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Empatia – Introduzione Psicologia Nr. 23

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 23)

 

 

L’empatia è la capacità di ‘mettersi nei panni dell’altro’ percependone le emozioni. Consiste, insomma, nel riconoscere le emozioni degli altri e farle proprie, per comprenderne pensieri e sentimenti.

L’empatia è la capacità di ‘mettersi nei panni dell’altro’ percependone le emozioni. Empatia è un termine che deriva dal greco, en-pathos e significa sentire dentro. Consiste, insomma, nel riconoscere le emozioni degli altri e farle proprie, per comprenderne pensieri, sentimenti e pathos.

L’empatia, dunque, è un’importante capacità emotiva che rende possibile entrare in sintonia con la persona con la quale si interagisce. Riuscire a immedesimarsi nella gioia o nel dolore altrui sembra essere una qualità preziosa da coltivare e preservare. Infatti, negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, è stata molto promossa a livello sociale, ma anche politico, artistico, culturale ed economico.

E’ un’abilità sociale focale e costituisce uno degli strumenti alla base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante. L’empatia si manifesta con l’ascolto attivo nei confronti di un’altra persona che si trasforma in empatico quando si esce dai propri schemi e rappresentazioni mentali per sposarsi su quelli dell’altro.

L’empatia permette non solo di capire il punto di vista dell’altro, ma è qualcosa che va ben oltre perché consente di carpire il significato più recondito psico-emotivo di quanto si sta comunicando.

Questo permette di cogliere elementi che non riguardano la semantica del linguaggio, ma si riesce a metacomunicare con l’interlocutore la propria parte più intima, cioè quella emotiva.

L’empatia, dunque, permette di ottenere informazioni utili per individuare l’essenza, le intenzioni, i bisogni impliciti e le motivazioni più profonde di un comportamento passato, presente o futuro, Se non ci fosse questa capacità non sarebbe possibile comprendere la sfumature più importanti della comunicazione, non accessibili alla logica o alla razionalità.

Concludendo, l’ empatia, è uno strumento sofisticato grazie al quale è possibile gestire i rapporti interpersonali esaltandoli e vivendoli più intensamente.

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Svestirsi nell’età dell’ossessione per il corpo

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Domenica 12 Luglio 2015

È il tempo di quel rito che risponde al nome di prova costume. Curioso che l’epoca dell’ossessione per il corpo sia pure quella più sedentaria della storia dell’umanità. Eppure è anche l’epoca più sportiva, più atletica, più palestrata.

Si avvicinano –o per alcuni sono già arrivate finalmente- le vacanze estive, le vacanze marine, in cui ci si sveste, abbastanza felicemente, e ci si espone. Si espone il proprio corpo, più o meno scultoreo, più o meno statuario. A questo esame neopagano alcuni si avvicinano con tranquilla sicurezza, altri con un velo di fastidio, quando non di apprensione. È il tempo di quel rito che risponde al nome di prova costume. Curioso che l’epoca dell’ossessione per il corpo sia pure quella più sedentaria della storia dell’umanità. Eppure è anche l’epoca più sportiva, più atletica, più palestrata. I nuovi dei abitano qui, recita la pubblicità di una palestra brianzola. E negli stessi templi, le palestre, bazzicano i nuovi satiri, obesi, gaudenti e anche un po’ vergognosi di se stessi, desiderosi di perdere peso.

La bellezza ci tormenta, non solo in spiaggia. La bellezza rappresenta anche un buon predittore del successo lavorativo. Non basta. L’impatto che la bellezza fisica ha sulla nostra vita è molto potente. Nemmeno i bambini, nemmeno i neonati sfuggono a questa schiavitù. Un neonato giudicato attraente avrà più attenzioni e sarà considerato maggiormente gestibile dai genitori. Anche a scuola, i bei bambini riusciranno a sviluppare un maggior numero di relazioni, gettando le basi di un successo sociale che li accompagnerà per il resto della loro vita (Costa, Corazza, 2006).

 È l’effetto alone della bellezza, eterno e immutabile. Nell’antichità gli artisti avevano il compito di riprodurre statue di personaggi come imperatori, condottieri, non in maniera fedele, ma idealizzata e con lo scopo di creare corpi non solo attraenti, ma per suggerire anche elevate doti e virtù morali. È cambiato qualcosa nelle copertine dei periodici in edicola? I nuovi imperatori occhieggiano sempre idealizzati, corporalmente e moralmente.

Cicli che si rinnovano nell’arco dei millenni, dei secoli e dei decenni. Gli anni ’80 sono stati il tempo d’inizio dell’ultimo giro di rinnovato edonismo. Dopo la sbornia idealistica degli anni ’70, improvvisamente l’ideale non fu più rinnovare il mondo ma il guardaroba e, con esso, quello che c’era sotto i vestiti. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale entrò nell’immaginario pubblico e ne prese possesso. Il termine narcisismo risuona spesso nella descrizione di questo tipo di mentalità: l’amore per la bellezza, per l’apparenza e per se stessi. I soggetti con personalità narcisistica possono apparire superbi, arroganti e manifestano un senso di superiorità. In realtà questi soggetti celano un sentimento di inadeguatezza, si sentono indifesi, spesso hanno una sensazione di vuoto interiore e hanno il timore che gli altri possano vederli in questo modo. Dunque dietro la scorza brillante e soddisfatta della propria bellezza corporea, la modernità nasconde un fondo di insicurezza? È possibile. Almeno così dice la scienza psicologica.

Come sappiamo bene, i media hanno dato il loro contributo. Negli ultimi decenni hanno creato un’immagine di bellezza standard, soprattutto per le donne, basata su un ideale corporeo perfetto e magro. Agli uomini, invece, piuttosto che un ideale di magrezza è presentato un modello di corpo snello e muscoloso.

A nostra volta, tutti noi accettiamo supinamente questi ideali. L’eccessiva importanza riservata all’immagine corporea è frutto della convinzione –abbastanza fondata- che per essere socialmente accettati bisogna apparire in forma. Le fasce più giovani sono particolarmente vulnerabili a queste immagini mediatiche. Gli adolescenti sono impegnati in un delicato processo di costruzione della propria identità di genere, in cui il corpo gioca un ruolo importante. La percezione del proprio corpo è strettamente legata all’autostima. Sono infatti proprio le ragazze con una bassa autostima ad essere più colpite dal fenomeno (Kelly e coll., 2005).

Molte adolescenti tendono a ritenere l’ideale di magrezza normativo. Ma non è soltanto un problema degli adolescenti. Tutti noi, anche noi adulti, siamo attratti e intimoriti dal mondo delle relazioni sociali e dell’affermazione di sé. Poco capaci come siamo, nonostante l’età adulta, di accettare e gestire la precarietà e la mobilità della competizione pubblica, andiamo alla ricerca di un parametro quantificabile e controllabile e al tempo stesso carico di valore simbolico. Il peso è un numero, un para¬metro quantificabile. Il peso, poi, rimanda all’aspetto corporeo. E non si tratta affatto di un rimando soltanto simbolico.

Il corpo è uno strumento pratico di relazione sociale tra i più incisivi. Con il nostro corpo, con la sua bellezza, ci presentiamo e ci facciamo accogliere e/o respingere, accettare e giudicare dal mondo. Un bell’aspetto è un buon biglietto da visita. Tuttavia, con l’aspetto corporeo si ricade nell’ambiguo, nel giudizio soggettivo qualitativo e non quantificabile. Cosa definisce una bella presenza, un corpo attraente? È una difficile negoziazione continua con l’altro, che può gradirci o meno e che soprattutto assai raramente esprime giudizi privi di margini di ambiguità.

 La sensazione di mancanza di controllo è quindi massima, ed è proprio ciò che temiamo. Di qui la nostra scelta paradossale: il controllo del corpo diventa fine a se stesso, in una corsa autodistruttiva in cui l’obiettivo iniziale, la conquista di uno strumento infallibile per poter essere accettati e piacere agli altri, è presto dimenticato a favore della magrezza, che diventa un valore in sé.

Intendiamoci, mantenere l’autostima a un certo livello è l’obiettivo di ogni essere umano. Si tratta però di un obiettivo non facile, perché la vita pone continuamente davanti a sconfitte e frustrazioni e occasioni che ci fanno dubitare del nostro valore. L’ostacolo si supera a patto di saper relativizzare e contestualizzare gli inevitabili fallimenti. È un’operazione complessa, che riesce probabilmente soltanto se si possiede la capacità di fissare e raggiungere obiettivi personali soddisfacenti e gratificanti che diano senso, significato e scopo alla vita. Alcuni tra noi non hanno questa capacità e finiscono per legare la propria autostima a un parametro meccanicamente controllabile, appunto il controllo del peso e del corpo.

Le preoccupazioni sul peso e la forma del corpo diventano giudizi sul valore personale e di autocontrollo arbitrariamente scelti. Giudizi rozzi, certo, ma facilmente quantificabili. Il problema di noi moderni, e forse anche degli antichi, è proprio l’incapacità di gestire un aspetto così ambiguo e altalenante dell’esistenza come l’amor proprio e l’autostima. È veramente possibile sapere se e quanto valiamo? È veramente possibile nutrire una buona stima di sé, priva di ombre e nonostante gli insuccessi e le delusioni che la scalfiscono? Sì, è possibile, ma non è un’impresa facile.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Gli stereotipi e i pregiudizi rispetto all’omogenitorialità

Marco Palumbo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Come suggeriscono Fruggeri e Chiari (2006), il primo passo è eseguire una riflessione critica su pregiudizi, stereotipi e bias eterosessisti presenti nel senso comune, condivisi sia da etero che da omosessuali, e spesso anche dalla comunità scientifica.

La moderna società è caratterizzata dalla diffusione sempre più presente di diverse forme di famiglia che vanno unendosi alla più  “tradizionale e classica” famiglia nucleare.

Svariate sono ormai le strutture familiari: famiglie ricostituite, famiglie monoparentali, famiglie biculturali… Questo accade anche per il progresso scientifico e sociale che ci ha dato opportunità e opzioni come le madri surrogato, la fecondazione artificiale, l’adozione e l’affidamento familiare.

Oggigiorno il concetto del legame biologico va man mano scomparendo, infatti la struttura familiare è più intesa come una costruzione socioculturale; ciononostante la concezione secolare del matrimonio occidentale dove la sessualità, l’amore, l’unione e la procreazione si sovrappongono rimane salda nella cultura moderna, influenzando l’istituzione e la funzione della procreazione all’interno della struttura familiare.

L’essere genitore e la genitorialità quindi, si mantengono ancora nel concetto di sessualità e di riproduzione, che sono viste come le dimensioni fondamentali che vanno a caratterizzarla. E’ presente infatti, ancora una difficoltà significativa nel rappresentarsi la possibilità di avere figli separata da questi 2 ambiti; ancora di più se questa possibilità viene considerata e concepita in un territorio al di fuori della “normalità”, come può essere uno schema di tipo omosessuale.

La graduale equiparazione degli omosessuali dal punto di vista della giurisprudenziale e socio-culturale è in evoluzione da decenni, ma solo negli ultimi anni hanno avuto luogo delle importanti modifiche legislative che hanno, di fatto, cambiato la musica.

Molti fattori hanno influenzato questo definitivo cambiamento: l’aumento del divorzio, l’aumento delle crisi matrimoniali, le coppie che non decidono più di sposarsi e preferiscono la convivenza, il crescente numero di madri e padri single.

Tutto ciò ha permesso alla società contemporanea di reintepretare il ruolo della coppia e di riconoscere il rapporto anche in condizioni al di fuori del matrimonio, mentre in passato, se non era presente lo scambio degli anelli, non si era, in effetti, una coppia (Zanatta, 1997).

L’Europarlamento il 18 Marzo del 2004 decise di pronunciarsi, riconoscendo gli stessi diritti alle coppie di fatto (etero o omosessuali) e invitando tutti i Paesi europei a mutare le proprie leggi in questa direzione.

Per troppo tempo le leggi europee avevano ignorato il fenomeno delle coppie di fatto (due persone, prescindendo dal loro genere, che convivono stabilmente: ISTAT, 2000) e con questa mossa, l’Europarlamento mise in moto un ingranaggio che fece gradualmente cambiare le cose.

In molti Paesi dell’UE, infatti, è in corso la Registered Partnership, un processo di riconoscimento legislativo, per le coppie di fatto etero e non.

Come già affermato, è questo aumento delle unioni di fatto che ha rimesso in discussione il concetto di famiglia nucleare, eterosessuale, come unica famiglia capace di creare un contesto di dinamiche affettive soddisfacente (Zanatta, 1997).

L’Olanda e il Belgio sono stati i primi stati della UE a istituire e riconoscere nel 2001 il matrimonio tra coppie omosessuali.

In Olanda, le coppie omosessuali possono celebrare un matrimonio civile e avere gli stessi diritti conseguenti a una coppia eterosessuale, e, dopo tre anni di convivenza, adottare anche uno o più figli.

In Italia manca ancora una legge che riconosca le coppie di fatto, e per transizione le coppie omosessuali. Il dibattito pubblico e politico infiamma da anni il Parlamento, e negli ultimi tempi si sono susseguite innumerevoli proposte di legge, normative degli Enti locali, iniziative e proteste popolari e delle associazioni gay.

Analizzare e valutare la relazione esistente tra le leggi e l’opinione pubblica riguardo l’omosessualità può essere utile per comprendere quale sia l’effettivo benessere della popolazione omosessuale.

Anche l’analisi di altri fattori è importante, come l‘età media del coming out, i livelli di omofobia e di omofobia interiorizzata (quell’insieme di sentimenti negativi che gli omosessuali provano nei confronti dell’omosessualità, propria e altrui), la possibilità di una progettualità della coppia.

Il benessere delle persone omosessuali è strettamente legato quindi, alla presenza di leggi che favoriscano la creazione di una famiglia e il soddisfacimento della persona, in relazione anche a una progettualità (Danna, 1997); queste leggi, inoltre, sono la base essenziale per iniziare a parlare di integrazione completa, perché se si integra a livello psico-socio-culturale, ma poi a livello giuridico, legislativo e effettivo le persone non hanno assolutamente gli stessi diritti, si è punto e a capo.

Il sentirsi eguali grazie a diritti e alla presenza di leggi sulle unioni di fatto andrebbe a creare un clima di più aperta percezione sociale dell’omosessualità, aiutando le trasformazioni sociali e favorendo una equiparazione della sessualità, della creazione della coppia e anche, auspicabilmente, di una famiglia (Danna, 1997).

Riguardo l’omogenitorialità la domanda fondamentale da farsi è:

una famiglia che vede come genitori una coppia di omosessuali è in grado di assicurare e garantire al bambino un contesto familiare per uno sviluppo adeguato, sano e sicuro?

Come suggeriscono Fruggeri e Chiari (2006), il primo passo è eseguire una riflessione critica su pregiudizi, stereotipi e bias eterosessisti presenti nel senso comune, condivisi sia da etero che da omosessuali, e spesso anche dalla comunità scientifica.

Lingiardi (2007) elenca le obiezioni più frequenti rispetto alla genitorialità omosessuale:

1) i figli devono avere una mamma e un papà;

2) una coppia omosessuale che desidera un figlio non ha fatto i conti con i limiti che la sua condizione gli impone;

3) le lesbiche e i gay non sono in grado di crescere un figlio;

4) le lesbiche sono meno materne delle altre donne;

5) le relazioni omosessuali sono meno stabili di quelle eterosessuali e quindi non offrono garanzia di continuità familiare;

6) i figli di persone omosessuali hanno più problemi psicologici di quelli di eterosessuali;

7) i figli di persone omosessuali diventano più facilmente omosessuali.

