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Tipologia delle tracce – Tracce del tradimento Nr. 17

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XVII: Tipologia delle tracce 

 

Quasi una dichiarazione esplicita di tradimento sono l’espressione di vari bisogni incomprensibili, come quello di “avere un momento di riflessione”, “trascorrere un periodo per proprio conto”, “ritrovare se stesso”, “capire cosa fare della propria vita”, “conoscere davvero se stessi”: in sostanza essi spesso sono la richiesta di allontanarsi e in genere si concretizzano in una richiesta specifica come le vacanze separati o crearsi uno spazio abitativo privato, inaccessibile all’altro.

Probabilmente il fatto che nell’esprimere questi bisogni il soggetto si mostri in difficoltà, smarrito, tremante come persona che ha perduto la strada, suscita nell’altro un atteggiamento di comprensione, tendenzialmente benevolo e accondiscendente; altrimenti non si spiega come spiegazioni ingenue, vecchie e conosciute, riescano invece a sembrare credibili proprio agli occhi del primo destinatario che spesso chiede consiglio su come aiutare il proprio partner in difficoltà oltre che nel modo già scelto e più ovvio consistente nel lasciargli tutta la libertà di allontanarsi.

Conservare in posti più o meno segreti bigliettini e lettere è da sempre un classico per essere scoperti; non esiste posto sufficientemente sicuro e prima o poi, magari in corrispondenza delle pulizie pasquali o del trasloco o della ricerca della pompa della bicicletta i reperti verranno immancabilmente alla luce. Conservare delle prove tangibili della relazione segreta sembra rispondere al bisogno di esserne certi, di avere a propria volta le prove di qualcosa che, sconosciuto a tutti, potrebbe effettivamente non esistere. E così si archiviano non solo le lettere ricevute ma anche la triste fotocopia delle proprie inviate; carteggi veri e propri, privi solo di numero di protocollo, in attesa forse di essere pubblicati in appendice alla propria biografia.

Tale bisogno di disseminare prove tangibili dell’avvenuta relazione deve essere molto intenso in quanto fa trascurare il fatto che, scrivendo lettere, si mettono in mano ad un’altra persona, che oggi è l’angelo che dà senso alla nostra vita ma domani potrebbe diventare il demone che la rende invivibile, degli strumenti di ricatto formidabili; gli si dà la possibilità di poter, in qualsiasi momento, far saltare la serena riconquistata vita familiare per i motivi più vari e imprevedibili. Oggi le lettere scritte su carte pregiate e particolari sono state ampiamente soppiantate dalle e-mail che in quanto a riservatezza non sono molto più sicure: basti pensare che sono in rete, nel web. Noi mettiamo nella piazza più grande e condivisa, nata proprio per impedire le barriere al diffondersi della conoscenza, i segreti più grandi della nostra piccola vita protetti da una breve stringa di caratteri composta, magari, dalle iniziali dei nomi dei nostri figli o dalla nostra data di nascita. Deve certamente trattarsi di una forma grave di esibizionismo, del desiderio di essere finalmente protagonisti di qualcosa di sconvolgente, di risvegliare gli aspetti drammatici di una esistenza altrimenti piuttosto assonnata.

Si, certamente, esistono le password a protezione dei matrimoni; ma pur non considerando la facilità di aggiramento di questi sistemi domestici che non necessitano per essere scavalcati di hacker in grado di entrare nella banca dati del pentagono, il segnale stesso del tradimento è costituito dalla messa in atto di questi sistemi. Perché fino a ieri il “computer era di tutta la famiglia” ed oggi per riuscire a scrivere una e-mail occorre ricordare a memoria una mezza dozzina di parole d’ordine di cui le ultime due sono diverse per i due coniugi perché “un po’ di privacy ci vuole anche nella coppia”? La traccia non è protetta dal segreto e dalla riservatezza, anzi, essi stessi diventano traccia; già si sostanzia quell’esclusione che costituisce il nucleo essenziale del tradimento. Un tempo il ripetuto passaggio di una malattia infettiva tra due persone che non avevano ufficialmente occasione di una vicinanza particolare poteva destare sottili sospetti, come quell’influenza o quell’herpes che colpiva sempre contemporaneamente papà e la domestica per non parlare delle malattie a inequivocabile trasmissione sessuale che arrivavano nella coppia coniugale non si sa da dove (la tesi difensiva più accreditata era la scarsa igiene dei bagni pubblici).

Una signora trentacinquenne teneva celata la sua passionale storia d’amore dietro un paio di password che riteneva invalicabili; lo stesso disco rigido era suddiviso in tre parti: una per lei, una per il marito ed una per i bambini. Sicurezza assoluta mista a compiacimento assaporava nel tenere così vicine le sue identità di madre amorevole, moglie fedele, professionista impegnata, amante senza freni. Un giorno tuttavia, mentre era fuori per lavoro il computer si ruppe seriamente e il marito, sapendo quanto per lei fosse uno strumento utile e per non lasciarla sola al suo ritorno, chiamò un tecnico informatico…

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

L’influenza della relazione di attaccamento sullo sviluppo di malattie

Martina Lattanzi – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Negli ultimi anni è di grande interesse per gli studiosi capire in che modo la relazione di attaccamento si ripercuote sulla crescita del bambino, soprattutto l’influenza che può avere sullo sviluppo di malattie somatiche. Gli studi hanno indagato i meccanismi che potrebbero mediare la relazione tra attaccamento e stato di salute del soggetto.

L’importanza della figura materna nella relazione di attaccamento e della qualità della relazione stessa per lo sviluppo psicologico del bambino è un fattore ormai noto grazie agli studi pioneristici di Bowlby. Meno indagate invece sono le conseguenze della relazione di attaccamento sullo sviluppo fisico del bambino e in particolare sull’insorgenza di malattie somatiche o psicosomatiche sia nell’infanzia che nell’età adulta. 

I punti centrali della teoria dell’attaccamento di Bowlby riguardano: la necessità che il bambino abbia un rapporto caldo e intimo ininterrotto con la madre e le conseguenze negative di una deprivazione prolungata di cure materne sullo sviluppo di disturbi psicologici e comportamentali.

Grazie agli studi condotti da Mary Ainsworth (1978) attraverso la procedura della Strange Situation è stato possibile distinguere 4 forme di attaccamento nella relazione madre-bambino:

  • Attaccamento sicuro in cui il bambino ha sviluppato la percezione di se stesso come soggetto meritevole di affetto e di cura, accompagnato dalla sensazione di fiducia nei confronti della figura di attaccamento, vista come affidabile e disponibile.
  • Attaccamento insicuro evitante in cui il bambino tende ad avere poca fiducia nell’altro, teme di essere rifiutato e inibisce i propri comportamenti. I bambini evitanti nella relazione di attaccamento hanno sperimentato una madre che non li ha sempre valorizzati e spesso è stata una madre carente di affetto e tenerezza.
  • Attaccamento insicuro ambivalente/resistente in cui il bambino presenta spiccata ansia e angoscia verso la madre con atteggiamenti ambivalenti di ricerca della vicinanza e rifiuto. I bambini insicuro-ambivalenti hanno sperimentato nella loro infanzia una madre incostante e contraddittoria, iperprotettiva o intrusiva o totalmente indifferente.
  • Attaccamento disorganizzato/disorientato (definito da Main e Solomon nel 1986) in cui il bambino è disorientato e confuso. Si tratta di una forma di attaccamento associata spesso allo sviluppo di gravi psicopatologie, in quanto il bambino ha sperimentato una figura di attaccamento non sicura bensì patologica o maltrattante/abusante.

In base alla qualità della relazione di attaccamento ogni bambino si costruisce dei modelli operativi interni di se stesso, del mondo e delle relazioni di se stesso con l’ambiente. Tali modelli sono relativamente stabili nel tempo per questo le prime esperienze di attaccamento con le figure genitoriali costituiscono lo stampo per quelle future, riproponendosi nei diversi contesti relazionali incluso l’ambito medico.

Negli ultimi anni è di grande interesse per gli studiosi capire in che modo la relazione di attaccamento si ripercuote sulla crescita del bambino, soprattutto l’influenza che può avere sullo sviluppo di malattie somatiche. Gli studi hanno indagato i meccanismi che potrebbero mediare la relazione tra attaccamento e stato di salute del soggetto.

Un’importante ricerca condotta da Maunder e Hunter (2001) ha indagato l’associazione tra attaccamento insicuro e sviluppo di malattie sia durante l’infanzia che nell’età adulta. Dalla ricerca emerge come bambini affetti da malattie croniche presentano in prevalenza un attaccamento insicuro. In particolare all’interno delle diverse forme di attaccamento insicuro è emerso che la forma insicuro-evitante sia quella maggiormente associata a malattie quali: otite media ricorrente (McCallum e McKim, 1999), fibrosi cistica (Simmons et al., 1995), epilessia (Marvin e Pianta, 1996), asma (Mrazek et al., 1987), difetti cardiaci di origine genetica (Golberg et al., 1991), difficoltà di crescita (Ward et al., 1993), disturbi di conversione senza spiegazione medica (Kozlowska, 2007).

La presenza di una malattia cronica nella vita di un bambino comporta una serie di cambiamenti significativi all’interno della famiglia sia a livello psicologico che relazionale. La malattia cronica e invalidante va a condizionare lo sviluppo psico-fisico del bambino, andando ad influenzare la relazione di attaccamento con i genitori, i quali potrebbero modificare il proprio atteggiamento nei confronti del figlio malato con una maggiore probabilità di instaurare una relazione iper-protettiva, o mantenere una certa distanza come difesa dall’ansia. Questa potrebbe essere la spiegazione di una maggiore incidenza dell’attaccamento insicuro tra i bambini malati cronici rispetto ai bambini sani (Bruno, 2009).

Per quanto riguarda invece l’associazione tra attaccamento infantile e salute dell’adulto in alcuni studi è emersa una relazione significativa tra attaccamento insicuro e psoriasi diffusa a placche (Picardi et al., 2005), torcicollo spastico idiopatico (Scheidt et al., 2000), malattie infiammatorie croniche come la rettocolite ulcerosa e il morbo di Crohn (Maunder et al., 2000).

La relazione fisica con la madre funge da regolatore esterno di una serie di reazioni fisiologiche fondamentali per la sopravvivenza, per questo, l’assenza della figura di attaccamento materna nelle prime fasi di vita del bambino può compromettere non solo un sano sviluppo ma anche la sopravvivenza stessa: gli studi sperimentali di Hofer (1995; 2001) condotti sui cuccioli di ratto hanno dimostrato come la madre svolge un ruolo centrale appunto nella regolazione di funzioni biologiche fondamentali quali: ciclo sonno-veglia, la produzione dell’ormone della crescita, favorendo l’acquisizione dell’autoregolazione autonoma.

Questi regolatori nascosti esterni legati alla relazione materna sono presenti anche nell’uomo, dimostrando l’importanza della qualità della relazione con il caregiver al fine di acquisire un’autoregolazione dei processi fisiologici. Quindi il bambino sviluppa gradualmente la capacità di autoregolazione degli stati psicologici e somatici grazie alla iniziale dipendenza e vicinanza con la madre, al contrario precoci esperienze di separazione o di trascuratezza andranno a minare tale acquisizione importante, costituendosi come fattore di rischio per lo sviluppo di malattie nell’adulto.

