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Le ventisette fasi dell’amore – VIDEO

Tutto accade in un’unica stanza, metafora della vita di coppia: la camera da letto. I corpi semi-nudi dei protagonisti sostituiscono le parole, le immagini appaiono autentiche e con una forte componente evocativa.

In questo cortometraggio il regista Diego Perez mette in scena una storia d’amore e la suddivide  in ventisette fasi.

Tutto accade in un’unica stanza, metafora della vita di coppia: la camera da letto. I corpi semi-nudi dei protagonisti sostituiscono le parole, le immagini appaiono autentiche e con una forte componente evocativa. I dialoghi sono essenziali, mentre le immagini simboleggiano le varie fasi dell’innamoramento, dalla ricerca costante del corpo dell’altro, alla necessità di riconquistare i propri confini. A volte, come accade ai protagonisti del video, questo passaggio può essere molto delicato e talvolta insuperabile.

Riappropriarsi dei propri spazi, sia reali che metaforici, è però un’evoluzione sana per la coppia e per il benessere dei partner, tanto quanto può esserlo la conquista delle lenzuola e della propria porzione di letto. Se quindi possiamo ipotizzare che le prime fasi accomunino tutte le storie d’amore, rimane la speranza che non tutte arrivino fino alla numero 27.

 

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Lo sport che fa bene ad ogni età: bisogni, esigenze e motivazioni connesse all’attività sportiva nelle diverse fasi di crescita

Marta Bugari – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  

Allo sport ci si può avvicinare in qualsiasi momento con esigenze e spinte motivazionali che cambiano in relazione alla tipicità della fascia d’età in cui ci trova, è quindi molto importante che l’ambiente sportivo in cui sono inseriti i giovani atleti sia focalizzato sul rispetto degli stadi di sviluppo.

Perché alcuni atleti sono molto motivati mentre altri non lo sono? Cosa devo fare per motivare gli atleti a impegnarsi sempre al massimo delle loro abilità? Perché questo ragazzo che sarebbe un vero talento s’impegna meno degli altri e sembra svogliato?

La comprensione dei processi motivazionali implicati nella pratica sportiva è senza dubbio uno dei temi che suscita molto interesse tra gli psicologi dello sport. La Psicologia dello Sport studia come la partecipazione allo sport possa accrescere lo sviluppo personale ed il benessere di coloro che praticano le varie forme di attività fisica, sia per piacere personale e sia a livello di élite in attività specifiche. A livello agonistico questa disciplina è focalizzata sui processi psicologici che guidano la prestazione sportiva, i modi attraverso cui può venire stimolato l’apprendimento e l’incremento delle prestazioni, come possono essere efficacemente influenzate le percezioni psicologiche e ottimizzati i risultati di coloro che praticano le diverse forme dell’attività fisica.

Nello sport giovanile il fenomeno dell’abbandono sportivo e lo stile di vita sedentario, sempre più diffusi tra i giovani, sono fenomeni sociali da contrastare e molto spesso, conoscere i motivi che allontanano dallo sport non basta per impostare efficaci programmi di prevenzione dell’abbandono, bisogna individuare le ragioni che favoriscono il coinvolgimento sportivo e mantenerle attive nel tempo. Infatti i programmi sportivi orientati solo all’ottenimento dei risultati e che non tengono in considerazione la complessità della motivazione favoriscono infatti il fenomeno dell’abbandono precoce (Cei,1998).

Nello sport giovanile, il tema della motivazione assume una forte rilevanza perché in particolare nel periodo adolescenziale si gettano basi importanti in vista di una eventuale carriera agonistica futura e quando questa esperienza iniziale è gestita adeguatamente all’età, può aiutare i ragazzi a sviluppare caratteristiche positive di personalità come l’autonomia, la consapevolezza dei limiti personali e la cooperazione (Bordoli, Robazza, 2000). Allo sport ci si può avvicinare in qualsiasi momento con esigenze e spinte motivazionali che cambiano in relazione alla tipicità della fascia d’età in cui ci trova, è quindi molto importante che l’ambiente sportivo in cui sono inseriti i giovani atleti sia focalizzato sul rispetto degli stadi di sviluppo.

Generalmente il bambino piccolo (5-10 anni) si avvicina a uno sport perché vuole giocare, entusiasmarsi, sperimentare il proprio corpo e le abilità acquisite fino a quel momento.

In queste fasi il bambino non è ancora dotato di pensiero astratto, reagisce solo a ciò che è reale, concreto, presente e che appaga subito. Non programma, non fissa obiettivi troppo lontani e coglie soltanto le sollecitazioni del momento.
Non risponde a richieste troppo lontane o ai sentimenti come il senso del dovere o il gusto di imparare. Per loro i bisogni importanti corrispondono al trarre piacere dall’azione sportiva giocando, scaricare le energie attraverso il movimento e saper vivere in gruppo. Da un’analisi condotta da Alberto Cei su fasce di giovani atleti nella pratica del calcio è emerso che ben il 49% dei bambini tra gli 8 e i 10 anni e il 10,3% di quelli tra i 3 e i 5 anni gioca a calcio con continuità. Negli sport di gruppo, come il calcio, ai bambini è richiesto un particolare impegno cognitivo e la capacità di comprendere il punto di vista dell’altro (Cei, 2005).

Il processo di anticipazione motoria si basa sull’abilità di saper prevedere ciò che il nostro avversario sta per fare e i bambini di 6-7 anni hanno difficoltà ad assumere questo punto di vista. Le ricerche hanno confermato che questa capacità si afferma in maniera completa tra gli 8 e i 10 anni e a questo proposito, una possibile ragione di abbandono sportivo, si presenta nei casi in cui gli allenatori e i genitori si aspettano dai giovani atleti più di quanto gli sia consentito dal loro sviluppo cognitivo. I bambini tra i 6 e i 7 anni, possono sperimentare una notevole frustrazione e sentirsi non apprezzati o poco capiti dagli adulti che richiedono lo svolgimento di compiti superiori alle loro capacità attuali anziché stimolare l’entusiasmo e il piacere che essi traggono dal movimento (Cei, 2005). Si capisce quindi quanto sia importante conoscere cercare e comprendere quali siano i fattori che aiutano i ragazzi ad affrontare un’esperienza sportiva in modo costruttivo e duraturo nel tempo consentendo di ricavarne soddisfazione e divertimento al tempo stesso (Bordoli, Robazza, 2000).

Bloom (1985) ha condotto una ricerca in cui ha studiato per diversi anni come si era sviluppato il talento di un gruppo di 120 atleti di alto livello ed ha evidenziato che nella fase iniziale della loro carriera sportiva ciò che risultava dominante era la componente ludica dell’attività che in tal modo aveva consentito di mantenere livelli di motivazione elevati nello svolgimento dello sport scelto. Questo approccio era stato sostenuto anche dal comportamento degli allenatori che avevano premiato principalmente l’impegno dei bambini piuttosto che i risultati ottenuti (Cei 2005).

Negli anni successivi (11-14 anni) il giovane familiarizza con il pensiero astratto e desidera vedere fin dove può arrivare, può programmare e fissarsi obiettivi a lungo temine e s’impegna nella cooperazione mentre l’adolescente (15-20 anni) può preparare gli stadi più elevati della professionalità e vivere già il ruolo di adulto (Prunelli, 2002).

L’adolescenza è quel periodo di transizione in cui non si è più bambini ne si è ancora adulti e il compito universale dell’adolescente è individuare la sua personalità per preparare il passaggio dalla dipendenza dei genitori all’autonomia.

Durante l’adolescenza, si assiste sul piano cognitivo una forte carica intellettuale sviluppata in senso critico e a un elevato entusiasmo per esperienze molto diverse che, in ambito sportivo, si manifesterà nel soppesare le situazioni e le strategie di gara, le tecniche di allenamento, i rapporti con gli allenatori mentre il bisogno di fare esperienze diverse troverà soddisfazione nella pratica delle varie discipline, individuando allo stesso tempo nuovi percorsi verso obiettivi più precisi (Giovannini, 2002). Lo sport allena all’iniziativa, alla responsabilità, spinge alla socializzazione e alla cooperazione, insegna a pensare, valutare e proporre. Ha rivelato possedere grandi potenzialità educative al pari della famiglia e della scuola ma con il vantaggio di educare col gioco e insegnare divertendosi al punto che oggi si configura come un ambiente di apprendimento alternativo per tanti adolescenti, capace di trasmettere valori e principi che formano e strutturano la personalità.

Come afferma Lidz (1963), dal momento che nell’adolescenza si verifica la scoperta di un’identità individuale collocata esternamente all’ambito familiare, l’approdo a un gruppo sportivo può essere da un lato un mezzo utile per conoscere questa nuova identità grazie anche alla maggiore autonomia di cui si può godere mentre dall’altro essere parte di un gruppo è un momento importante di socializzazione per l’adolescente che suscita sentimenti di accettazione e integrazione importantissimi in un periodo dello sviluppo caratterizzato da dubbi e incertezze sul sé (Giovannini, 2002).

Far parte di un ambiente sportivo favorirà l’adolescente nella realizzazione della socializzazione secondaria: trovandosi a interagire con diverse figure adulte che rappresentano i principali sostituti delle figure genitoriali in un contesto emotivamente più neutro rispetto a quello familiare, entrerà a far parte di un gruppo che consente l’instaurarsi di relazioni che hanno diversi livelli di coinvolgimento e la sperimentazione di nuovi ruoli sociali (leader, gregario ecc..) (Giorgi, Tortorelli, Grifoni, Fiorineschi, 2004). Il gruppo sportivo rappresenta inoltre un contesto in cui la competizione è ammessa, anche se sublimata, favorendo sentimenti di antagonismo nei confronti degli avversari e la coesione all’interno del contesto di appartenenza (Giovannini, 2002).

Sul piano socio-affettivo e relazionale, la figura dell’allenatore assume il ruolo di guida capace di ascoltare, dare consigli valorizzando e apprezzando l’adolescente, convogliando le sue energie, la sua esuberanza e il suo desiderio di cambiare verso obiettivi sportivi nuovi oltre che appaganti (Giovannini, 2002).

L’allenatore inoltre, grazie a un bagaglio formativo ed esperienziale specifico, agisce sulla personalità dell’atleta lasciando spazio alla sua creatività, alle sue iniziative senza determinare alcuna scelta e facendo si che si assuma le sue responsabilità con lo scopo finale di promuovere la crescita dell’atleta nella sua complessità (Prunelli, 2002). Ragazzi e ragazze fanno sport per un insieme abbastanza ampio di ragioni, alcune relative allo sviluppo delle competenze sportive e al piacere di confrontarsi con i coetanei, altre riguardano il bisogno di stare con gli amici e spendere energia attraverso l’azione fisica.

Da alcune ricerche fatte su ragazze e ragazzi di età compresa tra i 12 e i 16 anni è emerso che per le ragazze praticare sport era motivato da alcuni fattori importanti come: divertirsi, imparare nuove abilità, gareggiare, far parte di una squadra e trarre piacere dalle sfide. Per i ragazzi fattori simili sono prioritari ma con una differente ordine gerarchico; il piacere per le sfide, divertirsi, gareggiare e imparare nuove abilità. Un dato particolarmente significativo è che l’elemento più importante da soddisfare per ambedue i sessi sia il miglioramento della propria competenza sportiva cioè il desiderio di diventare molto bravo in uno sport, apprendere qualcosa di specifico attraverso un azione sportiva indipendentemente dei premi o le ricompense ottenute: i giovani scelgono uno sport in quanto vogliono ad esempio imparare a correre, fare canestro, saltare in alto o andare sugli sci (Cei, 1998).

Grazie a una serie di ricerche (Cei, 2005) è stato possibile rilevare i principali fattori motivazionali che emergono da tutte le analisi e che sono comparabili con quelli proposti dalla letteratura internazionale. Essi sono:

  • Acquisizione di status: il desiderio di essere popolare, diventare importante, farsi notare dagli altri, raggiungere i più alti livelli, trarre piacere dalle sfide, gareggiare e fare qualcosa in cui si è bravi, ricevere premi o medaglie. Questa dimensione è costituita per la maggior parte da fattori esterni al soggetto, mentre solo una (trarre piacere dalle sfide) si riferisce a fattori interni al giovane e completamente dipendenti dal suo modo di agire.
  • Forma fisica e abilità: sentirsi in forma, essere fisicamente attivo, acquisire e migliorare le proprie abilità e divertirsi nel fare esercizio. Negli anni precedenti, la forma fisica e l’acquisizione delle abilità non sono percepiti come fattori correlati, mentre a partire dai 14 anni questi giovani atleti acquisiscono consapevolezza su quanto ognuno di questi aspetti siano fortemente collegato l’uno all’altro tanto da costituire un unico fattore motivazionale. Questo faciliterà un maggiore impegno dovuto alla convinzione che la componente fisica partecipa al miglioramento della componente tecnico-tattica.
  • Squadra: il desiderio di far parte di una squadra, lo spirito di squadra, il lavoro di squadra e il desiderio di vincere. Emerge quindi come impegnarsi insieme ad altri coetanei nel raggiungimento di obiettivi agonistici e l’importanza di far parte di un collettivo unito sono gli obiettivi principali per raggiungere la vittoria.
  • Rinforzi estrinseci: il sostegno ricevuto dai genitori, dagli amici, la soddisfazione ricavata dal rapporto con l’allenatore nel sostenere l’attività e il piacere di utilizzare il materiale sportivo. Da questi dati si capisce che non solo i coetanei giocano un ruolo centrale nel sostenere la motivazione ma anche la funzione degli adulti è assolutamente importante. L’ambivalenza del rapporto con gli adulti, evidenziabile nella necessità di mantenere un legame costruttivo e la richiesta di maggior libertà, se ben orientata, può rappresentare un’opportunità di maturazione psicologica estremamente importante.
  • Amici/divertimento: il desiderio di divertirsi, il desiderio di stare con gli amici, di fare nuove amicizie e il desiderio di viaggiare. Sono evidenziati qui gli aspetti più tipicamente affiliativi dell’esperienza sportiva, di socializzazione al di fuori della famiglia e all’interno di un gruppo di coetanei. Questa dimensione non è connessa al raggiungimento di risultati sportivi.
  • Piacere per l’azione: il piacere tratto dall’azione in sé, dal gareggiare e praticare quell’attività sportiva. Questa componente motivazionale deve essere ben considerata dagli allenatori che dovrebbero chiedersi in che misura le sedute di allenamento soddisfano queste specifiche esigenze o se per favorire lo sviluppo tecnico, questi aspetti vengono trascurati.
  • Consumare energia: il bisogno di consumare energia, di entusiasmarsi e scaricare il nervosismo. Questa è una componente motivazionale strettamente collegata a quella precedente e la presenza di due fattori che riguardano la gestione delle sue emozioni (il bisogno di spendere energia e scaricare il nervosismo) tramite l’impegno sportivo, testimonia l’importanza di questi bisogni che devono essere riconosciuti e soddisfatti dagli adulti (genitori, allenatori) con i quali i giovani atleti si trovano ad interagire (Cei, 2005).