Le tre principali paure, che sono anche i tre principali pregiudizi rispetto all’omogenitorialità, invece sono (Lalli, 2011):

–              la paura che lo sviluppo dell’identità sessuale dei bambini sia danneggiato dall’avere genitori omosessuali, a cui è legato il timore che i bambini cresciuti da genitori omosessuali diventino a loro volta omosessuali.

–              la paura riguardo lo sviluppo della personalità in generale: avere dei genitori omosessuali potrebbe condurre a problemi caratteriali, difficoltà o fragilità psichica.

–              la paura che mette in guardia dalle difficoltà di stringere relazioni e dal peso dello stigma sociale, delle prese in giro, dell’ostilità delle altre persone.

Proviamo quindi a ragionare e a rispondere a questa domanda in modo critico, dati alla mano.

La genitorialità può essere definita come una funzione autonoma e processuale dell’essere umano (Stern, 1995) che esiste indipendentemente dalla capacità di procreare (Fava Vizziello, 2003). La persona che possiede una buona funzione genitoriale sarà capace di provvedere all’altro, garantire protezione, entrare in risonanza affettiva con l’altro, garantire regolazione, limitare e imporre regole (funzione normativa), stimolare il raggiungimento di tappe evolutive dell’altro (funzione predittiva), permettere all’altro la costruzione di schemi rappresentazionali relativi all’essere-con (funzione rappresentativa), fornire un contenuto pensabile e/o sognabile alle percezioni (funzione significante) e alle sensazioni e garantire una funzione transgenerazionale (Visentini, 2007).

L’orientamento sessuale incide pervasivamente su queste suddette caratteristiche?

La funzionalità e positività di un nucleo familiare non si basa sulla sua struttura o sulla sua cosiddetta “normalità”, ma piuttosto sulla qualità delle relazioni tra le persone che lo compongono (McCann et al., 2005).

Essere padre e essere madre sono affermazioni che non hanno un significato e un contenuto riconducibile alla semplice appartenenza al sesso femminile o maschile, mentre è possibile interpretarle (Bottino e Danna, 2005), come funzione materna e funzione paterna.

Ritroveremo una funzione materna in una persona che soddisfa le esigenze affettive e della cura materiale del bambino, mentre una funzione paterna in una persona che fornisce supporto alla persona che ha funzione materna e che si introduce nella diade madre-bambino con autorità, scindendola, imponendo realtà, regole e norme.

Ho fatto riferimento a persona e non a padre e madre appunto perché, ad esempio Pietropolli Charmet (2000) afferma che nella società contemporanea anche nelle famiglie coniugali eterosessuali può succedere che la madre riesca ad assumere con maggiore facilità una funzione paterna e il padre una funzione materna. Nelle famiglie lesbiche succede che alcune madri biologiche preferiscono il ruolo paterno, in altre lo lasciano alla co-madre (Wright 1998).

Importanti studi sullo sviluppo infantile hanno contribuito a sostenere l’ipotesi che la famiglia con coppia omosessuale possa essere un adeguato contesto di sviluppo per un bambino. La capacità di crescere un bambino, con affetto e cure, è sostanzialmente un qualcosa legato al temperamento, all’affettività, al carattere (Schaffer e Emerson, 1964). Riguardo alla formazione del legame di attaccamento nel bambino Schaffer (1977) ha sottolineato che la madre non deve necessariamente essere la madre biologica, ma lo può essere qualsiasi persona, indipendentemente dal sesso di appartenenza, in quanto la capacità di crescere ed amare un bambino è soprattutto una questione di personalità. Bronfenbrenner (1979), sempre facendo riferimento alle teorizzazioni sull’attaccamento, ha sostenuto che il bambino ha bisogno non solo di una persona con cui avere una relazione affettiva, ma anche di un’altra figura che dia supporto, appoggio e risalto alla prima, aggiungendo che è utile, ma non assolutamente necessario, che queste due persone siano di sesso opposto. Infatti Lev (2004) sostiene che spesso il bambino riesce ad accettare e convivere molto bene insieme a genitori con orientamento omosessuale, semplicemente perché non si pone tante domande, problemi o pregiudizi come invece farebbe un adulto.

Per sostenere il pensiero condiviso, ormai da decenni, della comunità scientifica ho scelto di prendere in considerazione una metanalisi di studi pubblicati dal 2003 al 2009 (Scaramozza, 2009).

Ciò che si è potuto osservare e rilevare grazie ai vari studi è che i bambini nelle famiglie con madre lesbica non sembrano differire rispetto ai bambini con genitori eterosessuali riguardo al benessere fisico e mentale, all’adattamento e alle relazioni positive madre-bambino, nello sviluppo di problemi emozionali, comportamentali o relazionali, neanche al raggiungimento dell’età adolescenziale.

I risultati dello studio longitudinale di Gartrell et al. (The National Lesbian Family Study, 2003), evidenziano un alto livello di benessere emotivo nei bambini delle famiglie lesbiche. Non sono emerse neanche evidenze per sostenere l’idea che i figli di madri lesbiche potessero vivere più dispetti, prese in giro o intimidazioni e potessero avere più difficoltà nel relazionarsi coi loro pari (MacCallum e Golombok, 2004).

Riguardo il comportamento tipico di genere non si sono evidenziate differenze significative tra i figli delle famiglie lesbiche e i figli dei genitori eterosessuali; si è osservato come gli adolescenti cresciuti senza una figura maschile di riferimento mostrassero caratteristiche più femminili, anche se nessuno di loro mostrava meno caratteristiche maschili (MacCallum e Golombok, 2004). Infine, si è evidenziato come le madri lesbiche tendessero a stereotipizzare meno le stanze dei loro figli in base al genere, i quali, inoltre, mostrano comportamenti meno tradizionalmente connessi al genere (Sutfin e Fulcher e Bowles e Patterson, 2008).

La famiglia (lesbica, gay o eterosessuale) non risulta associata al comportamento antisociale, per cui si può affermare che la bontà della relazione genitore-figlio nelle coppie omogenitoriali non risulta da meno rispetto alle famiglie di coppia eterosessuale (Vanfraussen, Ponjaert-Kristoffersen e Brewaeys, 2003, Perry, Burston e Stevens, Steele, Golding e Golombok, 2004, Wainright e Patterson, 2006).

In generale si è dimostrato, che riguardo la qualità della genitorialità vissuta e riguardo lo sviluppo sociale ed emotivo, non esistono conseguenze seriamente negative per i bambini e gli adolescenti che crescono in famiglie di madre lesbica senza padre dall’infanzia. (Golombok 1997, MacCallum e Golombok, 2004).

Rispetto al comportamento dei genitori si è osservato che le madri lesbiche (biologiche e sociali) sembrano dedicare più tempo a riflettere sulle ragioni per le quali avere un figlio rispetto ai genitori eterosessuali, (Bos, van Balen, van den Boom, 2003, 2007). In generale, si può affermare che le madri lesbiche che hanno scelto di intraprendere la lunga e costosa strada della creazione di una famiglia fossero più stimolate a diventare genitori e desiderassero fortemente crescere i bambini (Gartrell et al., 1996).

Una differenza evidenziata tra famiglie lesbiche ed eterosessuali è che nelle famiglie eterosessuali le madri hanno una maggiore responsabilità genitoriale mentre nelle famiglie lesbiche si assiste a una divisione più paritaria delle responsabilità quotidiane (Vanfraussen, Ponjaert-Kristoffersen e Brewaeys, 2003, Bos, van Balen and van den Boom, 2007, Gartrell et al. 1999). Si dimostra che entrambi i genitori risultano coinvolti emotivamente e l’assenza di un legame biologico non sembra avere effetti negativi (Gartrell et al., 1999, 2000). Riguardo problematiche psicologiche come ansia e depressione non sono emerse differenze tra famiglie eterosessuali e famiglie lesbiche (Golombok et al. and Golding 2003).

Da diversi studi inoltre emerge che il crescere in coppie omosessuali a volte può essere più funzionale che in coppie eterosessuali, per la maggiore presenza affettiva e di supporto delle co-madri rispetto ai padri, e per lo sviluppo da parte dei figli di maggiori capacità di empatia e accettazione per la diversità (Stacey e Biblarz 2001).

L’eventuale disfunzionalità e presenza di situazioni difficili di alcune famiglie omogenitoriali non è ritenuta significativa e non risulta correlabile alla omogenitorialità.

È chiaro, però, che il benessere psicoemotivo di una persona omosessuale, nello specifico riguardante l’integrazione, il sentirsi “normale” e una progettualità di vita e di famiglia, dipende essenzialmente dalla presenza di norme e legislazioni giuridiche che la tutelino e la facciano sentire integrata e non trasgressiva (della legge)(Danna, 1997).

La teoria e la pratica infatti hanno evidenziato che non esiste nulla di disfunzionale nella omogenitorialità. L’attitudine a essere un “bravo” genitore è una caratteristica della personalità e la suddetta non dipende assolutamente dall’orientamento sessuale.

In una coppia omosessuale saranno meno marcati gli aspetti di sessismo ed i modelli di ruolo (al ristorante paga l’uomo, le faccende di casa toccano alla donna) perché i generi dei partner sono simmetrici, e questo sicuramente non potrà che avere una valenza positiva nello sviluppo del bambino.

Le ricerche condotte fino a ora dimostrano come la maggior parte delle critiche che vengono fatte a genitori omosessuali siano frutto di stereotipi e pregiudizi.

Un aspetto sicuramente interessante e importante da indagare sarebbe quanto il grado d’accettazione dell’omosessualità della famiglia d’origine, degli amici, degli insegnanti e del mondo esterno influisca sul benessere delle famiglie omosessuali e dei loro figli poichè dobbiamo ricordare che data l’appartenenza degli omosessuali a un gruppo stigmatizzato, le condizioni socio-ambientali possono avere un’influenza fondamentale nell’evoluzione dei rapporti di coppia.

La priorità è sensibilizzare gli psicologi, gli operatori sociali e gli insegnanti su questi temi. Sensibilizzare significa mettere in discussione i pensieri stereotipici e prevenire la discriminazione. Lo sviluppo in una società e in una cultura “eteronormativa” ha come effetto che l’eterosessualità sia considerato “il modo giusto di essere”. Per questo motivo quando i ragazzi e le ragazze omosessuali iniziano ad avere consapevolezza del proprio orientamento sessuale, spesso vivono sentimenti contrastanti ostacolando il processo di accettazione. Quindi, la percezione di una società e di un ambiente giudicante e repressivo può portare a elaborare pensieri di bassa autostima, di vergogna, di colpa nei confronti dell’essere omosessuale.

Infine, bisogna sottolineare che la normalità sarà sempre una questione relativa: se riflettiamo, il bambino percepirà come “normale” qualsiasi ambiente dove sarà cresciuto; la cosa veramente importante, quindi, è la qualità della genitorialità, indipendentemente dal fatto che sia biologica, sociale, omosessuale o eterosessuale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La tocofobia: la paura del parto

Quando una specifica ansia, o terrore della morte durante il parto, predomina sull’intera gravidanza ed è così intensa da indurre “evitamento” del parto (tokos) si tratta di uno specifico stato fobico chiamato tocofobia (Margaria e Gollo, 2001).

È noto come la gravidanza, in quanto momento di molteplici cambiamenti, possa essere, nella vita di una donna, un periodo in cui si verifica l’emergere di ansie ed angosce: la donna in gravidanza deve confrontarsi contemporaneamente con le modificazioni corporee in atto e con l’assunzione del ruolo materno, processo che implica responsabilità e timori. Dal punto di vista intrapsichico c’è una forte mobilitazione cognitiva ed emotiva dovuta al riaffiorare delle esperienze infantili e dei conflitti irrisolti che riportano al confronto con i modelli genitoriali.

Quando una specifica ansia, o terrore della morte durante il parto, predomina sull’intera gravidanza ed è così intensa da indurre “evitamento” del parto (tokos) si tratta di uno specifico stato fobico chiamato tocofobia (Margaria e Gollo, 2001).

La tocofobia può essere considerato un disturbo psicologico, che si associa ad ansia e depressione, e che in letteratura può essere distinto in tocofobia primaria e secondaria. La prima si contraddistingue per un terrore intenso per il parto ancor prima del concepimento.

La seconda condizione è rilevabile, nella maggior parte dei casi, a seguito di una precedente esperienza di parto traumatico: le pazienti maggiormente a rischio sono coloro che hanno avuto esperienze di parto negative, soprattutto se ci sono state manovre ostetriche invasive, un travaglio particolarmente prolungato e difficile, oppure ancora un taglio cesareo di emergenza in condizioni drammatiche (ad esempio per distacco di placenta); in altri casi, il parto è stato regolare, ma percepito dalla donna come una violenza al suo corpo, tanto da portare ad un disturbo da stress post-traumatico, con conseguenze di depressione post-partum.

Sjögren (1997) intervista donne che presentano tocofobia, primaria e non: l’ansietà legata al parto appare in relazione con la mancanza di fiducia nello staff ostetrico, con la paura della propria incompetenza, con il dolore e la sensazione di perdita di controllo associati all’evento, con la paura che il bambino muoia e con quella di perdere la vita loro stesse. La relazione riscontrata come più significativa è quella tra le precedenti complicazioni ostetriche e la paura di morire. Goldbeck-Wood (1996) riferisce che alcune donne possono ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza per paura del parto, dopo che hanno vissuto una precedente nascita traumatica.

In base alle conoscenze accumulate è possibile pensare a interventi di prevenzione primaria, con attenzione all’ individuazione dei soggetti a rischio, e di prevenzione secondaria, con intervento precoce sui sintomi.

Gli interventi di prevenzione primaria dovrebbero interessare, durante la gravidanza, gli operatori ostetrici alle visite di controllo e nei corsi preparto, con la raccolta anamnestica di informazioni circa disturbi psicologici precedenti, abusi fisici e sessuali e con messaggi puntuali alla gravida sulle procedure del parto in ospedale: un gap esagerato tra aspettative e reali condizioni del parto è connesso con una percezione molto negativa della situazione da parte delle donne.

Durante l’evento è importante che il personale medico provveda ad assicurare una buona comunicazione, aiutando la donna a mantenere il senso di controllo, offrendole la possibilità di scegliere tra varie procedure e posizioni, considerando sempre le conseguenze fisiche e psichiche degli interventi che pensa di mettere in atto. Dopo la nascita è importante incoraggiare la discussione con gli operatori per chiarire come si è svolto il parto, dare spiegazioni circa il perché sono state fatte certe scelte, enfatizzare ciò che di positivo c’è e minimizzare il rischio di potenziali sintomi da stress postraumatico.

Nel post-partum le spiegazioni da parte di un’ostetrica sono fondamentali per chiarire nella memoria della puerpera l’evento: ciò facilita l’integrazione dell’esperienza nella transizione alla maternità (Ward e Hofberg, 2004) favorendo inoltre la possibilità di stabilire un attaccamento sicuro: è noto come un trauma non risolto della madre possa interferire gravemente sull’attaccamento madre-bambino, predisponendo a sviluppare un attaccamento disfunzionale con rischi psicopatologici per il bambino stesso (Main e Solomon, 1986).