Nella ricerca di Maunder e Hunter (2001) lo stile di attaccamento è associato agli indici biologici di malattia nel diabete e nella rettocolite ulcerosa. In particolare nei pazienti diabetici l’attaccamento distanziante è associato ai livelli di glucosio nel sangue mentre nei pazienti con rettocolite ulcerosa l’attaccamento ansioso media l’associazione fra depressione e stato attivo della malattia che altrimenti sarebbe latente. Il legame fra attaccamento infantile e malattia sembra essere mediato da diversi fattori in particolare dalla percezione e risposta allo stress, dalla presenza o meno del supporto sociale, dalla regolazione affettiva e dai fattori protettivi.

L’attaccamento insicuro può influire in vari modi sulla regolazione dello stress. Può infatti aumentare lo stress percepito e influenzare l’intensità o la durata della risposta fisiologica allo stress.

Il sistema di attaccamento è legato alla biologia di risposta allo stress: i soggetti con attaccamento insicuro, preoccupato e distanziante, tendono a percepire in modo più intenso e prolungato l’attivazione fisiologica dello stress, riportando un aumento degli indici di cortisolo (definito l’ormone dello stress, proprio perché la sua produzione aumenta nelle situazioni di stress psico-fisico) e della frequenza cardiaca. Questi bambini vivendo continuamente in uno stato di insicurezza e preoccupazione, sperimentano maggiormente e in modo continuativo la condizione di stress, rispetto ai bambini con attaccamento sicuro. I bambini con attaccamento distanziante al contrario sperimentano in modo meno intenso lo stress. Inoltre i soggetti preoccupati che sono caratterizzati da uno stato di attivazione fisiologica costante per cui percepiscono continuamente una sensazione di allarme saranno maggiormente sensibili a qualsiasi sensazione enterocettiva percepita come una possibile minaccia. I soggetti distanzianti invece tenderanno a inibire l’espressione dei propri bisogni e a sottovalutare i segnali di pericolo o minaccia, percependo meno stress. La tendenza a sopravvalutare o sottovalutare i segnali corporei è associata alla maggiore o minore richiesta di intervento medico.

Il comportamento di malattia (Pilowswy, 1978) riguarda proprio il modo in cui vengono sperimentati, percepiti e manifestati i sintomi somatici. E’ strettamente influenzato da fattori di tipo educativo e sociale e anche dallo stile di attaccamento del soggetto. Ci sono infatti persone che tendono a rivolgersi al medico per qualsiasi sintomo percepito, ricercando continue rassicurazioni, chi invece tende ad aspettare un tempo maggiore a volte per fin troppo, prima di rivolgersi al medico, mostrando un certo evitamento.

Alcuni studi hanno rilevato un’associazione tra stile di attaccamento e comportamento di malattia alterato: bambini con attaccamento distanziante, ad esempio, che sin da piccoli hanno appreso a negare qualsiasi manifestazione di disagio psicologico o fisico, da adulti presentano un comportamento di malattia caratterizzato da un rifiuto verso la figura del medico o da una tendenza a non prestare attenzione ai chiari segni della presenza di una patologia per cui sarebbe necessario un consulto medico (Ciechanowsky, 2002). Questo comportamento è stato appreso durante l’infanzia in cui, a causa di ripetute esperienze di rifiuto, per non turbare la relazione di attaccamento con la figura di accudimento, i bambini evitanti hanno imparato a minimizzare l’espressione dei bisogni e le richieste di aiuto (Baldoni, 2010). Al contrario bambini con attaccamento insicuro preoccupato, tenderanno da adulti a riferire un maggior numero di sintomi somatici con maggiore richiesta di consulti medici (Ciechanowsky, 2002).

L’importanza della relazione di attaccamento madre-bambino per la salutare crescita del piccolo emerge anche nel processo di acquisizione dell’ integrazione psicosomatica (Winnicott, 1954), ovvero il processo attraverso il quale gradualmente il bambino sviluppa un sé sia fisico che psichico e arriva a concepire l’esistenza di un’unità tra il proprio corpo e la mente. A tal fine è fondamentale la presenza dell’adulto che guida alla formazione di un sé autentico, all’integrazione delle esperienze corporee ed emotive, fino all’acquisizione di una consapevolezza psico-fisica. E’ proprio grazie alla presenza di una madre sufficientemente buona (Winnicott, 1954), in grado di sintonizzarsi affettivamente (Stern, 1985) con i bisogni del bambino e di rispondere adeguatamente alle sue esigenze, che il bambino riuscirà a integrare l’esperienza corporea con quella mentale. Solo una volta raggiunta tale acquisizione il bambino potrà sperimentare se stesso in modo autentico, fare esperienza del vero sé e acquisire un senso di esistenza nel proprio corpo.

Diversamente il bambino non sarà in grado di rappresentarsi simbolicamente gli stati mentali e le emozioni associate a specifiche sensazioni corporee (ogni stimolazione fisiologia corrisponde ad una diversa emozione che il bambino comprende grazie alla funzione di rispecchiamento materno) con una conseguente scissione mente-corpo che favorirà l’instaurarsi di disturbi fisici (Baldoni, 2010). La scarsa integrazione fra vita psichica e esperienze corporee favorisce l’insorgenza sia di disturbi comportamentali come irrequietezza, insonnia, disturbi dell’alimentazione, sia di disturbi fisici funzionali o organici come disturbi gastrointestinali, dermatologici, respiratori, allergici. Un adulto che da piccolo non ha ricevuto quella protezione e accudimento necessarie affinchè si sviluppi in lui un sé sano sarà una persona maggiormente soggetta a sviluppare malattie somatiche di tipo metabolico (diabete), cardiovascolari (aritmie, ipertensione, infarto), patologie endocrine (tiroide), disturbi gastrointestinali (dispepsia, ulcera, color irritabile) e cancro (Baldoni, 2010).

A tal proposito sono interessanti gli studi che riguardano l’associazione tra malattie dermatologiche e relazione di attaccamento. Per spiegare questa possibile correlazione bisogna considerare il ruolo centrale delle emozioni: la capacità di decodificare le emozioni sperimentate mentalmente permette al soggetto di comprendere i propri stati affettivi, altrimenti senza la consapevolezza della vita mentale si potrà avere una disconnessione tra mente e corpo con una tendenza alla focalizzazione somatica in caso di emozioni intense. Il soggetto che non riesce a decodificare la propria esperienza emotiva tende a trasferire la sofferenza sul piano somatico, sperimentando così un maggiore malessere fisico. Nello sviluppo di tale capacità il ruolo della madre risulta fondamentale: è la madre infatti che riflettendo lo stato mentale del bambino lo restituisce dotato di significato. Solo attraverso l’acquisizione di mentalizzazione (Fonagy, 2002) il bambino riesce a simbolizzare il proprio stato interiore, che è determinante per la regolazione delle emozioni.

Nello studio di Pasquini e collaboratori (1997) si è indagata la correlazione tra stile di attaccamento e malattie della pelle, correlazione mediata sia dallo stress che dalle emozioni. Un ruolo chiave nella modulazione della suscettibilità alle malattie dermatologiche sembra essere svolto da un minore sostegno sociale e da differenze individuali legate da un lato alla capacità di regolazione emozionale e dall’altro al livello di insicurezza nell’attaccamento. In particolare si è osservato che l’attaccamento insicuro di tipo evitante tende ad essere associato ad un maggior rischio di insorgenza di alopecia areata, esacerbazione della psoriasi a placche e aggravamento della vitiligine (Picardi, 2003).

Pur essendo da interpretare con cautela e richiedendo ulteriori studi, i recenti risultati che documentano una associazione tra sicurezza dell’attaccamento, salute fisica e alcune importanti funzioni biologiche, suggeriscono la necessità di prestare attenzione alla relazione di attaccamento e alle differenze individuali nello studio delle malattie psicosomatiche.

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Empatia cognitiva o affettiva: differenze di densità della materia grigia

Vanessa Schmiedt

FLASH NEWS

In uno studio pubblicato sulla rivista Neuroimage, i ricercatori della Monash University hanno cercato di identificare se le diverse componenti dell’empatia siano anche associate a differenze di materia grigia.

Per navigare con successo nel nostro ambiente sociale è importante comprendere e sperimentare gli stati emotivi altrui, un processo generalmente indicato come empatia. L’empatia implica una componente affettiva, l’esperienza soggettiva delle emozioni degli altri, e una componente cognitiva, la capacità di capire le motivazioni degli altri (Bernhardt e Singer, 2012; Decety, 2011; Shamay-Tsoory, 2011).

Quando consideriamo la componente affettiva dell’empatia l’enfasi è tipicamente posta sul vivere gli stati emotivi degli altri consapevolmente, il che implica una distinzione sé-altro, nonché una comprensione della provenienza dell’esperienza emotiva. Menon e Uddin (2010) suggeriscono che la consapevolezza emotiva si verifica perché l’insula crea una rappresentazione delle emozioni positive e negative integrando le stimolazioni ambientali con sensazioni corporee. La componente cognitiva dell’empatia si basa invece sull’attribuire stati emotivi agli altri e identificarsi con uno stato mentale altrui. Parzialmente richiama i meccanismi di fondo della teoria della mente. Le regioni cerebrali più comunemente associate con la teoria della mente sono la corteccia prefrontale dorso mediale (dmPFC) e la giunzione temporoparietale (TPJ).

In una recente meta-analisi di 40 studi di risonanza magnetica funzionale, Fan et al. (2011) hanno valutato come diverse regioni cerebrali fossero coinvolti nell’empatia affettiva e cognitiva. È stato dimostrato che la componente affettiva dell’empatia era più associata con l’attività dell’insula, mentre la componente cognitiva di empatia alla corteccia medio-cingolata e alla corteccia prefrontale dorso mediale (MCC/dmPFC).

Alla luce di questo, in uno studio pubblicato sulla rivista Neuroimage, i ricercatori della Monash University hanno cercato di identificare se le diverse componenti dell’empatia siano anche associate a differenze di materia grigia. I ricercatori hanno utilizzato la morfometria basata sui voxel (tecnica di analisi di neuroimaging che consiste nell’investigazione di differenze focali nell’anatomia del cervello) per esaminare la densità della materia grigia in 176 partecipanti a cui precedentemente era stato assegnato un punteggio del loro livello di empatia cognitiva o affettiva con il Questionnaire of Cognitive and Affective Empathy (QCAE; Reniers et al., 2011).

Punteggi più alti nella scala dell’empatia affettiva erano associati con una maggiore densità di materia grigia nell’insula, invece punteggi più alti nella scala cognitiva erano associati con una maggiore densità di materia grigia nella MMC/dmPFC.

Con questi risultati, Eres e colleghi hanno fornito la prova del fatto che l’empatia sia un costrutto multicomponenziale, suggerendo che l’empatia affettiva e quella cognitiva siano rappresentati in modo differente nella morfometria cerebrale e inoltre hanno fornito ulteriori elementi di prova che l’empatia sia rappresentata da diversi correlati neurali e strutturali.

La scoperta ovviamente solleva nuovi interrogativi infatti Eres afferma:[blockquote style=”1″] In futuro si vuole indagare se effettuare training sull’empatia possa portare a cambiamenti in queste strutture cerebrali e se il danno in queste strutture cerebrali, ad esempio in seguito ad un ictus, può portare a difficoltà nel provare empatia .[/blockquote]

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Gli attacchi di panico – Introduzione alla psicologia Nr. 22

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 22)

 

 

Molte persone durante l’arco della loro vita hanno avuto modo di sperimentare un attacco di panico. L’attacco di panico dura una manciata di secondi, ma per chi lo subisce pare duri ore, perché la mente si offusca e le paure più profonde prendono il sopravvento.

