglio Matteo Renzi ed al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin.

Una Giornata nazionale di informazione e formazione sul gioco d’azzardo patologico, dove la parola d’ordine sarà: No al Gioco d’Azzardo Patologico. 

Lo comunica il Dipartimento Salute di Primoconsumo con l’Avv. Ersilia Urbano.

Sarà una occasione per richiamare l’attenzione di tutta l’opinione pubblica sul tema e mettere a fuoco il pericolo ed i rischi connessi al gioco d’azzardo, con iniziative che coinvolgano rappresentanti delle istituzioni, addetti al settore gioco, associazioni operanti nel settore, movimenti e la cittadinanza tutta per rendere operativo l’obiettivo della tutela del cittadino dalla dipendenza dal gioco e per sensibilizzare le istituzioni e la società al riconoscimento dei diritti delle persone che vivono l’esperienza di questa malattia sociale.

Si tratta di un fenomeno pericoloso che rovina le vite delle nostre famiglie e dei nostri ragazzi.

In occasione del decreto del Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, istitutivo del nuovo Osservatorio per il contrasto della diffusione del gioco d’azzardo, lo stesso Ministro riferisce che abbiamo tre milioni di italiani che rischiano di sviluppare una dipendenza dal gioco e che questo dato consegna un allarme sanitario.

Mettiamo allora in campo tutte le misure necessarie.

Si istituisca la giornata nazionale contro il gioco d’azzardo patologico il 13 settembre di ogni anno.

Sarà un’occasione per tutti, Amministrazioni Pubbliche, organismi di volontariato, associazioni che si occupano di G.A.P. per assumere, nell’ambito delle rispettive competenze e attraverso idonee e coordinate azioni di informazione e solidarietà, iniziative volte a informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul gioco d’azzardo patologico che coinvolge, oltre la persona, anche i familiari.

 

 

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The 3rd International Conference of Metacognitive Therapy – Milano 8, 9 Aprile 2016

Logo Studi CognitiviLogo MCT Institute Il Metacognitive Therapy Institute  in collaborazione con

Studi Cognitivi sono lieti di annunciare

 

The 3rd International Conference of Metacognitive Therapy

il congresso scientifico ufficiale di Teoria e Terapia Metacognitiva

Milano 8 e 9 Aprile 2016.

L’IC-MCT raccoglie alcuni tra i grandi esperti internazionali di terapia cognitivo-comportamentale e metacognitiva con lo scopo di presentare e condividere i recenti sviluppi della ricerca scientifica nell’area della metacognizione, dei processi mentali e della Terapia Metacognitiva. Il comitato scientifico è composto da Adrian Wells, Hans Nordahl, Marcantonio Spada, Ezio Sanavio e Sandra Sassaroli. Durante la conferenza i partecipanti potranno partecipare a workshop, lezioni magistrali, dimostrazioni cliniche, simposi e poster. Ci saranno otto lezioni magistrali per approfondire l’uso di tecniche dai supervisori MCT.

Il 7 Aprile sarà possibile iscriversi a workshop precongressuali sull’applicazione della MCT come terapia di gruppo per la depressione, vari disturbi d’ansia e casi complessi. La lingua ufficiale della conferenza sarà l’inglese.

La IC-MCT nasce con l’intento di creare un occasione per conoscere, apprendere, approfondire e aggiornare le proprie competenze con abilità e tecniche associate alla prospettiva della Terapia Metacognitiva, il primo approccio emergente che ha mostrato un significativo incremento di efficacia rispetto agli storici protocolli di terapia cognitiva e comportamentale (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

 La conferenza si terrà nella spettacolare cornice di Palazzo Mezzanotte a Milano.

Per qualsiasi informazione potete visitare il sito web della conferenza che è in costante aggiornamento.

Siete tutti invitati a sottoporre abstract per poster, presentazioni orali e simposi (in lingua inglese) relativamente a metacognizione e psicopatologia, processi cognitivi, terapia metacognitiva e relative tecniche applicate ai vari disturbi psicologici. L’abstract deve essere suddiviso in Background, Method, Results e Conclusion per un massimo di 175 parole. È possibile scaricare un file con le indicazioni per la sottomissione al seguente indirizzo.  La deadline per la sottomissione dei lavori è 01/10/2015.

Cos’è la metacognizione?

La metacognizione è l’aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi di autoregolazione (attentivi, cognitivi, comportamentali). Molte persone hanno dirette esperienze metacognitive, per esempio quando sono incapaci di ricordare il nome di una persona pur sapendo di conoscerlo. Questo esempio chiarisce come le componenti metacognitive lavorino per informare una persona che un ricordo è immagazzinato da qualche parte nella memoria anche se le persone non sono in grado di ricordarlo. Molti altri aspetti della metacognizione operano al di fuori della nostra coscienza. Negli ultimi vent’anni, la ricerca su processi e credenze metacognitive ha evidenziato un ruolo predominante nel mantenimento dei disturbi emozionali e comportamentali spostando l’attenzione dai contenuti del pensare e dai contesti di vita al modo in cui gli individui rispondono ai propri stati interni. Il disturbo psicologico non nasce tanto da rappresentazioni mentali o emozioni negative ma dal modo in cui gli individui rispondono o si difendono da quest’ultime.

Cos’è la Terapia Metacognitiva?