Reynolds (1997) riporta lo studio di alcuni casi da lui affrontati, in cui le donne lamentano uno stress che sembra essere radicato nella propria esperienza di travaglio e parto, tanto da influenzarne negativamente la capacità di allattare al seno, di creare un legame col bambino, di riprendere i rapporti sessuali, con pesanti ripercussioni sull’autostima. Oltretutto esse ricordano la nascita dei loro figli solo con paura, dolore, rabbia o tristezza; alcune invece non ricordano nulla, facendo ipotizzare un’amnesia traumatica per quell’evento.

 

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Disturbo bipolare: effetti della qualità del sonno sull’umore

Vanessa Smiedth

FLASH NEWS

I problemi di sonno sono comuni nelle persone con disturbo bipolare e la scarsa qualità del sonno e questo disturbo sembrano esacerbarsi l’un l’altro. Precedenti ricerche dimostrano che la scarsa qualità del sonno è un sintomo degli episodi depressivi e che essa può innescare la mania.

I disturbi bipolari sono un insieme di quadri clinici accomunati dalla presenza di oscillazioni dell’umore, che vanno dalla mania alla depressione. Gli episodi maniacali rendono le persone iperattive e sovraeccitate, mentre le fasi depressive inducono ad essere apatici e rallentati.

I problemi di sonno sono comuni nelle persone con disturbo bipolare e la scarsa qualità del sonno e questo disturbo sembrano esacerbarsi l’un l’altro. Precedenti ricerche dimostrano che la scarsa qualità del sonno è un sintomo degli episodi depressivi e che essa può innescare la mania.

Erika Saunders, titolare di cattedra al dipartimento di psichiatria presso la Penn State College of Medicine, ha affermato:

I pazienti con disturbo bipolare spesso soffrono di problemi di sonno. Migliorare il loro sonno potrebbe non solo migliorare la loro qualità di vita, ma anche aiutarli a evitare episodi di disturbo dell’umore.

Trovare il miglior trattamento per il sonno in individui affetti da disturbo bipolare significa indagare le differenze di genere, infatti, ha spiegato Saunders.

Le donne e gli uomini dormono in modo diverso. Sappiamo da studi sulla popolazione generale che le donne hanno un diverso tipo di architettura del sonno rispetto agli uomini, e loro sono soggetti a diversi rischi per i disturbi del sonno, in particolare durante gli anni riproduttivi.

Inoltre, le donne e gli uomini vivono anche il disturbo bipolare in modo diverso. Le donne hanno spesso sintomi più persistenti e maggiormente depressivi, così come un certo numero di altre condizioni coesistenti, come ansia, disturbi alimentari ed emicrania. Gli uomini tendono ad avere episodi più brevi e più tempo tra gli episodi.

A causa di questi fattori si è pensato che l’impatto che la qualità del sonno potrebbe avere sull’umore nel disturbo bipolare può essere diverso per gli uomini e le donne.

I ricercatori hanno svolto uno studio utilizzando i dati pubblicati sulla presenza di disturbi del sonno precedentemente al primo episodio di disturbo dell’umore. Hanno valutato l’associazione tra qualità del sonno, misurata con il PSQI (Pittsburgh Sleep Quality Index) e la qualità dell’umore, misurata considerandone la gravità, la frequenza e la variabilità di depressione o di sintomi maniacali.

Per le donne la scarsa qualità del sonno prediceva un aumento della severità e della frequenza della depressione e un aumento della gravità e variabilità della mania. Tra gli uomini la gravità della depressione misurata all’inizio dello studio e un tratto della personalità chiamata nevrosi erano predittori migliori per la qualità dell’umore rispetto alla qualità del sonno.

Una domanda senza risposta è il motivo per cui un sonno povero colpisce le donne con disturbo bipolare più degli uomini. Ciò potrebbe essere causato da un meccanismo biologico. Potrebbe infatti essere che gli ormoni riproduttivi biologicamente influenzino il sonno nelle donne e quindi anche l’umore. Oppure, potrebbe avere più a che fare con il tipo di sonno che caratterizza le donne. Sarebbero necessari ulteriori indagini sulle basi biologiche, secondo quanto afferma Saunders.

Anche prima che la questione venga risolta, Saunders manda un chiaro messagio:

Riteniamo che sia estremamente importante per medici e pazienti riconoscere che la qualità del sonno è un fattore importante che deve essere valutata e trattata nei pazienti con disturbo bipolare, in particolare nelle donne.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

EMDR: Report dal 16° Congresso Europeo – Milano 2015

EMDR 2015 Milano (1)

Report dal 16th EMDR EUROPE CONFERENCE  – Milano 10-12 Luglio 2015

 

Venerdì 10 Luglio 2015 si è aperta a Milano la 16° Conferenza Europea EMDR, che con i suoi oltre 1100 partecipanti è stata la più grande conferenza europea mai realizzata: un evento che ha rappresentato un importantissimo momento di confronto e una grande opportunità di conoscenza sull’utilizzo dell’EMDR con popolazioni e disturbi diversi, accompagnati da clinici e ricercatori provenienti da tutta Europa.

 

Per tre giorni si sono susseguiti workshop e interventi che hanno portato contributi interessanti e innovativi, che hanno fatto riflettere sull’enorme potenzialità di questo metodo di lavoro e hanno aperto nuove prospettive per il futuro. Una full immersion nel mondo del trattamento del trauma ma non solo.

Le applicazioni per l’EMDR sembrano enormi e, grazie all’efficacia oramai dimostrata da innumerevoli studi ed alla rapidità con cui spesso questo tipo di intervento sembra portare a sensibili e stabili miglioramenti, emergono nuovi campi d’azione, non solo all’interno della psicoterapia.

PER SAPERNE DI PIU’: CHE COS’E’ L’EMDR – PSICOPEDIA

 

EMDR Europa: il cambio della guardia

La prima giornata cerimoniale è stata un’occasione per fare il punto della situazione sull’organizzazione, che, come ha evidenziato la presidentessa EMDR Italia Isabel Fernandez, sta crescendo molto rapidamente e conta più di 14.600 membri in 24 Paesi. Dal 1999 ad oggi, infatti, c’è stata una costante crescita delle associazioni nazionali, soprattutto quella italiana che rappresenta la più grande in Europa.

Il Presidente EMDR Europa Udi Oren ha presentato lo stato dell’arte dal punto di vista teorico, le controversie più accese e le aree di indagine più promettenti sul piano clinico, lo stato attuale della ricerca e le future sfide e direzioni di indagine per l’EMDR.

Al termine del suo intervento ha poi passato ufficialmente le consegne al nuovo presidente EMDR Europa: Isabel Fernandez! Da lunedì, infatti, l’associazione ha un nuovo vertice e la conferenza è stata un’occasione per la nomina ufficiale e il riconoscimento del lavoro che la nostra presidentessa ha svolto in questi anni tanto da portare l’associazione italiana all’ottimo livello attuale.

PER SAPERNE DI PIU’: EMDR – INTERVISTA A ISABEL FERNANDEZ

EMDR – Intervista a Isabel Fernandez - State of Mind

Sopravvivere al Trauma: 2 testimonianze

A chiudere questo primo assaggio di conferenza due toccanti testimonianze di sopravvissuti che, grazie al trattamento con l’EMDR, hanno potuto superare le traumatiche esperienze che hanno attraversato.

Luca Leodori, International Business Development per Autostrade per l’Italia, sopravvissuto ad un attacco terroristico all’hotel Taj Mahal Palace di Mumbai nel 2008, e Alessandra Morelli, delegata dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, bersaglio di un attentato a Mogadiscio nel 2014, hanno condiviso le loro esperienze, la paura, le emozioni provate in quei drammatici frangenti, l’emergere dei sintomi post-traumatici e la loro risoluzione grazie all’EMDR, che ha consentito ad entrambi di riprendere in mano le loro vite e tornare al lavoro negli stessi luoghi teatro di quei terribili eventi.

Credo che una frase di Luca Leodori ben sintetizzi ciò che appare importante nel lavoro col trauma e che è reso possibile dall’EMDR:

“Ho imparato che la risposta non era controllare quello che succede nella vita, ma avere sempre il controllo delle mie reazioni, delle mie emozioni, in modo che siano adeguate a tutto quello che accade”.

Il messaggio che emerge da questi interventi è molto forte e ambizioso: il terrorismo si nutre di paura, ma possiamo combattere questa paura, continuare a portare avanti le nostre vite e le nostre battaglie senza farci condizionare né bloccare da essa. E l’EMDR è un potente alleato in questa guerra contro il terrorismo.

Nei prossimi articoli entreremo nel dettaglio dei contributi presentati in questi giorni di intenso lavoro!

 

16th EMDR EUROPE CONFERENCE  – Milano 10-12 Luglio 2015 – PROGRAMMA

Il bambino terribile e la scuola. Proposte educative e pedagogiche (2015) – Recensione

Aucouturier in questo libro prende in considerazione il bambino che si mostra “terribile”, espressione che gli insegnanti usano spontaneamente a proposito di certi bambini della scuola dell’infanzia che resistono agli sforzi per interessarli alla vita della scuola.

Bernard Aucouturier ha contribuito ampiamente a far conoscere la pratica psicomotoria, ha fornito strumenti utili rispetto al modo in cui è possibile accompagnare la crescita di un bambino, così come offrigli aiuto quando si trova in difficoltà.

La pratica psicomotoria Aucouturier (PPA) fa leva su quanto ha a che vedere con la storia profonda del bambino e che appare oggi minacciato: il gioco libero, il piacere del corpo, il contatto con il proprio mondo emotivo. La PPA crea le condizioni per lo sviluppo pieno delle sue facoltà globali.  La psicomotricità istituisce la sua ricerca sulla consapevolezza che un corpo che sente e conosce sperimentandosi all’interno di polarità, di contrasti è la condizione di quell’unica ricerca dell’esperienza di un sé corporeo in grado di dare un senso al mondo e di porre in luce il rapporto fra le sensazioni e le emozioni e il divenire delle rappresentazioni mentali nella vita psichica del bambino.

La PPA mette a punto un dispositivo multi semiotico che tiene conto del linguaggio orale, il movimento della gestualità mimica del volto e posturale del corpo, la prossemica, il grafismo del disegno e della lettura, la musica, e l’organizzazione degli spazi dell’esperienza del bambino.

Aucouturier in questo libro prende in considerazione il bambino che si mostra “terribile”, espressione che gli insegnanti usano spontaneamente a proposito di certi bambini della scuola dell’infanzia che resistono agli sforzi per interessarli alla vita della scuola. L’autore utilizza la parola “terribile” come termine generico che raggruppa tanti bambini difficili da trattare nell’ambito dell’istituzione scolastica e mantiene tale espressione che evita di cadere in una classificazione troppo puntuale dei disturbi del comportamento e dell’apprendimento  in ambito scolastico, che spinge a risposte di aiuto tecnico rischiando di dimenticarsi l’osservazione e la comprensione globale della personalità del bambino in difficoltà, e quindi di non cogliere ciò che è capace di fare e di non tenere conto di ciò che non sa fare.

L’autore individua alcuni comportamenti  specifici nell’ambito scolastico: il disturbatore, l’agitato e l’oppositore, evidenziando come alcuni sintomi, in particolare l’agitazione motoria e l’impulsività, sono individuabili molto prima del settimo anno di età. Il bambino “terribile” si manifesta a partire dalla fine della scuola dell’infanzia e soprattutto dal primo anno della primaria. L’intensità, la durata, la frequenza delle manifestazioni dei disturbi del comportamento giustificano tale definizione.

Altri aspetti del bambino “terribile” sono una mancanza d’integrazione fra la tonicità assiale ipotonica e la tonicità periferica ipertonica; una difficoltà di simbolizzazione, di rappresentazione di sé; una fragilità tonico-emozionale a causa della difficoltà a esprimere le proprie emozioni, che gli generano intense tensioni corporee e un eccesso di movimento; una mancanza di identificazione primaria e una difficoltà a stabilirsi di funzioni cognitive e di organizzazione logica del ragionamento.

Le cause dell’instabilità comportamentale e psichica sono ritenuti dall’autore plurifattoriali e possono necessitare quindi di un trattamento farmacologico (metilfenidato) associato a una psicoterapia individuale o di un gruppo in cui il corpo avrà il suo spazio nell’aiuto al bambino.

Le aspettative della scuola saranno quindi che il bambino “si comporti bene” in classe, cioè che sia capace di padroneggiare l’impulsività motoria, le emozioni e il linguaggio, che sia capace di stare seduto e composto, di controllarsi e di stare attento.

Le proposte preventive che possono essere formulate nell’ambito dell’asilo nido, della scuola dell’infanzia, e della primaria per aiutare il bambino a padroneggiare il suo corpo, le sue emozioni e il suo linguaggio sono facilitare l’azione del bambino lasciandolo agire rafforzando così la sua efficienza, la sua riuscita, la fiducia in se stesso e il piacere di muoversi verso l’autonomia; facilitare l’espressione delle emozioni così da imparare ad identificarle; facilitare l’interazione verbale consapevole contenendo così l’impulsività.

Quando inoltre i genitori offrono affetto, un quadro stabile e una dimensione di autorevolezza,  il bambino vive un sentimento di sicurezza affettiva che gli sarà utile per rafforzare il suo desiderio di crescere e la sua curiosità intellettuale.

La scuola del resto può creare un ambiente rassicurante, un’atmosfera di sicurezza affettiva esplicitando le regole essenziali per il buon funzionamento del lavoro in classe, proponendo delle situazioni di apprendimento stimolanti  partendo dall’esperienza e facilitando il passaggio da un linguaggio a contenuto episodico a un linguaggio a contenuto semantico. Infine l’insegnante affidando delle responsabilità al bambino “difficile” gli consente di sentirsi incluso nel gruppo-classe aprendo nuove prospettive di impegno nella vita scolastica.

Nel contesto scolastico vengono inoltre consigliate la pratica di aiuto psicomotorio fondata sull’attività libera e spontanea del bambino inquadrata da un dispositivo spaziale e temporale e dall’atteggiamento dell’esperto e dalla pratica di aiuto psicopedagogico.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Aucouturier, B, (2015). Il bambino terribile e la scuola. Raffaello Cortina Editore: Milano.

La sindrome del brutto anatroccolo. Perché ci si sente brutti e come recuperare l’autostima

Un meccanismo non molto differente da quello che si attiva in molte persone che, per le motivazioni più varie, hanno imparato a vedersi brutte e come tali si comportano, sminuendo i propri pregi e rinforzando sempre di più l’immagine svalutante che hanno di loro stesse.

Tutti noi conosciamo la fiaba di Andersen in cui il brutto anatroccolo, diverso dagli altri, è fermamente convinto di essere, per l’appunto, brutto, e comprende solo alla fine della storia di non essere un’anatra malriuscita bensì un cigno. Decisamente un notevole cambiamento di prospettiva.

Il brutto anatroccolo ha imparato, sin da piccolo, a considerarsi inadeguato, ed è così convinto della sua visione delle cose che, quando vede riflessa nell’acqua la propria immagine di cigno, sul principio non si riconosce nemmeno.

Un meccanismo non molto differente da quello che si attiva in molte persone che, per le motivazioni più varie, hanno imparato a vedersi brutte e come tali si comportano, sminuendo i propri pregi e rinforzando sempre di più l’immagine svalutante che hanno di loro stesse.

Da dove nasce un simile atteggiamento? Lo psicoterapeuta Luca Saita cerca, prendendo spunto dalla propria esperienza clinica, di fare luce sulle ragioni che conducono le persone ad agire da brutti anatroccoli, nonostante in ognuno di noi ci sia un cigno che vuole emergere.