La parola panico deriva dalla mitologia greca e più precisamente del “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, che compariva all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore improvviso e poi scompariva velocemente. Le vittime rimanevano incredule all’accaduto, non riuscivano a spiegare cosa fosse successo e non erano in grado di gestire la forte emozione negativa provata.

Allo stesso modo, un attacco di panico è un episodio di breve durata ma molto intenso in cui si vive una forte ansia acuta e improvvisa, accompagnata da una serie di sintomi fisici. L’attivazione fisiologica è interpretata, da chi si trova in questo stato, come qualcosa che ineluttabilmente porterà a conseguenze estreme, tipo morire o impazzire.

 

Sintomi dell’attacco di panico

I sintomi più comuni che coinvolgono il corpo, sono:

  • rossore al viso e talvolta all’area del petto;
  • capogiri, sensazione di stordimento, debolezza con impressione di perdere i sensi;
  • parestesie, più comunemente rappresentate da formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso;
  • difficoltà respiratoria, tecnicamente definita dispnea o soffocamento;
  • aumento della sudorazione oppure brividi, legati a repentini cambiamenti della temperatura corporea e della pressione;
  • nausea, sensazioni di chiusura alla bocca dello stomaco o di brontolii intestinali;
  • tachicardia o palpitazioni, spesso associati a dolori al torace;
  • tremori o scatti.

Inoltre, durante questa esperienza si possono avere le seguenti sensazioni:

  • paura di perdere il controllo;
  • paura di impazzire;
  • non appartenenza alla realtà, derealizzazione;
  • osservare dall’esterno cosa accade al proprio corpo, depersonalizzazione;
  • non gestione di qualcosa di terribile
  • paura o convinzione di stare sul punto di morire;
  • crisi di pianto.

Ogni crisi di panico crea un circolo vizioso in cui i sintomi fisici alimentano quelli mentali e viceversa, paura della paura.

L’esperienza dell’attacco di panico è decisamente invalidante ed è uguale a quella sperimentata da una persona di fronte ad un reale pericolo. Sicuramente è una situazione molto intensa emotivamente e cognitivamente, dopo la quale si ha la percezione di essere molo deboli, stanchi e confusi.

Dopo aver subito il panico si vive nella costante paura possa tornare (paura della paura). Si tratta chiaramente di una trappola che mantiene la persona nella sensazione di panico.

Questa paura induce il soggetto a monitorare costantemente i segnali fisici, di conseguenza l’ansia cresce e la paura si auto-alimenta (circolo vizioso di mantenimento).

La prima cosa che si pensa quando si è colpiti dal panico è che sta per manifestarsi un grave problema organico, irrisolvibile, come un infarto fulminante o un ictus.

Per questo, all’attacco di panico seguono sempre accertamenti medici aventi lo scopo di individuare la causa del malessere vissuto. Se si trattasse di un problema legato alla sfera della salute sarebbe più facile da accettare piuttosto che percepire di avere qualcosa di psichico.

Di conseguenza, escludendo la causa fisica l’individuo rimane incredulo e spaventato perché non sapendo a cosa imputare quel terribile evento ha la percezione di essere vulnerabile e fragile.

In questo caso, è importante farsi aiutare da uno specialista che possa indurre la persona a sperimentare alternative ai pensieri scaturenti il panico, prima che tale patologia possa cronicizzarsi. Infatti, in casi estremi gli attacchi possono manifestarsi molto frequentemente, addirittura anche più di una volta al giorno.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Advanced Training in Terapia Metacognitiva Interpersonale, Firenze – Report (II parte)

Il 27-28 giugno si è tenuta la seconda parte dell’Advanced Training in Terapia Metacognitiva Interpersonale organizzato da Scuola Cognitiva Firenze. Il weekend non solo ha concluso il livello avanzato, ma è andato a chiudere un percorso cominciato mesi prima con il Basic Training, che ha visto come docenti Giancarlo Dimaggio e Raffaele Popolo, soci fondatori, assieme a Giampaolo Salvatore, del Centro TMI di Roma.

Coerentemente con la linea adottata negli incontri precedenti, Raffaele Popolo ha mantenuto un’impostazione molto pratica delle lezioni, coinvolgendo attivamente i partecipanti e riducendo ai minimi la classica lezione frontale con le slide.
Durante il weekend i presenti hanno potuto ascoltare registrazioni audio di due sedute intere da 50 minuti di uno stesso paziente, condotte da un terapeuta TMI esperto (Giancarlo Dimaggio) e analizzarle con la lente di ingrandimento, sezionandole in maniera chirurgica e ragionando sulla ratio dietro ogni singolo intervento: cosa ha fatto il terapeuta? Per quale motivo? Cosa sta succedendo nella relazione terapeutica in questo momento? Cosa avreste fatto voi al suo posto?

I punti di forza di questo lavoro didattico sono, a mio avviso, principalmente due.
Il primo vantaggio è che permette di apprezzare come nella Terapia Metacognitiva Interpersonale nulla sia lasciato al caso; sebbene dall’esterno il colloquio sembri essere quasi una chiacchierata in cui per buona parte del tempo si agevola la narrazione di episodi da parte del paziente, in realtà le fasi della seduta e gli interventi sono ben codificati, seppur flessibili. Per esempio, in una delle sedute ascoltate si potevano ben distinguere le fasi di accesso alle parti sane del sé, la riformulazione del contratto e la promozione del cambiamento sulla base di obiettivi concordati durante il colloquio.

Il secondo vantaggio è che ascoltare sedute differenti di uno stesso paziente ha permesso di osservare come il paziente cambi tra una seduta e l’altra a seconda della fase di terapia: il paziente che si trova agli inizi di un percorso e lavora sulla differenziazione è diverso da un paziente che si trova in terapia avanzata e con cui si lavora per promuovere il cambiamento.

In conclusione il corso si è rivelato essere utile per chi nella propria pratica clinica si occupa di disturbi di personalità, colmando uno dei punti deboli degli attuali modelli cognitivisti il cui lavoro terapeutico presuppone un buon funzionamento metacognitivo del paziente, che invece nei disturbi di personalità è compromesso.

Ma non solo; il modello TMI si presta ad essere una valida base da cui partire per poi integrare tecniche derivanti da altri approcci (per esempio dalla REBT alla Mindfulness alla MCT…) perché permette di ricostruire il funzionamento interpersonale del paziente prendendo in considerazione aspetti quali l’immagine di sé e dell’altro, le aspettative e i desideri all’interno di una relazione, fornendo elementi preziosi per formulare un piano terapeutico con pazienti che sebbene non presentino necessariamente dei disturbi di personalità conclamati, difficilmente oggi sono pazienti con un disturbo puro di Asse I, ma presentano tratti di personalità disfunzionali che inevitabilmente possono influenzare la manifestazione o la gestione dei sintomi.

In questo caso, qualora i sintomi fossero particolarmente invalidanti, è opportuno lavorare in urgenza sul sintomo attraverso tecniche comportamentali (in quanto la ristrutturazione cognitiva fallirebbe) e una volta abbassata l’intensità del sintomo lavorare sugli aspetti di personalità (e quindi parallelamente, di riflesso, sul sintomo).

Se a tutto ciò aggiungiamo che il corso si è tenuto in un clima divertente e giocoso, con una classe che ha saputo in buona parte fare gruppo (pranzi, cene e bevute memorabili) e due docenti simpatici e (auto) ironici, si può dire che l’esperienza TMI a Firenze è stata davvero positiva (e a tratti davvero spassosa). E siccome ogni promessa è debito, sappiate che come spiega il modello TMI Raffaele Popolo, non lo spiega nessuno. “Scrivilo, scrivilo, così facciamo rosica’ Dimaggio!!”. (cit.)

 

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Advanced Training in Terapia Metacognitiva Interpersonale, Firenze, 23 e 24 Maggio – Report (I Parte)

E se si nascondesse un killer dentro di noi? La storia del neuroscienziato psicopatico

Sembra un film thriller o horror eppure, nel 2005, il neuroscienziato James Fallon fa un’amara scoperta: cosa si nasconde nel suo cervello? 

Nel corso della sua ultima ricerca sul morbo di Alzheimer, uno scienziato sta esaminando le scansioni cerebrali dei membri della sua famiglia, compreso se stesso (sono soggetti che hanno partecipato alla ricerca come controllo). Un altro progetto di ricerca al quale si è contemporaneamente dedicato è un progetto su dei killer psicopatici. Nell’osservare le lastre del primo progetto però, trova tra queste la scansione cerebrale di uno dei killer, crede di aver fatto confusione con le lastre dei due esperimenti ma, cercando di riparare all’errore, scopre che non è stata fatta alcuna confusione: il soggetto con la scansione cerebrale tipica di un killer è lo scienziato stesso!

No, non si tratta dell’ultimo film horror al cinema, è quanto accaduto davvero al neuroscienziato James Fallon nel 2005. La vita dello scienziato da allora cambia: comincia con le ricerche sul proprio albero genealogico e intervista tutti i suoi colleghi esperti in psicopatia.

Scrive anche un libro The Psychopath Inside: A Neuroscientist’s Personal Journey Into the Dark Side of the Brain, nel quale riflette sul tema nature/nurture e su cosa possa essere fatto per gestire il comportamento degli individui traditi dalla biologia.

Dopo la scoperta lo scienziato sarà stato in grado di rileggere i suoi precedenti comportamenti e trovare dei segnali che confermassero il suo essere biologicamente psicopatico? E i suoi genitori o amici d’infanzia (e non solo) avranno mai notato qualcosa di deviante nel suo modo di agire? e soprattutto…

un ricercatore come Fallon, prima convinto che tutto dipendesse dai geni, avrà cambiato idea sull’impatto dell’ambiente nel determinare personalità e comportamento umano?

Per trovare una risposta a tutte queste curiosità vi rimandiamo alla lettura dell’articolo consigliato, nel quale viene riportata un’interessante intervista al neuroscienziato, alla sua storia e all’impatto che questa ha avuto nella sua carriera da ricercatore. Buona lettura.

You can’t just take genetics and tell if someone’s a criminal or a psychopath…If we know these children can be helped by making sure that they aren’t abused or abandoned—because you’ve got to get there really early—well, then, that would be important to do. I don’t mean to preach.

E se si nascondesse un killer dentro di noi? La storia del neuroscienziato psicopaticoConsigliato dalla Redazione

E se si nascondesse un killer dentro di noi? La storia del neuroscienziato psicopatico - Immagine: 77963085
Il Neuroscienziato Fallon ha scoperto di avere la stessa conformità cerebrale di uno psicopatico, questo l’ha portato a rimettere in discussione l’impatto della genetica nella personalità. (…)

Tratto da: The Atlantic

 

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La dissociazione tra empatia cognitiva ed affettiva nel disturbo borderline di personalità

Fiammetta Monte, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

Recenti ricerche (Guttman and Laporte, 2000; Lynch et al., 2006) evidenziano che nel disturbo borderline vi sarebbe una risonanza esagerata e iperaffettiva con lo stato mentale dell’altro, determinata da una dissociazione tra le componenti affettive e cognitive dell’empatia.

L’empatia è la capacità di immedesimarsi con gli stati d’animo e con i pensieri delle altre persone sulla base della comprensione dei loro segnali emozionali, dell’assunzione della loro prospettiva soggettiva e della condivisione dei loro sentimenti (Bonino, 1994). A livello neurobiologico, la comprensione della mente e dei vissuti dell’altro è sostenuta da una particolare classe di neuroni, definiti neuroni specchio: partecipare come testimoni ad azioni, sensazioni ed emozioni di altri individui attiva le stesse aree cerebrali di norma coinvolte nello svolgimento in prima persona delle stesse azioni e nella percezione delle stesse sensazioni ed emozioni (Gallese, 2005).