Nel gruppo dei più giovani (9-11 anni) è maggiormente dominante la dimensione affiliativa (fare sport con gli amici, incontrarne di nuovi e divertirsi), nelle fasce d’età successive emergono più forti il desiderio di eccitamento e di entusiasmarsi (12-14 anni) mentre solo successivamente (oltre 14 anni) si evidenzia il desiderio di raggiungere e mantenere la migliore forma fisica e la competenza sportiva. In riferimento a quest’ultima fascia d’età è stato riscontrato che i maschi nella loro pratica sportiva attribuiscono un importanza particolare all’Acquisizione di status, al vincere, ricevere premi mentre le femmine danno maggior importanza alla dimensione Amicizia/Divertimento e Forma fisica (Cei 2005).

Le dimensioni Squadra e Amicizia/Divertimento sono molto significative sia negli sport individuali che di gruppo. Da ricerche successive è emerso che nei più giovani l’affiliazione è uno dei fattori più rilevante mentre nelle età successive prevalgono il bisogni di eccitazione e l’acquisizione di competenze sportive.

Queste differenze sono addebitate alla evoluzione psicologica dei giovani che va da una fase in cui è fondamentale imparare a vivere in un gruppo ad un’altra in cui è maggiormente preminente il bisogno di spendere energia attraverso l’azione e di acquisire e migliorare le proprie abilità. Programmi d’allenamento che non tengono in considerazione il bisogno di stare con gli amici e l’esigenza di spendere energia attraverso l’azione fisica e divertirsi fanno si che, crescendo il livello agonistico, allo sport venga associata un’elevata ansia competitiva e scarsa motivazione interna alla pratica sportiva tali da determinare l’insorgenza di risvolti psicologici negativi di notevole peso per l’adolescente. L’esperienza di frequenti insuccessi sportivi uniti ad attribuzioni colpevolizzanti dei risultati negativi, riducono il senso di autoefficacia generando un vissuto di frustrazione caratterizzato da sentimenti aggressivi che possono rivolgersi internamente o verso l’esterno (Giovannini, 2002).

Anche i fattori sociali, come le elevate pressioni ambientali, l’eccessivo carico agonistico e di allenamento, la mancanza di rinforzi appropriati da parte delle figure di riferimento favoriscono l’insorgere di alcuni disturbi psicologici (disturbi d’ansia, del tono dell’umore, del ritmo sonno veglia) che possono confluire nella sindrome di burnout (perdita di interesse per l’attività svolta) o portare al drop-out (abbandono della pratica sportiva), fenomeno sempre più frequente tra gli adolescenti. Conoscere quindi la spinta motivazionale che determina e mantiene il coinvolgimento sportivo degli atleti è molto complesso e i fattori che la determinano devono essere tenuti presenti nei programmi di allenamento giovanile per incentivare i giovani atleti alla pratica sportiva (Giovanini, 2002). Numerosi studi hanno tentato di spiegare la persistenza dello sport e di abbandono in relazione alle caratteristiche psicologiche sottostanti degli sportivi.

E’ ampiamente condivisa l’idea che la motivazione sia una importante variabile che spinge all’iniziativa, verso una direzione con particolare intensità e quindi è un elemento chiave che può non lo solo facilitare la performance ma rendere l’esperienza sportiva più positiva (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010) . Anche se la motivazione è spesso trattata come un costrutto singolare, una riflessione superficiale suggerisce che le persone agiscono mosse da diversi tipi di fattori, con esperienze e conseguenze molto diverse. Ad esempio le persone possono essere motivate perché stimano una attività o perché vi è forte coercizione esterna (Ryan e Deci, 2000). Il confronto tra le persone la cui motivazione è interna e coloro che sono semplicemente mossi da un comando esterno rivela che i primi rispetto agli altri, hanno più interesse, entusiasmo e fiducia nella loro azione e questo a sua volta avrà un importante riscontro sull’azione stessa in quanto permette di realizzare prestazioni migliori, la persistenza e la creatività in esse (Deci & Ryan, 1991; Sheldon, Ryan, Rawsthorne, e Ilardi, 1997) un senso di vitalità (Nix, Ryan, Manly, e Deci, 1999), l’autostima (Deci & Ryan, 1995) e un benessere generale accresciuti (Ryan, Deci, e Grolnick, 1995), (Ryan e Deci, 2000).

Ryan e Deci (1985) hanno elaborato una importante teoria sulla motivazione: La teoria dell’autodeterminazione. Secondo i due autori esistono due principali tipi di motivazione: la motivazione intrinseca e la motivazione estrinseca.

Motivazione intrinseca ed estrinseca non sono indipendenti ma si trovano su un continuum che va dalla assoluta mancanza di motivazione (amotivation) al livello più alto di motivazione intrinseca. Un atleta motivato intrinsecamente deciderà di praticare un’attività sportiva per scelta personale, per il piacere di farlo, per l’appagamento e la soddisfazione che ne deriva senza spinte provenienti dall’esterno. L’atleta si impegnerà liberamente in attività che reputa interessanti e piacevoli, che offrano un’opportunità di apprendimento o di acquisire una competenza. Questa dimensione è caratterizzata da un locus of control interno e gli individui considerano le loro azioni auto -determinate e volitive (Un esempio è l’atleta che gioca a calcio perché prova interesse e soddisfazione nell’imparare nuovi movimenti con la palla) (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010).  Inoltre Vallerand et al. (2001) hanno sostenuto che ci sono tre tipi di motivazione intrinseca nel coinvolgimento sportivo che riguardano la motivazione verso esperienze stimolanti , per acquisire conoscenze e per realizzare le cose.

Gli atleti estrinsecamente motivati nello sport partecipano perché stimano i risultati associati che possono essere ricompense esterne come il riconoscimento pubblico o la lode (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010). Il coinvolgimento sportivo è dovuto a qualche incentivo esterno e lo sport rappresenta un mezzo per ottenere qualcosa che desiderano o evitare qualcosa di sgradito (ad esempio un atleta che partecipa alle Olimpiadi per ottenere una medaglia d’oro o il riconoscimento di uno status elevato). La motivazione estrinseca rappresenta la forma meno autodeterminata e implica forme di regolazione esterna.

Infine l’assenza di motivazione costituisce uno stato psicologico in cui le persone non hanno né un senso di efficacia né un senso di controllo rispetto al conseguimento di un risultato desiderato. Può essere quindi indicativa di un’alta probabilità di abbandono sportivo perché gli atleti non percepiscono una spinta né intrinseca né estrinseca a parteciparvi.

Ryan et al. in uno studio condotto nel 2002 su 281 ginnaste australiane trovarono che le atlete che avevano abbandonato lo sport avevano maturato motivazioni estrinseche nella spinta a partecipare, mentre quelle che avevano perseguito nella pratica del loro sport riferivano motivazioni intrinseche (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010). In un altro lavoro Pelletier e collaboratori (2001), hanno condotto due anni di studio prospettico per valutare la persistenza nel nuoto competitivo in un campione di 360 nuotatori canadesi prevalentemente adolescenti. Lo studio fu effettuato in tre fasi di raccolta dati per 22 mesi. Emerse come la decisione autonoma dei nuotatori di praticare lo sport era positivamente correlata con la motivazione intrinseca e che solo una piccola percentuale di motivazione era influenzata da fattori esterni rinforzanti.

La percezione da parte degli atleti di uno stile autoritario dell’allenatore fu associata con livelli più elevati di mancanza di motivazione e la sensazione di una forte spinta motivazionale proveniente dall’ambiente esterno. Livelli di motivazione intrinseca predissero la partecipazione al nuoto in due fasi di follow-up (10 e 22 mesi dopo) e questa dimensione fu significativa tra gli atleti che mantennero il loro impegno sportivo nel nuoto rispetto a quello che quelli che abbandonarono. (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010). Infine, un confronto significativo tra gli atleti che mantennero il loro impegno sportivo nel nuoto e quelli che abbandonarono, ha rivelato che i primi avevano una maggiore motivazione intrinseca e livelli inferiore di regolazione esterna e di demotivazione.

Alla luce di questi risultati è consigliabile che gli allenatori e i responsabili dell’insegnamento e della formazione con giovani atleti si impegnino nello strutturare programmi di allenamento che consentano di mantenere viva la loro motivazione e alta l’ auto-determinazione degli atleti nella pratica sportiva (Calvo, Cervelló, Jiménez, Iglesias, Murcia, 2010).

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Creatività & rischio di schizofrenia e disturbo bipolare

Daniela Sonzogni  

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I geni legati alla creatività potrebbero aumentare il rischio di sviluppare la schizofrenia e il disturbo bipolare, questo in base a quanto emerge dalle nuove ricerche condotte dal gruppo di Robert Power presso l’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze al King College di Londra.

Anche se la creatività è difficile da definire a fini scientifici, i ricercatori considerano una persona creativa qualcuno che utilizza processi cognitivi che sono diversi dalle modalità di pensiero o espressione prevalente.

Schizofrenia e disturbo bipolare sono disturbi del pensiero e dell’ emozione, il che significa che questi mostrano alterazioni nell’elaborazione cognitiva ed emozionale.

Gli individui creativi sono stati definiti come appartenenti alle società artistiche nazionali di attori, danzatori, musicisti, scrittori. È stato a lungo ipotizzato che la creatività e la psicosi presentassero alcune analogie, con notevoli esempi di artisti come Vincent Van Gogh, che soffrivano di malattie psichiatriche.

Precedenti studi hanno dimostrato che i disturbi psichiatrici, in particolare il disturbo bipolare, tendono ad essere trovati nelle stesse famiglie in cui sono comuni le professioni creative. Tuttavia fin ora non era stato possibile individuare se questo era semplicemente dovuto a fattori ambientali condivisi e status socio-economico.

Lo studio ha testato se i punteggi di rischio poligenici per schizofrenia e disturbo bipolare fossero in grado di prevedere la creatività.
I punteggi più alti sono stati associati a persone appartenenti a una società artistica o una professione creativa, con punteggi a metà strada tra la popolazione in generale e quelli con i disturbi stessi.

Questi risultati avvalorano l’influenza diretta dei fattori genetici sulla creatività, in contrasto con l’effetto di condividere un ambiente con persone che hanno la schizofrenia e il disturbo bipolare.

Power ha spiegato che sapendo che i comportamenti sani, come la creatività, condividono la biologia di malattie psichiatriche si può ottenere una migliore comprensione dei processi di pensiero che portano una persona ad ammalarsi; inoltre i risultati suggeriscono che le persone creative possono avere una predisposizione genetica verso il pensare in modo diverso che se, combinato con altri fattori biologici o ambientali nocivi, potrebbe portare alla malattia mentale.

 

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Il rapporto tra creatività ed emozioni

BIBLIOGRAFIA:

  • Power, Steinberg, Bjornsdottir, Rietveld, Abdellaoui, Nivard, Johannesson, Galesloot, Hottenga, Willemsen, Cesarini, Benjamin, Magnusson, Ullén, Tiemeier, Hofman, van Rooij, Walters, Sigurdsson, Thorgeirsson, Ingason, Helgason, Kong, Kiemeney, Koellinger, Boomsma, Gudbjartsson, Stefansson, Stefansson. Polygenic risk scores for schizophrenia and bipolar disorder predict creativity. Nature Neuroscience, 2015

Ma questi giovani d’oggi! E se fossero sbagliati gli insegnamenti degli adulti?- Cinque consigli per i genitori

Abbiamo mai cercato di capire quanto i giovani e il loro sembrare non curanti e poco empatici non sia altro che il risultato di un passaggio scorretto di messaggi e insegnamenti da parte dei più grandi? 

Ogni generazione viene additata, da quelle precedenti, di essere portatrice di scarsi valori e di poco rispetto per gli altri, sembra quasi un ripetersi ciclico della stessa situazione: mia nonna diceva che noi giovani non abbiamo più a cuore i valori e anch’io spesso mi ritrovo, pur non avendo ancora tra le mani ferri e lana, a pensare ma questi ragazzi d’oggi quali ideali perseguono?

Eppure abbiamo mai provato a vedere la situazione da una prospettiva più ampia per cercare di capire quanto il loro sembrare non curanti e poco empatici non sia altro che il risultato di un passaggio scorretto di messaggi e insegnamenti da parte dei più grandi? In effetti è strano e alquanto ambivalente per un bambino o un ragazzo sentirsi dire Devi rispettare gli altri e, mentre è lì che offre questo insegnamento, magari il genitore manda una mail al capo nella quale parla male dei propri colleghi.

Cosa intendo dire con questo? Che in realtà potremmo passare, da adulti corretti e rispettosi quali crediamo di essere, dei messaggi ai nostri figli/cugini/nipoti senza però dar loro un esempio vero e concreto di come ci si comporti con gentilezza nella vita di tutti i giorni.

A conferma di quanto scritto, arriva uno studio di alcuni ricercatori di Harvard, i quali hanno intervistato ragazzi delle scuole medie e superiori.

Gli adulti pensano di dare ai giovani, come uno dei messaggi più importanti, il rispetto degli altri, ma cosa avranno colto davvero i ragazzi dagli insegnamenti dei più grandi?

I ricercatori hanno chiesto ai ragazzi quale sia la cosa più importante per loro tra il raggiungere elevate prestazioni, l’essere felici (sentirsi bene per la maggior parte del tempo) o il prendersi cura degli altri. Quasi l’80% dei ragazzi ha segnato come cosa più importante, l’essere in grado di raggiungere elevati standard e l’essere felici. Solo il 20 % ha scelto il prendersi cura degli altri.

Ovviamente questo dato non deve allarmarci e farci pensare a delle future personalità narcisistiche o antisociali, tuttavia, sempre nella stessa ricerca, è stato visto, a conferma del dato precedentemente illustrato, come i giovani mettano in atto comportamenti di scarso rispetto per gli altri come barare a un test o copiare i compiti dai compagni.

Per fortuna i ricercatori vengono incontro a tutti gli adulti con cinque semplici mosse da mettere in pratica per lasciar passare davvero il messaggio che prendersi cura degli altri è importante.

Consiglio a tutti la lettura dei cinque punti…chissà se dopo la lettura, avendo compreso finalmente quali sono gli errori dei più comuni, la famosa espressione Ma questi giovani d’oggi! non cambi in Ma questi adulti di oggi!

Ask parents how important it is to instill kindness in their kids, and most will rank it high: even as their very top priority, according to Harvard researchers. But children surveyed by the university’s Making Caring Common project said, overwhelmingly, that they were getting a different message.

Ma questi giovani d’oggi! E se fossero sbagliati gli insegnamenti degli adulti?- Cinque consigli per i genitori Consigliato dalla Redazione

Ma questi giovani d'oggi! E se fossero sbagliati gli insegnamenti degli adulti?- Cinque consigli per i genitori - Immagine: 62854425
I ricercatori di Harvard hanno indagato cosa i ragazzi percepiscano davvero dei nostri insegnamenti morali. Offrono così cinque suggerimenti per degli insegnamenti più corretti. (…)

Tratto da: Quartz

 

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La psicologia degli esclusi e dei reietti: la necessità di avere un capro espiatorio

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta del 21/06/2015

Questa situazione di continuo conflitto tuttavia alla lunga è intollerabile. Ecco allora la necessità della vittima, una vittima su cui concentrare l’odio, l’escluso su cui radunare il rancore e in questo rancore condiviso ritrovare un minimo di armonia. Questo rancore finisce spesso per concretizzarsi in condotte linciatorie.