In altre parole, come mai una persona impara -perché di un processo di apprendimento si tratta- a vedersi brutta? Perché distorcere la propria immagine corporea, facendosi tiranneggiare da una smania di irrealistica perfezione?

L’autore individua tre meccanismi che interferiscono negativamente nella creazione dell’immagine corporea:

  • attacco diretto o indiretto;
  • proiezione;
  • etichettamento.

Nel primo caso la persona subisce un attacco, diretto o non, al proprio corpo (“oggi hai davvero un aspetto orribile!”); nel secondo caso qualcuno, in modo inconsapevole, per liberarsi di proprie caratteristiche fisiche che non accetta, le attribuisce a qualcun altro (la madre che dice alla figlia “Non metterti quel vestito, ti ingrossa”); nell’ultimo caso vengono attribuite alla persona etichette (il “nasone”, il “roscio”, “gambe storte”).

Quando una persona viene costantemente sottoposta ad influenze negative di questo genere non c’è da meravigliarsi che impari a vedersi solo ed unicamente attraverso le lenti distorte della disistima. Non bisogna sottovalutare gli effetti di un tale atteggiamento: l’immagine corporea, il modo in cui ci vediamo e ci presentiamo agli altri ha delle ripercussioni molto profonde a livello di sicurezza di sé; in altre parole, il vedersi “brutti”, il percepirsi inadeguati ha conseguenze che influiscono non solo sul corpo, ma anche sulla mente, sul modo di stare al mondo.

Chiaramente si tratta di un vissuto del tutto personale e soggettivo; esistono, come è possibile osservare nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, persone considerate belle che, però, si vivono come costantemente inadeguate e sono sempre alla ricerca di un qualcosa che manca per sentirsi, finalmente, a proprio agio nel proprio corpo. Al tempo stesso, ci sono persone che, pur avendo dei piccoli difetti, si vogliono bene, vivono il proprio corpo con serenità e trasmettono tale serenità anche all’esterno, in termini di sicurezza di sé.

Per questa ragione diventa importante aiutare la persona che non si accetta e tende ad ingigantire i propri difetti, fino, in alcuni casi, a non riuscire a condurre una vita gratificante, a prendere coscienza delle convinzioni erronee che sono alla base della percezione di sé, in modo da sottoporle ad un vaglio critico, riguadagnando un’immagine positiva.

Per fare ciò l’autore suggerisce alcune strategie, che passano attraverso il contestare le etichette e l’imparare a difendersi dagli attacchi mossi alla propria immagine di sé, anche e soprattutto quando questi attacchi vengono da persone significative.

In ultima analisi, bisogna tenere a mente che  la mente è “come una lente: la visione di sé stessi e del proprio corpo avviene attraverso questa lente che può modificare, deformare, ampliare o distorcere ciò che osserva”.

Dobbiamo quindi imparare a conoscere questa lente e i suoi filtri, perché essa influisce non solo sul modo in cui vediamo il nostro corpo, ma sul modo in cui vediamo noi stessi in generale. A sua volta, il modo in cui vediamo noi stessi è a fondamento del nostro modo di porci rispetto all’ambiente, alla nostra vita.

Per questo dobbiamo neutralizzare le visioni distorte che non ci permettono di volerci bene per come siamo; come scrive l’autore tirando le somme “Date al vostro cigno una chance e non permettete mai a nessuno di convincervi che siete solo un brutto anatroccolo e che niente potrà cambiarvi”.

 

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La disabilità mentale e la progettualità per il futuro

Katia Liverani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI Modena

Autonomia, per le persone disabili, non vuol dire solo acquisire alcune competenze, ma riconoscersi adulti e sentirsi tali. Non significa “fare tutto da soli”, ma integrare le proprie competenze con quelle degli altri e saper chiedere aiuto (Contardi 2009).

Cosa intendiamo quando parliamo di disabilità mentale? L’AAMR (American Association on Mental Retardation) definisce il ritardo mentale come una disabilità caratterizzata da limitazioni significative, sia del funzionamento intellettivo che del comportamento adattivo, che si manifestano nelle abilità adattive concettuali, sociali e pratiche e che insorge prima dei 18 anni di età.

L’ICD-10 ( International Classification of Disease) definisce il ritardo mentale come: una condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie e sociali. Il ritardo può presentarsi con o senza altre patologie psichiche o somatiche.
La disabilità mentale, quindi, è una condizione spesso congenita o che insorge nei primi anni di vita e che compromette molteplici ambiti della persona; i genitori di figli disabili affrontano, di conseguenza, fin dalla tenera età, molte difficoltà per accompagnare la crescita dei loro ragazzi.
La fatica dell’educazione e della cura diventano più pesanti con la crescita e lo sviluppo del figlio (Grasselli 2008).

Gli anni dalla nascita fino all’adolescenza, vengono utilizzati per ottenere un recupero motorio, sensoriale ed intellettivo. Nella prima infanzia, gli obiettivi principali sono quelli di favorire lo sviluppo delle competenze del bambino, il raggiungimento delle autonomie personali e dello sviluppo delle potenzialità, nell’ottica del miglioramento della qualità di vita. Con l’inizio della scolarizzazione l’obiettivo diventa, quando possibile, l’acquisizione degli strumenti di base della letto-scrittura. In ogni momento rimane, comunque, centrale, l’attenzione allo sviluppo dell’autonomia personale, sociale, comunicativa, privilegiandola ad altre acquisizioni fini a se stesse e non funzionali a tale scopo. In età adolescenziale si privilegia l’intervento di terapia occupazionale, in atelier socio-riabilitativi, con lo scopo di incrementare ulteriormente le abilità manuali, le capacità di auto-organizzazione e di problem- solving, l’autostima collegata ai risultati concreti e visibili ottenuti in tali contesti.

In questi anni vengono tenuti rapporti con tutti i soggetti organizzati che a diverso titolo possono far parte del sistema curante: scuola, associazionismo, volontariato, gestori di servizi (privato sociale) per sviluppare alleanze e sinergie (Ruggerini, Dalla Vecchia, Vezzosi, 2008).
Nella vita adulta, in cui, il compito principale diventa l’emancipazione dai mezzi che la famiglia fornisce per il sostentamento, il disabile, invece, spesso continua a svolgere le proprie attività in situazioni protette costringendo la famiglia ad un mantenimento permanente (Sorrentino, 2006)
E’ in questa fase, quando non sembra vi siano prospettive e i genitori iniziano ad invecchiare che riemerge, in modo potente, la preoccupazione per il futuro dei figli disabili (Grasselli, 2008.). Spesso questi genitori utilizzano il termine “Dopo di noi” per esprimere questo timore verso il futuro: “Come faranno a vivere senza di noi? Cosa succederà dopo di noi?”.

La sensazione che immaginiamo debbano provare i genitori nel pensare al momento in cui non potranno più prendersi cura dei figli disabili è il vuoto, l’abisso, il panico, la fuga, la rimozione del pensiero. E’ talmente alta la preoccupazione per il futuro dei figli che i genitori pensano che sarebbe meglio non separarsi mai da loro; non riescono a concepire una loro vita futura, indipendente dalla famiglia, tanto che ci sono genitori che evitano di pensare oltre il quotidiano e che non osano fare progetti, che vedono solo nel miracolo la soluzione ad ogni problema (Grasselli 2008). Tutta l’energia mostrata dai genitori, nei primi anni di vita dei loro figli, sembra improvvisamente congelarsi ed essere dedicata più alla gestione quotidiana che ad una attiva programmazione per il futuro.

Numerosi studi tra cui quelli di McCallion e McCarron (2004) e Walsh (2005) confermano che le persone disabili hanno elevati rischi di decadimento dei livelli sia di salute fisica, sia di funzionalità sensoriale e cognitiva, per cui è fondamentale la necessità di mantenere e sviluppare le abilità nelle persone disabili, per evitare il precoce decadimento.

I giovani disabili, d’altra parte, pongono domande e bisogni che però sono difficili da soddisfare dato l’avanzamento dell’età dei genitori; necessitano di nuove opportunità e soprattutto di un nuovo modo di essere considerati come persone adulte in grado di fare le proprie scelte e di poter vivere in totale e/o parziale autonomia .

Se ascoltati, infatti, i disabili parlano della loro sofferenza nel realizzare che, anche in età adulta, non viene loro permesso di operare scelte, di prendere decisioni, poiché si ritiene non siano in grado di affrontare un’autonomia reale. Parlano del conflitto tra desiderio ed incapacità, della dipendenza protratta come costrizione (oltre che come sostegno e aiuto), della difficoltà a sentirsi trattati come chi non può capire oppure sentirsi pressati da richieste impossibili. Possibili conseguenze a queste esperienze mentali possono esser l’aggressività, la rabbia o la depressione (Sorrentino, 2006).

Il diventare adulto si scontra spesso con la tendenza comune a genitori, operatori e della società, a concepire il disabile come eterno bambino, non investendo nè a livello di immaginario, nè attraverso concrete azioni educative sulla sua emancipazione. Chi ascolta i vissuti dei genitori rispetto all’ adultità dei figli con disabilità trova spesso una più o meno consapevole percezione di “vederli sempre uguali”, di “vivere alla giornata”, di “concentrarsi sui bisogni del presente”, di ansia per il futuro, per ciò che accadrà, nel timore della debolezza e dello smarrimento del figlio, per i dubbi sulla capacità della famiglia e della società di prendersi cura veramente del figlio.

Nonostante gli studi di Llewellyn et al. (1999) abbiano concluso che le famiglie con figli disabili, anche gravi non vogliono una collocazione del figlio in istituto e nonostante le persone con disabilità mentale di età avanzata che sono stati sottoposti continuamente a training di mantenimento delle abilità cognitive mostrino un minore declino in tutte le abilità, le famiglie devono comunque essere accompagnate in questo percorso verso l’acquisizione dell’autonomia.

I genitori, infatti sentono che i loro figli disabili, rispetto ai normodotati, saranno in difficoltà ad emanciparsi da loro, ponendo un’alta carica di ansia nel proiettarsi verso prospettive future. Inoltre Sorrentino (2009) evidenzia, che in presenza di una disabilità, possano esserci disturbi dell’attaccamento. L’attaccamento è quel comportamento che motiva il bambino a cercare la vicinanza fisica dei genitori, o di chi se ne prende principalmente cura, quando egli vive emozioni di paura, di sofferenza fisica e di dolore emotivo. Questo sistema comportamentale, che si attiva fin dalla nascita, è presente per tutta la vita e regola la modalità con la quale, anche da adulti saranno gestite le emozioni di paura, sofferenza e dolore (Bowlby 1969; 1973; 1980). Questo sistema può crescere non equilibrato, in quanto le diagnosi di disabilità pongono spesso pesanti interferenze alle risposte naturali di questo legame, deprimendo la madre e disorientandola di fronte ai segnali fuori norma del figlio. Il figlio, anche a causa dei deficit delle sue dotazioni, può essere angosciato da segnali variabili che rendono difficile cogliere una prevedibilità delle risposte relazionali. Tali disturbi dell’attaccamento correlati ad una diagnosi di deficit o di disabilità peggiorano i risultati riabilitativi e amplificano i disturbi dell’adattamento.

Per affrontare queste difficoltà vi è la necessità di un sostegno alle famiglie: spesso è la presenza di un equipe multiprofessionale che rassicura la famiglia. I gruppi di lavoro più avanzati utilizzano i contributi riabilitativi di più figure professionali (neuropsichiatra, assistente sociale, fisioterapista, ecc.). Anche lo psicologo-psicoterapeuta, che in passato, era spesso relegato solo al ruolo di somministratore di test, può diventare una figura centrale in un’equipe riabilitativa, offrendo consulenza alla famiglia nel suo complesso, esercitando un ruolo terapeutico diretto al paziente e praticando un sostegno alla genitorialità e alla coniugalità. Fondamentale è la partecipazione di entrambi i genitori, a momenti di verifica per renderli consapevoli dell’andamento del lavoro con il loro figlio e attivi collaboratori sul versante educativo. Anche la persona disabile deve essere invitata a partecipare alle riunioni di verifica per renderla consapevole dei programmi che la riguardano. Nel caso la persona disabile fosse gestita in collaborazione con servizi territoriali, è bene che il team comprenda tutti gli operatori implicati nel progetto riabilitativo.

Utili possono risultare anche i gruppi di auto-aiuto, costituiti da alcune coppie di genitori con figli disabili, che con la supervisione di uno psicoterapeuta in incontri a cadenza regolare, favoriscono un vissuto di partecipazione che sconfigge la solitudine e aiuta i presenti a individuare strategie per affrontare gli interrogativi inerenti le autonomie (Sorrentino, 2006)

Ma che cos’è l’autonomia? Autonomia, per le persone disabili, non vuol dire solo acquisire alcune competenze, ma riconoscersi adulti e sentirsi tali. Non significa “fare tutto da soli”, ma integrare le proprie competenze con quelle degli altri e saper chiedere aiuto (Contardi 2009). Questa condizione di adultità richiede una complessa maturazione psicologica e affettiva: la persona diventerà adulta nella misura in cui la sua identità sarà autonoma e stabile; la sua separazione/individuazione dalle persone adulte della sua famiglia di origine potrà dirsi sufficientemente compiuta, quando le sue capacità progettuali elaboreranno sequenze di azioni per realizzarli, quando sarà in grado di gestirsi autonomamente la qualità del suo tempo, quando sarà in grado di accettare/costruire compromessi tra desideri e realtà, quando saprà rivestire ruoli attesi e prescrittivi in vari contesti , quando saprà elaborare un suo individuale e originale percorso affettivo, sessuale e familiare (Pavone, 2009).

Da una ricerca condotta da Henninger e Taylor (2014) si evince che, nonostante la letteratura definisca la condizione adulta come il raggiungimento di alcune competenze quali finire la scuola, trovare un lavoro, sposarsi e avere una famiglia, i genitori con figli disabili, ampliano questo concetto definendo il raggiungimento di una condizione adulta come: la capacità di avere un’occupazione o un ruolo funzionale nella società (inteso sia come essere in grado di trovare un lavoro e avere abilità lavorative ma anche essere impegnato in un lavoro con supporto o svolgere del volontariato; essere in grado di abitare fuori casa senza genitori (sia in modo indipendente che in gruppo appartamento con supporto); creare relazioni con i pari (dando più importanza alle relazioni che alle attività sociali a cui si partecipa); acquisire le abilità richieste per un buon funzionamento giornaliero (tra queste abilità sono comprese la capacità di usare il denaro; il cucinare e pagare le bollette in tempo); continuare ad avere impegni di tipo intellettuale per la crescita personale; vivere in modo indipendente utilizzando i supporti necessari; costruire relazioni positive con la comunità partecipandovi; utilizzare i mezzi pubblici; raggiungere un benessere psicologico; costruire relazioni affettive e creare una famiglia.

Fare un progetto di vita è quindi pensare in questa prospettiva futura. Sempre più famiglie si pongono il problema del preparare e del facilitare il grande distacco tra loro e il figlio e lo fanno realizzando forme di soggiorno temporaneo presso piccole comunità che permettono di allenare i disabili ad una vita senza genitori. Si tratta di esperienze di vita che aiutino il figlio a fare qualche passo significativo di autonomia e nello stesso tempo accompagnino i familiari ad elaborare gradualmente la sua indipendenza e lo sviluppo di competenze adulte (Pavone, 2009).