 La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

Una delle caratteristiche dei disturbi psicologici come ansia e depressione è che il pensiero ripetitivo negativo (nelle forme di rimuginio o ruminazione) viene percepito come difficile da controllare o tendenzialmente produce prospettive distorte della realtà che alimentano stati d’animo negativi.

La Terapia Metacognitiva ha come obiettivo ridurre questo stile di pensiero e riportare la nostra risposta a pensieri ed emozioni negative sotto il controllo cosciente.

La MCT mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione e modificando regole metacognitive controproducenti. Protocolli di intervento basati sulla teoria metacognitiva sono stati sviluppati per il trattamento dei disturbi d’ansia e della depressione (Wells, 2008).

VEDI DETTAGLI EVENTO

 

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Terapia Metacognitiva: Differenze e Prospettive di Integrazione

BIBLIOGRAFIA:

Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione?

Claudia Perdighe, Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC Roma

 

Non per fede, ma basandomi sulle evidenze che vengono da un certo numero di studi (per una rassegna critica si può vedere Baer, 2012), considero la mindfulness e in generale tutte le procedure che facilitano il distanziamento e decentramento dagli stati interni, potenti strumenti terapeutici.

Mi piacerebbe, però, condividere alcune riflessioni sulla mindfulness e in generale sulle terapie basate sull’accettazione.
Le più conosciute tra queste sono la Mindufness Based Stress Reduction (MBSR), la Mindufness Based Cognitive Therapy (MBCT), la Acceptance and Commitment Therapy (ACT) e la Dialectical Behavior Therapy (DBT).

Una prima osservazione riguarda il fatto che anche se si parla in generale di terapie basate sull’accettazione, “accettazione” non è affatto un termine dal significato univoco.
In linea di massima, l’accettazione riguarda sempre una rinuncia a opporsi, anche solo psicologicamente, a un evento interno o esterno (ad es., non contrasto una perdita o i sentimenti di tristezza o i pensieri dolorosi). L’oggetto può essere lo stato del mondo o gli stati interni.  Ci sono, però, almeno due modi diversi in cui questo può accadere e, ciascuno collegato a due accezioni differenti del concetto di accettazione.

La prima accezione riguarda l’accettazione come costruzione di un atteggiamento di maggiore distanza dalle esperienze interne e di generale disinvestimento dagli scopi; la focalizzazione è sulla presa di distanza dall’esperienza interna dell’evento, che in ultimo si risolve idealmente nell’abbandono dello scopo.

Il focus dell’accettazione è la gestione degli affetti intesi come reazioni a un evento, accaduto o atteso (non l’evento in sé e le sue implicazioni esistenziali). È ciò che gli stoici, e fra loro, ad esempio, Epitteto, hanno descritto come “il distacco dagli affetti”, o i buddhisti come abbandono dell’attaccamento alle cose del mondo. La massima realizzazione di questo modello è rappresentato dall’isolamento dell’asceta.

La seconda accezione è accettazione come dis-investimeno dagli scopi compromessi (o minacciati) e sostengo dell’investimento sugli scopi ottenibili: la focalizzazione è da un lato sulla presa di coscienza della mancanza di un potere, di un dovere o un diritto alla soddisfazione dello scopo compromesso e dall’altro sulla messa a fuoco degli scopi sovraordinati o di altri domini su cui la persona ha un potere.

La differenza tra i due significati è che nel primo caso il disinvestimento è totale e preventivo, anche rispetto a investimenti positivi e non solo difensivi (non soffrire e non gioire), mentre nel secondo è selettivo, cioè riguarda solo gli scopi compromessi o minacciati di compromissione.
La seconda accezione riguarda più l’accettazione come intensa in terapia cognitiva (Mancini e Perdighe, 2013), dove l’oggetto sono sia gli stati interni (problema secondario) ma soprattutto gli eventi in sé e i significati per l’individuo implicati dalla compromissione o minaccia allo scopo.

La mindfulness, invece, promuove soprattutto l’accettazione come intesa nella prima accezione e l’oggetto privilegiato dell’accettazione sono gli stati interni. L’ACT come le altre terapie basate sulla mindfulness ha per oggetto le esperienze interne, ma il disinvestimento dagli scopi è selettivo.

Detto ciò, uno dei grandi meriti della mindfulness, sia come RSBM sia come TCBM, è aver posto l’attenzione sulla possibilità e sull’utilità di ridurre il disagio non solo modificando i determinanti psicologici degli stati emotivi (i contenuti cognitivi, cioè scopi e rappresentazioni), ma anche attraverso il cambiamento della loro funzione, con l’addestramento a un decentramento intenzionale e radicale dagli stati interni.

Ci sono, però, alcuni aspetti che a mio parere meritano qualche riflessione in più tra noi clinici. Un primo punto, riguarda cosa renda la mindfulness un intervento di psicoterapia (o, in che senso lo è di più che fare sport o fare yoga, attività di cui si conoscono bene gli effetti benefici e duraturi sul benessere psicologico). È evidente che questo apre la questione su cosa qualifica un intervento come psicoterapeutico, e la questione è certamente assai complessa e di non facile soluzione.

Uno degli aspetti che, però, mi sembra qualificante è il fatto di essere una risposta specifica a un problema specifico; la mindfulness mi sembra, che non abbia sempre questa qualità (almeno in alcune forme in cui è proposta). È evidente che sto ipersemplificando, ma mi sembra utile per riflettere su come noi terapeuti a volte siamo talmente presi dal trovare soluzioni efficaci per i nostri pazienti, che rischiamo di “prendere tutto”, applicandolo senza tener conto di ciò che dovrebbe qualificarci e differenziarci, in altre parole la concettualizzazione del caso e l’individuazione di strategie e procedure adattate al singolo caso.