Non spessissimo la psicologia si è occupata della psicologia degli esclusi e delle vittime, degli umiliati e degli offesi, dei reietti e degli ultimi di questo mondo. Raccolta intorno allo studio della sofferenza esistenziale e borghese dei benestanti, la scienza psicologica tace di fronte ai rifiutati, ai vagabondi, ai poveri. La loro sofferenza è primitiva e primordiale, e finisce per essere oggetto delle riflessioni dell’antropologia e della sociologia. Chi mi legge sa che in questo campo mi riferisco spesso alle teorie sul capro espiatorio di Renè Girard e di Giuseppe Fornari. In questa teoria i rapporti umani sono concepiti come tendenzialmente conflittuali e rivalitari. Gli individui sono in agonismo perenne e competono per posizioni di rango in cui si sentano riconosciuti, ammirati, abbiano accesso alle risorse materiali e, soprattutto, destino ammirazione, seguito e imitazione.

Questa situazione di continuo conflitto tuttavia alla lunga è intollerabile. Ecco allora la necessità della vittima, una vittima su cui concentrare l’odio, l’escluso su cui radunare il rancore e in questo rancore condiviso ritrovare un minimo di armonia. Questo rancore finisce spesso per concretizzarsi in condotte linciatorie. Anzi, secondo la teoria del capro espiatorio, tutte le culture del pianeta si fondano su un linciaggio fondatore.

Questi linciaggi, naturalmente, col tempo sono stati censurati e sublimati. Complice anche il benessere dell’ultimo secolo, è stato possibile evitare l’odio verso la vittima e l’escluso. C’è da chiedersi tuttavia se si stia tornando a ere più feroci e spietate. Uno degli episodi più significativi di questa spietatezza delle ere antiche verso il diverso, il vagabondo, l’escluso, lo troviamo nell’episodio della lapidazione di Efeso narrato da Flavio Filostrato nel suo testo “Vita di Apollonio di Tiana“. Apollonio di Tiana era una figura tipica dell’età ellenistica, un sapiente a cavallo tra filosofia e magia. Nel libro dell’erudito Flavio Filostrato (l’erudito, altra figura tipica dell’ellenismo) sono raccolti gli episodi più significativi della vita di questo filosofo/mago del II secolo dopo Cristo.

Girard è affezionato a questo racconto, e vedremo perché. Egli racconta la lapidazione di Efeso in molti dei suoi libri, come paradigma del meccanismo vittimario in cui una tensione sociale è risolta concentrando l’odio verso una tipica figura di escluso: un mendicante. La lapidazione di Efeso fu un fatto storico, sia pure di non grande risonanza, che avvenne in un periodo di tensione sociale altissima, dovuta a una pestilenza terribile che mieteva moltissime vittime tra i cittadini. Si trattava di una crisi non solo sanitaria ma sociale che metteva in pericolo la sussistenza della stessa comunità efesina. Leggiamo l’episodio.

La popolazione di Efeso per risolvere la terribile pestilenza si rivolge ad Apollonio, sperando nel suo aiuto materiale di mago e nella consolazione della sua saggezza. E cosa fa Apollonio? Così egli risponde alla popolazione: ” -Fatevi coraggio, perché oggi stesso metterò fine a questo flagello- (la pestilenza). E con tali parole condusse (Apollonio) l’intera popolazione al teatro, dove si trovava l’immagine del dio protettore. Lì egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante, il quale astutamente ammiccava gli occhi come se fosse cieco, e portava una borsa che conteneva una crosta di pane; era vestito di stracci e il suo viso era imbrattato di sudiciume. Apollonio dispose gli Efesi attorno a sé, e disse: -Raccogliete più pietre possibili e scagliatele contro questo nemico degli dei-. Gli efesini si domandarono che cosa volesse dire, ed erano sbigottiti dall’idea di uccidere uno straniero così palesemente miserabile, che li pregava e supplicava di avere pietà di lui. Ma Apollonio insistette e incitò gli efesini a scagliarsi contro di lui e a non lasciarlo andare. Non appena alcuni di loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante che prima sembrava cieco gettò loro uno sguardo improvviso, mostrando che i suoi occhi erano pieni di fuoco. Gli efesini riconobbero allora che si trattava di un demone e lo lapidarono sino a formare sopra di lui un grande cumulo di pietre. Dopo qualche momento Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di rendersi conto di quale animale selvaggio avevano ucciso. Quando dunque ebbero riportato alla luce colui che pensavano di aver lapidato, trovarono che era scomparso, e che al suo posto c’era un cane simile nell’aspetto a un molosso, ma delle dimensioni di un enorme leone. Esso stava lì sotto i loro occhi, spappolato dalle loro pietre, e vomitando schiuma come fanno i cani rabbiosi. A causa di questo la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il demone era stato ammazzato”.

L’episodio lascia abbastanza sbigottiti. È evidente che Apollonio, un saggio dell’età ellenistica, è caduto preda di una superstizione che per la nostra sensibilità moderna appare intollerabile. Un medicante, un vagabondo che forse –come fanno spesso i mendicanti- occupava da anni una postazione fissa dove raccogliere le elemosine è scelto come capro espiatorio. Scambiato per un demone, è linciato senza tanti complimenti. Non è dato sapere fino a che punto Apollonio fosse preda o manipolatore della sua stessa superstizione magica. Qui però l’obiettivo è riflettere sul meccanismo psicologico della concentrazione dell’odio su un reietto, su un escluso, sul quale la società ritrova la sua momentanea riappacificazione.

Il brano di Filostrato racconta come in seguito ad una situazione di grave crisi, la pestilenza, la folla si fa plagiare da colui che in teoria è un saggio, Apollonio, al quale sono attribuiti strani poteri magici. Apollonio –come molti individui carismatici di tutte le età- sembra conoscere molto bene il funzionamento del sistema del capro espiatorio e convince la gente che uccidendo un singolo individuo, scelto per la sua condizione di outsider, di escluso, i problemi sarebbero scomparsi. Non a caso il capro è un mendicante straniero, vestito di stracci, sporco e cieco. Rappresenta l’emarginato mal visto da tutti.

Una volta scelta la vittima Apollonio riesce facilmente a far vedere alla folla quello che egli stesso vuole che sia visto, ovvero che non si tratta di un uomo ma di un demone responsabile della pestilenza. In un primo momento gli efesini, più innocenti di Apollonio, non capiscono perché debbano ammazzare barbaramente e senza prove il mendicante e rimangono increduli. Eppure le parole di Apollonio che parlano del mendicante come nemico degli dei cominciano a convincere qualcuno, qualcuno che scaglia la prima pietra.

È interessante notare come questi movimenti della folla, spesso sono innescati da minoranze. Che l’azione sia della maggioranza è solo illusorio. Basta una persona, o poche, che scagliano le primissime pietre, e la folla segue, iniziando il terribile atto del linciaggio. E infatti a questo punto tutti gli efesini, imitando il modello, diventano sicuri della colpevolezza del mendicante e vedono nei suoi occhi il fuoco, un segno demoniaco che accresce ancor più i sospetti. Chi sa, forse il mendicante era davvero un falso cieco, come talvolta accade. E purtroppo questa eventuale colpa del mendicante, lungi dal generare una solidarietà umana e una consapevolezza comune della responsabilità che è di tutti e non di un unico colpevole come nell’episodio simile e opposto dell’adultera e di Gesù, è utilizzata da Apollonio per scatenare definitivamente la lapidazione. Vedete? Non è un cieco, i suoi occhi sono vivi e pieni di fuoco. È un demone. E dopo la lapidazione gli efesini, ormai preda di un’allucinazione collettiva non riconoscono più il mendicante ucciso, vedendo al suo posto un animale/mostro.

Siamo al ribaltamento del detto evangelico di non scagliare la prima pietra. Qui è il profeta che invita tutti alla lapidazione e alla morte di un debole, anzi del debole per eccellenza, il mendicante. Speriamo che non sia questo il destino di una nuova epoca e che non siano questi i profeti che l’annunciano. Speriamo di non essere tornati a questo cuore di pietra.

 

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La separazione ai tempi della crisi: il dramma dei padri separati

Un uomo-padre, inadempiente per la scarsità di mezzi economici, è vittima due volte: del naufragio di un progetto di coppia in cui ha investito tempo e fatica, e dell’incapacità di uno Stato che deve garantire una vita decorosa a ogni bambino, e quindi indirettamente a chi vigila sulla sua crescita.

Non sono lontani i tempi in cui la definizione clinica della Sindrome di Alienazione Genitoriale (PAS) accese discussioni nel mondo della psicologia e della psichiatria. Al di là di qualunque diagnosi efficace, è innegabile, per chiunque si scontri con i conflitti propri di ogni separazione difficile, l’esistenza di atteggiamenti, più spesso perpetrati dalla madre, volti a spingere il minore ad allearsi con lei (il genitore preferito), così da rifiutare la relazione con l’altro malevolo, adducendo motivazioni costruite ad hoc.

Il destino dei padri sembra così legato ai conflitti che li vogliono, più o meno consapevolmente, parte debole, anche alla luce della netta preponderanza degli affidamenti in favore della madre, sintomo di una debolezza legislativa di stampo italiano, con solide radici culturali.

Oggi però a dare un ulteriore drammatico colpo a una funzione paterna culturalmente accessoria, si pone la crisi economica che taglia i fondi per condurre una vita dignitosa, senza la quale risulta utopistico svolgere il ruolo di genitore con efficienza ed energia.

Un uomo-padre, inadempiente per la scarsità di mezzi economici, costretto a chiedersi con quale faccia dirà al figlio che non può permettersi un semplice gelato è vittima due volte, del naufragio di un progetto di coppia in cui ha investito tempo e fatica, e dell’incapacità di uno Stato che deve garantire una vita decorosa a ogni bambino, e quindi indirettamente a chi vigila sulla sua crescita.

I dati parlano chiaro: separarsi costa, e per molti padri ciò si traduce in una vita ai limiti dell’elemosina. Ecco che la scelta di continuare a convivere sotto lo stesso tetto da separati in casa, risparmiando sui generi di prima necessità, e sopportando inevitabili recriminazioni o silenzi rancorosi, diventa sempre più popolare. Vivere da soli è infatti più costoso: la spesa media per alimentari e bevande di un single è di 332 euro al mese, ben il 62% in più della media di ogni componente di una famiglia tipo di 2 o 3 persone, pari a 204 euro (Parisi, 2015).

La crisi economica detta anche il tipo di separazione: da un lato, vivere da separati resta un’opzione fissa (si rinuncia al divorzio per risparmiare sulle spese legali); dall’altro sempre maggiore è il ricorso alle separazioni consensuali perché un unico avvocato costa meno di due (Frugis, citato in Papaemammeseparati, 2009). La predilezione per le separazioni consensuali, così come per la convivenza forzata, risulta quindi espressione di un accordo fittizio teso a evitare di cadere nella povertà assoluta, soprattutto se si ha la sfortuna di avere una busta paga che andrebbe a beneficio quasi esclusivo dell’altro coniuge.

Per chi comunque non se la sentisse di vivere sotto lo stesso tetto la situazione si dipinge di toni non meno amari: sono padri, infatti, molti uomini che affollano le mense per i poveri o dormono in macchina, una presenza in crescita sul totale di 4,1 milioni di abitanti che sono stati costretti a chiedere aiuto per mangiare (Parisi, 2015).

E se la crisi economica dà il colpo di grazia a una crisi di coppia già in atto, sovente essa stessa scatena il naufragio del progetto di vita comune: le difficoltà finanziarie sono alla base delle rotture in almeno il 30% dei casi, perché vengono meno molti punti fermi nella vita familiare (dalla possibilità di uscire più spesso a cena al non riuscire a rispondere alle richieste dei figli) (Frugis, citato in Papaemammeseparati, 2009).

Separarsi è un dramma cui si può pensare di dar fine con la fine più indegna. Uno degli studi italiani più autorevoli, condotto dall’Associazione Ex – Centro Assistenza Genitori Separati, nel periodo 1994-2002, stima il rischio di omicidio/suicidio nei genitori separati in 556 su 761 casi considerati (citato in Gaetani, 2013). Il suicida tipo è di sesso maschile (62,5%), tra i 38 e i 45 anni, con grossi ostacoli nel mantenere le relazioni con i figli, e con problemi di reddito (32% dei casi). Gli effetti negativi del conflitto e della separazione non riguardano i soli genitori: come rilevato da Beck (1987), il 70% dei giovani detenuti è cresciuto in situazioni di deprivazione genitoriale, con tutte le ripercussioni di ordine economico che questo comporta (per esempio, il tempo del recupero) (citato in Gaetani, 2013). Gravissime poi le conseguenze sul piano psicologico ed esistenziale: tra le conseguenze della PAS, si citano l’uso di stupefacenti, la dipendenza da internet, gli abbandoni scolastici e i disturbi dell’apprendimento.

Considerazioni

La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989 considera la bigenitorialità un diritto del minore, in quanto soggetto cui destinare protezione e tutela, da parte di entrambi i genitori.

Un diritto che si fonda sull’evidenza scientifica per cui la sproporzione dei ruoli genitoriali è gravemente lesiva per la sua salute, come avviene nelle separazioni in cui la conflittualità è tale da non garantire un’equa ripartizione delle funzioni di cura, con la riduzione o la perdita di contatti tra figli e un genitore, solitamente il padre (Gaetani, 2013).

E’ infatti da precisare che l’elemento problematico non è la separazione in sé, ma la qualità della relazione che caratterizza le coppie in conflitto e che si può ripercuotere negativamente sui minori, se privati della presenza e del supporto del padre, agendo addirittura prima della separazione legale.

Senza voler mettere in discussione la bontà di decisioni giudiziarie di cui beneficiano quasi esclusivamente le madri, nella mia esperienza di psicoterapeuta e consulente chiamata a valutare le dinamiche messe in moto da separazioni ai limiti della lotta armata, resta sempre un obiettivo da cui non distogliersi: il benessere del bambino. Un bambino è un essere in evoluzione, necessariamente in contatto con svariati contesti, da cui trae modelli di vita e di comportamento (si è fatto per esempio un gran parlare del ruolo dei nonni come sostegno all’educazione, mentre esiste una certa resistenza culturale a considerare la figura paterna come alternativa paritaria a quella della madre).

Se è corretto parlare di importanza della figura materna, a parere della sottoscritta, tale funzione non è per diritto biologico riferibile alla madre, alla luce anche del fatto che l’esistenza univoca di un istinto materno è lungi dall’essere ancora confermata.

Si arriverebbe al paradosso per cui un genitore è idoneo sulla base del sesso, quindi che un uomo in quanto tale non sarebbe capace, come la donna, di assolvere alla funzione genitoriale. Va da sé come questa affermazione sia viziata da almeno due evidenze: l’esistenza di mamme omicide e dello sviluppo funzionale di bambini cresciuti con un solo genitore o addirittura orfani ovvero cresciuti da genitori adottivi che bilanciano una scarsa capacità genitoriale presente nel genitore biologico.

Per un sano sviluppo ogni bambino necessita di cure e amore, della sensazione di essere rispettato e considerato nei propri pensieri e sentimenti, di un genitore che sia in grado di ascoltarlo, lasciando per sé le proprie nevrosi o facendosi aiutare nel risolverle (l’incapacità di controllarsi, frequente nei litigi coniugale, non esclusiva dei padri, è l’esempio più lampante di conflitti personali irrisolti che non tengono conto della necessità del figlio di essere tenuto fuori da questioni che non devono importunarlo nei suoi bisogni di spensieratezza e gioco).