Per ogni persona con disabilità si dovrebbe prevedere un progetto flessibile, con possibilità di frequenza in comunità, come forma di progressivo adattamento anche per un certo periodo di tempo o per alcuni giorni alla settimana. Qualunque siano le condizioni della persona bisognerebbe sempre stimolare nei limiti del possibile percorsi di autonomia e autodeterminazione che porti a forme anche semplici di regolazione personale sulle condizioni di vita (Pavone, 2009).

Lifshitz e Merrick (2003) hanno documentato una migliore vita sociale ed attività del tempo libero quando la residenza delle persone avviene in servizi di dimensioni limitate, in cui sono stimolate attività sociali e sono previsti interventi su competenze cognitive e iniziative per un’adeguata gestione del tempo libero. All’ interno di tali servizi devono essere promosse attività concrete, funzionali alla vita in autonomia e che permettano di creare relazioni significative tra i partecipanti (Pavone, 2009).

Molti progetti, in Italia, sono basati sull’acquisizione delle abilità sopracitate e sulle esigenze esplicitate dai genitori con figli disabili; tra questi si possono nominare diverse realtà.
Nella città di Roma, i corsi di educazione all’autonomia organizzati dall’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) dal 1989, sono rivolti a ragazzi dai 15 ai 20 anni e utilizzano una metodologia di lavoro basata sull’organizzazione di esperienze concrete in cui mettersi alla prova, con un coinvolgimento attivo dei disabili nelle scelte e nella gestione delle attività evitando però fantasie impossibili (Contardi, 2009). Nella stessa città sono attive almeno tre comunità-alloggio permanenti per l’inserimento totale di 14 persone con Sindrome di Down: Casa Primula, Casa Girasoli, Casa Fiordaliso.

A Roma e a Venezia, dal 1995 è inoltre presente “Casapiù” dove persone con Sindrome di Down trascorrono, in gruppi di tre o quattro partecipanti, dei week-end nel corso dell’anno collaborando il più possibile alla gestione, con lo scopo di prepararsi gradualmente all’uscita dalla famiglia di origine (Vianello, 2006). A Forlì, dal 2013, dall’esperienza e dalla metodologia dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) è attivo il progetto “Why-Not” rivolto a giovani disabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

ADHD e Scuola: semplici interventi in classe potrebbero migliorare le prestazioni dei bambini con tale diagnosi?

FLASH NEWS

Un nuovo studio mostra che mettere in atto degli interventi di tipo non farmacologico all’interno delle classi potrebbe essere efficace nel migliorare i risultati delle prestazioni di bambini con ADHD.

I bambini con diagnosi di Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) sono spesso irrequieti, agiscono senza pensare ed hanno difficoltà a concentrarsi. Tali fattori hanno di solito impatto negativo sull’esito scolastico di questi ragazzi, e creano inoltre problemi di vario genere all’interno delle classi.

Un nuovo studio condotto dall’University of Exeter Medical School mostra che mettere in atto degli interventi di tipo non farmacologico all’interno delle classi potrebbe essere efficace nel migliorare i risultati delle prestazioni di questi bambini.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Health Technology Assessment, è stata guidata dalla Dottoressa Tamsin Ford, dell’University of Exeter, affiancata da collaboratori del Kings College London e dell’Hong Kong Institute for Education.

Il team di Ford ha analizzato 54 studi che testavano l’efficacia di diversi tipi di interventi volti al supporto di bambini con diagnosi di ADHD, come ad esempio consegnare quotidianamente a questi ragazzi degli schemi riassuntivi del lavoro svolto in classe, oppure affiancare loro un tutor che li aiuti a migliorare le proprie capacità organizzative e di studio.

La ricerca ripercorreva gli interventi di questo genere effettuati tra il 1980 e il 2013, con l’intento di analizzare alcune aree ritenute particolarmente importanti, ovvero: l’efficacia e i costi di interventi scolastici mirati; l’influenza di fattori sociali, quali ad esempio la disinformazione riguardo ad una diagnosi di ADHD; l’effetto del coinvolgimento di genitori e professori nel trattamento di tale problematica.

Dalla revisione effettuata da Tamsin Ford e collaboratori emerge innanzitutto la difficoltà di isolare variabili precise, in quanto gli interventi e le strategie di misurazione della loro efficacia sono estremamente vari. Pertanto, in merito a ciò, sarebbe auspicabile effettuare in futuro ricerche che utilizzino perlopiù misure standardizzate.

Dallo studio emerge inoltre che credenze scorrette da parte di genitori e professori tendono a creare stereotipi e stigma sociali negativi legati al problema dell’ADHD, con il rischio di andare incontro alla cosiddetta profezia che si autoavvera e producendo tensioni inopportune nei ragazzi e all’interno delle classi.

Sarebbe opportuno allora creare canali di informazione e comunicazione tra i professori e i genitori, provvedendo alla messa in atto di interventi educativi e di sensibilizzazione in merito al tema di una diagnosi di ADHD.

Conclude la Dottoressa Ford:

Ci sono molti studi che dimostrano l’efficacia di un intervento farmacologico, ma non tutti i bambini lo possono tollerare, oppure spesso i ragazzi stessi o le loro famiglie non vogliono percorrere questa strada. E’ allora importante dimostrare l’efficacia di altri tipi di trattamento, come abbiamo cercato di fare con il nostro studio. Tuttavia, è necessario effettuare ulteriori studi, che utilizzino possibilmente misure standardizzate e strumenti di ricerca più precisi, in modo tale da arrivare ad avere una definizione chiara di quali interventi siano efficaci nel trattamento dell’ADHD e quali no.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Presentazione di Ruth Lanius, Ph.D, professoressa di Psichiatria presso la University of Western Ontario

Ruth Lanius è professoressa di psichiatria e dirige l’unità di ricerca sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presso la University of Western Ontario. E’ inoltre titolare della Cattedra Harris-Woodman di Medicina Mente-Corpo presso la Schulich School of Medicine & Dentistry della University of Western Ontario.

La Lanius si occupa da molti anni dei disturbi correlati al trauma, di cui è certamente una delle maggiori esperte mondiali e ha fondato il Servizio per lo Stress Traumatico e il Programma per lo Stress Traumatico nei Luoghi di Lavoro, servizi che si dedicano alla ricerca e al trattamento dei PTSD e dei disturbi che si riscontrano in comorbilità con esso.

Attualmente si dedica allo studio della neurobiologia dei PTSD ed alla ricerca sugli esiti del trattamento attraverso l’esame di metodi farmacologici e psicoterapeutici diversi.

I progetti di cui si occupa al momento sono diversi:

  • Attaccamento Madre-Bambino, in cui viene studiato il funzionamento neurale e delle relazioni di attaccamento in donne primipare con disturbi correlati allo stress;
  • Percezione del Dolore, in cui si indagano i correlati neurali dell’alterazione della percezione del dolore nel PTSD e nel Disturbo Borderline di Personalità;
  • Consapevolezza di Sé e Riconoscimento di Sé, volto a illustrare attraverso l’indagine di variazioni dell’attività neurale, il dato spesso riportato nell’attività clinica con pazienti con PTSD e/o Disturbo Borderline di Personalità di un instabile senso di sé;
  • Cognizione Sociale, in cui si analizza il modo in cui persone con PTSD affrontano situazioni sociali, interazioni e giudizi sociali;
  • Stress, Trauma e Ricovero: Uno Studio Precoce, che si prefigge l’obiettivo di individuare i segnali precoci di PTSD in individui a rischio, per ampliare l’attuale modello eziologico del disturbo.

Ruth Lanius è autrice di oltre 100 saggi e capitoli di libri pubblicati nel campo dello stress traumatico e tiene spesso conferenze sul PTSD in patria e all’estero.

Terrà anche un workshop il 16 e 17 ottobre 2015 a Milano, in cui affronterà le tematiche esplorate nel suo libro “Healing the traumatized self: consciousness, neuroscience, treatment”, recentemente pubblicato con Paul Frewen. Il workshop è organizzato dal CentroMoses di Milano in collaborazione con Btl Workshop. 

E’ coautrice, insieme a Eric Vermetten e Clare Pain, del libro “L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia – L’epidemia nascosta”, una importantissima rassegna aggiornata e completa delle recenti conoscenze su questo tema.

 

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Emozioni e sindrome di Asperger. Educazione affettiva per bambini e ragazzi con sindrome di Asperger (2014) – Recensione

Scritto dal prof. Tony Attwood e dalla dott.ssa Michelle Garnett, due psicologi clinici con una grande conoscenza dell’autismo, il programma fa della chiarezza e semplicità i suoi punti forza. Una solida base di strategie tipiche della Terapia Cognitivo Comportamentale, si arricchisce di accorgimenti e strumenti specificamente progettati per la popolazione autistica.

Insegnare ad un autistico che un abbraccio potrebbe essere il comportamento più adatto nei confronti di un amico che soffre è tanto importante quanto far comprendere ad una madre che il figlio autistico potrebbe non gradire i suoi baci non perchè non le voglia bene ma perchè tollera con fatica la sensazione spiacevole di sentirsi inumidire le guance.

Se si parte dal presupposto che l’affetto non coincide con l’espressione dello stesso, regolata da convenzioni sociali a servizio della popolazione neurotipica, questo libro è un’importante risorsa per migliorare la capacità di esprimere affetto in maniera adeguata alla diverse relazioni e situazioni, nella convinzione che ciò possa incidere positivamente sulla qualità delle amicizie e delle relazioni, varibile significativa nella qualità di vita di ciascuno di noi, autistico o neurotipico.

Scritto dal prof. Tony Attwood e dalla dott.ssa Michelle Garnett, due psicologi clinici con una grande conoscenza dell’autismo, il programma fa della chiarezza e semplicità i suoi punti forza. Una solida base di strategie tipiche della Terapia Cognitivo Comportamentale, si arricchisce di accorgimenti e strumenti specificamente progettati per la popolazione autistica. Il massiccio impiego di elementi visivi, attività di role playing ed esercizi pratici in situazioni di vita reale, riduce lo spazio dedicato alla conversazione, per assecondare uno stile di pensiero e di apprendimento che predilige il canale visivo ed esperienziale a quello della comunicazione verbale.

Ampio spazio è riservato anche all’utilizzo di strategie utili a migliorare le abilità di lettura della mente tipica (TOM), quali le Social Stories e le Comic Strip Conversations, sviluppate da Carol Gray ed ampiamente diffuse in qualsiasi intervento volto a migliorare le competenze emotive e sociali nella popolazione autistica.

Dopo un’iniziale valutazione delle abilità oggetto del trattamento attraverso i questionari per i genitori e le storie in appendice,  il percorso si articola in cinque sessioni, ognuna delle quali è dedicata ad una specifica abilità:

  1. Analizzare i sentimenti di affetto
  2. Riconoscere ed esprimere l’affetto
  3. Fare e ricevere complimenti
  4. Comprendere le ragioni per le quali esprimiamo apprezzamento o amore con parole e gesti di affetto
  5. Sviluppare la capacità di esprimere affetto

Ogni sessione si apre con un riassunto della precedente e si chiude con un’attività da svolgere a casa, al fine di applicare le strategie imparate in ambito terapeutico  in situazioni  di vita reale. Per tale ragione è fortemente raccomandato il coinvolgimento della scuola, contesto privilegiato in cui sperimentarsi nell’esprimere e ricambiare l’affetto tra pari.

Il conduttore del programma deve essere un professionista con una profonda conoscenza delle caratteristiche della popolazione autistica, solo così potrà essere in grado di individualizzare nel migliore dei modi le proposte del percorso. Nel caso in cui esso venga rivolto ad un gruppo di bambini o ragazzi, si raccomanda di tenere in forte considerazione le caratteristiche dei singoli così da formare un gruppo coeso e capace di collaborazione. In questo caso il rapporto tra conduttore e partecipanti varia tra uno a due e uno a quattro, a seconda del grado di esperienza del clinico.

L’approccio generale deve essere sempre quello di dare enfasi al successo e alla scoperta, bandendo completamente l’utilizzo esplicito ma anche implicito del giudizio “giusto/sbagliato” perchè, come ci ricorda la famosa autistica Temple Grandin, provare amore non nello stesso modo in cui lo prova la maggior parte dei neurotipici non vuol dire essere capaci di un amore meno prezioso di quello degli altri.

Questo è l’aspetto più importante da tenere a mente per fare sì che questo prezioso programma sia davvero al servizio della popolazione autistica e non di quella neurotipica che spesso cade nell’errore di credere che uniformarsi ai propri parametri sia l’unica via per l’integrazione di chi è diverso.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Linking technology and psychology: feeding the mind, energy for life – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia

 

Si è svolto a Milano nei giorni 7-10 luglio 2015 il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP) dal titolo “Linking technology and psychology: feeding the mind, energy for life”, organizzato dall’ Italian Network of Psychologists’ Associations (INPA) con il patrocinio di EFPA, European Federation of Psychologists’Associations.

Questa edizione ha accolto sia le nuove ricerche sia le best practice di tutti i campi della psicologia con l’intento di estendere il contributo dell’indagine psicologica e delle sue applicazioni pratiche alla società nel suo complesso, oltre che ai tradizionali destinatari dei servizi psicologici.

Questo XIV Congresso e’ stato caratterizzato dalla presenza di psicologi provenienti da ogni parte del mondo e da un programma che ha coperto svariate aree della psicologia contemporanea con particolare attenzione al ruolo della psicologia all’interno della società. Infatti durante il congresso sono stati proposti molti contributi che mostrano come la psicologia aiuti a comprendere, prevenire e risolvere svariati problemi. In questa edizione e’ stata posta anche attenzione alla relazione tra la  psicologia, il cibo e la nutrizione come espressione del sostegno del Congresso a EXPO 2015 dedicato al tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”.

Scopo ultimo del Congresso è stato quello di promuovere lo scambio di idee ed esperienze tra studiosi e ricercatori, di avviare collaborazioni e azioni destinate all’implementazione di migliori politiche in materia di salute, istruzione, lavoro e benessere individuale nei diversi campi di applicazione e per tutto il corso della vita.

Le aree principali trattate nel corso del XIV Congresso Europeo di Psicologia sono state: problemi generali e processi di base, sviluppo ed educazione, cultura e società, lavoro e organizzazione, salute ed interventi clinici e tematiche relative all’Expo 2015.

Il congresso è stato aperto il giorno 7 luglio dal workshop pre-congressuale dal titolo “Trauma and mental health: Advances in EMDR therapy”, condotto dalla Prof.ssa Isabel Fernandez. Durante il workshop sono stati presentati i risultati della ricerche sui cambiamenti a seguito del trattamento EMDR. Gli obiettivi del workshop erano quelli di fornire informazioni sulle ultime ricerche sul trauma e il suo impatto sulla salute mentale e fisica, revisionare la classificazione DSM-5 dei disturbi legati allo stress e al trauma, fare una panoramica sui trattamenti evidence based per il trauma e, infine, comprendere il trattamento EMDR per il trauma, la ricerca nell’ambito e le implicazioni cliniche.

A partire dal giorno 8 luglio, invece, si sono tenuti una serie di simposi all’interno dei quali sono stati presentati diversi contributi.

Tra questi, il primo giorno, particolare rilevanza é stata data al tema del bullismo e cyberbullismo con la presentazione di una panoramica sulle principali teorie e gli interventi evidence based più utilizzati in Europa.