Un secondo aspetto, più rilevante, è: che tipo di stato mentale stiamo promuovendo nei nostri pazienti quando offriamo la mindfulness? La mindfulness, infatti, è fortemente caratterizzata dal punto di vista ideologico/valoriale, ovvero è inerente alla terapia il fatto di passare un preciso sistema di valori.

Negli scopi dell’accettazione come intesa dalla mindfulness (e, più in generale, da buona parte della tradizione meditativa e filosofica orientale), infatti, se da un lato si enfatizza l’importanza del vivere nel qui e ora, dall’altra si favorisce una generale accettazione dello stato delle cose e un disinvestimento anche dagli scopi perseguibili (è chiaro che questa è ora un po’ una semplificazione che si applica più alla mindfulness legata alla meditazione vipassana e meno alla mindfulness come intesa nella TCBM).

Tralasciando le questioni etiche legate al passaggio di valori in terapia, peraltro in modo tacito, il punto è la qualità e funzionalità/adattività di questi valori. Il valore che si passa, per usare un’immagine di Schopenhauer, è che si vive meglio guardando il mondo dal lato sbagliato del telescopio, distaccandosi dagli affetti e facendosi guidare/condizionare meno dai propri stati interni (che tanto passano se non si fa niente e ci si limita a osservarli). Che poi è quello che si afferma nelle verità del Buddha.

In questo mi sembra ci sia un aspetto critico, riassumibile nell’osservazione di un paziente: [blockquote style=”1″]Capisco che imparare a prendere le distanze dalle mie ruminazioni e dalle mie ansie mi faccia star meglio, ma non è un ostacolo all’impegno massimo per i miei scopi? È sicura che sia meglio per me mirare alla riduzione dell’infelicità piuttosto che al perseguimento dei miei scopi?[/blockquote] In altri termini, il paziente sta ponendo una questione molto seria, riassumibile in: che tipo di sistema di valori mi sta passando?

In questo mi sembra ci sia un aspetto critico, riassumibile in quella che è forse la vera obiezione, sia a parere degli stoici che della filosofia alla base del buddhismo e di gran parte delle forme di meditazione orientale: siamo sicuri che nella vita sia meglio ridurre l’attaccamento agli affetti (ovvero scopi, motivazioni, passioni) per garantirsi una minore infelicità che mirare a darsi una vita ricca di significato perseguendo i propri scopi? Il problema è: siamo sicuri che sia un sistema di valori vincente? Se guardiamo all’India, viene in mente che forse tanta povertà e ingiustizia sociale ancora oggi forse, almeno in parte, è figlia di questa filosofia (sopporto con distacco) e che, invece, una maggiore adesione ai propri stati d’animo magari fa soffrire di più ma spinge anche a combattere di più per cambiare le cose.

Del resto i migliori anni di Schopenhauer, che per tutta la via ha praticato l’autoterapia del distacco avendo come riferimento sia gli stoici sia le filosofie orientali, sono stati quelli in cui si sono infine realizzati gli stessi “effimeri sogni di gloria da bipede” da cui ha tanto cercato il distacco. Questo suggerisce che forse, anche quando ci si impegna tanto, non è davvero possibile per la maggior parte degli esseri umani distaccarsi da tutti gli affetti e che, comunque, si rischia di pagare un costo molto alto.

Un ultimo aspetto critico riguarda l’appiattimento dell’intervento sulla focalizzazione dell’esperienza soggettiva degli eventi, negandone quasi l’oggettività. Questo riporta alla tradizionale critica agli stoici, così espressa da Cicerone:

Dionisio di Eraclea, dopo aver imparato da Zenone a essere coraggioso, lo disimparò per via del dolore. Soffrendo di reni, gridava tra i gemiti che era falsa la sua precedente opinione sul dolore. E poiché il condiscepolo Cleante gli chiedeva per quale motivo avesse abbandonato la sua opinione, rispose: “Perché era convenuto che se dopo aver dedicato tanto tempo alla filosofia non fossi in grado di sopportare il dolore, sarebbe stato provato che il dolore è un male. Ora io ho dedicato molti anni alla filosofia e non riesco a sopportarlo: dunque il dolore è un male” (da: Esempi di sopportazione del dolore, Tusculanae disputationes II, 58-61)

Come clinici siamo alla continua ricerca di procedure e tecniche che aumentino le nostre capacità di cura; inevitabilmente, come in parte accade anche in medicina, sperimentiamo le procedure nuove che sembrano efficaci anche quando non ci sono del tutto chiari i meccanismi in gioco. Credo, però, che per sfruttare al meglio le “nuove cure”, sia sempre utile capire cosa e come curano e gli eventuali effetti indesiderati, così da farne un uso strategico e specifico ed evitare di elevare ogni nuova procedura o tecnica a “terapia per quasi tutti i mali”.

LEGGI IL COMMENTO DI ANDREA BASSANINI

 

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Mindfulness e tratti associati: un contributo empirico

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Baer A.R. (2012). Come funziona la mindfulness (a cura di). Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Mancini F., Perdighe C., (2012). Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva. Cognitivismo Clinico, 9, 95-115.
  • Yalom I.D. (2005). La cura Schopenhauer. Neri Pozza, Vicenza.

Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction: cosa cambia nel DSM-5

Per quanto riguarda i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction un cambiamento fondamentale è che il DSM-5 non separa le diagnosi di abuso e dipendenza da sostanze: sono state fuse le categorie di abuso e dipendenza da sostanze del vecchio DSM-IV in un unico disturbo da uso di sostanze, misurato su un continuum da lieve a grave, i cui criteri per la diagnosi, quasi identici ai precedenti criteri, sono stati uniti in un unico elenco di 11 sintomi.

In linee generali il DSM-5 ha modificato l’organizzazione dei capitoli al fine di riflettere un approccio basato sull’arco di vita: il manuale inizia con i disturbi maggiormente diagnosticati nelle prime fasi della vita (Disturbi del neurosviluppo) e termina con quelli pertinenti all’età avanzata (Disturbi neurocognitivi).

Una considerevole modifica riguarda l’abbandono del sistema di valutazione multiassiale, al quale eravamo abituati dal DSM-III: questo cambiamento riflette il riconoscimento che un sistema categoriale eccessivamente rigido non coglie l’esperienza clinica o importanti osservazioni scientifiche.

Inoltre, con l’intento di aumentare la specificità diagnostica, la designazione di Disturbo NAS (Non Altrimenti Specificato) è stata sostituita con due opzioni: Disturbo con altra specificazione e Disturbo senza specificazione, per consentire al clinico di specificare o meno le caratteristiche di un disturbo che non corrisponde appieno alla sintomatologia necessaria per entrare nella categoria diagnostica corrispondente.

All’interno del DSM-5 il termine dimensionale viene poi utilizzato con significati diversi da quello originario: c’è l’accorpamento di più disturbi in una categoria più ampia, come è ad esempio avvenuto per il “disturbo da uso di sostanze”. Infine, sono stati introdotti degli specificatori quantitativi di gravità dei sintomi elencati all’interno di alcuni disturbi.

Per quanto riguarda i disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction un cambiamento fondamentale è che il DSM-5 non separa le diagnosi di abuso e dipendenza da sostanze: sono state fuse le categorie di abuso e dipendenza da sostanze del vecchio DSM-IV in un unico disturbo da uso di sostanze, misurato su un continuum da lieve a grave, i cui criteri per la diagnosi, quasi identici ai precedenti criteri, sono stati uniti in un unico elenco di 11 sintomi.

Nel complesso, è stata aumentata la soglia del numero di criteri da soddisfare per porre diagnosi di disturbo da uso di sostanze: la soglia per la diagnosi di disturbo da uso di sostanze viene stabilita a due o più criteri, in contrasto con la soglia di uno o più criteri per una diagnosi di abuso di sostanze e tre o più per una diagnosi di dipendenza stabilita dal DSM-IV. Vengono invece forniti i criteri per il disturbo da uso di sostanze, accompagnati dai criteri intossicazione, astinenza, disturbi correlati a sostanze e disturbi correlati a sostanze senza specificazione, dove applicabili.

All’interno dei disturbi da uso di sostanze, il criterio del DSM IV relativo ai problemi legali ricorrenti collegati a sostanze è stato eliminato dal DSM-5 ed è stato aggiunto un nuovo criterio: craving, o forte desiderio o spinta all’uso di una sostanza.

Inoltre, sono stati inseriti degli indici di gravità: un disturbo da uso di sostanze lieve è suggerito dalla presenza di 2-3 sintomi, moderato da 4-5 sintomi e grave da 6 o più sintomi. Il cambiamento della gravità nel corso del tempo è anche rilevabile dalle riduzioni o dagli aumenti nella frequenza e/o dose di sostanza usata, valutati tramite il resoconto diretto dall’individuo interessato, il resoconto di altri esperti, le osservazioni del clinico e test biologici.

Un’ altra importante differenza rispetto ai manuali diagnostici del passato è che il capitolo sui disturbi correlati a uso di sostanze è stato ampliato per comprendere il disturbo da gioco d’azzardo.

Il Gioco D’Azzardo Patologico (GAP), secondo la definizione del DSM-IV, è un disturbo del controllo degli impulsi, che consiste in un comportamento di gioco persistente, ricorrente e maladattivo che compromette le attività personali, familiari o lavorative. La nuova edizione del DSM-5 ha riclassificato il gioco d’azzardo patologico nell’area delle dipendenze (addictions) per le similarità tra il GAP e le dipendenze da alcol e altre sostanze d’abuso. Per la precisione, in clinica, il disturbo non viene più definito “gioco patologico” ma “disordered gambling” (gioco problematico). Inoltre, anche in questo caso, l’aver commesso atti illegali non è più considerato uno dei criteri per la diagnosi del gioco d’azzardo patologico.

Questo cambiamento riflette la crescente e consistente evidenza che alcuni comportamenti, come il gambling, attivano il sistema di ricompensa del cervello, con effetti simili a quelli delle droghe e che i sintomi del disturbo da gioco d’azzardo assomigliano in una certa misura a quelli dei disturbi da uso di sostanze.

Nel DSM-5 astinenza da cannabis, il disturbo da uso di tabacco e astinenza da caffeina sono nuovi disturbi (quest’ultima era nell’Appendice B del DSM IV, “Criteri e Assi utilizzabili per ulteriori studi”).