Fassino (2009) evidenzia come nell’attivazione dell’empatia si realizza:
Un processamento delle emozioni dal basso verso l’alto, nell’esperienza di condivisione delle emozioni altrui;
Un processamento delle emozioni dall’alto verso il basso, attraverso il controllo delle funzioni esecutive, che permette di regolare e modulare l’esperienza di condivisione.

Questo processamento “a due vie” rende ragione della duplicità dell’empatia, che coinvolge sia il sistema cognitivo che quello affettivo: da un punto di vista cognitivo l’empatia si basa sulla possibilità di comprendere “il punto di vista” altrui e quindi spiegarsi razionalmente l’altrui esperienza emotiva; da un punto di vista affettivo l’empatia permette di sperimentare in prima persona il vissuto emotivo dell’altro. Il coinvolgimento di entrambi i sistemi (cognitivo ed affettivo) permette in definitiva di condividere l’esperienza interiore dell’altro, pur rimanendo consapevoli della distinzione tra le esperienze proprie e quelle degli altri.

Un processo legato all’empatia è la teoria della mente, che può essere definita come la capacità di un individuo di attribuire stati mentali a se stesso e ad altri e di utilizzare tale conoscenza per spiegare e prevedere il proprio e altrui comportamento (Baron-Cohen, Leslie, Frith, 1985). La teoria della mente permette di distinguere tra realtà e finzione, tra uno scherzo e una bugia, di riconoscere le false credenze, di comprendere le metafore, l’ironia e le situazioni cosiddette di faux pas (gaffes).

Anche la teoria della mente può essere suddivisa in due componenti: cognitiva ed affettiva. Mentre la teoria della mente cognitiva si riferisce alla nostra capacità di fare inferenze sulle credenze delle altre persone, la teoria della mente affettiva si riferisce alle inferenze che si possono fare rispetto alle emozioni degli altri.

Con il termine contagio emotivo ci si riferisce a tutte quelle forme di condivisione emotiva immediata ed automatica, caratterizzate da assenza di mediazione cognitiva, vale a dire quelle reazioni automatiche agli stimoli espressivi manifestati da un’altra persona per cui l’emozione è condivisa in modo diretto, non vicario (Bonino, 1998). Mentre l’empatia implica componenti cognitive, affettive e sociali usate consapevolmente e implica la coscienza della distinzione sé/altro, il contagio emotivo è un’esperienza in cui non vi è né consapevolezza del processo di trasmissione/ricezione delle emozioni, né distinzioni chiare tra vissuti delle persone coinvolte.

Il Disturbo Borderline rientra nei disturbi di personalità che sono caratterizzati da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente e ha due nuclei fondamentali: la disregolazione delle emozioni e il malfunzionamento nell’ambito delle relazioni interpersonaliIl malfunzionamento interpersonale è stato messo in relazione principalmente alla disregolazione emotiva e al discontrollo comportamentale manifestati frequentemente dalle persone con DBP.

Recenti ricerche (Guttman and Laporte, 2000; Lynch et al., 2006) evidenziano che nel disturbo borderline vi sarebbe una risonanza esagerata e iperaffettiva con lo stato mentale dell’altro, determinata da una dissociazione tra le componenti affettive e cognitive dell’empatia.

Lo studio di Guttman e Laporte includeva un gruppo di ventisette pazienti BDP e un gruppo di controllo, ai quali è stato somministrato l’Interpersonal Reactive Index (Davis, 1980). I risultati dello studio evidenziavano una minore empatia cognitiva e maggiore empatia affettiva nei pazienti BDP.
Nello studio di Lynch et al., venivano messi a confronto rispetto all’accuratezza nell’identificare espressioni emotive facciali 20 individui con disturbo borderline e venti controlli. Le espressioni facciali delle emozioni venivano mostrate in tutte le variazioni lungo un continuum dalla neutralità alla massima intensità. I risultati evidenziavano che i soggetti BDP identificavano le emozioni (positive e negative) correttamente e ad un’intensità minore dei controlli.

Harari e colleghi hanno condotto uno studio su quarantasette pazienti con disturbo Borderline di personalità, diagnosticati con la Revised Diagnostic Interview for Borderlines (DIB-R), e ventidue controlli, senza disturbi psichiatrici. L’ipotesi da cui muove lo studio era che le peggiori performance dell’empatia cognitiva e della teoria della mente cognitiva possano rendere ragione del malfunzionamento interpersonale tipico dei soggetti BDP, mentre i maggiori livelli di empatia emotiva possono spiegare l’iperreattività emotiva caratteristica dei soggetti con Disturbo Borderline.

Gli aspetti cognitivi ed affettivi delle capacità empatiche sono state valutate usando l’Interpersonal Reactive Index (Davis, 1980), strumento self report composto da 4 sottoscale:
– Perspective Taking: misura la tendenza riportata ad adottare spontaneamente il punto di vista degli altri;
– Fantasy: misura la tendenza a trasporre se stessi a livello immaginativo in storie di libri o film;
– Empathic Concern: registra sentimenti di calore, compassione e preoccupazione per gli altri;
– Personal Distress: misura sentimenti di ansia e disconfort derivanti da situazioni interpersonali tese.

La valutazione della teoria della mente è stata realizzata mediante l’utilizzo del Faux Pas Recognition test di Baron-Cohen (1998). Il test consiste in venti brevi storie che l’esaminatore legge all’esaminato. Dieci storie descrivono una situazione in cui uno dei personaggi commette un passo falso o gaffe. In seguito alla lettura della storia viene chiesto all’ esaminato di identificare la presenza o meno del passo falso e descriverne la natura.

I risultati dello studio di Harari e colleghi evidenzierebbero che:
– Il gruppo di controllo ottiene punteggi più alti del gruppo di soggetti BDP nelle scale che misurano l’empatia cognitiva, rispetto a quelle che misurano l’empatia affettiva;
– Il gruppo con disturbo borderline di personalità ottiene punteggi più alti nella scala dell’empatia affettiva rispetto a quella cognitiva, rispetto ai controlli;
– Differenze significative tra il gruppo di soggetti borderline e il gruppo di controllo si rilevano nella comprensione della teoria della mente cognitiva ma non in quella emozionale, rilevata con il Faux pas recognition test.

Nello studio in definitiva i soggetti BDP mostrano performance peggiori sia nelle misure di empatia cognitiva che in quelle della teoria della mente cognitiva, non si rileverebbero differenze nella comprensione della teoria della mente emozionale, mentre gli aspetti affettivi dell’empatia sono risultati essere persino migliori nei soggetti con DBP. Questo studio suggerisce che i pazienti BDP avrebbero un pattern disfunzionale caratteristico di capacità empatiche, con una minore empatia cognitiva e una maggiore empatia affettiva.

Jeung e. Herpertz (2014), in conclusione in una rassegna di studi sul malfunzionamento interpersonale del disturbo borderline, sostengono che i pazienti BDP dimostrano scarse capacità di mentalizzazione e di assunzione del punto di vista dell’altro, ma anche la tendenza al contagio emotivo. Secondo gli autori l’inclinazione al contagio emotivo potrebbe interagire in maniera sfavorevole con la diffusione dell’identità, tipico delle persone con disturbo Borderline, poiché i processi metacognitivi di alto livello fallirebbero nel modulare il contagio emotivo automatico, di livello inferiore.

Ulteriori studi sono necessari per elaborare un modello di disfunzionamento interpersonale nelle persone affette da disturbo borderline di personalità, che includa i concetti di empatia cognitiva ed affettiva, in modo tale da migliorare l’efficacia dei trattamenti già esistenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’effetto della povertà e del disagio sociale sul rilascio di cortisolo e sullo sviluppo cognitivo dei bambini

FLASH NEWS

La presente ricerca si è proposta in primo luogo di verificare le tipologie di attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che si possono osservare nei bambini esposti regolarmente a situazioni negative in famiglia, in secondo luogo di capire quali sono gli specifici fattori di rischio familiari che possono nel tempo determinare i differenti fenotipi dell’attività dell’asse HPA e infine stabilire se le modalità di rilascio del cortisolo sono associate a differenze nel funzionamento cognitivo.

Nonostante sia noto che un livello socioeconomico basso e i fattori ad esso correlati, come l’instabilità familiare, uno stile parentale non supportivo e l’esposizione alla violenza domestica, abbiano un impatto sul funzionamento cognitivo dei bambini, determinando spesso ritardi nello sviluppo e nei processi di apprendimento, poche ricerche finora si sono occupate di individuare i reali meccanismi che mediano questa relazione. Si sa che ad essere implicato è l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA), la cui regolazione dipende da strutture cerebrali che determinano le risposte emotive e cognitive ai fattori ambientali di stress; in particolare vivere delle costanti esperienze negative in ambito familiare può provocare delle alterazioni dell’asse HPA e della conseguente produzione di cortisolo, causando in tal modo un repentino adattamento alle condizioni avverse a cui si è cronicamente esposti.

A questo proposito sono state avanzate due principali ipotesi, quella dell’”ipercortisolismo”, in cui si sostiene che il trovarsi in un continuo stato di allerta per i pericoli che possono incombere nel contesto familiare generi un aumento nella produzione di cortisolo; al contrario l’ “ipotesi dell’ipocortisolismo” postula che al fine di evitare uno spreco eccessivo di risorse metaboliche e di proteggere quindi il corpo dai danni che gli effetti tossici degli ormoni dello stress possono causare, di fronte a costanti episodi di instabilità, trascuratezza e paura vissuti in famiglia, il rilascio di cortisolo viene diminuito. Le ricerche hanno mostrato che entrambi i pattern possono caratterizzare i bambini esposti a continui fattori di rischio familiari, ma il fatto che pochi studi li abbia testati simultaneamente rende difficile capire quale dei due sia il più probabile. Si è osservato anche che mentre livelli moderati di cortisolo possono mediare un buon funzionamento cognitivo e consolidare le esperienze di apprendimento, livelli costantemente alti o costantemente bassi di tale ormone possono danneggiare le strutture neuronali e quindi intralciare i processi cognitivi.

Sulla base ti tali premesse la presente ricerca si è proposta in primo luogo di verificare le tipologie di attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che si possono osservare nei bambini esposti regolarmente a situazioni negative in famiglia, in secondo luogo di capire quali sono gli specifici fattori di rischio familiari che possono nel tempo determinare i differenti fenotipi dell’attività dell’asse HPA e infine stabilire se le modalità di rilascio del cortisolo sono associate a differenze nel funzionamento cognitivo.

Per poter rispondere a questi obiettivi lo studio presente ha considerato 201 bambini americani di due anni la cui famiglia riversa in una situazione economica difficile e che quotidianamente vivono esperienze di violenza e trascuratezza. I bambini sono stati testati a due, a tre e a quattro anni e durante ciascuna valutazione sono stati raccolti due campioni di saliva; inoltre sono state considerate altre variabili come l’indisponibilità emotiva delle madri, valutata sottoponendo le madri e i loro figli ad un compito di interazione di 10 minuti; la violenza domestica, in questo caso attraverso un’intervista semistrutturata le madri venivano stimolate a raccontare la frequenza, la natura e le conseguenze delle liti tra i genitori a cui i bambini assistevano; lo status socio economico, sulla base del livello di istruzione e dello stato occupazionale dei genitori; l’instabilità familiare, determinata attraverso un questionario che verificava la frequenza di eventi come cambiamenti del caregiver o di residenza, perdita del lavoro o morte di membri della famiglia; infine le abilità cognitive dei bambini all’età di quattro anni.