Inoltre é stata posta particolare enfasi al concetto di stress, il quale è stato analizzato sia da un punto di vista psicobiologico, sia da un punto di vista pratico in particolare nell’assessment e management dello stress lavoro correlato.

Durante la sessione pomeridiana si è tenuto un simposio sulla salute sessuale e il wellbeing, in cui è stato discusso il ruolo della sessuologia in Italia e in Europa e i rapporti tra organizzazione della personalità, disfunzioni sessuali e la qualità della vita sessuale.

La prima giornata é stata connotata anche da una forte impronta sull’uso delle nuove tecnologie in ambito psicologico. Partendo da una sessione dedicata ad internet e social media, sono stati poi affrontati i temi delle dinamiche sociali ed educative nello spazio virtuale e con l’ausilio delle nuove tecnologie, e del rapporto tra psicoterapia e tecnologia soffermandosi anche sulla possibilità di usufruire del cyberspazio nella carriera professionale degli psicologi e psicoterapeuti.

La seconda giornata del congresso é stata dedicata ad una serie di sessioni sulle tematiche della disgregolazione delle emozioni e il suo trattamento, il well-being e le strategie di coping, lo stato dell’arte nella terapia cognitiva, una prospettiva qualitativa nel supporto alle persone con ansia associata a PTSD e timidezza, l’esporazione del comportamento di autolesionismo da varie prospettive come quella clinica, interpersonale, cognitiva e biologica, un’ampia dissertazione sul trauma in termini di avversità infantili e psicopatologia dello sviluppo come anche della terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma. Uno sguardo è stato dato anche alle nuove frontiere nei trattamenti come la medicina integrativa, la mindfulness, l’ipnosi e l’EMDR.

Quest’ultimo tipo di intervento é stato particolarmente approfondito nella giornata del 10 luglio. Infatti è stato condotto un simposio sulla terapia EMDR focalizzato sull’uso di tale tecnica in pazienti esposti a trauma o con PTSD che presentano una diagnosi di disturbo borderline di personalità. Inoltre é stato dedicato un simposio all’uso dell’EMDR nei disturbi alimentari discutendo le modalità di applicazione e i principali risultati ottenuti in Italia e Spagna.

Sempre il giorno 10, è stata dedicata una sessione all’emotional eating e alle modalità di prevenzione e intervento nei Disturbi Alimentari.

Le sessioni pomeridiane dell’ultimo giorno del XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP) sono state caratterizzate da interventi sui metodi di ricerca in psicologia, sul ruolo dello psicologo nello sport, sulla psicologia giuridica e psiconcologia.

Un simposio particolarmente interessante che ha chiuso l’ultima giornata del congresso, è stato dedicato alle emozioni e ai disturbi emotivi nel quale sono stati proposti alcuni studi con le relative implicazioni terapeutiche da parte di ricercatori italiani e stranieri. I principali temi trattati sono stati quelli delle credenze cognitive e i processi coinvolti nella timidezza, l’uso della mindfulness in adolescenza per affrontare più efficacemente le situazioni di stress, la presentazione del modello italiano “Life themes and plans Implication of biased Beliefs” Libet e di un programma attuato a Brooklyn per insegnare le competenze emozionali e incoraggiare ad avvicinarsi alle divesità socio-culturali.

Ogni giornata del congresso è stata accompagnata dall’esposizione di poster ad opera di ricercatori di ogni parte del mondo afferenti alle diverse aree tematiche a cui il XIV Congresso Europeo di Psicologia si dedicava. Inoltre erano presenti stand delle principali associazioni di psicologia italiane e straniere.

Durante il congresso si é potuta respirare un’aria di rinnovamento e un desiderio di scambio e cooperazione tra i ricercatori presenti. Particolare degno di nota di questo XIV Congresso Europeo di Psicologia é stata la forte presenza di giovani ricercatori che hanno avuto la possibilità di presentare i loro lavori e di confrontarsi con ricercatori più esperti.

La prossima edizione del Congresso Europeo di Psicologia si svolgerà dall’11 al 14 luglio 2017 ad Amsterdam.

 

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Gli scienziati potranno leggere nella nostra mente?

Secondo quanto emerso da un nuovo studio, gli scienziati potrebbero essere ora in grado di leggere la nostra mente.

Ma, onde evitare l’insorgenza di tendenze deliranti in qualche lettore o l’apparire di qualcuno che grida all’ennesimo complotto, spieghiamo meglio quanto studiato in questa interessante ricerca.

I ricercatori della Carnegie Mellon University in Pennsylvania, hanno sottoposto dapprima i loro soggetti a un compito di apprendimento: hanno fornito loro delle informazioni sulle abitudini e sulla dieta di otto diversi animali e hanno osservato, tramite tecniche di neuroimmagine, cosa succedeva nel loro cervello nell’immagazinamento delle nuove informazioni.

E’ stato così osservato come ogni persona acquisisca una specifica firma di attivazione cerebrale per i diversi animali: specifiche regioni del cervello vengono attivate per specifici habitat, così come particolari aree cerebrali vengono attivate per le diverse diete degli animali.

Dato che le informazioni apprese per ogni animale sono associate all’attivazione di specifiche aree cerebrali, i ricercatori sono stati in grado di utilizzare le immagini di fMRI per scoprire qual era l’animale pensato dal soggetto in un determinato momento, osservando le aree cerebrali attivate nel recupero delle informazioni.

Chissà se un giorno si potrà davvero leggere la mente altrui attraverso delle scansioni cerebrali, per adesso siamo ben lontani da scenari ai limiti della fantascienza.

Sarebbe meglio concentrarsi sugli effettivi risvolti positivi che questo studio porta con sè: come sostengono i principali ricercatori Bauer e Just, i loro risultati potrebbero essere in grado di contribuire a sviluppare modi più efficaci per l’insegnamento di materie complicate scuola e far luce su come invertire la perdita di conoscenza che accompagna i disturbi come l’Alzheimer e la demenza.

Scientists are now able to read people’s minds using MRI images of the brain that show specific patterns of neural activity.
In an experiment conducted by Carnegie Mellon University in Pennsylvania U.S., researchers deduced what people were thinking about by observing brain activity following a simple learning task.

Gli scienziati potranno leggere nella nostra mente?Consigliato dalla Redazione

Gli scienziati possono leggere nella nostra mente? - Immagine: 73243812
Gli scienziati, attraverso le tecniche di neuroimaging, sono ora in grado di indovinare cosa pensiamo. E’ il risultato di uno studio della Carnegie Mellon University in Pennsylvania. (…)

 

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Funzionamento cognitivo ed emotivo di giovani tossicodipendenti

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Funzionamento cognitivo ed emotivo di giovani tossicodipendenti

Cognitive and emotional functioning in young-addicts

Autori: Marianna Sacco (1), Parolin Micol (1), Alessandra Simonelli (1), Patrizia Cristofalo (2), Daniela Mapelli (3).

(1) Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione, Università di Padova

(2) Comunità Terapeutica “Villa Renata”, Venezia Lido

(3) Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Abstract:

Contesto: l’adolescenza è un periodo evolutivo di vulnerabilità rispetto alla sperimentazione di sostanze stupefacenti, ma l’uso precoce di droghe comporta effetti negativi sul funzionamento cognitivo. Inoltre, l’abuso di sostanze, in età adulta ed in giovane età, è caratterizzato anche da disregolazione emotiva nei termini di elevati livelli di sensation seeking e alessitimia e scarsa intelligenza emotiva. Il controllo cognitivo e le capacità di regolazione emotiva sono associate e localizzate nelle medesime aree cerebrali frontali, le quali sono le aree maggiormente colpite nella tossicodipendenza.

Obiettivo: La presente ricerca si propone di studiare la performance neuropsicologica e il funzionamento emotivo di giovani tossicodipendenti, indagando le possibili interrelazioni tra questi due domini.

Metodo: una batteria di test neuropsicologici (ENB-2), strumenti self-report per valutare l’alessitimia (TAS-20), la ricerca di sensazioni (SSS-VI) e l’intelligenza emotiva (EQ-i) sono stati somministrati a 24 giovani tossicodipendenti. E’ stato somministrato anche un test etero-valutativo per la valutazione dell’alessitimia (OAS).

Risultati: il 67% del campione riporta concomitante compromissione del funzionamento cognitivo e della regolazione emotiva, in almeno due domini emotivi indagati.

Conclusione: i risultati ottenuti dal presente studio suggeriscono che l’uso di sostanze in giovane età possa compromettere le capacità cognitive di controllo e di regolazione delle emozioni, le quali risultano essere correlate fra loro.

Background: Adolescence is a vulnerable age for experimenting with drugs but early substance abuse have severe detrimental effects on cognitive functioning. In addition, substance abuse in adulthood and at a young age, it is also characterized by emotional dysregulation in terms of high levels of sensation seeking and low alexithymia and emotional intelligence. Cognitive control and emotion regulation abilities are directly associated and are largely implemented by the same frontal cortex areas, which are the main target of drug abuse. Objective: The present research aims to study the neuropsychological performance and the emotional functioning in young drug addicts, investigating possible interrelations between these two domains.

Methods: a battery of neuropsychological tests (ENB-2), self-report tools to assess alexithymia (TAS-20), sensation seeking (SSS-VI) and emotional intelligence (EQ-i) were administered to 24 young drug-addicts. An observer scale to evaluate alexithymia (OAS) was also used.Results:67% of the sample reported concomitant impairment of cognitive functioning and emotional regulation in at least two emotional domains investigated. Conclusion: The results obtained from this study suggest that the use of substances at a young age can affect the cognitive control and emotional regulation, which appear to be related to each other.

Parole chiave:tossicodipendenza, adolescenza, modificazione neurale, funzionamento cognitivo, regolazione emotiva.

  1. Introduzione:

La caratteristica principale del disturbo da uso di sostanze è la presenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici derivanti dall’assunzione persistente e continua di sostanza, nonostante il soggetto esperisca significativi problemi fisici, psicologici e sociali correlati all’assunzione stessa. L’origine dei sintomi risiede nelle alterazioni cerebrali indotte dalla sostanza, che possono persistere oltre la disintossicazione e manifestarsi attraverso comportamenti di ripetizione, reiterazione e desiderio patologico (craving) (APA, 2013).

1.1 Epidemiologia

Secondo il “Word Drug Report” del 2013, condotto dall’UNODC (United Nation Office on Drugs and Crime, 2013), la prevalenza mondiale del disturbo da uso di sostanze equivale al 3,6%-6,9% della popolazione adulta (circa 300 milioni di persone). In Europa (EMCDDA, 2013), almeno ottantacinque milioni di europei (circa un quarto della popolazione adulta europea) hanno consumato sostanze illecite nel corso della vita, di cui il 90% cannabis, il 17% cocaina, il 15% anfetamine e il 13% ecstasy. In Italia nel 2013 sono stati stimati circa 438.500 soggetti tossicodipendenti, di cui 277.748 non risultano essere in trattamento presso i servizi di assistenza (Survey GPS, 2012). L’età media dei nuovi utenti è di circa 34 anni con un arrivo sempre più precoce rispetto agli anni precedenti, infatti è stata rilevata una maggior presenza di persone minorenni e soprattutto nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni. La sostanza maggiormente assunta è la cannabis (4.01%) seguita poi dalla cocaina (0.6%), dagli allucinogeni (0.19%), dagli stimolanti, compresi ecstasy e anfetamine (0.13%) e dall’eroina (0.12%). Inoltre, circa il 64,1% della popolazione tossicodipendente assume 2 o più sostanze contemporaneamente e la combinazione di poli-abuso più frequente è composta da alcol, cannabis e tabacco. Le indagini svolte nel 2013 (Survery SPS, 2013) sulla popolazione italiana scolastica, studenti di età compresa fra i 15 e i 19 anni, confermano le tendenze riscontrate nella popolazione adulta: circa il 15% del campione, composto da 38150 studenti, fa uso di sostanze stupefacenti, di cui 17.7% cannabis, 0.09% cocaina, 0.01% eroina, 0.13% allucinogeni, 0.05% stimolanti, 0.51% altre sostanze come tabacco, alcol e inalanti e circa il 4% fa uso di due o più sostanze.

1.2 Vulnerabilità in adolescenza

I soggetti con scarse capacità di autocontrollo possono mostrare una maggiore vulnerabilità per un disturbo da uso di sostanze (APA, 2013), tale fenomeno si verifica soprattutto in adolescenza.

Lo sviluppo cerebrale che si manifesta in questo periodo evolutivo, specialmente nelle regioni prefrontali, è alla base dell’immaturità cognitiva rilevata negli adolescenti (Dahl, 2004). Il modello teorico del “sistema duale” (Somerville et al, 2010) mette in evidenza una sostanziale asincronia di sviluppo fra il sistema socioemozionale, localizzato nelle aree limbiche e para-limbiche, e il sistema del controllo cognitivo, riferito alla corteccia prefrontale; il primo, già sviluppato, è caratterizzato da un’intensa attività alla quale l’immaturo sistema cognitivo non riesce a far fronte (Casey et al., 2010). Questo squilibrio cognitivo comportamentale predispone il soggetto a sopravvalutare le ricompense e a sottovalutare i rischi associati all’attuazione di un comportamento, tale da esporre l’adolescente ad un’elevata vulnerabilità allo stress e all’uso di sostanze, dove la sostanza stessa può diventare una ricompensa attraente agli occhi dell’adolescente (Geier, 2013).

1.3 Neuropsicologia della tossicodipendenza

A livello neurobiologico l’ipotesi fondamentale è che i cambiamenti comportamentali osservati nei soggetti tossicodipendenti si manifestino a causa di sottostanti modificazioni neurali, dovute alla neurotossicità delle sostanze stupefacenti (Koob et al., 1988). Tale neurotossicità consiste principalmente nella capacità delle sostanze di aumentare la concentrazione dopaminergica nelle sinapsi fra i neuroni dell’area tegmentale ventrale del mesencefalo e i neuroni dell’area dello shell del nucleo accumbens, situato nella corteccia striato-ventrale, ossia quello che viene definito circuito mesolimbico o circuito della ricompensa (Pontieri et al., 1995). Inoltre, poiché il tegmento ventrale ha proiezioni neurali dopaminergiche in altre aree cerebrali, come la corteccia prefrontale e l’amigdala, le alterazioni neurobiologiche coinvolgono gran parte dell’encefalo (Everitt et al., 1999).

Le conseguenti alterazioni cognitive riguardano soprattutto le capacità delle funzioni esecutive, localizzate principalmente nel lobo frontale e nelle sue connessioni corticali e sottocorticali (Verdejo-Garcı́a et al., 2005). In generale, sia nei tossicodipendenti adulti sia in quelli più giovani, le funzioni che risultano maggiormente deficitarie sono:

– Decision Making: nei soggetti tossicodipendenti si evidenzia la tendenza a favorire scelte svantaggiose che però portano ad ottenere risultati a breve termine (Rogers et al., 2001). Studi di neuroimaging hanno riscontrato un’attivazione anomala della corteccia prefrontale ventro-mediale (Goldstein et al., 2002).

– Controllo inibitorio: studi neuropsicologici condotti con l’ausilio di tecniche di neuroimaging hanno individuato, in soggetti dipendenti da oppiacei, un’anomala riduzione dell’attività della porzione dorsale della corteccia cingolata anteriore durante compiti di controllo inibitorio. Tale modificazione funzionale è stata riscontrata anche negli assuntori di cocaina e cannabis. Questi risultati suggeriscono che l’abuso di sostanze psicoattive possa ridurre la capacità del soggetto di autoregolarsi e auto-monitorare i propri errori comportamentali (Lee et al., 2005).