Ci sarebbe poi da interrogarsi sull’effettiva possibilità di espletare adeguatamente le proprie funzioni genitoriali in condizioni economiche disastrate e con un’immagine di sé di fallimento, quando diventa una chimera ambire a un affidamento di qualunque tipologia, se non autosufficienti a livello economico.

In proposito Maslow, noto psicologo, ricorda come la genesi dei bisogni segua un modello piramidale per cui solo dopo aver soddisfatto i bisogni primari, l’essere umano può organizzarsi per occuparsi di quelli di ordine non materiale, nonché dei bisogni altrui. Perché allora tanto clamore sui diritti della donna-madre e tanta poca attenzione nel mettere l’uomo nelle condizioni pratiche di essere padre e, prima di tutto uomo, che può fare della sua dignità e soddisfazione i punti forti con cui allevare i figli?

E se il benessere dei figli consistesse semplicemente nel lasciarli andare al genitore con cui ha instaurato un legame prezioso, a prescindere da ogni disposizione giuridica, insomma nell’autocoscienza del loro primario interesse a vivere una vita liberata dagli egoismi dei grandi? E Kramer contro Kramer non solo un film a lieto fine su come dovrebbe essere gestito altruisticamente l’amore per chi si è messo al mondo.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XV: Inganno e Gelosia

È l’inganno l’essenza della gelosia, ed è l’assenza di inganno il motivo per cui gli amanti non sono gelosi dei coniugi dei loro partner.

Sanno infatti di sapere tutto, di non vivere nell’inganno al contrario del coniuge tradito che magari ha dalla sua gran parte del tempo e dei benefici di una relazione ufficiale (beni in comune, vacanze, progetti) ma non ha l’accesso ad una zona segreta della mente dell’altro.

Per questo siamo normalmente gelosi di quelli che potranno venire dopo di noi, o già ci sono e non lo sappiamo, e non di quelli che stanno prima di noi e di cui sappiamo tutto.

Immaginiamo che un uomo sposato ha tre amanti che chiameremo 1, 2 e 3 in ordine cronologico di apparizione. Immaginiamo che 3 è l’unica al corrente di tutto, mentre 2 sa della moglie e di 1 ed 1 solo della moglie.

I sentimenti provati dalle tre amanti saranno pressappoco i seguenti:

  • 3, ancorché forse irritata, non si sente tradita: è l’unica che ha accesso a tutto;
  • 2 non si sente tradita dalla relazione con la moglie e con 1 che già c’era al momento del suo arrivo e giudica come una povera cornuta, ma può sospettare e ingelosirsi rispetto ad 3 di cui nulla gli viene detto; rispetto ad 3 è effettivamente esclusa; è lei la vera vittima del tradimento;
  • 1 non si sente tradita per il tempo che il compagno trascorre con la moglie e la sua famiglia, anche se può essere dispiaciuta; la famiglia c’era prima di lei, era nei patti iniziali, lei è superordinata rispetto alla famiglia: lei sa della famiglia e la famiglia non sa di lei; loro due hanno un segreto in comune che li unisce. Intollerabile sarebbe per lei scoprirsi esclusa dalle vicende con 2 e 3.

La moglie è davvero l’unica esclusa da tutto anche se a lei appartiene la maggioranza assoluta della quotidianità, la vita reale è la sua; sono lei e i suoi figli a essere nell’asse ereditario del traditore che con la vita che fa probabilmente non durerà a lungo e sarà accompagnato mestamente al cimitero da quattro vedove piangenti ciascuna convinta di essere la vera compagna, guardando con compassione mista a orgoglio le altre di cui è a conoscenza.

Giulia, donna di cinquant’anni, sposata con tre figli ormai tutti universitari, viveva ormai da più di un anno una dolorosissima agonia da quando aveva scoperto che il marito la tradiva con una donna trentacinquenne. Il marito, soprattutto a motivo del legame intenso che aveva con i figli, oscillava tra le due situazioni affettive: per alcuni periodi usciva di casa e conviveva con l’amante, poi preso dai rimorsi per aver lasciato la sua famiglia, tornava dalla moglie ma senza mai interrompere il filo che lo teneva unito all’altra donna, ma cercando semplicemente di occultarlo. Giulia soffriva quando il marito conviveva con l’amante ma soffriva soltanto il dolore della perdita. Quando il marito tornava da lei, il dolore della perdita era parzialmente lenito ma subentrava fortissima la sensazione di essere ingannata, esclusa e che il marito, pur costretto a star lì, in realtà aveva un altro interlocutore cui narrare la sua vita.

Si metteva disperatamente a ricercare tracce e si torturava pensando non tanto agli incontri amorosi che il marito certamente aveva con la sua amante ma alle telefonate in cui lui le raccontava della sua vita, della sua giornata, del rapporto con sua moglie. Infatti, lui che non diceva mai nulla a Giulia della sua nuova compagnia, certamente, al contrario parlava di lei e dei suoi figli con la nuova compagna. Giulia capì che poteva averlo vicino ma non riusciva ad avere l’esclusiva della sua anima, oltre che del suo corpo.

Dopo oltre due anni di questa straziante altalena tra le due case la situazione si stabilizzò quando Giulia ed il marito si incontrarono per questioni riguardanti i figli in un periodo in cui lui viveva con la nuova compagnia e fecero l’amore; subito dopo lui le chiese di non dire nulla di quanto era accaduto perché non voleva che ciò mettesse in crisi il nuovo rapporto. Giulia accettò e da allora non vive più con il marito ma si frequentano costantemente di nascosto ed hanno una loro segreta intimità dalla quale tutti sono esclusi e dove parlano di tutto, comprese le difficoltà della nuova vita del marito.

Tutti si meravigliano della serenità di Giulia e pensano che finalmente sia riuscita ad elaborare il distacco; in realtà il distacco non c’è stato e i due si sono ritrovati in una nuova dimensione; ora sono loro gli amanti, l’esclusa è la nuova compagna e va benissimo così: il loro rapporto appesantito da una esistenza trascorsa insieme ha trovato nuova forza e creatività collocandosi in un luogo diverso.

 

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La percezione atipica nell’autismo: vedere il mondo in modo diverso

Vanessa Schmiedt

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L’autismo è caratterizzato oltre che dai sintomi più generalmente conosciuti, come le difficoltà d’interazione sociale, comunicative e comportamenti ripetitivi, anche da aspetti di percezione sensoriale superiore.

La percezione sensoriale è la prima forma di contatto con la realtà ed è il filtro attraverso il quale le persone costruiscono il loro modello del mondo. I bambini autistici spesso sembrano vedere il mondo in modo diverso e tendono a mostrare una capacità maggiore nel cogliere e ricordare i dettagli come, ad esempio, risulta evidente dalle rappresentazioni di paesaggi urbani dell’artista autistico Stephen Wiltshire tratti dalla sola memoria. Se questo aspetto contribuisce alla comparsa dei sintomi principali dell’autismo rimane dibattuto, nonostante ciò alcuni ricercatori come Teodora Gilga, ricercatrice al Centro per il cervello e lo sviluppo cognitivo del Birkbeck college all’Università di Londra, hanno dimostrato che la percezione atipica è un elemento centrale del disturbo.

Ottandadue bambini ad alto rischio per autismo, ovvero che avevano almeno un fratello con diagnosi di disturbo dello spettro autistico e ventisette bambini a basso rischio sono stati sottoposti ad un eye tracking (misurazione del punto di fissazione oculare) per misurare l’orientamento spontaneo al target (O, S, V, e +) presentato tra distrattori (la lettera X). A 9 e 15 mesi, emergenti sintomi di autismo sono stati valutati utilizzando l’ Autism Observation Scale for Infants (AOSI), ed a 2 anni di età, sono stati valutati utilizzando l’Autism Diagnostic observation Schedule (ADOS).

Dato che è stata analizzata la prima saccade realizzata dai bambini in ogni prova, e non se i bambini abbiano guardato il bersaglio nel corso dell’esperimento (come in alcuni precedenti studi di ricerca visiva), si può essere certi che questi risultati non dipendano da differenze nel comportamento oculomotorio effettuato da soggetti con questo disturbo. Prestazioni visive superiori a 9 mesi hanno previsto un livello più elevato di sintomi di autismo a 15 mesi e 2 anni. Le atipicità percettive nell’infanzia sono quindi intrinsecamente legate all’emergere del fenotipo dell’autismo.

Così con l’allontanamento dalle teorie del ”cervello sociale”, cioè quelle teorie che hanno attribuito alle difficoltà cognitive e di interazione sociale dei bambini autistici, un povero orientamento e attenzione a importanti stimoli sociali, quali il volto e la voce, durante i primissimi anni di vita, arriva anche la sfida di spiegare i meccanismi attraverso i quali atipicità di dominio generale potrebbero contribuire alla nascita di specifici sintomi di autismo.

Inoltre, la forte associazione tra superiori capacità visive e autismo può rivelarsi utile anche come un’ ulteriore componente di identificazione precoce dell’autismo.

I ricercatori da ora intendono inoltre esaminare ciò che esattamente rende i bambini con autismo migliori nei compiti visivi ed esplorare quelli che potrebbero essere i legami tra una maggiore percezione visiva o attentiva e le difficoltà di interazione sociale, apprendimento e comunicazione.

 

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Circle of Security – Report dal workshop di Roma, 16-21 giugno 2015

Roberto Framba

 

Il modello del Circolo della Sicurezza (Circle of Security), proposto da Cooper, Hoffman, Marvin, Powell nel 1998, si rifà alle Teorie dell’Attaccamento con influenze winnicottiane. È un metodo esperienziale che coinvolge molti livelli della propria persona nel quale i genitori possono diventare co-terapeuti dei propri figli specie quando hanno problematiche. 

Dopo due anni, è stato riproposta una nuova edizione del corso che abilita i partecipanti all’uso e all’applicazione del CoS in ambito psicoeducativo.

Il modello del Circolo della Sicurezza (Circle of Security) è stato proposto da Cooper, Hoffman, Marvin, Powell nel 1998 e pubblicato su JCCP nel 2006. Si rifà alle Teorie dell’Attaccamento con influenze winnicottiane ma, come provocatoriamente dice la dott.ssa Maranesi nella presentazione del seminario e promotrice in Italia di questo approccio, sembra un modello banale, una americanata, che appare molto semplice ma ha un livello di profondità inaspettato.

Maranesi Francesca
Dott.ssa Maranesi F.

È un metodo esperienziale che coinvolge molti livelli della propria persona nel quale i genitori possono diventare co-terapeuti dei propri figli specie quando hanno problematiche. Si può applicare a singoli genitori, coppie di genitori oppure gruppi di genitori. E’ trasversale alle diagnosi ma, se si lavora in gruppo, i genitori devono avere figli più meno della stessa fascia di età (0-5 anni) ma anche è possibile applicare in fasce di età maggiori anche adolescenziali.

Il modulo psicoeducativo si svolge in 8 incontri e deriva uno più complesso di tipo psicoterapeutico che consta di 20 incontri. Il corso viene proposto in modo standardizzato in tutto il mondo in modo di garantire una fedeltà in tutto il mondo.

Il CoS è una dei 4 modelli psicoterapeutici validati con dati empirici che si dimostrano efficaci nel trattamento psicoterapeutico dei bambini. L’intervento psicoeducativo non ha ancora dati sperimentali pubblicati e consistenti ma sono in via di definizione.

Per questo rigore metodologico si tratta di un intervento manualizzato diviso in capitoli (8) di un’ora e mezzo in gruppo mentre qualcosa meno in individuale. Il terapeuta/conduttore deve essere per i genitori la stessa esperienza di base e porto sicuro per diventare un’esperienza emozionale correttiva e un modello relazionale non giudicante che consente ai genitori di fare altrettanto con i propri figli mentre interagiscono con loro. Impegnano i genitori in un dialogo riflessivo di tipo maieutico e non psicopedagogico. Non si lavora principalmente sul comportamento dei genitori ma sullo stato mentale e solo dopo si possono integrare gli skills. L’uso del video feedback è fondamentale per questo obiettivo perché sviluppa una conoscenza relazionale implicita di tipo procedurale piuttosto che una modalità razionale esplicativa.

Nel programma di psicoeducazione i video osservati sono tratti dal DVD fornito dal circuito interazionale del Circolo della Sicurezza mentre nel percorso psicoterapeutico si lavora sui video registrati del dei pazienti. Il precorso del CoS può essere integrato con un trattamento psicoterapeutico con la coppia con alcune attenzioni, può essere un modo di trovare un piano comune stabile di cooperazione o, comunque, di discriminare quali sono gli aspetti legati alla dinamica di coppia e quelli circa le compentenze genitoriali.

Si tratta di uno strumento agile ed economico che si propone con una forma di prevenzione importante per la psicopatologia infantile.

La dott.ssa Francesca Maranesi ha ottimamente organizzato e condotto questo primo corso italiano a cui hanno partecipato più di 70 psicoterapeuti provenienti da tutta Italia, nella stragrande maggioranza professionisti con alle spalle formazioni, che si sono accostati con curiosità, competenza ed interesse apprezzando la praticità del metodo e la capacità di aver operazionalizzato in modo pulito le proposte della teoria dell’attaccamento e della prospettiva cognitivo evoluzionista già acquisite.

Gli organizzatori di Astrea onlus hanno annunciato che il prossimo giugno 2016 è in programma un corso avanzato per formare delle competenze psicoterapeutiche offerto a chi ha già frequentato il primo livello a carattere psicoeducativo senza richiedere una competenza in lingua inglese. In primavera 2016 sarà pubblicato dalla casa editrice Cortina un manuale che diventerà la base del corso di perfezionamento.

 

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Il narcisismo covert e overt – Introduzione alla Psicologia nr. 20

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA Nr. 20

 

 

Wink, ha individuato due tipologie di narcisismo: overt e covert. Il narcisismo overt ha una elevata autostima e una bassa tolleranza alle critiche. Il narcisismo covert, invece, è sensibile alle critiche, rumina costantemente e mostra scarsa autostima.

 

Il primo a parlare di narcisismo fu Freud identificandolo nella seconda fase dello sviluppo psicosessuale, che precede la formazione dell’amore oggettuale e segue all’autoerotismo. Per Freud il narcisismo non è una patologia, infatti, diventa tale solo quando una persona rimane ferma a questa fase dello sviluppo, senza procedere alla fase successiva.

Otto Kernberg, molto più tardi, attribuì al narcisismo caratteristiche patologiche. Egli affermò che il narcisismo diventa patologico a causa di una mancanza di cure derivanti da genitori anaffettivi o passivo aggressivi. Per contro i figli, si difendono da questa situazione sviluppando una percezione grandiosa di sé.

I narcisisti sostengono di avere un talento speciale e pretendono per questo di meritare un destino esclusivo. Il sé grandioso del narcisista è una forma di idealizzazione di se stesso, mentre le emozioni svalutanti sono proiettate all’esterno perché il percepirsi in maniera negativa porterebbe ad avere una bassa considerazione di sé e questo è inammissibile.

In molti si sono cimentati nel dare una definizione delle diverse forme di narcisismo, vediamo di seguito alcune di queste teorie.