 

Astinenza da Cannabis

Il disturbo da astinenza da cannabis è una condizione clinica che si manifesta in seguito a cessazione di uso di cannabis che è stato intenso e prolungato (cioè abituale uso quotidiano o quasi, almeno per un periodo di alcuni mesi) (Criterio A). Tale condizione porta allo sviluppo di 3 o più dei seguenti sintomi che si sviluppano approssimativamente entro 1 settimana dopo il criterio A: irritabilità, rabbia o aggressività; nervosismo o ansia; insonnia; diminuzione dell’appetito o perdita di peso; agitazione; umore depresso; almeno uno dei seguenti sintomi fisici causa malessere significativo: dolori addominali, instabilità/tremori, sudorazione, febbre, brividi o cefalea (Criterio B).

I sintomi del criterio B causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (Criterio C). I sintomi non sono dovuti a un’altra condizione medica generale e non sono meglio giustificati da un altro Disturbo mentale, compresa l’intossicazione o l’astinenza da altra sostanza (Criterio D).

 

Astinenza da tabacco

Il disturbo da uso di tabacco è definito come un pattern che porta a disagio o compromissione clinicamente significativi, come manifestato da almeno due delle seguenti condizioni, che si verificano entro un periodo di 12 mesi: il tabacco è spesso assunto in quantitativi maggiori o per un periodo più lungo di quanto fosse nelle intenzioni; desiderio persistente o sforzi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso di tabacco; una gran parte del tempo è impegnata in attività necessarie a procurarsi o usare tabacco; craving, o forte desiderio, o spinta all’uso di tabacco; uso ricorrente di tabacco che causa un fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa; uso continuato di tabacco nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti di tabacco (per es. discussioni con altri circa l’uso di tabacco); importanti attività sociali, lavorative o ricreative vengono abbandonate o ridotte a causa dell’uso di tabacco; uso ricorrente di tabacco in situazioni nelle quali è fisicamente pericoloso (per es. fumare a letto); uso continuato di tabacco nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dal tabacco; tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti fattori: a- un bisogno di quantità marcatamente aumentata di tabacco per ottenere l’effetto desiderato, b- una marcata diminuzione dell’effetto con l’uso continuato della stessa quantità di tabacco; astinenza, manifestata da ciascuno dei seguenti fattori: a- la caratteristica sindrome da astinenza di tabacco, b- il tabacco (o una sostanza strettamente correlata, come la nicotina) viene assunto per attenuare o evitare sintomi di astinenza (Criterio A).

 

Astinenza da caffeina

Il disturbo da astinenza da caffeina è quella condizione clinica definita da un uso quotidiano prolungato di caffeina (Criterio A) e la cui brusca cessazione o riduzione è seguita, entro 24 ore, da tre (o più) dei seguenti segni o sintomi: cefalea, affaticamento marcato o fiacchezza, umore disforico, umore depresso o irritabilità, difficoltà di concentrazione, sintomi tipo influenza (nausea, vomito o dolori muscolari/rigidità) (Criterio B).

I segni o sintomi del Criterio B causano disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o altre aree importanti (Criterio C). I segni o sintomi non sono associati agli effetti fisiologici di un’altra condizione medica (per es., emicrania, patologia virale) e non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale, compresa intossicazione o astinenza da altra sostanza (Criterio D).

Infine, lo specificatore del DSM IV per il sottotipo fisiologico è stato eliminato nel DSM-5, così come la diagnosi di dipendenza da sostanze molteplici. La remissione precoce da un disturbo da uso di sostanze è definita dal DSM-5 da un minimo di 3 ma meno di 12 mesi senza soddisfare i criteri del disturbo da uso di sostanze (con l’eccezione del craving) e la remissione protratta è definita da un minimo di 12 mesi senza soddisfare i criteri del disturbo da uso di sostanze (con l’eccezione del craving). Infine, i nuovi specificatori aggiuntivi del DSM-5 comprendono “in ambiente controllato” e “in terapia agonista”, a seconda di ciò che la situazione richiede.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Workaholic: Dipendenti dal lavoro si nasce o si diventa?

Marianna Aurora Solomita

Vi siete mai domandati cosa spinge alcuni lavoratori a dedicare molto del proprio tempo libero al lavoro? Maniaci del lavoro si nasce o si diventa a causa delle eccessive richieste dell’ambiente nel quale lavoriamo?

Vi siete mai domandati cosa spinge alcuni lavoratori a dedicare molto del proprio tempo libero al lavoro? Si tratta della crisi economica che ci spinge ad essere più produttivi nel tentativo di evitare il licenziamento o di un nostro impulso incoercibile ad andare sempre oltre le richieste professionali nel tentativo di appagare uno scopo carrieristico? Maniaci del lavoro si nasce o si diventa a causa delle eccessive richieste dell’ambiente nel quale lavoriamo?

 

Dipendenza dal lavoro

La workaholism, detta anche work addiction (letteralmente dipendenza da lavoro), è stata introdotta nel 1971 da Oates, per indicare il bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente, così da rientrare nel novero delle New Addiction, assieme alla Internet Addiction, Shopping Compulsivo ed altre. Essa, tuttavia, si differenzia dalle classiche dipendenze comportamentali, poiché non si riferisce, come per l’uso di sostanze,  al ricorso ad un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione.