– Memoria: l’eccessiva concentrazione dopaminergica nel circuito della ricompensa, rilevata nella tossicodipendenza, altera il normale funzionamento della corteccia prefrontale e delle sue connessioni con il nucleo accumbens e lo striato ventrale (Montague et al., 2004), diminuendo le risposte alle ricompense naturali e favorendo la ricerca compulsiva della ricompensa indotta dalla sostanza, per la quale il soggetto è altamente sensibile (Volkow et al., 1993). Di conseguenza quest’alterazione neurale riduce le possibili esperienze di apprendimento nelle quali il soggetto potrebbe coinvolgersi, provocando una successiva parziale rappresentazione mentale del mondo esterno, strettamente legata agli stimoli correlati alla sostanza (Goldstein et al., 2002).

1.4 La disregolazione emotiva nella tossicodipendenza

Studi di neuroimaging hanno evidenziato un coinvolgimento importante delle aree cerebrali frontali e prefrontali nella regolazione emotiva, sottolineando il ruolo esercitato dalle capacità cognitive frontali (funzioni esecutive) nei processi di controllo emotivo (Verdejo-García et al., 2009). Di conseguenza molti studi suggeriscono che l’assunzione di sostanze psicoattive alteri il normale funzionamento delle regioni frontali, andando a determinare disfunzioni nel controllo cognitivo ed emotivo (Fuchs et al., 2004). Nel dettaglio, secondo la teoria di Damasio (1996) dei marker somatici, applicata nel contesto della regolazione emotiva in condizione di tossicodipendenza da Verdejo-Garcia e Bechara (2009), durante il processo decisionale, nel quale è coinvolta principalmente la capacità di decision making, il sistema cognitivo valuta non solo le informazioni somatiche e fisiologiche, ma anche le informazioni emotive derivanti dalla percezione di uno stimolo. Di conseguenza, un decision making deficitario, come lo è quello dei soggetti tossicodipendenti, non è in grado di compiere tali valutazioni, dando origine così a comportamenti impulsivi e privi di giudizio.

La disregolazione emotiva in adolescenza, che si manifesta soprattutto attraverso difficoltà di organizzazione, integrazione e modulazione delle emozioni, costituisce una fonte di rischio maggiore rispetto agli adulti per il disturbo da uso di sostanze, mentre una buona capacità di gestione delle emozioni può identificarsi come un fattore di protezione (Wills et al., 2001).

Le difficoltà di controllo emotivo che si presentano nei soggetti tossicodipendenti, adulti e adolescenti, si manifestano con maggior frequenza nelle forme di alessitimia, elevato sensation seeking e scarsa intelligenza emotiva.

1.5 Alessitimia

Il rapporto intercorrente fra alessitimia e tossicodipendenza è stato individuato in numerose ricerche, infatti indipendentemente dal tipo di sostanza assunta, è stato rilevata una maggiore incidenza dell’alessitimia in soggetti con disturbo da uso di sostanze rispetto alla popolazione normale (Cleland et al., 2005). Negli adulti tossicodipendenti la prevalenza del disturbo alessitimico oscilla in un range compreso fra il 48% e il 78% (Uzun, 2003), valori che sembrano variare in funzione della durata dell’astinenza, mentre nella popolazione tossicodipendente più giovane ed adolescente la prevalenza si aggira attorno al 30%-40% (Troisi et al., 1998).

L’alessitimia è considerata un forte fattore predisponente al disturbo da uso di sostanze, soprattutto in soggetti già ad esso vulnerabili, primi tra tutti gli adolescenti (Taylor et al., 1999); tuttavia la letteratura esistente in materia non chiarisce se l’alessitimia sia o meno un fattore primario nella tossicodipendenza (Handelsman et al., 2000).

A livello neurale i soggetti tossicodipendenti con difficoltà alessitimiche mostrano alterazioni negative del normale funzionamento del lobo frontale e del processamento emotivo; inoltre sono state evidenziate anomalie neuro-trasmettitoriali nelle aree cerebrali della corteccia cingolata anteriore e dell’insula (Lyvers et al., 2012).

1.6 Sensation Seeking

Gli adolescenti di norma hanno una maggiore predisposizione ad assumere condotte pericolose, nonostante non si mostrino meno capaci degli adulti nella valutazione dei rischi, ma risultino più influenzabili dagli impulsi e dagli stimoli esterni, come per esempio il gruppo dei coetanei (Reyna et al., 2006). Martins (2008) in uno studio effettuato su 5049 adolescenti di età compresa fra i 12 e i 18 anni in trattamento per un disturbo da uso di sostanze, ha rilevato che più dell’80% dei pazienti in questione mostra un elevato sensation seeking.

Secondo il modello biosociale del sensation seeking, applicato poi al contesto dell’uso precoce di sostanza, vi sono due processi che condizionano le capacità decisionali dell’adolescente: la maturazione cerebrale e l’influenza sociale (Roomer et al., 2007). Nel contesto dell’uso precoce di sostanza, la ridotta valutazione dei rischi, dovuta all’immaturità cerebrale e direttamente influenzata dal sensation seeking, accompagnata dal bisogno dell’adolescente di essere approvato e affiliato al gruppo di pari, possono rinforzare gli effetti gratificanti derivanti dall’assunzione di sostanza e ridurre la valenza negativa dei rischi associati (Steinberg, 2008). In condizioni normali si evidenzia nel cervello adolescente una reattività accentuata del nucleo accumbens agli incentivi e ai contesti socio emotivi che induce il soggetto a cercare livelli più elevati di stimolazione esterna, ciò diviene disfunzionale ed amplificato nel contesto dell’uso precoce di sostanze (Gardner et al., 2005).

1.7 Intelligenza Emotiva

La tossicodipendenza è caratterizzata da difficoltà riferibili all’intelligenza emotiva, nei termini di percezione, differenziazione e regolazione delle emozioni, ma non è stato ancora chiarito se la presenza di queste difficoltà sia causata o sia la causa stessa del disturbo (Kun et al., 2010).

Il declino nell’intelligenza emotiva in adolescenza si manifesta in problemi come disperazione, alienazione sociale, tossicodipendenza, crimini e comportamenti violenti, bullismo e abbandono scolastico (Goleman et al., 1996). La pressione del gruppo di coetanei inoltre sembra possa diminuire le abilità di gestione delle emozioni nell’adolescente, soprattutto se tali pressioni riguardano l’uso di sostanze come il tabacco e l’alcol (Mayer et al., 1999). Quindi, in questa particolare fase evolutiva, caratterizzata dallo sviluppo delle capacità di controllo emozionale e comportamentale, una ridotta intelligenza emotiva rappresenta un importante fattore di rischio per il disturbo da uso di sostanze (Bray et al., 1999). Di fronte a queste scarse capacità di gestione e valutazione delle emozioni l’adolescente potrebbe usare la sostanza come una sorta di strategia di coping per fronteggiare lo stress (Kauhanen et al., 1992). Craig (2008), in uno studio sulle capacità emotive di giovani tossicodipendenti, ha stimato che circa il 73% del suo campione (costituito da 161 giovani studenti universitari) mostra scarse capacità di intelligenza emotiva, indipendentemente dalla sostanza assunta.

A livello neurale, sia negli adolescenti sia negli adulti, una buona intelligenza emotiva correla negativamente con l’attività dei circuiti cerebrali coinvolti nella valutazione dei marker somatici, ossia la corteccia prefrontale ventro-mediale, l’amigdala e l’insula, mentre risulta sostenuta dall’attività neurale del cervelletto e della corteccia visiva associativa (Killgore et al., 2007).

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

 

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Scoperti biomarcatori genetici associati ai disturbi dell’umore

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

La nuova ipotesi avanzata dai ricercatori californiani era che un sovradosaggio degli X-linked escapee genes potesse essere associato allo sviluppo di sintomi psichiatrici tanto nei soggetti con sindromi cromosomiche, quanto nella popolazione generale.

La diagnosi della maggior parte dei disturbi psichiatrici è prettamente di tipo clinico, basata cioè su criteri descrittivi osservazionali, sulla base dei quali il professionista individua sintomi specifici a carico del comportamento, della sfera emotiva o delle relazioni interpersonali del paziente. Come ogni diagnosi clinica, anche quella dei disturbi psichiatrici è caratterizzata pertanto da un certo grado di soggettività. Dall’E-BioMedicine Journal si apprende ora che dei ricercatori del Dipartimento di Psichiatria di San Diego, dell’Università della California, hanno identificato dei marcatori biologici per la diagnosi dei disturbi maggiori dell’umore.

Gli autori, coordinati dal dr. Xianjin Zhou, sono partiti dalla considerazione che in alcune rare sindromi genetiche la presenza di cromosomi X soprannumerari sembri contribuire alla patogenesi di sintomi psichiatrici attraverso una sovrapproduzione dei cosiddetti ‘X-linked escapee genes’, particolari geni che ‘sfuggono’ al processo di inattivazione del cromosoma X. Tale processo biologico, regolato, tra gli altri, dal gene XIST (X-inactive specific transcript), interessa tutte le femmine di mammifero e consiste nella disattivazione di uno dei due cromosomi sessuali X.

Tale cromosoma viene “silenziato”, ovvero reso inerte dal punto di vista trascrizionale, con una conseguente riduzione dell’espressione, in tutte le cellule somatiche, dei suoi geni e dei relativi fenotipi. Il 10-15% dei geni tuttavia, gli X-linked escapee genes appunto, sfugge all’inattivazione. È stato quindi suggerito in letteratura che un sovradosaggio degli X-linked escapee genes, dovuto alla presenza di un cromosoma X in più, possa contribuire allo sviluppo dei sintomi psichiatrici presenti nella sindrome di Klinefelter (XXY) e nella sindrome della Tripla X (XXX).

La nuova ipotesi avanzata dai ricercatori californiani era che un sovradosaggio degli X-linked escapee genes potesse essere associato allo sviluppo di sintomi psichiatrici tanto nei soggetti con sindromi cromosomiche, quanto nella popolazione generale. Hanno così studiato l’espressione dello XIST e di diversi X-linked escapee genes, tra cui il gene KDM5C, in 60 linee di cellule di donne con disturbo bipolare o depressione maggiore ricorrente e in 36 linee di cellule di donne sane.

Dai risultati è emersa una sovrapproduzione, nelle pazienti, sia dello XIST che del KDM5C. [blockquote style=”1″]Una sovra-espressione dello XIST hanno suggerito gli autori potrebbe determinare un’alterazione del processo di inattivazione del cromosoma X, con una conseguente maggiore espressione di alcuni X-linked escapee genes, incluso il KDM5C. L’espressione dei geni XIST e KDM5Cpuò essere usata come marcatore biologico per la diagnosi dei disturbi maggiori dell’umore in un largo sottogruppo di pazienti della popolazione generale femminile, fino al 60% dei casi in base al campione preso in esame.[/blockquote] affermano gli autori.

Il fatto che quasi la metà delle pazienti esaminate non presenti queste alterazioni, tuttavia, sottolinea la presenza di una grande eterogeneità nell’eziologia genetica dei disturbi maggiori dell’umore. In ogni caso, considerando che per valutare l’espressione dei geni XIST e KDM5C è sufficiente sottoporsi ad un semplice esame del sangue, i risultati di Zhou e del suo team possono dare un grande contributo nel favorire la precocità della diagnosi.

Ma non solo: invertire l’attività anomala del cromosoma X inattivo potrebbe rappresentare una potenziale nuova strategia per il trattamento dei disturbi maggiori dell’umore, allargando così il ventaglio delle possibilità terapeutiche.

 

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L’onore e l’utile: Europa del burro ed Europa dell’olio

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Giovedì 09 Luglio 2015

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi importa sottolineare che la struttura culturale dell’onore è altamente sociale ed emozionale ed è anti-utilitaristica e anti-pragmatica. Non vi è alcun obiettivo utile ed economico immediato nel difendere l’onore. Non si tratta di produrre alcun bene e nemmeno di mantenere il controllo su alcuna fonte di reddito, se non indirettamente.

Ormai è certo: greci e tedeschi, nordeuropei e mediterranei, parlano linguaggi differenti. È possibile descrivere questa differenza nei termini della scienza, evitando i toni intuitivi e generici? Non so quanta letteratura sociologica e antropologica esista sulla differenza culturale tra Europa settentrionale e meridionale, tra Europa del burro ed Europa dell’olio, tra civiltà dell’utile e civiltà dell’onore. Probabilmente molta. Vorremmo saperne di più, in questi giorni in cui greci e tedeschi si azzuffano. La psicologia cross-culturale è un argomento delicato e non politicamente correttissimo come tutte le volte in cui si fanno paragoni tra culture, paragoni che somigliano pericolosamente ai paragoni tra etnie.

Una volta questi paragoni erano più frequenti. Erano però epoche meno ossessionate –nel bene e nel male- dal timore di offendere le sensibilità altrui. Probabilmente la raffigurazione del paragone tra nord e sud più capace di entrare nell’immaginario comune è la teoria di Weber (1904-1991) sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Quando si parla di rigore nordico e lassismo meridionale si eseguono una serie di associazioni che credo abbiano il loro nodo nel libro di Weber. Il sentimento generale, sottile eppure robusto, di un maggiore senso civico e di un più diffuso spirito pubblico che apparterebbe alle zone settentrionali dell’Europa trae probabilmente origine da li.

Il libro di Weber su capitalismo e protestantesimo era un denso trattato di sociologia delle religioni, sebbene inaspettatamente leggibile. L’idea di quel libro era però semplice e finiva per dare una descrizione scientifica a un fenomeno che ormai era sotto gli occhi di tutti da più di un secolo: il successo economico e militare crescente delle nazioni anglo-sassoni e germaniche e il declino politico delle nazioni latine dal 1753 almeno, dopo la guerra dei sette anni e ancor di più dopo la sconfitta di Napoleone.

Il tempo di Weber, l’inizio del novecento, era un tempo molto più feroce di quello attuale, almeno nel campo delle idee. Prevaleva una forma di darwinismo scientifico non priva di tratti ripugnanti scopertamente razzistici. Il divario nord-sud era apertamente misurato tutto in termini di forza e potenza, economica e militare. Il senso civico non era l’argomento principale della controversia. Era una visione machista della storia, in cui l’ampiezza degli imperi coloniali o a potenza degli eserciti conservavano tutto il loro significato.

Malgrado la sensibilità di Weber fosse diversa dalla nostra, il suo paragone è sopravvissuto alla svergognata fine nazista delle idee razzistiche. Si è tradotto in un giudizio meno brutale: al nord c’è più senso civico e maggiore capacità di organizzazione, e questo assicura a quei popoli una maggiore prosperità, che viene accettata con qualche mugugno ma senza troppe proteste. In fondo tutti ritengono che tedeschi e scandinavi la loro ricchezza se la siano meritata, quasi fosse una versione contemporanea e leggera della vecchia credenza calvinista che la ricchezza sia segno della grazia divina. Più sottotraccia traluce ancora la deduzione che tutto questo civismo poi si traduca in maggiore potenza economica e politica. Dietro la maschera severa di Calvino s’intravede il ghigno toscano di Machiavelli, ma i nordici sono particolarmente bravi a nasconderlo.