Masterson distingueva tra una forma ‘gonfiata/esibizionista‘ (inflated/exhibitionistic) e una ‘svuotata/ritirata‘ (closet). Secondo questa visione il narcisista esibizionista mostrerebbe una rappresentazione grandiosa di sé e denigrerebbe chi non lo ammira incondizionatamente, mentre quello ritirato avrebbe una evidente bassa considerazione di sé e sarebbe afflitto da sentimenti cronici di umiliazione e rifiuto.

Gabbard individuò una tipologia di ‘narcisista inconsapevole‘ (oblivious) e di ‘narcisisita ipervigile‘ (hypervigilant): il primo non è conscio degli effetti esercitati dal proprio comportamento sugli altri poiché non è interessato al giudizio degli altri e vuole essere sempre al centro dell’attenzione. Il secondo, invece, è molto attento al giudizio altrui e teme il rifiuto.

Ronningstam parlava di ‘narcisista arrogante‘ e ‘narcisista timido‘, entrambi manifestano problemi legati alla sfera dell’autostima, il primo, però, la affronta credendo di essere superiore e per questo tutto gli è dovuto, di conseguenza si mostra poco empatico e molto invidioso; mentre il secondo si vergogna delle proprie ambizioni, le considera futili, ed evita le relazioni sociali per paura di essere allontanato.

Millon delineò un ‘narcisista elitario’ e un ‘narcisista compensatorio‘, il primo è convinto di essere speciale anche se non dovesse raggiungere i risultati ambiti, mentre il secondo è consapevole di non valere e compensa questo stato d’animo attraverso la fantasia di essere superiore.

Wink, ha individuato due tipologie di narcisismo: overt e covert. Il narcisismo overt ha una elevata autostima e una bassa tolleranza alle critiche. Presenta un comportamento sicuro o svalutante e un livello ridotto di ansia nelle relazioni sociali. Mostra, altresì, un evidente distacco emotivo e denigra le relazioni affettive fino a evitarle perché potrebbero minare la propria grandiosità. Le caratteristiche principali del narcisismo overt sono: atteggiamento sprezzante e superiore, ossessione per il successo, necessità di dominare o comandare, mancanza di empatia, relazioni sociali superficiali e aride.

Il narcisismo covert, invece, è sensibile alle critiche, rumina costantemente e mostra scarsa autostima. Lo stile di attaccamento è impaurito, con manifestazione di ansia costante cui segue evitamento delle relazioni. Il narcisista covert in età adulta mostrerà un attaccamento ansioso dovuto alla costante paura del rifiuto e dell’abbandono. Il narcisista covert, ancora, presenta introversione, vulnerabilità, alta sensibilità ai giudizi e alle critiche, svalutazione di sé e idealizzazione degli altri. I sentimenti di grandiosità, in questa forma di narcisismo, sono presenti ma camuffati da timidezza, modestia e sintomi depressivi, difficoltà a mantenere relazione a lungo termine e atteggiamento ipercritico nei confronti degli altri.

Sia nella forma overt che covert i narcisisti sono affamati di ammirazione costante da ricevere da parte degli altri, fantasie di grandezza, sfruttamento degli altri, sensazione che tutto sia dovuto, ancora, rafforzano la propria autostima attraverso l’ammirazione altrui, tendono alla manipolazione, arroganza, presunzione, eloquio polemico, trascuratezza dei bisogni degli altri e difficoltà nel controllare gli impulsi.

Per concludere, entrambe le forme di narcisismo manifestano la grandiosità attraverso diverse modalità. Gli overt sono grandiosi e arroganti per riuscire a camuffare l’insicurezza e la depressione. Al contrario i covert sono insicuri e timidi per nascondere il nucleo grandioso. Il narcisista overt ha spesso pensieri di superiorità, autosufficienza e controllo sugli altri, mentre il narcisista covert manifesta emozioni come la rabbia e la vergogna, ed è afflitto da pensieri di fallimento costante da cui deriverebbe la paura di un rifiuto relazionale.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La famiglia come luogo di benessere: la psicologia della famiglia nel corso del tempo

La famiglia nel corso del tempo ha subito una serie di trasformazioni. Attualmente la si intende come un luogo depositario del benessere di chi ne fa parte. 

Abstract

La famiglia nel corso del tempo ha subito una serie di trasformazioni. Attualmente la si intende come un luogo depositario del benessere di chi ne fa parte. Perché la famiglia contemporanea possa avere una lunga storia, essa deve amalgamare due esigenze contrastanti dell’essere umano, il bisogno di appartenenza e la libertà individuale.

Keywords: Psicologia della Famiglia, Storia Familiare, Emozioni, Bisogni.

La famiglia emotiva

Che la famiglia nel corso del tempo abbia vissuto una diversità di considerazione è cosa risaputa. La famiglia moderna, la cui nascita, secondo lo storico Ariès (1977), citato in Oliverio Ferraris (2011, pag. 4), è da datarsi all’epoca della rivoluzione industriale, ha come caratteristica il paradigma emotivo, ovvero è connotata dagli aspetti affettivi che contraddistinguono il vissuto familiare. Questa rivoluzione avviene grazie ad una netta demarcazione dall’ideologia precedente, nella quale l’istituzione familiare era intesa come nucleo allargato, costituito dall’insieme dei parenti che sovente formavano una macchina produttiva (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 5).

La famiglia emotiva ha come archetipo fondante la valorizzazione della coppia. In altre parole, marito e moglie hanno un ruolo egemone rispetto al parentado esteso. A livello storico, il momento di maggiore consolidamento di questo teorema familiare è rappresentato dal periodo del Romanticismo, che, nel corso dell’Ottocento, privilegiando l’aspetto emotivo dell’esistenza umana, ha posto alla base della famiglia l’amore fra i coniugi e il benessere mentale che tale condizione comporta (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 6).

La famiglia come strumento di decompressione emotiva

L’incremento dei processi produttivi durante il ventesimo secolo crea delle situazioni di conflittualità fra gli individui, esclusivamente di sesso maschile, che vi partecipano. La famiglia e la casa familiare diventano i luoghi dove si può smaltire questo stress. Ciò presuppone, però, un ruolo femminile legato prevalentemente all’accudimento e al polo affettivo dell’esistenza. Questo paradigma familiare persiste e si rinforza nel corso dell’intero Novecento, trovando giustificazione ideologica nelle tesi funzionaliste di Parsons e coll. (1955) (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 7).

Nella famiglia così strutturata, l’uomo ha il compito di leader strumentale, ossia a lui competono tutti i compiti esterni (produzione di reddito, relazioni con la società) ed è garante, attraverso i processi di socializzazione delle nuove generazioni, del mantenimento dell’ordine sociale (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 8). Al padre, inoltre, spetta, nell’ambito dell’economia affettiva familiare, far sì che fra la madre e i figli ci sia il giusto attaccamento, cioè quello che consente alla prole di emanciparsi dalla famiglia di origine per assumere l’identità di adulto consapevole ed autonomo.

La famiglia contemporanea e la famiglia – storia

Nella famiglia del ventunesimo secolo ritorna a prevalere il polo affettivo – sentimentale. In altre parole, due persone formano una famiglia nel momento in cui sono innamorati. L’amore, quindi, diventa il cemento che unisce e consolida il nucleo familiare. Questo, però, è anche il limite della famiglia contemporanea. Infatti, l’amore unisce e, proprio per questo, soffoca quelli che sono i valori esaltati dalla società odierna, ovverosia la libertà individuale e l’autorealizzazione (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 9).

Alla luce di ciò, il nucleo familiare celebra la sua fine nel momento in cui uno dei due partner tenta di imprigionare l’altro, non permettendo la sua crescita individuale (Oliverio Ferraris, op. cit., pag. 10). Quella che oggi ha più probabilità di durata è la famiglia – storia. Con tale costrutto si intende il nucleo familiare che si crea quando i due coniugi conseguono una forma di equilibrio fra fusione e libertà individuale. Questo consente di costruire un progetto di vita reale e a lunga gittata, il cui paradigma, come afferma Roussel (1989), citato in Oliverio Ferraris (op. cit., pag. 11), è l’abbandono dell’illusione di un partner immaginato per la realtà di un coniuge provato.

 

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Psicologia Clinica Perinatale per le Professioni Sanitarie e Psicosociali – Recensione

Suddiviso in due volumi, la Psicologia clinica perinatale per le professioni sanitarie e psicosociali si presenta come un testo complesso, articolato e completo, formativo per tutti i professionisti (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, assistenti sanitari, educatori, infermieri) che si occupano di gravidanza, post-partum, genitorialità e della relazione madre – bambino nei primi anni di vita del piccolo.

Il primo volume si intitola Neonato e radici della salute mentale e si suddivide in 2 parti: la prima, intitolata L’assistenza perinatale per la salute mentale, si focalizza sui presupposti teorici della Psicologia Clinica Perinatale, sul periodo delicato per la donna relativo alla gravidanza, al parto e al puerperio, sugli eventuali disturbi d’ansia e dell’umore che possono insorgere in questo specifico periodo di cambiamenti e sulle interazioni madre-bambino a rischio; la seconda parte, invece, si intitola Difficili percorsi della filiazione e della genitorialità e si sofferma su particolari situazioni relative alla genitorialità che possono generare difficoltà a livello psicologico, tra cui l’infertilità, la procreazione medicalmente assistita, la diagnosi ecografica di malformazioni e complicanze fetali e la nascita pretermine.

La trattazione spazia tra argomentazioni di tipo biologico, psicologico e sociale e si sofferma sulla genitorialità sotto tutte le sfaccettature, prendendo in considerazione i cambiamenti che intercorrono nella vita di coppia, nella dimensione sessuale, durante la gestazione, il parto e il puerperio.

Il secondo volume intitolato Genitorialità e origine della mente nel bambino è suddiviso anch’esso in 2 parti: la prima si intitola Sviluppo del bambino e genitorialità e si focalizza sulla genesi dello sviluppo e sull’origine della mente del bambino a seconda delle prime esperienze e delle prime interazioni intercorse con i genitori; la seconda, invece, intitolata Prevenzione e servizi sociali per la tutela della famiglia si arricchisce del contributo di psicologi sociali, assistenti sociali, educatori e giudici onorari del Tribunale dei Minori e si sofferma sui casi di maltrattamenti, abusi, trascuratezza dell’infanzia e sul ruolo svolto dai servizi sociali in termini di prevenzione, intervento, tutela nella fase perinatale e di protezione giuridica del minore e della maternità.

Il primo volume si apre con alcune considerazioni relative alla nascita della Psicologia Clinica Perinatale, la quale costituisce un ambito specifico della Psicologia Clinica ed integra le nozioni della psicologia clinica stessa con quelle derivanti dalle Scienze Ostetriche, dalle Scienze Sociali, dalla Neonatologia, dalla Neuropsichiatria Infantile e dalla Pediatria.

In particolare, il contributo fornito dalle neuroscienze e dall’epigenetica rispetto allo sviluppo della mente dell’individuo ha delle ripercussioni fondamentali anche in ambito psicologico e clinico: il genoma che determina il cervello di un individuo è in costante interazione con l’ambiente di vita e le esperienze relazionali vissute e, dunque, cervello e mente sono in una costante interazione e si influenzano reciprocamente. Possiamo dire che il cervello genera la mente e da questo è generato e che il cervello di ognuno non sarà mai identico a quello di un altro.

La trattazione si sposta in seguito sul periodo di transizione alla genitorialità, sulla nascita cosiddetta psicologica dei genitori e sui processi psichici sottostanti sia la maternità che la paternità. Particolare rilevanza viene data anche agli aspetti psicosomatici della gravidanza e ai timori che la donna può esperire sia durante la gravidanza che il parto (morte del bambino, morte di sé durante il parto, possibili complicanze del parto, possibili malformazioni nel bambino, ecc).

Un argomento particolarmente interessante e ben esposto è quello relativo ai disturbi psichici che possono insorgere nella donna durante la gravidanza e il puerperio (maternity blues, depressione, psicosi puerperale, disturbi d’ansia); nel testo vengono anche esposti i principali strumenti per la diagnosi e come sia possibile una individuazione precoce e una presa in carico delle donne con depressione postnatale attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro multidisciplinare.

La figura paterna è stata in genere poco oggetto di studi e di interesse in ambito clinico. Nel presente volume, invece, anch’essa recupera la sua importanza non solo in qualità di figura genitoriale, ma anche come figura supportiva per la neo-mamma. Inoltre, anche i papà possono essere affetti da depressione e, dunque, nel testo viene descritta la specifica sintomatologia della depressione paterna perinatale e come sia possibile procedere in termini di prevenzione e di trattamento dei disturbi affettivi paterni.

Nella seconda parte del primo volume, ho trovato particolarmente interessante il sottolineare l’importanza di elaborare i vissuti di inadeguatezza, di fallimento, di mancata genitorialità e le possibili difficoltà relazionali nella coppia conseguenti le esperienze di infertilità. Questo presuppone un’integrazione tra la medicina e la psicologia e un sostegno alla coppia che sia di tipo multidisciplinare.

Rispetto al secondo volume, essendo psicologa e collaborando in qualità di educatrice con i servizi sociali della famiglia, ho trovato significativa e degna di nota la seconda parte del volume, in cui non c’è semplicemente un’esposizione di situazioni problematiche legate alla genitorialità e all’infanzia (casi di maltrattamenti, abusi, trascuratezza, diventare genitori in età adolescenziale o in terra straniera) ma vengono anche riportati esperienze e progetti implementati allo scopo di sostenere le mamme in difficoltà o di proteggere i minori vittime di maltrattamenti di varia natura.

Consiglierei la lettura dei 2 volumi a tutti i professionisti che in ambito medico o psicologico si relazionano con donne, o per meglio dire coppie, che vivono l’esperienza della genitorialità.

 

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L’impatto delle differenze di genere sulla condizione autistica

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La più alta prevalenza dell’autismo nei maschi potrebbe essere in parte spiegata dal fatto che le femmine sono dotate di un fattore protettivo, cioè sarebbe necessario un maggior numero di mutazioni genetiche per far si che i disturbi si manifestino nei soggetti femminili.

Come è noto i disturbi dello spettro autistico si caratterizzano per delle differenze di genere che riguardano in primo luogo la diffusione di tali patologie, infatti i maschi presentano un rischio maggiore rispetto alle femmine con un rapporto di circa 4:1.

La più alta prevalenza dell’autismo nei maschi potrebbe essere in parte spiegata dal fatto che le femmine sono dotate di un fattore protettivo, cioè sarebbe necessario un maggior numero di mutazioni genetiche per far si che i disturbi si manifestino nei soggetti femminili, mentre ne basta un numero inferiore per avere lo stesso effetto nei maschi.

In secondo luogo, le differenze di genere riguardano anche la gravità dei sintomi in quanto, se è vero che il genere femminile è colpito meno frequentemente dai disturbi dello spettro autistico, è vero anche che le bambine presentano dei sintomi più gravi rispetto ai maschi: livelli più bassi di QI sia per le capacità verbali sia per quelle non verbali e disfunzioni più severe nelle abilità verbali e comunicative (i maschi rispetto alle femmine presentano un numero maggiore di comportamenti ripetitivi e stereotipati).

L’ipotesi che la presente ricerca ha cercato di verificare riguarda la possibilità che tali differenze di genere non siano in realtà specifiche dell’autismo ma riflettano le differenze di genere che sono comunemente rintracciabili nella popolazione non clinica.