L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità. Nonostante si tratti di un tema dibattuto da diversi anni, la workaholism, per la sua stessa correlazione con un’attività quotidiana, quella lavorativa, indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe non essere riconosciuta dalla società, al momento, come un disagio patologico (Oates, 1971). 

Ad esempio, mentre in Italia risulta ancora sconosciuto, in altri paesi come il Giappone, tale fenomeno identificato con il nome di Karōshi (morte per eccesso di lavoro), è largamente diffuso ed è causa di decessi a seguito di infarti cardiaci e ischemici, dovuti alle eccessive ore di lavoro e alle condizioni lavorative stressanti. Si associa a questo fenomeno anche il karo-jisatsu, termine che indica il suicidio al quale ricorrono gli impiegati che soffrono di depressione correlata all’eccesso di lavoro.  (Araki & Iwasaki, 2005; Kanai, 2006).

I sintomi più ricorrenti nella workaholism sono:

  • Tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;
  • Pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);
  • Poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;
  • Impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;
  • Sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);
  • Abuso di sostanze stimolanti come la caffeina. (Castiello d’Antonio, 2010).

Diversi ricercatori, nel corso degli anni,  si sono interessati alla work addiction. Spence e Robbins, nel 1992, coniarono la nozione di triade workaholic, caratterizzata da :

  • impegno nel lavoro
  • motivazione nel lavoro
  • piacere ricavato dal lavoro

Furono identificati, in seguito, tre profili di workaholics, ovvero di soggetti maniaci dal lavoro:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro): coloro che mostravano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti): chi mostrava elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro): coloro che possedevano marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risultarono essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con ambizioni eccessive e obiettivi irrealistici, spesso soggetti ad elevate quote di stress ed ansia associati a sintomi fisici.

Successivamente, Scott assieme ai suoi collaboratori, in una rassegna molto estesa del 1997, ha proposto una definizione di workaholism attualmente valida e condivisa, concettualizzato l’esistenza di tre tipi di comportamento caratteristici della persona dipendente da lavoro:

  • Spendere la maggior parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, generando un malfunzionamento sociale, nelle relazioni interpersonali e familiari e sullo stato di salute;
  • Pensare e focalizzarsi sul lavoro per trovare soluzioni, anche quando non si sta lavorando;
  • Lavorare al di là delle richieste o necessità finanziarie e organizzative.

Per quanto riguarda gli stili di comportamento, i tre pattern identificati sono:

  • compulsivo-dipendente: correlato positivamente ad ansia, stress, problemi fisici e psicologici, e negativamente a performance lavorative e a livelli di soddisfazione lavorativa e/o personale;
  • perfezionista: correlato positivamente ad alti livelli di stress, problemi fisici e psicologici, relazioni interpersonali ostili, bassa soddisfazione lavorativa, scarsa performance e assenteismo dal lavoro;
  • orientato al successo: positivamente correlato a buona salute fisica e psicologica, soddisfazione lavorativa e personale e comportamenti socialmente desiderabili.

Nel 2008, anche Schaufeli e i suoi collaboratori definirono la workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente.

Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta la componente comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva della workaholism ed implica che i  workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Come per le altre dipendenze, anche la workaholism ha un’origine multifattoriale, pertanto, sembrerebbe derivare dalla storia di apprendimento familiare, in cui i figli tenderanno ad assumere gli alti standard dei genitori, eccellendo nelle attività scolastiche ed extrascolastiche. Tali  ritmi, vissuti come naturali, avrebbero come scopo quello di ricevere attenzioni e riconoscimento da parte degli stessi genitori e, talvolta, legittimando un minor investimento nelle relazioni interpersonali ed un atteggiamento di chiusura emotiva.

Si somma all’influenza dell’ambiente familiare, l’innovazione tecnologica che, con l’avvento di internet, smartphones e tablet e indebolendo i confini naturali tra ambito professionale e privato, avrebbe permesso al lavoro di invadere quegli spazi umani precedentemente non intaccati dalla sfera professione. Banalmente, il fatto di essere sempre reperibili tramite cellulare, da un lato rassicura, dall’altro sembrerebbe operare una sorta di invasione e controllo sulle vite private dei lavoratori. L’eccessiva mole di lavoro e la spasmodica ricerca di alti standard professionali,  delineerebbe nel workaholic, ovvero in colui che tende a sviluppare la dipendenza dal lavoro,  una personalità incline al comportamento compulsivo finalizzato ad evitare, nascondere o silenziare stati emotivi sgradevoli come rabbia e tristezza, derivanti da credenze associate ad una bassa autostima, intolleranza all’incertezza o difficoltà nelle relazioni interpersonali.  Vissuti di vergogna o colpa legati al senso di inadeguatezza, saranno pertanto gestiti con comportamenti controllanti, perfezionistici e iperattività (Robinson, 1998).

Ng e colleghi nel 2007, hanno dimostrato come i tratti di personalità associati al bisogno di realizzazione individuale rappresentino una delle principali cause della workaholism.

La motivazione al successo, in particolare, può essere definita come la necessità di realizzare obiettivi complessi ed ambiziosi che richiedono il superamento di ostacoli, di pensare e agire rapidamente, accuratamente ed in maniera autonoma, oltre che competere e superare gli altri ottenendo un riconoscimento immediato e la ricompensa ai propri sforzi. Coerentemente con questi risultati, gli stessi autori hanno dimostrato che gli individui che riferiscono livelli più elevati di auto-efficacia nelle attività lavorative rispetto ad attività non lavorative hanno maggiori probabilità di diventare maniaci del lavoro. La credenza di essere più capaci di gestire compiti di lavoro piuttosto che attività extralavorative può portare i dipendenti a dedicare tutto il tempo a loro disposizione alle attività lavorative con lo scopo di evitare tutte quelle attività nelle quali ritengono di essere  meno abili .