Il gap di civismo e ordine tra nord e sud ha ricevuto un altro avallo scientifico abbastanza noto, sia pure minore rispetto a quello di Weber. Si tratta della teoria di Putnam sul familismo amorale che affliggerebbe le regioni meridionali, la tendenza a curare gli interessi della famiglia e del clan a danno degli interessi sociali. Soprattutto, la tendenza a curare gli interessi dei legami affettivi, familiari e di sangue a scapito di quelli impersonali e funzionali della società. Considerazione non incoraggiante: tutto questo non favorisce il buon funzionamento della democrazia (Putnam, 1993).

Questa versione, rispetto a quella di Weber, offre il vantaggio di non destare troppi sospetti di razzismo. Fu scritta da Putnam in uno spirito genuinamente ottimistico e volenteroso, com’era giusto dopo i deliri del nazismo: una conoscenza in grado di concorrere a curare i mali del sud, non a condannarlo in un destino d’inferiorità razziale. Certo, il giudizio d’inferiorità morale sulle civiltà mediterranee traspariva inevitabilmente, ma non vi era più alcun compiacimento darwinistico e nessuna parentela con le sparate di Nietzsche sugli inferiori e sui malriusciti da gettare ai fossi, e senza tanti complimenti, fuori dal cerchio della vita.

Tutte le teorie sociali sono discutibili, compresa quella di Weber e di Putnam. È stato fatto notare che la teoria di Weber vale solo per il protestantesimo calvinista e non per quello luterano. O che esiste una forma di capitalismo rinascimentale cattolico che ha la sua base nella scuola francescana di Salamanca. E così via. Tutto verissimo, ma la differenza continua a sentirsi quando viaggi verso il nord.

Che dire, però del polo mediterraneo? Finora lo abbiamo descritto solo in negativo, come ciò che non obbedisce alle regole del civismo e del rigore. E cosa sono, invece, le culture mediterranee? Qual è la loro peculiarità? Uno dei più importanti studi di antropologia del Mediterraneo è stata l’opera collettiva Honour and shame: the values of Mediterranean societies (Onore e vergogna: i valori delle società mediterranee) curata da Peristiany (1966).

Peristiany argomentò che il costrutto onore-vergogna è la caratteristica antropologica più distintiva delle culture mediterranee. Onore è una nozione legata al ruolo sociale e familiare dei maschi, ed è una sorta di proclama degli uomini del loro essere giusti e orgogliosi. I fattori che sottolineano l’onore dell’uomo esprimono il suo rango sociale -come le origini familiari e la ricchezza- le sue qualità morali -come la generosità- e la sua capacità di controllare la propria reputazione, ovvero il grado di rispetto e di sottomissione degli altri membri del clan, della tribù o della famiglia.

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi importa sottolineare che la struttura culturale dell’onore è altamente sociale ed emozionale ed è anti-utilitaristica e anti-pragmatica. Non vi è alcun obiettivo utile ed economico immediato nel difendere l’onore. Non si tratta di produrre alcun bene e nemmeno di mantenere il controllo su alcuna fonte di reddito, se non indirettamente. L’obiettivo è solo il controllo della reputazione e del rispetto, di quello che gli altri pensano e del loro modo di comportarsi, che deve appunto essere rispettoso. Se gli altri pensano bene e si comportano rispettosamente, ovvero manifestando deferenza e sottomissione, allora l’obiettivo è raggiunto. Per ottenere questo obiettivo si possono sperperare beni e ricchezze. Il rango nobiliare non è direttamente legato al potere economico: si può essere nobili ed economicamente indeboliti, oppure essere economicamente in ascesa eppure esclusi dal rango onorevole dei patrizi. Quel che importa sono i segni esteriori di deferenza, rispetto, sottomissione.

È chiaro che con l’onore siamo agli antipodi del pragmatismo utilitarista delle fredde società nordiche. L’uomo d’onore meridionale lotta per ottenere il rispetto e disprezza la ricchezza, l’uomo pragmatico del nord lavora per produrre, lotta per ottenere il controllo dei beni, delle ricchezze, e l’unica buona reputazione a cui tiene è quella dell’affidabilità finanziaria, della solvibilità. Un po’ come i Lannister del Trono di Spade, che pagano sempre i debiti. Per questo greci e tedeschi non si intendono in questi giorni. I primi lottano per l’onore, i secondi per la solvibilità.

Per l’uomo d’onore del sud il razionalismo pragmatico dei nordici è incomprensibile. Il razionalismo pragmatico è sempre strumentale, ovvero ritiene che ogni tradizione, ogni abitudine, ogni costume, ogni convinzione o idea vadano sottoposte al vaglio critico della loro utilità, alla domanda che vuole sapere: ma a che serve questo? Quale scopo si prefigge? E quanto efficientemente serve allo scopo? Tradizioni, onori e idee sono ridotte alla loro efficienza. Questa è la visione utilitaristica ed economicistica della vita, che risulta incomprensibile ai greci.

Sfogliamo i primi capitoli di L’azione umana del filosofo economista Ludwig von Mises (1966). Attraverso la lente scientifica della metodologia utilitaristica ogni comportamento umano finisce con l’essere bollato con l’etichetta di comportamento acquisitivo. Ogni altra motivazione è rigettata come favola per educande. Per von Mises, in realtà anche il nobile distacco o la rinuncia ascetica si possono e si devono spiegare solo in termini di scopi e di mezzi. Scopi non grettamente materialistici, è vero, ma comunque scopi: desiderio di gloria, soccorso dei deboli, distacco dal mondo. Tutti questi scopi sono in realtà beni da acquisire, e non vi è gerarchia morale tra loro.

Nella visione economicistica e pragmatica del nord l’onore stesso, a cui tanto tengono i mediterranei, diventa un bene da acquisire e conquistare. È il disincanto del mondo, o delle azioni umane, la critica di ogni nobile o ameno inganno, e la riduzione dell’uomo ad animale conquistatore. Notevole è la conseguenza finale, rigorosamente logica: la coincidenza integrale del razionale con l’economico. Von Mises sottolinea con forza questo punto: l’economico non è un sottoinsieme logico del razionale, ma è il razionale stesso. La razionalità non è altro che calcolo economico, scelta dei mezzi in base ai fini.

Colpisce come i principi della visione economicista del mondo corrispondano con quelli della psicologia scientifica. È un’ulteriore dimostrazione che nella concezione moderna l’utilitarismo non è solo una visione del mondo, ma è concepito come la forma strutturante della mente. Infatti la moderna psicologia cognitiva sostiene un’idea semplice. Sostiene che la mente è un elaboratore d’informazioni. È una concezione dell’attività mentale che è estremamente simile a quella economicista di von Mises: il pensiero non è altro che la scelta delle azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi dell’individuo. L’attività umana è sempre finalizzata a uno scopo ed è quindi utilitaristica.

E in nome di questo utilitarismo vengono condannati i comportamenti umani non finalizzati a uno scopo pratico. A cominciare dai valori del passato: l’amore, raccomandato dalla morale cristiana, e l’onore, sostenuto dalla morale classica greco-romana. Attenzione, l’etica utilitarista non esclude i bisogni umani di amore e di onore (che oggi chiameremmo approvazione). Tuttavia, li pone in posizione strumentale: essi sono utili se ci danno benessere, ma non sono beni in sé. Il che può sembrare non particolarmente nuovo, ma lo diventa se siamo pronti a svalutare criticamente questi beni laddove essi non ci siano utili. È l’atteggiamento critico la vera novità, non tanto il porre al centro il benessere. Già i greci antichi avevano il valore dell’eudamonia, dello stare bene (letteralmente: del buon genio, che non è esattamente il benessere). Tuttavia per i greci esisteva una via maestra che solo attraverso la virtù arrivava all’eudamonia. Non vi era quindi una concezione strumentale della virtù, ma un legame intimo. E quindi non era possibile una critica utilitarista della virtù stessa.

È invece l’essere pronti a svestirsi dei vecchi indumenti che ne svela il carattere di semplici strumenti. Spicca una ruvida concezione solitaria dell’individuo. La comunità non è più luogo di relazioni sociali di approvazione o disapprovazione, e quindi luogo dell’onore e della reputazione, ma sede di relazioni utilitarie con gli altri, associazioni costituite per perseguire scopi pratici, al modo nordico. Lo stesso civismo nordico, reale e invidiabile, è concepito come uno strumento asservito al benessere e non come valore in sé. Difficile capirsi in Europa, non solo tra greci e tedeschi.

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Lo spettro bipolare: diagnosi o moda? (2015) – Recensione

 

Lo spettro bipolare: diagnosi o moda? E’ questa la domanda che fa da filo conduttore al libro di Joel Paris, tradotto in Italia recentemente.

Cosa possiamo definire diagnosi e cosa una moda? Dove si pone il confine tra una diagnosi corretta e una moda diagnostica? L’autore apre una riflessione sull’eccessiva frequenza della diagnosi di disturbo bipolare e sulle conseguenze negative in termini di trattamento clinico.

Diverse sono le motivazioni analizzate dall’autore; un sistema diagnostico ancora basato quasi esclusivamente sulla fenomenologia (sintomi riferiti dai pazienti e segnali interpretati dai clinici), categorie nosografiche poco chiare considerate varianti del disturbo bipolare, l’irritabilità indicata come sintomo alternativo alla presenza di un umore anormalmente elevato, la teorizzazione di uno “spettro bipolare” che contempla forme sfumate del disturbo e l’adozione di strumenti di screening sensibili a caratteristiche non specifiche per il disturbo bipolare (alcuni di facile reperibilità tanto da essere divenuti strumenti clinici popolari).

Come retroscena non possiamo tralasciare l’inizio dell’era del litio e l’inevitabile ruolo dell’industria farmaceutica. Ricordiamo inoltre la fisiologica tendenza della psichiatria ad essere oggetto di mode, l’odierna accessibilità delle diagnosi e l’ampia disponibilità di canali di fascinazione e seduzione per la loro diffusione (pensiamo solo alla potenza di internet, alla consuetudine di attribuire disturbi psichiatrici a personaggi storici o famosi, al cinema).

Questo contesto ha dato forma a quello che Paris denomina “imperialismo bipolare”; diagnosi di disturbo bipolare costruite sulla base dell’osservazione di sintomi bipolari “minori” (sbalzi d’umore, irritabilità, impulsività), che arrivano ad includere sotto un unico ampio spettro altri disturbi o semplicemente caratteristiche presenti nella popolazione generale.

Riferendoci all’ambito della patologia, disturbi di personalità, depressione, schizofrenia, disturbi impulsivi e disturbi comportamentali infantili sono spesso unificati dal concetto di spettro bipolare e accomunati da uno stesso destino di trattamento, una risposta farmacologica composta da stabilizzatori e antipsicotici atipici, che spesso ha come beneficio un aspecifico effetto sedativo.
Il vocabolario utilizzato per riferirci a questa patologia riflette e insieme contribuisce al panorama descritto.

Dal concetto di malattia maniaco-depressiva introdotto da Kraepelin, terminologia che indicava chiaramente la necessaria presenza degli episodi maniacali e rappresentativa di un quadro nosografico grave, si è passati al concetto di bipolarità, etichetta di per sé più neutrale, fino a parlare di spettro bipolare, sufficientemente ampio da includere gran parte del campo d’interesse della psichiatria; molti dei disturbi mentali sono infatti caratterizzati da anomalie o instabilità affettive.

Il disturbo bipolare è oggi divenuto un’entità nosografica confusa, dai confini in continua evoluzione e ampliamento.
Così una persona che soffre per una depressione che non risponde ai farmaci o con tendenza a divenire irritabile o caratterizzata nel suo decorso da labilità dell’umore, un bambino con difficoltà nella regolazione delle emozioni, una persona con problemi di gioco d’azzardo patologico o dipendenza da sostanze, un paziente che ci racconta una sofferenza vissuta e alimentata all’interno delle relazioni, possono tutti in teoria ricevere un’unica diagnosi e un unico trattamento.

Doveroso a questo punto, secondo l’autore, farsi delle domande. L’instabilità affettiva osservata in molti pazienti rientra nello spettro bipolare?
Per i sostenitori dello spettro bipolare l’instabilità affettiva sarebbe una forma di bipolarità; una variante ciclica estremamente rapida, con finestre temporali su base giornaliera, o persino oraria, piuttosto che settimanali. Questa sovrapposizione si basa su somiglianze superficiali e non tiene conto di importanti aspetti che rendono l’instabilità affettiva un fenomeno psicologico più complesso, particolare e differenziato. Le evidenze in letteratura riportate dall’autore sottolineano una fenomenologia caratteristica, uno status di ereditarietà particolare, una risposta differente ai trattamenti e un esito differente rispetto al disturbo bipolare.

Solo soffermandoci sulle modalità di manifestazione dell’instabilità affettiva sono già evidenti differenze sostanziali. Gli stati d’animo disforici durano spesso poche ore e, anche se possono richiedere un po’ di tempo prima di ridimensionarsi, sono qualitativamente differenti rispetto alla stabilità interna agli episodi dei disturbi classici dell’umore (pensiamo a quanto è difficile scorgere variazioni in una persona depressa, pur di fronte ad una buona notizia, o ridimensionare l’umore durante una fase di mania o ipomania).

La percezione soggettiva dei pazienti con rapide e instabili variazioni dell’umore ha sfumature talvolta molto diverse e il contesto interpersonale ha un peso importante nel generare in queste persone stati di disregolazione emotiva, a fronte di variazioni d’umore spesso indipendenti dalle relazioni interpersonali nel caso del disturbo bipolare.

La sofferenza causata da un’affettività intensa e mutevole è spesso caratteristica dei disturbi di personalità ma ricercatori e clinici si sono spinti fino ad affermare che alcune categorie diagnostiche non hanno più ragione di esistere. Uno degli esempi è rappresentato dal disturbo borderline di personalità, che ha come tratto caratteristico proprio l’instabilità dell’umore.
Nuovamente, tuttavia, stupisce come non si prendano in considerazione evidenti indicatori che segnalano, oltre che caratteristiche cliniche diverse, percorsi differenti di costruzione delle sofferenza: una vulnerabilità ereditaria differente da quella del disturbo bipolare, fattori di rischio specifici, un decorso differente da quello tipico dei disturbi dell’umore (una prognosi migliore è conosciuta per il disturbo borderline di personalità ), prove insufficienti per raccomandare qualsiasi agente farmacologico nei casi di disturbo borderline, che risponde, d’altra parte, ai metodi terapeutici squisitamente sviluppati per trattare i disturbi di personalità.

Come afferma Paris, il riconoscimento dell’instabilità affettiva come processo separato e differente dalla bipolarità implica considerare gli affetti e le emozioni non come un “driver” primario in grado di produrre disturbi psicologici ma come aspetto di un sistema complesso e interattivo. Considerando questa variazione nell’impostazione teorica, è facilmente comprensibile l’inefficacia di risposte preconfezionate e valide su larga scala.

Concludendo, solo tollerando un certo grado d’incertezza si può resistere alla tentazione di agire soluzioni semplici a questioni più complesse.
Come sottolinea l’autore, è necessario trovare modi migliori per identificare i pazienti che hanno forme subcliniche di disturbo bipolare e trattarli di conseguenza. Il “grano di verità” insito nel concetto di spettro bipolare emerge da questa attenta analisi della letteratura sui disturbi chiamati in causa; alcuni pazienti con depressioni gravi hanno il disturbo bipolare e devono essere trattati come tali. Ma questo gruppo è costituito, probabilmente, da una piccola minoranza di casi osservati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Paris, J. (2015). Lo spettro bipolare: diagnosi o moda? Raffaello Cortina Editore, Milano.
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