A questo scopo sono stati considerati 1824 bambini più piccoli di 18 mesi divisi in tre gruppi, bambini ad alto rischio con autismo, bambini ad alto rischio senza autismo e bambini a basso rischio. Per tutti e tre i gruppi è stato analizzato l’impatto che le differenze di genere dei soggetti e dei loro fratelli hanno sullo sviluppo a lungo termine di sintomi autistici; l’idea è che se l’effetto delle differenze di genere sulla gravità dei sintomi e sul livello di funzionamento cognitivo non differisce nei tre gruppi esso non può essere considerato specifico delle patologia autistica né tanto meno dello stato di rischio dei soggetti, ma piuttosto deve essere ricondotto alle differenze di genere rintracciabili nella popolazione generale.

I risultati hanno confermato la più alta prevalenza del disturbo autistico tra i soggetti maschi e, come era prevedibile, hanno permesso di osservare anche che i bambini ad alto rischio con autismo si caratterizzano per un più basso livello di funzionamento cognitivo e per una maggiore gravità dei sintomi rispetto ai bambini ad alto rischio senza autismo, che a loro volta però presentano delle prestazioni peggiori se confrontati con i bambini a basso rischio. Tuttavia non c’è nessuna evidenza circa il fatto che i maschi o le femmine del primo gruppo hanno un funzionamento nettamente peggiore rispetto ai maschi o alle femmine degli altri due gruppi.

Ciò va quindi a conferma dell’ ipotesi che lo studio si è preposto di verificare e cioè che le differenze di genere rilevabili nella patologia autistica non siano specifiche del disturbo ma riflettano quelle che sono osservabili anche nella popolazione non clinica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Ancora su mindfulness e cannocchiale rovesciato

Claudia Perdighe, Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC Roma

 

Rispondo con piacere ad Andrea Bassaninini sul tema mindufness e accettazione e al suo articolo: Mindfulness: stato mentale o funzione della mente? .

Premetto che quanto da me scritto in: Accettazione e mindfulness: guardare le cose dal lato sbagliato del cannocchiale è sempre una buona soluzione? voleva essere uno spunto di riflessione (magari sbagliato) sulla minduflness, non una critica alla mindfulness. Più che altro ho posto domande, non ho offerto risposte. L’intento era provare a riflettere su come e quali componenti producono cambiamento e che tipo di cambiamento in una cornice CBT; quindi non contro, ma pro un uso strategico, specifico della mindfulness (versus Terapie Uniche).

 

Primo punto. Seguendo il suo commento, partirei dal tema decentramento e mindfulness. Bassanini scrive: Ma nell’esperienza della pratica non c’è distanziamento! E poi distanziamento da cosa?

Non entro nel merito della presenza o meno di vissuti di distanziamento o decentramento nell’esperienza soggettiva di mindfulness. Il decentramento, definito come capacità di guardare alle proprie esperienze interne (pensieri, sensazioni, emozioni) come a eventi transitori (che non richiedono una reazione) e non come dati di realtà (Fresco, Moore, et al. 2007), però, mi sembra un aspetto niente affatto alieno alla mindufulness.

Se nella terapia cognitiva di seconda generazione, il decentramento dai contenuti mentali è stato considerato un importante processo di cambiamento, ma solo come facilitatore del vero cambiamento, quello dei contenuti mentali (Hollon e Beck, 1979), nelle terapie di terza generazione il decentramento (e tutti i processi sovrapponibili o che lo favoriscono) diventa scopo e strumento centrale di cambiamento: il cuore di questi interventi non è più la modificazione dei contenuti mentali, ma il cambiamento di atteggiamento verso questi contenuti (Teasdale et al., 2002; Carmody et. al., 2009; Suer e Baer, 2010).

Diversi autori suggeriscono che la pratica mindfulness è un modo per apprendere la capacità di decentramento (Shapiro et al., 2006; Teasdale et al., 2002) e che decentramento e mindfulness siano costrutti altamente sovrapponibili (Carmody e et al., 2009). In questo senso nelle terapie basate sulla mindfulness, il decentramento è promosso in modo diretto e intenzionale.

Il punto, quindi, non è se c’è distanziamento e decentramento dagli stati interni, ma se l’addestramento massiccio al decentramento possa avere, soprattutto se non calibrato sul singolo paziente, anche effetti indesiderati (come guardare dal lato sbagliato del cannocchiale). È una domanda, un dubbio, non una risposta.

 

Secondo punto. Andrea è in disaccordo sulla definizione di accettazione come processo di disinivestimento dagli scopi compromessi o minacciati, che a me sembra quella sottostante alla mindfulness.

Alcune osservazioni:

  • un conto è la descrizione dello stato soggettivo di accettazione, altra cosa è provare a chiedersi se parliamo sempre dello stesso stato mentale quando parliamo di accettazione;
  • in linea con quanto sostenuto in altre sedi (Mancini e Perdighe, 2011), credo che in alcune forme di accettazione il focus sia sulla valutazione dell’esperienza soggettiva, sul problema secondario in termini cognitivisti, e che ci sia il rischio di una rinuncia al cambiamento dello stato del mondo (in coerenza con quanto sostenuto sopra sul decentramento);
  • non ho niente da eccepire sulla definizione di Hayes di accettazione tanto più che, come ho scritto, la rinuncia al cambiamento non è vera per l’ACT, che secondo me ha tra i suoi aspetti qualificanti proprio l’enfasi sui valori (scopi terminali) e sull’impegno fattivo su questi.

 

Terzo punto. Andrea Bassanini scrive Accostare gli stoici e Abhidharma (la psicologia buddhista, per come viene considerato in Occidente) mi lascia un senso di inquietudine e di ingiustizia che provo a trasformare in parole...

Intanto, per solidarietà con gli stoici, mi inquieto anche io! Non volevo offendere mindfulness e Oriente con le mie riflessioni e, comunque, non considero un’offesa l’accostamento a una parte (non omogenea e non riducibile all’indifferenza alle emozioni) cosi importante del pensiero occidentale.

Dire che stoicimo e filosofie orientali sono molto diversi, comunque, non nega possibili similitudini in qualche aspetto. L’accostamento nasceva, poste differenze enormi tra loro e all’interno delle stesse, dal fatto che entrambe hanno il focus dell’accettazione nell’atteggiamento verso la reazione soggettiva a un evento (e, infatti, sono efficacissime sulla riduzione dei problemi secondari).

Quarto punto. Riguardo alla questione Cosa rende la mindfulness terapia?

Il tema che volevo sollevare era proprio: cosa qualifica un intervento come psicoterapia piuttosto che come addestramento a qualcosa che fa bene? La mindfulness nella maggior parte dei casi è applicata da terapeuti, per cui non credo sia esentata dal porsi il problema del razionale dell’intervento. E, infatti, la TCBM (terapia cognitiva basata sulla mindfulness di Teasdeale e coll.), offre un razionale molto chiaro per l’uso della mindfulness nei depressi. Il punto è se il razionale è sempre così chiaro nelle diverse applicazioni. Se e dove la mindfulness si ponesse al di sopra di queste questioni, non capirei più in che senso debbano essere i terapeuti e non maestri e istruttori ad applicarla.

 

Quinto punto. Riguardo allo stato mentale promosso dalla mindfulness

Andrea mi sembra che dica: la mindfulness è soprattutto processo (addestramento a) e non mi occupo, come terapeuta o istruttore mindfulness, di che tipo di stato mentale ne risulti ne dei valori sottostanti.

Le soluzioni che proponiamo alla sofferenza, io credo, contengono sempre inevitabilmente anche aspetti valoriali (oltre che teorie). Non credo sia evitabile.

Magari sbagliando, ma la vera questione che sollevavo è che mi sembra che, se mal applicata, la mindfulness contenga il rischio di inibire il cambiamento e l’investimento su valori o scopi nel potere della persona. A questo proposito, ho sempre trovato curioso il fatto che le pratiche di meditazione, tra cui la mindfulness, vadano tanto per la maggiore tra manager americani (addirittura, parte della formazione in alcune scuole per manager) e in generale tra categorie professionali sottoposte ad altissimi livelli di stress (come testimonia tra i tanti l’articolo su State of Mind di Fiabane e coll.). Sicuramente aiutano a sopportare meglio lo stress, ma il dubbio è: se per sopportare certe condizioni lavorative bisogna imparare a sopportare di più lo stress, quando possibile non sarebbe meglio sottrarsi alla situazione invece che imparare a tollerare meglio il disagio connesso?

 

La mindfulness è un arricchimento per la psicoterapia cognitivo-comportamentale? Vero. È del tutto chiaro come funziona e gli stati mentali implicati? Meno vero.

Se applicata all’interno di un contesto psicoterapico, credo sia legittimo interrogarsi su che stati mentali promuove, magari anche in relazione alle varie forme applicate. Del resto, come suggerisce Hayes, flessibilità è anche non essere troppo fusi con i processi che promuovono la flessibilità.

 

ARTICOLI SULLA MINDFULNESS

 

BIBLIOGRAFIA:

Esperimento sociale della prigione di Stanford: arriva il film

The Stanford Prison Experiment è il titolo del nuovo film basato sul famoso esperimento sociale condotto dall’Università di Psicologia dell’Università di Stanford, in California.

Il film uscirà nelle sale statunitensi il 17 Luglio, mentre non si hanno ancora informazioni circa l’uscita nelle sale italiane.

L’esperimento condotto nel 1971 dal Prof. Philip Zimbardo consisteva nel selezionare dei volontari e assegnarli a due diverse categorie: quella dei secondini e quella dei carcerati; l’obiettivo era quello di osservare quali comportamenti i soggetti partecipanti mettessero in atto rispetto al ruolo che gli era stato assegnato. L’esperimento fu molto discusso e criticato in quanto si riteneva che fosse stato lo stesso Zimbardo a fornire suggerimenti alle guardie su come comportarsi e ad aver generato volontariamente un’escalation nei comportamenti.

Il regista del film è lo statunitense Kyle Patrick Alvarez mentre lo sceneggiatore è Tim Talbott. Nel cast sono presenti gli attori Olivia Thirlby, Ezra Miller e Billy Crudup.

È stato diffuso negli ultimi giorni – e sta girando molto su internet – il trailer di The Stanford Prison Experiment, un film che racconta il controverso esperimento della prigione di Stanford: un esperimento psicologico che nel 1971 ricreò le dinamiche di un carcere, dividendo dei volontari che scelsero di parteciparvi tra carcerati e secondini.

 

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Prof. Philip Zimbardo – My journey from evil to heroism

Il film sull’esperimento della prigione di Stanford – Il PostConsigliato dalla Redazione

Esperimento sociale di Stanford: arriva il film

È stato un famoso (e molto criticato) esperimento psicologico: è uscito il trailer del film che ne racconta la storia. (…)

Tratto da: Il Post

 

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Intervista a Liliana Cavani: un viaggio dall’infanzia all’attualità della regista

L’iniziale riserbo è diventato racconto, un fiume di parole, di ricordi, di antiche sensazioni. Una casa affollata di parenti a Carpi, l’incontro della bambina con la morte, l’amore dei nonni, l’assenza del padre. E poi l’amore della giovane donna per la storia, un amore che diventa riflessione sul Male, sulla rimozione, sulla intolleranza.

 

Non è facile intervistare Liliana Cavani su temi che non siano strettamente legati al suo lavoro di regista. Il suo pudore nel parlare di se stessa è contagioso, sulle prime può apparire una barriera invalicabile. [blockquote style=”1″]Preferisco parlare del mio lavoro. Ma proviamoci. Registra?[/blockquote] Dice con un tono perplesso.

E così ho registrato. Una conversazione lunga un intero pomeriggio nella penombra del suo salotto. L’iniziale riserbo è diventato racconto, un fiume di parole, di ricordi, di antiche sensazioni. Una casa affollata di parenti a Carpi, l’incontro della bambina con la morte, l’amore dei nonni, l’assenza del padre. E poi l’amore della giovane donna per la storia, un amore che diventa riflessione sul Male, sulla rimozione, sulla intolleranza. La banalità della somatizzazione, il piacere della risata, la necessità della solitudine. Il breve viaggio nella psicoterapia e quello più lungo nella fratellanza, concetto che muove il suo lungo percorso nella conoscenza di San Francesco. Infine la ricerca di sé attraverso la storia delle religioni, e soprattutto la convinzione che la speranza sia una virtù indispensabile per la specie umana.

 

-Come era Liliana Cavani bambina? Testarda, paurosa, timida?

Ero molto vivace a scuola. Non stavo mai ferma nel banco, minimo dondolavo una gamba.

-Un ricordo che le è rimasto impresso?

Avevo una maestra in prima elementare che mi lasciava fare. Siccome ero rapida a fare le cose, mi guardava con benevolenza e non mi stava addosso. Aveva circa 60 anni, un giorno è stata male ed è arrivata una supplente, che avrà avuto 30 anni. Io ovviamente ero sempre io, facevo le stesse cose, non stavo mai ferma. Per castigo mi ha fatto stare in piedi e io ho ubbidito, però parlavo un po’. E allora mi ha chiamato, stava alla finestra dove c’erano i termosifoni e si scaldava le mani, improvvisamente mi ha dato un ceffone. Un ceffone imprevisto, non ti fai neanche da parte perché non te lo aspetti. Arriva e basta. È stato il primo e l’unico della mia vita, ma ne ricordo sempre il risuono sulla guancia. Oltretutto non avevo mai visto una cosa del genere, in casa mia nessuno si picchiava, per me era una novità.

– Come reagì?

Sul momento non versai una lacrima. Ma arrivata a casa trovai mia zia Libera, che aveva 8 o 9 anni più di me e che stava giocando con le amiche davanti al portone, e appena la vidi scoppiai a piangere. Neanche mia nonna riusciva a consolarmi, ero disperata. Io sono cresciuta con i nonni e le zie, e siccome non ero una che si lamentava, rimasero un po’ perplesse. Andarono a scuola a lamentarsi ma poi tutto finì lì, perché era una supplente, una persona fuori controllo, e difatti finì a fare la segretaria. Ma il ricordo è rimasto indelebile.

– Questo episodio ha poi influenzato in qualche modo la sua vita?

No, è stato superato. Ma sono sensibile alla violenza, anche se non ricevi un ceffone i violenti sono inaccettabili.

-Dice di essere stata una bimba vivace. Paure ne aveva?

Paure strane. Mi spaventai una sera vedendo dal mio letto sull’armadio un pallone gonfiabile, di quelli colorati a spicchi, improvvisamente sgonfio. Era finito in niente, rimasi interdetta, impaurita. E questo fa il paio con un altro episodio, successo quando ero molto piccola, avrò avuto due, massimo tre anni. Ero in braccio a zia Delfina e una vicina, che si chiamava Ribella, mi mostrò un bambolotto piuttosto grande, io lo toccai pensando fosse un bambino, invece era rigido. Mi fece una grande un’impressione, ho urlato come una pazza. Mai più ho voluto avere bambolotti, ne ho avuti in seguito, ma solo piccini.

-Crescendo ha avuto altre paure?

Abitavamo a Carpi sul corso Vittorio Emanuele, e alla fine c’era il Parco. Nel parco c’era l’ospedale, e nell’ospedale c’era l’obitorio. Come tutti i bambini ero curiosa e vedendo tante persone che andavano in una stanza un giorno le ho seguite, così ho visto il mio primo morto dai piedi.

-Che età aveva?