Questi dati, assieme ad altri studi empirici, suggeriscono che svariate caratteristiche di personalità, quali: la motivazione al successo, il perfezionismo, la coscienziosità (Andreassen et al., 2010) e l’auto-efficacia predispongono significativamente alla dipendenza dal lavoro (Mazzetti et al., 2014). Tuttavia, recenti indagini confermano che il clima organizzativo gioca un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della workaholism. A tal proposito, sempre Ng e colleghi nel 2007, hanno proposto un modello teorico che spiega la workaholism come il risultato combinato di tratti disposizionali (ad esempio, bisogni, valori), esperienze socio-culturali (l’apprendimento sociale, culturale enfasi sulla competenza e la concorrenza) e rinforzi comportamentali (ricompense organizzative ed incentivi di sistema), suggerendo che i dipendenti maggiormente esposti alla workaholism sono coloro i quali vivono in un ambiente lavorativo che rinforza sistematicamente alcuni tratti di personalità.

Allo stesso modo, Liang e Chu, nel 2009, hanno sviluppato un modello che individua tre principali antecedenti della workaholism: tratti di personalità, incentivi personali e incentivi organizzativi. Tali approcci teorici assegnano un ruolo cruciale agli ambienti organizzativi che spronano o obbligano i dipendenti a lavorare sodo,  riconoscendo nella combinazione di tratti di personalità e ambiente, gli elementi prodromici nella determinazione della workaholism, nella quale l’organizzazione lavorativa fungerebbe da fattore di innesco (Mazzetti et al., 2014).  

In linea con quanto appena descritto,  la workaholism può svilupparsi quando i dipendenti percepiscono che il lavorare oltre l’orario di lavoro anche a casa, nei fine settimana o durante le vacanze, sia considerata una condizione indispensabile per il successo e l’avanzamento di carriera. La combinazione di questi valori percepiti da parte dei dipendenti  nel loro ambiente di lavoro è descritta, nello studio di Mazzetti, col termine overwork climate, ovvero la percezione di un clima organizzativo in cui è richiesto un maggior sforzo lavorativo per il raggiungimento del successo.

L’overwork climate sembrerebbe favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia. Poichè la letteratura internazionale descrive la workaholism come l’interazione di caratteristiche individuali e fattori ambientali e dal momento che, si sa poco circa l’impatto congiunto di questi due fattori, lo studio di  Mazzetti, Schaufeli e Guglielmi del 2014 ha indagato l’interazione esistente tra l’ overwork climate, l’organizzazione e le caratteristiche individuali  nello sviluppo della workaholism. Lo studio pioneristico, è partito dall’ipotesi secondo la quale, essendo le caratteristiche personali piuttosto stabili nel tempo, esse agirebbero come moderatori che amplificano l’impatto dell’ overwork climate sulla workaholism.

I dati sono stati raccolti su un campione olandese di 333 dipendenti, reclutati da un’agenzia olandese mediante l’invio elettronico di una newsletter. Il clima overwork è stato misurato utilizzando una scala composta da otto item che misurava la percezione degli impiegati rispetto al clima e alle richieste dell’ambiente lavorativo, creata appositamente per lo studio (Mazzetti et al, 2014).  La motivazione al successo è stata misurata utilizzando dieci item presi dalla versione breve della Ray Achievement Motivation Scale (Ray, 1979). Il Perfezionismo è stata valutato costruendo una scala che comprendeva otto item legati al lavoro (ad esempio: Mi sforzo di fare il mio lavoro perfettamente), ed è stato valutato con  5 punti Likert (1 fortemente in disaccordo; 5 fortemente d’accordo ). Questa scala si proponeva di valutare il perfezionismo positivo, così come definito da Frost e collaboratori (1993).

La Coscienziosità è stata valutata utilizzando la scala sulla coscienziosità presa dalla traduzione olandese del Big Five Inventory (Denissen et al., 2008). L’autoefficacia è stata misurata utilizzando una scala costruita sulla base del concetto ideato da Bandura (2012) composta da cinque item: (ad esempio: Al lavoro, io raggiungo il mio obiettivo, anche quando le situazioni sono imprevedibili) valutate su una scala Likert a 5 punti (1 fortemente in disaccordo, 5 molto d’accordo). Ed infine, la Workaholism è stata misurata utilizzando i 10 item della Work Addiction Scale olandese (DUWAS; Schaufeli et al., 2009), che includeva due sottoscale: lavorare compulsivamente (ad esempio, ho la sensazione che ci sia qualcosa dentro di me che mi spinge a lavorare sodo) e lavorare eccessivamente (Ad esempio, mi sembra di andare in fretta e di corsa contro il tempo). Entrambe le sottoscale consistevano di cinque item valutati su una scala a 4 punti di frequenza che va da 1([Quasi] mai) a 4 ([quasi] sempre).