I risultati hanno individuato all’interno del campione considerato tre tipologie di attività dell’asse HPA, elevata, moderata o bassa; in particolare tra i fattori di rischio familiari che determinano tali pattern sembrano avere un ruolo cruciale l’instabilità familiare e l’indisponibilità emotiva delle madri che causano livelli di cortisolo sia alti che bassi. A differenza di quanto ci si aspettava dalle ipotesi di ricerca invece la violenza domestica e le difficoltà socio economiche non possono essere considerate predittori unici dell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, in quanto ad esempio il basso reddito ha un impatto su molteplici aspetti dell’ambiente familiare. Per quanto concerne il terzo obiettivo dello studio, in linea con i risultati delle ricerche precedenti, si è osservato che livelli di cortisolo costantemente elevati o costantemente bassi determinano delle disfunzioni cognitive a quattro anni; ciò può essere spiegato dal fatto che il rilascio eccessivo può essere tossico per le strutture neuronali, come la corteccia prefrontale e l’ippocampo, mentre una secrezione non sufficiente causa un inadeguato smistamento delle risorse metaboliche che sarebbe necessario per un buon apprendimento.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Pregi e limiti della psicoterapia cognitiva

Sandra Sassaroli Giovanni M. Ruggiero

 

Pregi e limiti della psicoterapia cognitiva

Da qualche tempo si stanno moltiplicando articoli sui limiti della terapia cognitivo-comportamentale. L’ultimo è stato pubblicato sul Guardian: LINK

Le obiezioni sono benvenute, naturalmente. L’entusiasmo per la terapia cognitivo-comportamentale, la prima forma di terapia la cui efficacia sia stata scientificamente testata, non implica che essa sia una cura onnipotente. Come ogni attività umana, essa ha i suoi limiti. Una maggiore consapevolezza delle sue debolezze, e dei suoi punti di forza, aiuterà i pazienti a scegliere bene quando essa può essere utile.

Qui ci preme sottolineare un possibile rischio. Forse a volte la scoperta dei limiti della terapia cognitiva è stata accompagnata dal suggerimento che essa non sia più efficace di altre terapie e che sia quasi stata una moda passeggera. Non è così.

Rimane provata e sicura la maggiore efficacia di questa terapia rispetto a ogni altro trattamento -compresi i farmaci- per alcuni disturbi psicologici,ovvero la depressione e l’ansia (Beck, Rush, Shaw ed Emery, 1979), il disturbo di panico (Clark, 1986), la fobia sociale (Clark e Wells, 1995), il disturbo post-traumatico da stress (Elhers e Clark, 2000), i disturbi alimentari (Fairburn, Shafran e Cooper, 1999) e il disturbo ossessivo-compulsivo (Salkovskis, 1985).

Gli eventuali limiti della terapia cognitiva sono i limiti della scienza: esserne consapevoli non significa ridurre la conoscenza scientifica al livello di una forma relativa di sapere più o meno preferibile rispetto ad altre.

Entrando nel merito, i limiti della terapia cognitivo-comportamentale sembrano riguardare soprattutto la depressione. Vero. C’è da dire che però la depressione fu solo inizialmente il disturbo bersaglio della terapia cognitiva.

In seguito, a partire dagli anni ’80, il vero campo d’azione della terapia cognitiva sono diventati i disturbi d’ansia e alimentari.

Inoltre la terapia cognitiva si è evoluta nelle cosiddette terapie di “terza ondata” ed è diventata applicabile anche ad altri disturbi per i quali non era considerata adatta, come i disturbi di personalità.

Insomma, attenzione. L’articolo del Guardian è ben scritto e ci dice alcune informazioni importanti, ma la conquista centrale della terapia cognitivo-comportamentale, cioè che essa funziona su basi scientifiche, rimane valida.

Il mondo non era migliore quando la psicoterapia era solo un’arte e non una scienza.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Beck, A.T., Rush, A.J., Shaw, B.F., Emery, G. (1979), Terapia cognitiva della depressione. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1987.
  • Clark, D. M. (1986). “A cognitive approach to panic disorder”. In Behaviour Research and Therapy, 24, pp. 461–70,
  • Clark, D. M., Wells, A. (1995), “A cognitive model of social phobia”. In Heimberg, R.G., Liebowitz, M., Hope, D., Scheier, F. (a cura di), Social Phobia: diagnosis, assessment, and treatment. Guilford, New York, pp. 69–93.
  • Ehlers, A., Clark, D. M. (2000). “A cognitive model of posttraumatic stress disorder”. In Behaviour Research and Therapy, 38, pp. 319-345.
  • Fairburn, C.G., Shafran, R., Cooper, Z. (1999). “A cognitive behavioural theory of eating disorders”. In Behaviour Research and Therapy, 37, pp. 1-13.
  • Salkovskis, P. M. (1985), “Obsessional-compulsive problems: a cognitive behavioural analysis”. In Behaviour Research and Therapy, 23, pp. 571-583.

I terapeuti piangono da soli: come può reagire un terapeuta alla morte di un suo paziente?

Cosa succede al terapeuta che perde un suo paziente? Nell’articolo consigliato la psichiatra Robin Weiss, trovatasi di fronte alla difficile esperienza di avere in terapia un paziente che riceve una diagnosi infausta, mette a nudo se stessa, i suoi sentimenti e pensieri, riflettendo sul tema della morte dei propri pazienti.

Ricevere la notizia di qualcuno a noi vicino, ahimè, venuto a mancare è una delle esperienze più tristi e inspiegabili che ci possa capitare.

John Bowlby ha elencato quattro fasi del lutto che colpiscono chi subisce la morte di una persona importante, colui che resta solo ad affrontare l’amarezza e la disperazione, che è la prima fase appunto; segue poi un intenso desiderio e la ricerca della persona perduta. Nella terza fase vi è spesso disorganizzazione: la persona affranta si chiude in se stessa, provando a volte delusione verso una realtà fatta solo di ricordi dell’altro e non della sua presenza. La fase finale prevede una riorganizzazione della propria vita: il dolore man mano si riduce e si comincia ad avvertire un ritorno alla normalità. La persona deceduta viene ora ricordata con un senso di gioia, mista comunque sempre a tristezza.

Cosa succede però al terapeuta che perde un paziente?

Alcuni lettori avranno, purtroppo, già vissuto questa esperienza: qual è stato il vissuto? Nell’articolo consigliato la psichiatra Robin Weiss, trovatasi di fronte alla difficile esperienza di avere in terapia un paziente che riceve una diagnosi infausta, mette a nudo se stessa, i suoi sentimenti e pensieri, riflettendo sul tema della morte dei propri pazienti. La psichiatra giunge alla conclusione che i terapeuti piangono da soli.

La relazione terapeutica prevede un rispettare i limiti, non si può diventare amici dei pazienti e condividere con loro aspetti al di fuori della terapia, eppure, come sottolinea Weiss, nell’arco di quei 50-60 minuti di seduta, il terapeuta diventa per il paziente il winnicottiano genitore sufficientemente buono.

La stessa psichiatra sottolinea come pochi incontri sono così profondamente onesti, e quindi intimi e questo genera profondi sentimenti, un particolare tipo di amore per il cliente.

Eppure, ai funerali del suo paziente, Weiss è lì in ultima fila, munita di fazzoletti. Vede davanti a sé tutti i personaggi che ha conosciuto dai racconti del suo paziente, non sono più solo parole e aneddoti, sono persone vere adesso, che piangono e si consolano per la morte del loro amico. Weiss si sente sola, non c’è nessuno per lei con cui condividere i ricordi del suo paziente e insieme riderne o piangerne…ma del resto i terapeuti piangono da soli.

I pull open my file cabinet drawer and extract several charts: patients who’ve died while I was treating them over the last 20 years that I’ve been in private practice as a psychiatrist. I am gathering material to write about how therapists feel when a patient dies. I make a couple of observations.

How Therapists Mourn?
Consigliato dalla Redazione

I terapeuti piangono da soli: come può reagire un terapeuta alla morte di un suo paziente? - Immagine: 10761605
Our grief happens alone, behind closed doors.

Tratto da: New York Times

 

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La Camera ha approvato la legge sull’autismo, ma si attende il sì del Senato

Con 296 voti favorevoli e 6 contrari la Camera ha approvato la legge sull’autismo, ma al momento si attende il Sì definitivo da parte del Senato.

Il provvedimento fornisce delle disposizioni rispetto alla diagnosi, cura e abilitazione delle persone che presentano un disturbo nell’ambito dello Spettro autistico. Gli interventi previsti, secondo l’articolo 1, dovrebbero essere finalizzati a tutelare e a migliorare le condizioni di vita degli autistici, promuovendo anche un maggiore inserimento sociale. L’articolo 2 sottolinea, invece, l’importanza di aggiornare le Linee Guida sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico, tenendo conto dei fattori fisiologici e terapeutici specifici dell’evoluzione del disturbo. L’articolo 3 ribadisce l’importanza della diagnosi precoce e del trattamento individualizzato, mentre l’articolo 4 attiene l’aggiornamento continuo delle linee di indirizzo per il miglioramento degli interventi assistenziali per i disturbi dello spettro autistico. Infine, gli articoli 5 e 6 concernono i progetti di ricerca e la clausola di invarianza degli oneri finanziari. 

Nei confronti di questo disturbo il Ministero della salute ha avuto, e continuerà ad avere, una forte attenzione: nell’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza che il Ministero ha presentato, e che attualmente è all’esame della Conferenza Stato Regioni, sono stati previsti infatti interventi per i minori con disturbi in ambito neuropsichiatrico e quindi anche per chi soffre di autismo, con nuove possibilità nelle varie aree dell’assistenza: territoriale, domiciliare e anche farmaceutica. Ora non resta che applicarli. Sicuramente quella approvata oggi – ha concluso De Filippo – è una legge programmatica, basata su queste nuove possibilità e sono certo che renderà un servizio importante e costituirà un punto di riferimento rilevante per le politiche regionali su questa materia.

 

Autismo. Anche la Camera approva la legge. Ma il testo deve comunque tornare al Senato per il sì definitivo. Ecco cosa prevede punto per punto – Quotidiano SanitàConsigliato dalla Redazione

La Camera ha approvato la legge sull'autismo ma si attende il sì del Senato

L’Aula di Montecitorio con 296 voti favorevoli e 6 contrari ha approvato la proposta di legge sull’autismo. Nel corso dei lavori sono stati respinti tutte le proposte emendative. Il testo approvato è dunque quello già licenziato dalla commissione Affari Sociali. De Filippo: “Si potranno dare risposte ai bisogni di salute di tante famiglie”. IL TESTO DELLA CAMERA (…)

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Autoregolazione del comportamento: scopi e processi di controllo reattivo (2004) – Recensione

Secondo gli autori, le persone vivono identificando scopi e antiscopi, perseguendo i primi e tenendosi lontani dai secondi. Alcuni scopi sono l’espressione di un programma biologico, altri il frutto di una ponderazione cosciente di possibili alternative, altri ancora derivano da sogni e fantasie, ma i più importanti sono quelli fondamentali per il sé.