Avrò avuto circa sei anni. Era estate, sono sicura, perché c’era un parente che col fazzoletto mandava via le mosche. In effetti mi ha fatto un po’ effetto. Non è che non ci dormivo, però rimasi impressionata. Un’altra volta, e avrò avuto 8 anni, seguii un funerale che passava dal parco, ma mi fermai ai margini del cimitero, proprio lì dove aprono le bare che tirano su dal terreno dopo dieci anni. Ho assistito all’apertura di una cassa, c’era una salma ancora abbastanza composta, ma erano solo ossa.

-In famiglia sapevano di queste sue, chiamiamole, esperienze?

Assolutamente no, sapevo che non dovevo andare in giro quindi non dicevo niente. Ma la vista di quella salma sicuramente mi impressionò, la notte dormii tutta coperta, neanche la manina fuori.

-Si è misurata presto col concetto di morte.

Avevo un amichetto che perse la madre quando aveva sette o otto anni. Si chiamava Igea la mamma. Lui forse si chiamava Romolo. L’avevano esposta in casa e c’erano tutte queste persone intorno a lei, e io mi chiedevo ma perché non la svegliano? Perché non si muove? Non capivo il passaggio… era nella bara vestita, ma non parlava, era immobile. Il bambino non domanda, rimane attonito in queste occasioni, poi mette insieme le cose, le assomma. Ecco, probabilmente le ricordo e gliele racconto così, in fila, perché questa cosa della morte mi ha preoccupato quando ero piccola, non capivo l’evento, il seguito, il perché. Allora c’era un distacco fra gli adulti e i bambini molto più grosso di quello che c’è adesso.

-Oggi in genere tutti tengono alla larga i bambini dalla morte.

Sì, ma questa signora abitava al mio piano. Era inevitabile passare, entrare. Mi vedo ancora che guardo un attimo, non posso dimenticare l’impressione che mi fece perché non si muoveva. E poi, sempre su questo piano, c’è un altro episodio che mi è rimasto impresso. Una mattina che uscivo sul corso per andare a giocare al parco vidi tante persone tutte agitate che andavano verso la piazza. E allora io che faccio? Vado anch’io. C’era una folla vicino al castello, vidi dei repubblichini che mandavano indietro la gente. Io, essendo più piccola, riuscii a farmi largo. All’alba avevano ammazzato sedici partigiani, e infatti oggi si chiama piazza dei martiri, e io li vidi. Un gruppo di giovani uomini, gettati l’uno sull’altro a terra, col sangue raggrumato. E i parenti erano tutt’intorno tenuti fermi dai repubblichini. Impedivano di portarseli via, dovevano stare lì al momento, come esempio, come nell’Antigone. Quell’episodio, tutti quei cadaveri, mi tornò in mente quando giravo il film “ I cannibali”, l’avevo cancellata. Ma ora è come se la vedessi, nei minimi dettagli. Eppure non l’avevo mai raccontata a nessuno, neanche in casa mia, evidentemente un meccanismo di rimozione mi aveva fatto dimenticare.  Il passaggio tra il non sapere e la coscienza che c’è la vita e la morte nessuno te lo spiega. Ognuno forse lo apprende così, dagli eventi della vita come lo ho appreso io. Chi vedendo un parente che muore, chi un amico. D’altronde è un’iniziazione, che ti costringe a ragionare, a capire.

-La paura da bambino può incidere sulla crescita.

Mah, a me non ha tolto la vivacità. Ogni bambino prima o poi prende coscienza che ci sono persone che vanno via. Altre paure non ne ricordo, forse del buio come tutti i bambini. Anzi, mia madre mi raccontava delle favole paurose, ed era un po’ un gioco, perché mi piaceva dormire nel letto con lei, e in quei casi a volte ci riuscivo. Il lupo arriva sulle scale, è dietro la porta, ti mangia in un boccone! Nell’urlo l’abbracciavo e la paura si scioglieva.

-Era molto affollata la vostra casa?

Per una serie di ragioni ho vissuto in prevalenza con i nonni. In casa c’erano anche due sorelle di mia madre e un fratello. Io ero la più piccola, sì, sono cresciuta in un mondo di adulti. Però siccome mi divertiva studiare, riuscivo a isolarmi facilmente. Mi riesce ancora oggi.

-Ha bisogno della solitudine?

Per il mio lavoro ho bisogno di approfondire, di capire. La solitudine in questi casi mi è utile, l’apprezzo molto. Però non troppa, mi piace anche molto la compagnia, ho sempre avuto molti amici.

-Mai avuto paura della solitudine?

Finora no. Ma non sono mai stata obbligata a stare sola in un posto e magari avere paura. Non mi piacerebbe neanche esserci in un luogo simile, sicuramente non me lo vado a cercare. Mi piace la solitudine quando la scelgo, quando ne ho necessità, cosa che mi accade e allora diventa una solitudine necessaria e anche bella. E’ come l’aria che entra dalle finestre aperte di casa dopo che sono state chiuse. Una solitudine temporanea e scelta fa sempre molto bene, bisognerebbe prescriverla. È equilibrante soprattutto se si amano persone, perché si ha modo di pensarle meglio, più liberamente, di desiderare il loro bene davvero, cosa che non è sempre facile.

-Ha avuto rapporti con la psicanalisi?

Ho fatto due anni di psicoterapia in seguito alla morte di una carissima persona, un’amica di vecchia data cui volevo molto bene. Pensavo di non avere più l’età per l’analisi, era il 2004, però mi andava di ragionarci ma non da sola. Sandra Sassaroli mi ha consigliato una psicanalista molto in gamba, che mi ha aiutato molto, sono riuscita a parlare. Poi dopo un paio di anni ho smesso.

-Come mai?

Un viaggio ha i suoi tempi, almeno quel viaggio lì.

-Prima non era mai stata attirata dalla psicanalisi? Negli anni 80 era difficile incontrare un intellettuale che non fosse in analisi.

Ho scelto un lavoro che mi ha fatto analizzare molte cose, anche dentro di me. Certo che ero  interessata all’analisi, altroché, mi ci sono buttata a pesce, ma col mio lavoro. Agli inizi della mia carriera ho girato documentari, come “Storia del Terzo Reich”, che mi hanno fatto pensare, riflettere, analizzare. Quando sei costretto per lavoro a guardarti minuto per minuto tutto il materiale filmato della seconda guerra mondiale, quando vedi le scene dell’apertura dei lager, il contatto con la realtà è affrontato furiosamente, la guerra ti si presenta nella sua violenza estrema e con la sua assurdità ancora più estrema di ignoranza e di follia. E poi, quando sono andata a fare un documentario nelle università tedesche, a parlare di Hitler venti anni dopo con i ragazzi, mi chiedevano chi era. Ecco, in quei casi non puoi non riflettere e farti delle domande sul problema della rimozione e accusare in cuor tuo coloro che vogliono rimozioni senza un minimo di catarsi, senza un percorso di riflessione, senza tentare di capire che cosa è il Male. Senza capire che sulle colpe non espiate cresce erba velenosa. “Portiere di notte”, il germe del film, proviene da questa esperienza fatta per i documentari.  Di psicanalisi mi sono anche appassionata da ragazza leggendo tutto Thomas Mann, Musil. Mi interessava più quel mondo lì di quello francese, che invece ho indagato più tardi. Molte riflessioni le ho fatte anche quando ho girato Milarepa. Mi interessavo di testi di altre religioni, mi interessava il perché delle religioni, quindi l’analisi e la ricerca di sè attraverso la religione. Il viaggio interiore . La mia è stata una perenne ricerca di capire il senso delle cose fondamentali, compresi la primarietà di certi affetti nelle loro varianti di parentela, di amicizia, di amore.

-Da cosa nasce questa sua curiosità per le religioni?

Sono cresciuta in una famiglia molto laica, direi atea. Mio nonno e mia nonna si sposarono in municipio nel 1917, mio nonno era un socialista anarchico, mia nonna veniva da una famiglia tradizionalmente cattolica che abbandonò per sposarlo. Però non erano mangiapreti, avevano una mentalità tollerante, un’aspirazione profonda per una società giusta e libera. Non c’era odio, era contemplato che l’educazione fosse il frutto di una scelta in libertà con fondamentali di rispetto reciproco per tutti. Anche i cattolici dalle nostre parti sono stati galantuomini, più civili della media. Questo mi ha impedito di essere schierata poi come tanti miei colleghi. E per questo, forse, qualche volta ho incontrato non dico dei nemici, ma non ero appoggiata mai da nessuno.

-Quando si trova di fronte a un nemico, come reagisce?

Ci rimango male. Perché trovo ingiusto l’ostilità quando non c’è una motivazione.

-Ma come reagisce?

Niente, non faccio nulla. Quando soffro ho l’herpes e l’ulcera, che mi sono venuti insieme a 16 anni. Soffrivo più di quanto sapessi il rapporto con mio padre. Somatizzavo come poi ho sempre fatto, come del resto capita a tutti. Non c’è l’anima e il corpo. C’è il corpo che è anche anima .

-Nel suo lavoro, ci saranno momenti in cui sembra che niente funzioni, che tutto vada a rotoli.

Certo, anche per l’ultimo “Francesco”, sembrava non partisse mai.

-Come reagisce, si arrabbia?

Lì c’è poco da incazzarsi, con chi? Sono i poteri di chi ha il denaro. Voglio dire, so benissimo che ci sono tante cose ingiuste che capitano e mi sono capitate, ma spesso non ci puoi fare niente.

-Ma la rabbia lei ogni tanto la prova?

Sì, la provo ma raramente la esprimo. No, non la tiro fuori, mi ammalo. Il mio è un mestiere complesso, non conosco un collega a cui sia sempre andato tutto bene. I registi, ne conosco, sono spesso persone complicate ma al tempo stesso anche ingenue, capaci di soffrire molto ma anche di rallegrarsi presto. Ho sempre provato simpatia per i miei colleghi uomini o donne perché condivido tante loro ansie.

-Sul set, un attore fa i capricci, succede un imprevisto, urla mai?

Urlato no, mai. E perché? Non ricordo di avere litigato con un attore, a parte che cerco di sceglierli giusti, perché mi piace che mi portino anche qualcosa di imprevisto. Ma non ho mai avuto un brutto incontro. Gli attori principali cerco di averli dieci giorni prima, così leggiamo la sceneggiatura, ci conosciamo bene, e soprattutto parliamo della nostra vita. Mi ricordo quando venne Mickey Rourke a Roma dieci giorni prima delle riprese come avevo voluto. Il produttore dapprima non voleva pagare i dieci giorni in più di albergo. Invece è stato importantissimo, deve esserci il tempo di conoscersi. Pensavano che Mickey fosse un mezzo matto, quasi un balordo, invece è la più dolce persona che ho incontrato oltre ad essere l’attore più bravo che ho avuto. L’importante è conoscersi a questo mondo, provare a capirsi. Poi sugli attori ci sono spesso leggende stupide, io ho trovato sempre persone notevoli e umanamente molto ricche.

-Anche nella vita di tutti i giorni non litiga con gli amici?

Discuto, caspita se discuto.

-Non arriva mai a un punto di rottura?

Capita, e mi spiace tanto, se una persona mi fa un grosso torto e soprattutto se è una persona alla quale ho dato molta fiducia. Lì ci rimango di merda, e ingenuamente mi aspetto delle scuse. Se non arrivano resto in silenzio, ma non mollo. La persona deve almeno riconoscere un pochino i suoi torti. Mi è successo per esempio con un collaboratore con cui ho scritto una sceneggiatura su Mozart, ha pubblicato un libro usando il nostro lavoro ma firmandolo da solo. Rimasi malissimo. Evidentemente non lo conoscevo bene. Avrei dovuto sospettare, perché lasciò in malo modo sua moglie. Già uno che lascia la moglie mi fa restare male, ma se la lascia in malo modo diventa quasi infrequentabile.

-Quindi la delusione la fa soffrire?

Sì, se la delusione viene da una persona alla quale ho dato amicizia. Poi è difficile che torni sui miei passi. Cioè ci torno, ma per modo di dire. Finisce la complicità, ma a quel punto me ne frego. Devo dire però che non mi è successo spesso.

-Altri tipi di sofferenza nei rapporti con le persone?

Una fonte di sofferenza è stato mio padre, che praticamente si è disinteressato di me, e questo mi ha fatto male. Ma non mi ha neanche troppo segnata, perché sono cresciuta in una famiglia molto aperta, nel senso che nessuno faceva pesare niente. Nella mentalità dei miei nonni c’era tanta accoglienza, quindi se ne fregavano che mio padre se ne fregasse di me, dopotutto la famiglia ce l’avevo. Non ne parlavano, non ne facevano un dramma.

– Lei non ha il cognome di suo padre.

Non l’ho mai voluto. Si era fatto vivo tardi e io ho voluto a quel punto tenere il cognome della famiglia di mia madre. In seguito quando sono venuta a Roma e lui abitava lì, non si ricreò un clima affettivo. Diventai molto amica di una sua compagna, una pittrice fantastica intelligente e accogliente. Lui fatalmente era amico di persone delle quali poi diventai amica anche io, della Roma intellettuale, però non ho mai sentito il bisogno del suo appoggio, proprio perché non c’era quasi mai stato. Se era per lui (lo disse a mia madre quando facevo il liceo) dovevo trovarmi un marito e imparare a fare le tagliatelle. Eppure si credeva moderno.

-Quindi non le è pesata la mancanza di una figura paterna.

Avevo un nonno e una nonna molto forti, per me il modello di famiglia era quello, non mi mancava qualcosa. Sono cresciuta con molta libertà.

-Spesso quando i padri spariscono, negli anni si rischia di impostare rapporti con la paura dell’abbandono.

Ma io non ero abituata a vedere mio padre, quindi non posso dire di essere stata abbandonata. Non c’era. Abbiamo avuto degli incontri nel corso degli anni. Essendo un architetto mi ha fatto visitare già da ragazzina e a tappeto città come Vienna, Firenze, Roma. Devo riconoscere che è stato il primo a farmi conoscere l’arte con profondità e pazienza; ecco questo è stato un suo merito che gli riconosco.

-Lei è una persona allegra?

Beh, non è che vivo di risate, però amo l’allegria, adoro ridere. L’ultima grande risata me la sono fatta con Francesca Reggiani, che ha fatto di recente uno spettacolo all’Ambra Jovinelli dove ho riso per due ore di seguito. Ma è difficile trovarsi in situazioni che ti fanno ridere.
Difficile anche circondarsi di persone allegre, eppure quanto sono importanti! E devo dire che quasi sempre secondo me le persone tetre sono spesso anche un po’ stupide.

-Vorrebbe circondarsi di persone allegre?

Vorrei, ma poi ci sono persone allegre con cui si fanno grandi risate che nel tempo si rattristano, quella che poi si scopre malata, quella che sposa l’uomo sbagliato. È la vita che ha i suoi pesi. Non trascorro la mia vita con persone lugubri, questo no, ma se ci fosse da ridere di più ci starei. Per esempio io non so fare film comici, però mi piacciono.

-La mia impressione è che lei sia una persona che richiede molto a se stessa.

Non so. Dipende da quale è lo standard della richiesta.

-È sempre stata una diligente?

Beh non scappavo da scuola, ma avevo 8 e non 10 in condotta. Mi piaceva quello che facevo, non soffrivo studiando. Da ragazza mi sono tradotta l’Iliade da sola per passione, poi sono andata all’esame che leggevo il greco come il giornale. I librini con le note mi annoiavano molto così, traducendo verso dopo verso, mi è capitato di fare un viaggio dentro alla guerra di Troia. Lo vedo ancora, mi sono molto divertita.