I risultati derivanti dalle analisi statistiche hanno pienamente sostenuto le ipotesi degli autori dimostrando che l’interazione tra overwork climate e le caratteristiche individuali sono legate alla workaholism. Più in particolare, i risultati hanno rivelato un aumento significativo della workaholism quando i dipendenti che possedevano le caratteristiche individuali predisponenti la dipendenza da lavoro, percepivano un overwork climate nei loro luoghi di lavoro. Inoltre, la coscienziosità e l’autoefficacia risultavano correlate alla workaholism, ma solo in presenza dell’interazione con la percezione del overwork climate. Questi risultati contribuiscono alla concettualizzazione sulla workaholism dimostrando empiricamente che un ambiente professionale caratterizzato da un clima organizzativo con delle eccessive richieste può favorire la dipendenza da lavoro, soprattutto per coloro i quali mostrano un elevata motivazione alla realizzazione, al perfezionismo, alla coscienziosità e all’autoefficacia.

Gli autori, individuano una serie di limiti nel loro studio. Il primo tra tutti riguarda proprio le scale utilizzate per la misurazione dei costrutti individuali: molte di esse, infatti, andrebbero convalidate e standardizzate in nuovi studi. In secondo luogo, tutti i dati si sono basati su un disegno trasversale, pertanto sarebbe utile effettuare ulteriori ricerche utilizzando un disegno longitudinale per comprendere meglio le relazioni casuali esistenti tra l’ overwork climate, le caratteristiche individuali e la workaholism. In terzo luogo, i dati sono stati ottenuti interamente da questionari autosomministrabili pertanto, le ricerche future dovrebbero adottare una approccio multimetodo, basato sulla raccolta di questionari autosomministrati, interviste o pareri di colleghi così da ottenere dati più robusti ed eterogenei. Infine, il reclutamento telematico del campione può creare dei bias nella stratificazione del campione quindi, potrebbe essere utile utilizzare più canali per la selezione dei partecipanti, in ricerche future.    

Malgrado alcuni dei limiti individuati, gli autori sostengono l’utilità dei loro risultati per la progettazione di interventi finalizzati ad impedire la promozione e la riacutizzazione della workaholism. Potrebbe essere più utile per le organizzazioni, ad esempio, creare un ambiente che non premi il lavoro correlato ad un comportamento compulsivo, piuttosto sensibilizzare i manager e i dirigenti, quindi le categorie più vulnerabili alla workaholism, a promuovere una serie di modelli comportamentali che favoriscano un equilibrio tra lavoro e vita sana, stimolando un lavoro intelligente ed efficace ma sicuramente meno estenuante.

Potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Ed infine, promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il rapporto tra la memoria evocata dagli odori e la valutazione del prodotto

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

I risultati della ricerca indicano come il profumo di un prodotto che evoca memorie emozionali personali, influenzi gli acquisti dei clienti.

Gli effetti della memoria proustiana- ossia quando le fragranze elicitano i ricordi più emotivi e suggestivi rispetto ad altri aspetti di memoria- è ben consolidata. Le fragranze potenziano una varietà di stati psicologici che possono variare dagli stati d’animo al comportamento motivato.
Quando il profumo di un prodotto fragrante innesca un ricordo nel cliente è più probabile che sia un successo.

I risultati della ricerca indicano come il profumo di un prodotto che evoca memorie emozionali personali, influenzi gli acquisti dei clienti.

I cosiddetti ricordi proustiani di solito si formano durante i primi anni di vita, ma sono meno frequenti rispetto ai ricordi indotti da segnali visivi o verbali, anche se le memorie elicitate dai profumi sono decisamente più emotive ed evocative. Le ricerche di mercato hanno dimostrato che piacevoli profumi congruenti al prodotto rafforzano l’attrattiva del prodotto e che prodotti con un maggior coinvolgimento emotivo e cognitivo sono percepiti in modo più positivo.

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Per lo studio condotto da Rachel Herz of Brown University e colleghi sono stati inviati a 271 donne americane di età compresa tra 22 e 31 anni campioni di 4 creme profumate per il corpo. Prima di iniziare ad utilizzarli, le donne hanno completato un sondaggio online iniziale. Hanno valutato i profumi per piacevolezza, intensità, familiarità e la misura in cui venivano indotti ricordi personali. In un sondaggio successivo hanno valutato quanto abbiano apprezzato le lozioni.

I risultati dimostrano che è la potenza personale dei ricordi proustiani evocati dalla fragranza di un prodotto, più che le qualità edonistiche del profumo in sé, che guida la percezione del prodotto e ha importanti implicazioni per lo sviluppo di prodotti profumati.
Tanto più è potente la memoria che la fragranza attiva, maggiori saranno le probabilità che la lozione venga tenuta in grande considerazione.
I ricercatori affermano che i risultati evidenziano la natura individualistica delle fragranze legate alla memoria proustiana e come l’effetto di un profumo varia da persona a persona.

La conoscenza di una data cultura può aiutare i creatori di un prodotto a prevedere il grado in cui una fragranza specifica può suscitare certe associazioni di profumo.
Per esempio in Nord America e in Europa i profumi arancio-agrumi sono percepiti come felici e calmanti, mentre il gelsomino è associato ad uno stato d’animo positivo e rilassato in Giappone. Avendo informazioni su quando le persone provenienti da diverse regioni abbiano fatto una prima esperienza di vari profumi, questo può aiutare a sviluppare prodotti i cui profumi hanno più probabilità di suscitare dei ricordi ad esso collegati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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