Rosario Esposito

Il libro di Carver e Scheier sull’autoregolazione del comportamento è al tempo stesso molto interessante e molto complesso, un vero manuale di 400 pagine sul funzionamento della mente umana con tantissime conclusioni contro-intuitive e altrettante possibili applicazioni cliniche.

Il discorso parte da lontano e necessita di una piccola premessa che non si trova nel libro, ma che risulta fondamentale per capirne la portata. Nel 1943 il Consiglio Nazionale delle Ricerche della Difesa degli Stati Uniti d’America portò a lavorare insieme tre scienziati con lo scopo di trovare una soluzione alla imprecisione dei cannoni nel colpire gli aerei in movimento: Norbert Wiener, matematico, Arturo Rosenblueth, fisiologo e Julian Bigelow, ingegnere elettronico (Rosenblueth era collega di Walter Cannon e Bigelow andrà poi a costruire la macchina IAS con von Neuman). I tre scienziati conclusero che la soluzione consisteva nella capacità del cannone di correggere continuamente se stesso, colpo dopo colpo, e per fare questo inventarono un sistema che tenesse continuamente conto del feedback (retroazione) dell’esito dei proiettili. Il sistema si basava su un radar che forniva informazioni a un calcolatore sulla rotta dell’aereo nemico da abbattere, della velocità e del tempo impiegato dal proiettile a raggiungerlo. Dopo ogni colpo, il radar comunicava al sistema l’entità dell’errore di tiro, in modo che il calcolatore potesse effettuare le necessarie correzioni, il ciclo continuava finché l’obiettivo non veniva colpito. Con la conclusione di questo progetto si introdusse il concetto di causalità circolare e si gettarono le basi per quella che poi venne chiamata la teoria cibernetica.

Norbert Wiener utilizzando questa teoria cercò di fondare una scienza generale del funzionamento della mente umana (Wiemer, 1948) e tra il 1943 ed il 1956 vennero organizzate a New York, su iniziativa dello psichiatra Warren McCulloch e della Josiah Macy Jr. Foundation, dieci incontri, chiamati poi Macy Conference, proprio per poter condividere questa possibilità tra i diversi scienziati dell’epoca. Il concetto di feedback era già stato usato in precedenza (vedi il meccanismo di feedback per regolare i motori a vapore di Clerk Maxwell oppure il concetto di omeastosi di Walter Cannon), ma ora, per la prima volta, si cerca di applicare il concetto direttamente alla comprensione della mente umana.

 

Rosario Esposito Recensione Carver

 

C’erano proprio tutti a quegli incontri: Gregory Bateson, Margaret Mead, John von Neuman, Heinz von Foerster, Ralph Gerard, Kurt Lewin tra gli altri. Tra loro, ovviamente, c’erano anche Norbert Wiener e Arturo Rosenblueth che si soffermarono proprio ad illustrare il concetto di controllo a retroazione. Tra i partecipanti Gregory Bateson, antropologo e sociologo, intuì subito la possibile applicazione della causalità circolare per sottolineare l’importanza del contesto nella comprensione del comportamento umano; nacque così la teoria sistemica (Bateson, 1977). Il libro di Carver e Scheier, frutto di 35 anni di lavoro sull’argomento, vuole sottolineare l’altra faccia della medaglia, l’applicazione degli stessi concetti di causalità circolare direttamente alla comprensione dei processi mentali.

Secondo Carver e Scheier il modello cibernetico non è una metafora di come funziona la mente umana, è proprio il modo di funzionare degli esseri viventi autoregolati, compresa la mente umana. Secondo gli autori attraverso la descrizione di questi processi si descrive come l’individuo realmente si comporta e si autoregola, si colgono cioè le reali relazioni logiche fra le funzioni svolte dagli elementi.

Infatti il processo comune a tutti gli esseri viventi consiste proprio nella loro capacità autoregolatoria e questo è consentito da un costante confronto tra uno scopo (il valore di riferimento) ed i risultati del comportamento (target). Il meccanismo è chiamato controllo a retroazione ed, in questo modo, gli autori recuperano un concetto spesso trascurato dalla psicologia cognitivista, quello di motivazione. L’approccio e gli autori non si soffermano nel descrivere quali sono le peculiari motivazioni degli esseri umani (fame, sonno, riproduzione, esplorazione, attaccamento, rango, etc.), ma provano a descrivere il meccanicismo astratto che li caratterizza; più che rispondere alla domanda perché l’uomo si comporta, vogliono rispendere alla domanda quali sono le regole che segue nel comportarsi.

Provate ad immaginare il comportamento di un paziente e provate a considerare quali scopi importanti ha, provate ad ipotizzare se con il suo comportamento si sta avvicinando ad essi oppure no. Il comportamento che osservate è un continuo tentativo di riduzione (o ampliamento) di una discrepanza tra gli scopi e il risultato ottenuto. Interessante vero? Interessante perché più si descrivono i dettagli della teoria più ci sono margini di intervento. Secondo gli autori gli scopi sono organizzati gerarchicamente dove l’esito di processo può essere il valore di riferimento (un altro scopo) di un altro processo gerarchicamente inferiore (si evita così il famigerato homunculus). I feedback, d’altra parte, possono essere veritieri, ma anche distorti, veloci, ma anche ritardati o intermittenti, sensibili o poco sensibili. Le cose si complicano perché a rendere più complessa la cosa si consideri che l’insieme di scopi, feedback ed i loro parametri (sensibilità, latenza, intermittenza, velocità) possono modificarsi nel corso del tempo. La teoria più che un fotogramma che cristallizza gli elementi, appare come un video di danzatori che regolano la loro danza l’uno sui movimenti dell’altro. Se il comportamento è visto come un avvicinamento (oppure ad un allontanamento) ai valori di riferimento (gli scopi o antiscopi) tenendo conto dei feedback, gli “affetti” compaiono quando c’è una accelerazione (o decelerazione) verso il raggiungimento dello scopo. Riguardano la velocità di raggiungimento più che il raggiungimento in sè (vi dice qualcosa sui rapporti d’amore?).

Ma cosa succede se il raggiungimento di uno scopo è ostacolato? É molto importante per la salute mentale essere capaci di capire quando disimpegnarsi lì dove è necessario e impegnarsi, invece, lì dove si possono ottenere risultati, rimanere a metà strada, nella terra di nessuno, è fonte di problemi. Da quanti anni avete uno scopo che non riuscite a raggiungere? Che vogliamo fare? Nel caso lo scopo è ostacolato gli autori elencano diverse strategie: ridurre i tentativi, abbandonare il contesto comportamentale, disimpegnarsi mentalmente oppure disimpegnarsi in modo limitato. Rimandando al libro la descrizione di queste possibilità, basti qui dire che è molto importante avere delle alternative (un piano B) per gli scopi costitutivi del sé.

E la clinica? L’ansia da esame, ad esempio, può essere vista come un tentativo infruttuoso di disimpegnarsi dal compito; la depressione, invece, è connessa a una mancanza generale di disimpegno mentale dagli scopi; il comportamento disorganizzato può dipendere da diversi fattori che agiscono sulla autoconsapevolezza: la persona smette di monitore i suoi valori e le sue intenzioni (i suoi scopi) riducendo la concentrazione su di sé e causando così una cattiva regolazione del comportamento. A pagina 335 gli autori descrivono anche le regole per la costruzione e la rottura delle relazioni intime. Gli interventi clinici possono essere innumerevoli e riguardare direttamente i processi mentali (chiarire gli scopi, la loro gerarchia, la rinuncia, chiarire la qualità dei feedback, spostare l’attenzione su sé o da sé, etc.), oltre che i contenuti (rappresentazioni mentali).

In conclusione, secondo gli autori, le persone vivono identificando scopi e antiscopi, perseguendo i primi e tenendosi lontani dai secondi. Alcuni scopi sono l’espressione di un programma biologico, altri il frutto di una ponderazione cosciente di possibili alternative, altri ancora derivano da sogni e fantasie, ma i più importanti sono quelli fondamentali per il sé. Proprio gli scopi del sé (che può essere desiderato, dovuto, temuto o reale) potrebbero dare vita ad un progetto di ricerca per una teoria della personalità normale e patologica (si veda lo spunto per il narcisista a pagina 118). Proficuo in tal senso sarebbe, come già tentato da Bowlby (1980), l’integrazione tra principi della cibernetica e teoria cognitivo-evoluzionista (Liotti, 1994): nell’un caso si descrive il meccanismo generale, nell’altro si sottolineano le singole motivazioni interpersonali. Questo consentirebbe di integrare scopi psico-biologici descritti dalla teoria evoluzionista, con altrettanti importanti scopi più astratti come identità, libertà, incertezza, tra gli altri.

Il libro è molto bello e molto complesso, spesso è appesantito dal continuo soffermarsi degli autori dal confronto con le altre teorizzazioni, meglio sarebbe stato sottolineare di più le conseguenze pratiche e l’utilità della teoria. Sicuramente non è da tenere sul comodino.

 

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Teen dating violence: la violenza nelle relazioni di coppia tra adolescenti

Elena Parise, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

Le relazioni sentimentali possono presentare alcuni lati oscuri e di potenziale rischio: ne è un esempio il fenomeno dell’aggressività nelle prime esperienze sentimentali, definito nella letteratura nordamericana “dating aggression” e/o “dating violence”.

È risaputo, le relazioni romantiche e sessuali svolgono un ruolo importante nel corso della pubertà e dell’adolescenza. Esse consentono ai giovani di perseguire tutta una serie di obiettivi come la realizzazione del desiderio di intimità, di sostegno e di esperienze sessuali, nonché l’acquisizione di uno status. Le relazioni amorose favoriscono poi lo sviluppo dell’autonomia personale dal momento che i giovani possono così soddisfare il loro bisogno di comprensione e sostegno al di fuori del rapporto genitore-figlio. Spesso, la costruzione di una relazione amorosa avanza di pari passo con un rafforzamento dell’autostima e con un’immagine positiva della propria attrazione.

Certo, finora, ho presentato gli aspetti positivi delle relazioni sentimentali, sottolineando l’importante valore che esse assumono per lo sviluppo dell’adolescente e per il suo adattamento socio-relazionale. Accanto a questa dimensione, però, le relazioni sentimentali possono presentare alcuni lati oscuri e di potenziale rischio: ne è un esempio il fenomeno dell’aggressività nelle prime esperienze sentimentali, definito nella letteratura nordamericana “dating aggression” e/o “dating violence” (Wekerle & Wolfe, 1999; Menesini e Nocentini, 2008; Xodo, 2011).

Sebbene se ne parli ancora poco e, nella maggior parte dei casi, si veda approfondito per lo più il tema della violenza nelle relazioni di coppia “adulte”, si possono identificare alcuni importanti elementi che accomunano entrambi i fenomeni menzionati:
– esiste un legame emotivo tra l’autore di violenza e la vittima;
– esiste un divario di potere all’interno del rapporto di coppia;
– gli atti di violenza avvengono in un contesto che, di norma, dovrebbe infondere sicurezza e protezione.

Oltre a questi elementi in comune, però, i rapporti di coppia fra giovani si differenziano da quelli tra adulti in parte per la loro dinamica, nonché per i modelli comportamentali, sia individuali – specifici dell’età – sia indotti dalla dinamica del gruppo di riferimento (Ely, Dulmus & Wodarski, 2002).