-Il viaggio è un po’ una costante nel suo lavoro.

Sì, per girare Milarepa sono partita. Allora non si poteva andare in Tibet occupato dai cinesi, quindi prima sono andata in India, poi sono andata a Katmandu, dove allora non andava nessuno. Sono stata via due mesi.

-Quando dicevo viaggio, non intendevo tanto nei luoghi, ma era un termine metaforico di viaggio mentale.

Beh, Francesco per me è un viaggio.

-Aldo Grasso sul Corriere ha scritto che Francesco è l’ossessione della Cavani.

Che vorrà mai dire con ossessione? È un percorso. Perché un solo viaggio in certi posti non è sufficiente. Prendiamo Roma. Se uno ci fa un solo viaggio non la capirà mai. Roma ha strati diversi, vari e profondi. Francesco lo si sta scoprendo solo da qualche tempo, è stato il rivoluzionario più totale. Mentre il comunismo ha vantato l’uguaglianza, lui ha vantato la fratellanza, che è tutta altra cosa, un’altra visione sulla natura del mondo. Non siamo uguali, ma possiamo essere fratelli. Un concetto di una modernità incredibile.
Ci sono tante cose belle e tante tremende nell’individuo. Ignorarle sarebbe da sciocchi, ci sono tutte e due. Eppure l’uomo ha potenzialmente tutto in sé dall’alfa all’omega, intendo l’uomo che pensa che immagina che approfondisce che cerca.

-L’individuo alla fine ci salverà?

Salvarci da che cosa? Forse dalla banalità, dalla volgarità? Dalla morte? Dalla morte no perché la morte non esiste, lo dico seriamente. Ne convengono tutte le religioni. D’accordo con la scienza bisogna ammettere delle trasformazioni sulle quali però siamo ancora troppo ignoranti. Dio è vita comunque. I Vangeli sono un testo serio. E la Speranza è la virtù più civile che ci sia. Se non ci fosse nella specie umana questa virtù i manicomi e le prigioni avrebbero avuto tanti e tanti ospiti di più.

-C’è gente sospettosa, che mai dà la fiducia. Lei non mi sembra fra questi.

Io sono ingenua. Mia madre mi ha sempre detto che lo ero troppo, mi metteva in guardia. Invece avere fiducia non guasta. Certo prendi delusioni, ma io ho incontrato tante persone valide, intelligenti. Se sospetti sempre, se hai paura della delusione, poi non fai mai niente. Mia madre mi dava dell’ingenua perché io vado, faccio, mi butto, provo. Ma l’ingenuità va bene, ti aiuta ad aprire delle porte, a superare ostacoli. Altrimenti, se stai troppo ad analizzare tutto quanto, finisci davvero a perdere tempo e ti impedisci tutto l’imprevisto.

 

 

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Alessitimia: i progressi negli ambiti della teoria, della ricerca e degli strumenti di valutazione

Rossana Piron, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Modena

L’alessitimia deriverebbe da un crollo del processo referenziale, causato da condizioni avverse durante l’infanzia, come traumi o conflitti.

L’alessitimia è un costrutto della personalità complesso e multidimensionale ed è stato associato a diversi disturbi medici e psichiatrici. Fu descritto per la prima volta nel 1948 da Jurgen Ruesch nell’articolo “The infantile personality” (Ruesch, 1948), e successivamente introdotto nella comunità scientifica da Nemiah e Sifneos (1970) nella prima metà degli anni Settanta.

Fino agli anni Ottanta erano stati pubblicati solamente 120 articoli sull’argomento, oggi se ne contano più di 1800, grazie alla diffusione di recenti studi empirici e di nuovi strumenti di valutazione.

Alle origini il costrutto dell’alessitimia fu associato alle malattie psicosomatiche classiche, successivamente anche ad altri quadri psicopatologici come il disturbo post-traumatico da stress, l’uso di sostanze, disturbi alimentari e disturbi di personalità. Per questo motivo è considerato un costrutto transdiagnostico.

 

Le caratteristiche peculiari dell’alessitimia:
– difficoltà nell’identificare i sentimenti e nel distinguere i sentimenti dall’attivazione fisica di natura emozionale;
– difficoltà nel descrivere agli altri i sentimenti;
– ridotta capacità immaginativa e scarsità di fantasie;
– stile cognitivo orientato all’esterno. 

I progressi relativi alla teoria delle emozioni negli ultimi quindici anni hanno contribuito a una comprensione più ampia dell’alessitimia. Di particolare rilievo è stata la teoria del codice multiplo di Bucci (1997) sull’elaborazione delle emozioni, in linea con le ultime ricerche in ambito delle scienze cognitive e delle neuroscienze. Secondo questa teoria, le emozioni derivano da processi sub-simbolici (sensazioni viscerali e sensoriali) collegati con l’arousal fisiologico e da elementi simbolici (immagini e parole) che vengono rappresentati nella mente. Il collegamento tra sensazioni somatiche e rappresentazione mentale avverrebbe grazie ad un processo referenziale, che permette ai processi sub-simbolici di tradursi in un concetto logicamente organizzabile e mentalmente rappresentabile.

L’alessitimia deriverebbe da un crollo del processo referenziale, causato da condizioni avverse durante l’infanzia, come traumi o conflitti (Bucci, 2008). La qualità dell’attività referenziale può essere esplorata clinicamente attraverso l’ascolto della narrazione del paziente, la quale tende a evocare immagini e affetti nell’ascoltatore quando l’attività è alta, e a suscitare un senso di monotonia e piattezza emotiva quando l’attività referenziale è bassa.

Contributi di ricerca sull’alessitimia

Superato il campo della medicina psicosomatica, la ricerca si è poi spostata su altri ambiti di interesse, come gli studi evolutivi e l’attaccamento, studi di brain imaging e indagini sulla correlazione tra alessitimia e mentalizzazione. Sembra che l’alessitimia sia associata a stili di attaccamento insicuro, in particolare insicuro-distanziante, ma anche a stili preoccupati e timorosi (Montebarocci et al., 2004; Troisi et al., 2001). L’attaccamento insicuro è stato associato a una ridotta mentalizzazione, intesa come capacità di leggere e comprendere gli stati mentali propri a altrui, inclusi i sentimenti, le credenze e le intenzioni (Fonagy e Target, 1997). Recentemente Fonagy, Bateman e Luyten (2012) hanno evidenziato la stretta correlazione esistente tra mentalizzazione e alessitimia.

Diversi studi in ambito cognitivo e metacognitivo hanno indagato la correlazione tra l’alessitimia e diverse condizioni psicopatologiche, l’abuso di sostanze e tratti di personalità. Sebbene non ci siano studi empirici che dimostrino una relazione diretta tra il costrutto e i disturbi di personalità, è però stato accertato il legame con alcuni tratti della personalità. In uno studio su pazienti ricoverati per alcolismo, l’alessitimia risulta correlata in modo positivo con tratti di personalità evitante, schizoide e antisociale (De Rick, Vanheule, 2007). Più recentemente, uno studio su pazienti ricoverati in una clinica per il trattamento di disturbi di personalità ha evidenziato che un maggior livello di alessitimia era presente in pazienti con elevati tratti di personalità del cluster C del DSM-IV, rispetto a quelli con bassa alessitimia (Nicolò et al., 2011).

Per quanto riguarda la ricerca sperimentale, pare che i livelli del neuropeptide ossitocina abbia un ruolo nel determinare il riconoscimento delle espressioni facciali. Sono state condotte delle ricerche per indagare se il livello di ossitocina possa migliorare la mentalizzazione in soggetti con elevati livelli di alessitimia. Un recente studio sperimentale (Luminet et al., 2011) ha confrontato le prestazioni di soggetti con alti e bassi livelli di alessitimia al Reading the mind in the eyes test: è un test formato da trentasei fotografie di volti con espressioni facciali emotive complesse. Per ogni fotografia, veniva chiesto ai partecipanti di scegliere tra diversi quattro stati emotivi. Dallo studio è emerso che i soggetti con un basso livello di alessitimia avevano buone prestazioni sia con la somministrazione di ossitocina, sia in condizione placebo, mentre i soggetti con alti livelli di alessitimia avevano prestazioni di gran lunga migliori con la somministrazione di ossitocina rispetto al gruppo di controllo. I risultati dello studio quindi evidenziano che l’ossitocina migliorerebbe la capacità di riconoscimento delle emozioni altrui, in particolare di quelle negative.

Strumenti di valutazione dell’alessitimia

Lo strumento maggiormente utilizzato per la valutazione dell’alessitimia su ampia scala è la TAS-20. Si tratta di un questionario di auto-somministrato formato da 20 item e diviso in tre scale fattoriali: difficoltà a identificare i sentimenti, difficoltà a esprimere i sentimenti agli altri e stile cognitivo orientato all’esterno. Manca la valutazione della ridotta capacità di fantasticare e di accedere ad altri processi immaginativi. Trattandosi di un questionario di auto-valutazione, il limite dello strumento sembra essere quello di chiedere una valutazione dei processi mentali a pazienti che per definizione hanno poca consapevolezza e scarsa capacità introspettiva (Lumley et al., 2007).

Al fine di migliorare la qualità della ricerca, il gruppo di Toronto di Bagby e collaboratori (2006) ha sviluppato un nuovo strumento, la Toronto Structured Interview for Alexitymia (TSIA). A differenza degli strumenti self-report, le interviste strutturate permettono al clinico di verificare e di esplorare la qualità della risposta dell’intervistato e di indagare eventuali dubbi sulla loro veridicità (Perry, 1992).

 

L’intervista è formata da 24 item, sei item per ognuna delle quattro dimensioni dell’alessitimia:

DIF (difficulty identifying feeling), difficoltà a identificare i sentimenti (item 1.5.9.13.17.21): riguarda la difficoltà o la confusione nell’identificare emozioni e sentimenti, o nella distinzione tra sentimenti diversi;
DDF (difficulty describing feeling), difficoltà a descrivere i sentimenti agli altri (item 2.6.10.14.18.22): tale difficoltà è valutata esplorando la capacità dell’intervistato di esprimere verbalmente le emozioni e di utilizzare il linguaggio per comunicare i propri sentimenti;
EOT (externally-oriented thinking), stile cognitivo orientato all’esterno (item 3.7.11.15.19.23): gli item valutano lo stile di pensiero dell’intervistato, in particolare se il pensiero è orientato più sugli eventi esterni, persone e luoghi, rispetto alle esperienze interne.
IMP (imaginal processes), processi immaginativi (item 4.8.12.16.20.24): gli item valutano la capacità dell’intervistato di dedicarsi a fantasie o ad altre attività immaginative. Alcuni item riguardano il fantasticare, altri riguardano l’utilizzo dell’immaginazione e il grado di interesse verso queste attività.

Ciascun item viene segnato su una scala a 3 punti, alcuni item fanno riferimento alla frequenza, altri all’intensità. Il punteggio totale varia da 0 a 48, e i punteggi più alti indicano un alto livello di alessitimia. La TSIA è considerata ad oggi lo strumento principe per la valutazione dell’alessitimia, è già stata tradotta in diverse lingue, tra cui l’italiano. La traduzione è stata curata da Caretti (2011) dopo essere stata validata sul piano psicometrico.

Il progresso nella ricerca e lo sviluppo di nuovi strumenti di valutazione hanno permesso di uscire da una visione categoriale del costrutto, per rinforzare gli aspetti dimensionali. Non esiste più la differenza tra pazienti alessitimici e non alessitimici, ma il costrutto è visto come un raggruppamento di caratteristiche cognitive e affettive, che possono accompagnare molti quadri diagnostici con diversa frequenza e intensità.

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FLASH NEWS

Peter Silverstone è il creatore di EMPATHY, un programma pilota utilizzato a scuola per favorire la diminuzione di ansia, depressione e suicidi tra i giovani studenti.

Peter Silverstone, docente presso il dipartimento di Psichiatria dell’Università di Alberta, è anche il creatore di EMPHATY (Empowering a Multimodal Pathway Towards Healthy Youth), un programma pilota utilizzato nella scuola Red Deer dal 2013 per favorire la diminuzione di ansia, depressione e suicidi tra i giovani studenti.

La ricerca, pubblicata sull’edizione di Maggio della rivista PLOS ONE, conferma definitivamente l’efficacia di questo programma. Silverstone afferma:

Abbiamo ottenuto un significativo decremento delle tendenze suicide tra i ragazzi. Mettono anche in pratica meno condotte autolesive e ci pensano meno. Sono anche diminuiti gli indicatori di ansia e depressione in tutta la scuola. Questi sono dati importanti.

L’esperienza è iniziata con uno studio pilota che coinvolgeva tutti gli studenti della scuola Red Deer, i quali avevano un’età compresa tra gli 11 e i 18 anni. All’inizio dell’anno scolastico, più di 3.000 studenti sono stati sottoposti ad una batteria di test, al fine di valutarne il grado di benessere mentale e assegnare loro un punteggio sulla scala EMPATHY.

Immediatamente dopo questa prima fase valutativa, è stato effettuato un rapido intervento rivolto al 4% dei giovani che si erano rivelati ad alto rischio suicidario o comunque aventi gravi condotte autolesive. Nel giro di poche ore questi ragazzi avevano potuto partecipare ad un training sulla resilienza, era stata data loro la possibilità di partecipare ad un programma Internet guidato riguardante tematiche salienti, e infine i loro genitori sono stati informati delle problematiche, fornendo loro linee guida su come approcciarsi a tali questioni nel contesto del rapporto con i propri figli. Dopo aver preso parte a questo programma, i ragazzi sono stati valutati nuovamente e, se necessario, indirizzati ad uno specialista.

Inoltre, tutti gli altri studenti hanno potuto beneficiare di un training sulla resilienza della durata di 16 settimane, il cui scopo era quello di migliorare le capacità relazionali dei ragazzi e incrementare la loro tolleranza alle frustrazioni quotidiane in modo tale da ridurre stress e depressione.

I risultati mostrano la riduzione effettiva di depressione e condotte autolesioniste dopo 12 settimane. Il numero di studenti con tendenze suicidarie è diminuito, da 125 a 30. Il livello di depressione degli studenti è sceso del 15%, mentre i punteggi di ansia sono diminuiti dell’11%.

Grazie a questo programma, le capacità di resilienza degli studenti migliorano e questo porta risultati positivi sia nel contesto scolastico che nella vita quotidiana afferma Mark Jones, preside della scuola. Silverstone, entusiasta, dice che questo studio mostra risultati importanti, e non ci sono altre ricerche come questa.

Tuttavia, egli si mostra preoccupato per il futuro del programma EMPATHY. Infatti, erano stati promessi dei fondi da investire in futuro tuttavia, con il cambio di governo, c’è il rischio che tale promessa non sia mantenuta e che il programma, mostratosi così efficace, non possa continuare, impedendo oltretutto di studiarne la portata a lungo termine. Conclude Silverstone

Approcci di questo genere possono ridurre il rischio di depressione o disturbi d’ansia nei ragazzi, nonché permettono di identificare precocemente eventuali problematiche e di intervenire, quale genitore non vorrebbe questo per i propri figli?

 

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BIBLIOGRAFIA:

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