Da un’indagine di Telefono Azzurro e Doxa (2014) su più di 1500 adolescenti italiani (52% maschi, 48% femmine) tra gli 11 ed i 18 anni, emerge come al 22,7% del campione sia capitato che il/la proprio/a partner urlasse contro di lui/lei. Il 13,9% riferisce di essere stato/a oggetto di insulti da parte del/della partner, mentre il 32,8% degli intervistati conosce qualcuno che è stato insultato dal/dalla partner.
Inoltre, un dato interessante emergerebbe in termini di epidemiologia di genere, in quanto, da tale indagine, risulta che il 7,9% dei maschi intervistati ha dichiarato di essere stato picchiato almeno una volta dal partner, a fronte del 3,3% dichiarato dalle femmine. Coerentemente con una serie di recenti studi internazionali, risulta anche in Italia una maggior percentuale di aggressioni fisiche da parte delle ragazze nei confronti dei maschi all’interno delle relazioni di coppia.
Dalla stessa indagine, poi, si evidenzia come la natura della “teen dating violence” possa essere fisica, sessuale e/o psicologica/emotiva. Vediamole nello specifico.

Fisica: avviene nei casi in cui il/la partner che ne è vittima, viene picchiato, strattonato o qualsiasi altra forma di aggressione fisica da parte del perpetratore. Il 5,7% dei ragazzi intervistati nel corso dell’indagine afferma di averne subìta.

Sessuale: avviene quando si fanno pressioni o si minaccia il/la partner per avere rapporti sessuali senza il suo consenso, nonché tutti quei casi in cui uno dei partner cerca di imporre di non usare un certo tipo di contraccettivo. È capitato al 5,7% degli adolescenti intervistati e più di 1 adolescente su 6 afferma di conoscere amici a cui è capitato.

Psicologica/emotiva: avviene nei casi in cui il/la partner aggressivo/a minaccia il/la partner o danneggia la sua autostima. Esempi di questo tipo di “dating violence” sono: chiamare con nomi che possono provocare un senso di vergogna di imbarazzo o di vittimizzazione in modo voluto e provocato;
tenere lontano il/la partner dall’affetto degli amici e dei familiari; le umiliazioni e le minacce verbali, molestie per telefono, sms, e-mail o attraverso le reti sociali (Korchmaros et al., 2013); il controllo e la limitazione della libertà di movimento del partner. A tal proposito, un terzo dei ragazzi intervistati dichiara che il/la proprio/a partner vuole sempre essere informato/a su tutto, dice loro cosa devono o non devono fare o, addirittura, vieta loro di incontrare altre persone. In questo caso, la problematica risiede nel fatto che spesso i giovani interpretano un’attenzione e un attaccamento eccessivi come una vera e propria prova di amore (Paludi, 2011).

Menzione a parte meriterebbe il fenomeno dello stalking, il quale si verifica nei casi in cui il perpetratore ricorre a minacce o molestie che causano principalmente paura nella vittima. La letteratura scientifica, infatti, definisce lo stalking come “un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza, di controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi” (Mullen & Pathé, 1994; Caretti, Ciulla & Schimmenti, 2011).

Successivamente, O’Keefe (2005) identifica quelli che possono essere considerati nell’individuo adolescente fattori di rischio, che possono portarlo a perpetrare il “teen dating violence” con il partner:
Abusare di sostanze stupefacenti e alcol;
– Aver avuto importanti problemi di natura comportamentali tendenti all’aggressività e al bullismo;
– Essere soggetti irascibili, in cui lo scoppio di rabbia e ira è frequente ed è difficoltoso gestirlo;
– Pensare che sia normale minacciare e manifestare comportamenti aggressivi per ottenere ciò che vogliono;
– Aver subìto esperienze negative durante l’infanzia: tra queste rientrano innanzitutto l’abuso sessuale durante l’infanzia, le esperienze dirette di violenza fisica o psichica, che comprendono anche il fatto di crescere in un contesto di violenza domestica fra genitori o fra persone di riferimento.
– Sottostare a e/o condividere norme “sbagliate” o “disfunzionali” del gruppo dei pari (ne sono un esempio i casi di amicizie con coetanei con precedenti penali).

Per quanto concerne le conseguenze della “teen dating violence”, esse possono essere molteplici, in quanto essere vittime di comportamenti violenti, offensivi o minacciosi all’interno della coppia può provocare negli adolescenti effetti negativi sia a breve sia a lungo termine: le vittime di violenza all’interno della coppia hanno, infatti, maggiori probabilità di sviluppare a loro volta comportamenti violenti, abusare di sostanze o di aver timore di rapporti stabili e duraturi. Inoltre, minare la fiducia in se stessi può portare a difficoltà psicologiche di tipo ansioso o depressivo e, nei casi più gravi, si può arrivare a tentativi di suicidio. In particolare, quindi, per quanto riguarda i ragazzi prevalgono le reazioni di tipo esternalizzante, con manifestazioni di rabbia e di collera; al contrario, per le ragazze, aver subito violenza raddoppia il rischio di andare incontro a disturbi del comportamento alimentare, depressione, attacchi di panico, nonché ideazione suicidaria (Romito, Beltramini & Escribà-Agüir, 2013).

Con la crescita, dunque, le relazioni sentimentali acquisiscono un valore più complesso: se da un lato divengono sempre più supportive, dall’altro possono connotarsi di elementi sempre più conflittuali. La trasformazione delle relazioni, che acquistano qualità come intimità, serietà e impegno, configura parallelamente anche un incremento di caratteristiche ed aspetti problematici, quali il coinvolgimento dei giovani partner in dinamiche aggressive.

 

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Segnali facciali statisti e dinamici influenzano in modo diverso la coerenza di valutazioni sociali

Daniela Sonzogni

FLASH NEWS

Gli individui sono molto sensibili a diversi aspetti del volto quando devono formare valutazioni sociali. Gli aspetti riguardanti la sfera emotiva si basano sulla muscolatura facciale che è dinamica, mentre gli aspetti della struttura del volto sono relativamente statici.

Un team di ricercatori della New York University esamina la distinzione tra questi tipi di segnali facciali indagando la consistenza delle valutazioni sociali derivanti dagli spunti dinamici contro gli spunti statici. In particolare, attraverso quattro studi con volti reali, generati digitalmente, e le decisioni comportamentali a valle, hanno dimostrato che le valutazioni sociali basate su segnali dinamici, come le intenzioni, hanno una maggiore variabilità rispetto alle valutazioni sociali basate su spunti statici come la capacità. Così, anche se la valutazione delle intenzioni varia considerevolmente attraverso differenti cues del segnale facciale, la valutazione delle abilità è relativamente fissa.

I risultati suggeriscono che utilizzando la foto di un viso, si può influenzare la valutazione che gli altri hanno dell’affidabilità di quella persona, ma la percezione della capacità del viso difficilmente viene cambiata. Questa distinzione è dovuta al fatto che il giudizio di affidabilità è basata sulla muscolatura dinamica del volto che può essere leggermente modificata: una faccia neutra che assomiglia più ad un’ espressione felice è probabilmente vista come degna di fiducia mentre una faccia neutra simile ad un’ espressione arrabbiata è più probabile venga vista come inaffidabile, anche quando i volti non sono apertamente sorridenti o arrabbiati. La percezione della capacità è tratta dalla struttura scheletrica del volto che non può essere modificata.

Nello studio sono stati impiegati quattro esperimenti in cui soggetti maschi e femmine hanno esaminato sia le foto che le immagini generate dal computer di adulti maschi.

Nel primo esperimento i soggetti hanno esaminato cinque foto distinte di 10 adulti maschi di diverse etnie. Qui la percezione di affidabilità dei soggetti varia in modo significativo: le facce dall’aspetto felice venivano viste come facce più affidabili mentre quelle dall’aspetto più arrabbiato erano viste come inaffidabili. Tuttavia la percezione di capacità o la competenza dei soggetti è rimasta statica, i giudizi erano gli stessi indipendentemente dalla foto presentata.

Il secondo esperimento replica il primo, ma qui i soggetti valutano quaranta volti generati dal computer che lentamente evolvevano da un “po’ felice” a un “po’ arrabbiato” determinando 20 diverse istanze neutrali di ogni singolo viso che poco assomigliava ad un’ espressione felice o arrabbiata. Come per il primo esperimento la percezione di affidabilità dei soggetti avveniva in parallelo all’emozione dei volti cosicché se il volto appariva leggermente più felice era più probabile venisse catalogato come più affidabile e viceversa per le facce che apparivano un po’ arrabbiate. Ancora una volta la percezione delle capacità è rimasta invariata.

Nel terzo esperimento i ricercatori hanno implementato uno scenario reale. Ai soggetti sono stati mostrati una serie di volti generati dal computer e sono stati invitati a rispondere a due domande: “Che faccia avrebbero scelto come loro consulente finanziario (fiducia), e con chi pensano ci fosse più probabilità di vincere una competizione di sollevamento pesi (capacità)?” In questa condizione i soggetti erano significativamente più propensi a scegliere come loro consulente finanziario volti che presentavano espressioni più positive o felici. Per contro, la somiglianza emotiva non ha avuto alcun effetto nella selezione dei soggetti per la vincita di sollevamento pesi, anzi, erano più propensi a scegliere volti con una forma particolare: quelli con una struttura facciale comparativamente più ampia, che studi precedenti hanno associato con abilità fisica e testosterone.

Nel quarto esperimento i ricercatori hanno utilizzato una tecnica di correlazione inversa per scoprire come i soggetti rappresentano visivamente un volto affidabile o competente e come essi rappresentano visivamente il volto di un consulente finanziario di fiducia o del campione di sollevamento pesi competente. Questa tecnica ha permesso ai ricercatori di determinare quale di tutti i possibili segnali facciali guida queste distinte percezioni senza specificare nessun segnale in anticipo. Qui, la somiglianza con espressioni felici o arrabbiate hanno guidato l’affidabilità e quindi la scelta di un consulente finanziario immaginario, mentre la più ampia struttura del volto ha veicolato la capacità ed è stato utilizzato nella scelta dei volti per un campione di sollevamento pesi immaginario.

Questi risultati hanno confermato i risultati dei tre precedenti studi, consolidando la conclusione dei ricercatori che le percezioni di affidabilità sono malleabili mentre quelle di capacità e competenze rimangono immutabili.

 

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Un buon sonno è il nuovo elisir di buona salute!

FLASH NEWS

Il nuovo elisir di lunga salute starebbe in un buon sonno.

Secondo una ricerca danese il mantenimento di una buona qualità del sonno è fondamentale per la nostra salute futura, anche perché influenza in una certa misura il nostro stile di vita: è il sonno disturbato a predire abitudini di vita non salutari, e non solo il contrario.

Il rapporto tra sonno e stile di vita è un rapporto intricato e interdipendente, e questo studio ha dimostrato che il sonno può influenzare la capacità di mantenere uno stile di vita sano. Se il sonno inizia a deteriorarsi è più probabile assumere comportamenti negativi per la nostra salute.
Ad esempio, è stato riscontrato che i fumatori che mantengono una adeguata durata del sonno hanno una maggiore probabilità di smettere di fumare negli anni successivi rispetto ai fumatori che presentano un sonno più disturbato.

E trend simili sono stati osservati riguardo ad altri aspetti dello stile di vita, tra cui una scarsa qualità del sonno sarebbe predittiva di un maggior rischio di inattività fisica e di sovrappeso.

Lo studio epidemiologico ha coinvolto un esteso numero di partecipanti (circa 35.000) dei paesi nordici seguendoli per otto anni monitorando le diverse variabili in ogni fasi di rilevazione.

 

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Perché non mi parli? Il conflitto tra genitori e figli adolescenti (2015) – Recensione

Con questo testo John Coleman, attraverso la sua vasta esperienza di lavoro con adolescenti e genitori, propone un modello per coloro che cercano consigli o sperimentano serie preoccupazioni di fronte “all’atteggiamento” del figlio quattordicenne o quindicenne.

Basato su autorevoli e recenti ricerche, “Perché non mi parli?” vuole dare un senso al mondo dell’adolescente. Le nuove conoscenze sullo sviluppo del cervello, sui pattern del sonno e sulla comunicazione si integrano con i punti di vista di ragazzi e genitori. E’ proprio grazie alle loro coinvolgenti voci che vengono trattate concretamente tematiche tipiche quali: il mondo digitale con pro e contro che ne conseguono, le amicizie e la centralità del gruppo dei pari, la sessualità, i comportamenti a rischio, il divorzio e le famiglie ricostituite, il fumo, l’alcol, la droga, l’alimentazione, l’attività fisica e altri aspetti legati alla salute.

Il testo fornisce consigli pratici e chiare indicazioni per attraversare insieme ai ragazzi questa fase di transizione e di grandi cambiamenti diventando genitori resilienti. Il messaggio dell’autore che vuole trasmettere è alquanto chiaro: una genitorialità efficace è impossibile senza la comunicazione e perché quest’ultima si possa considerare tale l’ascolto è importante tanto quanto il parlare.

Ogni lettera del modello STAGE qui descritto, rappresenta uno dei cinque elementi fondamentali della genitorialità individuati dall’autore.

– S sta per la Significatività dei genitori. Molti di loro pensano di non contare più molto, di non essere più importanti. Studi dimostrano, invece, che la loro presenza in questi anni è importante tanto quanto durante l’infanzia. Essi contano in maniera diversa, è necessario permettere la ricerca dell’indipendenza da parte dei ragazzi, processo importante per la loro crescita, ma anche essere consapevoli che i genitori rimangono le persone più significative nella vita dei giovani.

– T sta per Two-Way Communication – Comunicazione a due vie. E’ proprio assumendo un ruolo più attivo durante la conversazione (volendo parlare solo in alcuni momenti, irritandosi con le domande, volendo discutere anziché ascoltare, decidendo quali tematiche affrontare e quali no ..) che l’adolescente esprime la sua indipendenza. Egli assume il controllo della comunicazione tanto quanto i genitori ed ha bisogno della loro comprensione e del loro supporto per apprendere questa competenza.

– A sta per Autorevolezza, uno stile genitoriale interessato e coinvolto che trova il giusto equilibrio tra promuovere l’autonomia appropriata all’età e il porre i giusti limiti e confini. Il giovane ha bisogno da un lato di sentirsi apprezzato e rispettato con calore e amore e che i suoi bisogni vengano accolti, ma da un altro necessita anche di regole ragionevoli che gli diano una struttura e quindi un senso di sicurezza e contenimento in famiglia. I genitori, dovrebbero essere irremovibili e sostenersi a vicenda su poche regole sensate e non dovrebbero permettere al figlio di intromettersi tra loro. Gli adolescenti altrimenti tenderanno a sfruttare ogni divergenza tra loro!

– G sta per Gap generazionale, la diversità dell’epoca in cui sono cresciuti genitori e figli e la diversità della fase della vita che stanno vivendo. E’ inoltre molto difficile a posteriori ricordarsi di come si ha vissuto quel periodo e quindi è facile incappare in giudizi rischiando così di allontanare il giovane e di perdere influenza su di lui.

– E sta per emozioni. E’ tipico da ragazzi avere difficoltà nel gestire le proprie continue oscillazioni emotive ed è normale e comprensibile da genitori provare di conseguenza rabbia, senso di perdita, vergogna e senso di colpa. Riconoscere le proprie emozioni e saperle gestire può fare una differenza significativa nel modo in cui ci si comporterà con il proprio figlio.

E cosa dire sull’amore dei genitori per i propri figli? Parlare di amore viene molto più facile quando si pensa ai bambini piccoli e molto più difficile quando si pensa agli adolescenti. Un altro messaggio chiaro di questo libro però è che i ragazzi hanno bisogno di amore tanto quanto i bambini, anche se hanno bisogno che venga espresso in modo diverso. Per cui è fondamentale che i genitori trovino le risorse per sostenere al meglio il proprio figlio in questa fase così significativa seppur provvisoria. Sapere che altri genitori stanno attraversando queste difficoltà e soprattutto essere consapevoli con certezza di essere comunque importantissimi per i propri figli può essere un valido sostegno per non cadere nel tranello del senso di impotenza e di perdita del controllo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Terapia cognitivo-comportamentale. Approccio ai problemi relazionali e sessuali – Report dal seminario dell’Istituto Beck

Come mai, si chiede e ci chiede il prof. Mehmet Sungur provocatoriamente all’inizio del seminario, il matrimonio rimane, ancora oggi, un’istituzione popolare? In altre parole per quale motivo le persone decidono di sposarsi nonostante numerosi matrimoni finiscano in un divorzio e le predizioni di successo siano scarse, statisticamente parlando? Questo rende l’istituzione matrimoniale “la forma di istituzione volontaria più popolare nonostante gli esiti deludenti e catastrofici”.

Il matrimonio è uno status contraddistinto da vantaggi e da costi, da diritti come anche da responsabilità. Anche quando le cose non funzionano diventa difficile tirarsi fuori da un progetto in cui si è investito, specie se sono trascorsi degli anni; accade anche che alcune persone decidano, nonostante abbiano alle spalle un matrimonio fallito, di ripetere l’esperienza.

Guardando alla cosa da un altro punto di vista, vi sono anche statistiche che mostrano come le persone sposate, ovviamente nel caso di un matrimonio soddisfacente, siano più longeve, godano di miglior salute e benessere psicologico.

Per alcuni aspetti l’amore, nella sua fase iniziale, rappresenta una sorta di “disturbo visivo” che ci porta ad idealizzare l’altra persona, senza vederne i difetti; ma cosa accade quando l’incantesimo finisce? Come passare, citando Erich Fromm dall’amore romantico -ti amo perché ho bisogno di te- all’amore maturo -ho bisogno di te perché ti amo-?

Generalmente, noi impariamo a costruire la nostra relazione di coppia dai genitori, da modelli di coppie che conosciamo e dai codici culturali. Le coppie felici non coltivano l’aspettativa irrealistica che una relazione positiva sia priva di difficoltà, affrontano i problemi di coppia come una squadra, senza attribuirne la responsabilità unicamente all’altro partner, e hanno fiducia nella propria capacità di approdare ad un esito positivo. Una buona relazione di coppia necessita di momenti di separazione, in cui ogni partner ha il suo spazio distinto, di momenti di contatto e di momenti di fusione; i momenti di fusione sono particolarmente importanti quando la coppia deve fronteggiare una minaccia esterna alla relazione.

Cosa possiamo fare, in qualità di terapeuti, quando prendiamo in carico una coppia? In primo luogo, abbiamo il compito di infondere, basandoci su premesse realistiche, la speranza che la relazione di coppia possa essere migliorata. In altro modo, si tratta di veicolare l’idea che valga la pena di investire ancora nel rapporto, per quanto esso versi in una fase di crisi, piuttosto che mettere la parola fine. In linea di massima bisogna offrire una terapia che si focalizzi il più possibile sui fatti, sulle situazioni concrete, piuttosto che sul cercare delle spiegazioni al malfunzionamento della relazione; ci si concentra sul “cosa”, in modo pragmatico, non sul “perché”. Si incoraggiano i membri della coppia a smettere di cercare di analizzare e/o cercare di cambiare la personalità del partner, andando, invece, ad intervenire sulle azioni, sui modelli di comportamento ripetitivi e disfunzionali messi in atto da entrambi. È, inoltre, importante focalizzarsi sul presente e su obiettivi a breve termine nel futuro, piuttosto che sulle esperienze passate e imparare a definire con chiarezza ciò che si “vuole”, piuttosto che ciò che “non si vuole” rispetto all’altro e alla relazione di coppia.

Per quanto riguarda la formulazione degli obiettivi, è importante che essi siano concreti e verificabili, definiti in modo collaborativo da entrambi i partner, in modo che ci sia consenso reciproco. Si vuole condurre la coppia ad individuare modalità nuove, più gratificanti, di interagire.

La terapia può essere impostata:
– a livello comportamentale, cercando di migliorare la comunicazione di coppia, le abilità di problem solving e la capacità di negoziazione in modo da accrescere la flessibilità dell’interazione all’interno della relazione;
– a livello cognitivo, identificando e sottoponendo ad esame critico i pensieri automatici e le credenze disfunzionali;
– a livello sistemico, agendo sulla mancanza di cooperazione tra i partner e portando alla luce il significato latente dei pattern ripetitivi di comportamento all’interno del rapporto.

Il terapeuta si pone in una posizione esterna e decentrata rispetto alla coppia e cerca di potenziare le abilità di comunicazione di entrambi i partner, in modo da renderli migliori oratori ed ascoltatori; si chiede ai partner di comunicare tra loro in presenza del terapeuta senza coinvolgerlo nella discussione, in modo da osservare le dinamiche di coppia e da evitare di essere “triangolato”, cosa che spesso entrambi i membri della coppia cercano di fare, facendo richieste e cercando di esporre la propria personale versione del problema.

Il terapeuta, inoltre, dà dei feedback cercando di potenziare i comportamenti positivi, ad esempio : “Siete bravi a descrivere le rispettive abitudini irritanti. Siete in grado ora di descrivere cosa vi piace l’uno dell’altro?”.

Sul piano cognitivo ci si focalizza sull’assessment dei problemi della famiglia di origine e sui pensieri automatici, puntando alla modifica e ristrutturazione delle credenze disfunzionali; l’analisi dei modelli di interazione presenti nella famiglia di origine è utile per comprendere su che basi le persone hanno appreso il modo in cui entrano in relazione e le credenze implicite che determinano il loro comportamento. Le sedute sono strutturate in modo da tenere la terapia focalizzata sul raggiungimento degli obiettivi e ogni seduta comincia partendo dalla precedente e si conclude con l’assegnazione di compiti a casa.

L’assegnazione dei compiti a casa, in una cornice terapeutica di stampo comportamentale, è a fondamento anche della terapia dei problemi sessuali; il trattamento va calibrato sulle esigenze della coppia e orientato secondo il ritmo dei pazienti. Si fornisce un approccio strutturato che permetta alla coppia di identificare i fattori che mantengono in essere la disfunzione sessuale e di ricostruire la propria relazione sessuale gradualmente, tramite l’utilizzo di tecniche (stop-start, squeeze, penetrazione graduale) mirate ad affrontare problemi specifici.
Il ruolo del terapeuta è particolarmente importante quando sorgono difficoltà durante il trattamento; bisogna assicurarsi che le istruzioni siano chiare e ben comprese e chiedere feedback dettagliati all’inizio di ogni seduta.

 

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Correlati EEG dell’attività proiettiva in pazienti psicotici

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Correlati EEG dell’attività proiettiva in pazienti psicotici

Autrice: Chiara Di Giorgio (Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’)

Abstract

La proiezione è un meccanismo di difesa in cui il soggetto attribuisce ad altri sentimenti, desideri ed aspetti propri che rifiuta di riconoscere in sé stesso. In linea con questo pensiero, alcuni autori hanno provato a spiegare i fenomeni allucinatori come la proiezione di contenuti spiacevoli e intollerabili per il paziente attraverso gli organi di senso. Un recente lavoro ha indagato in un campione di soggetti normali i correlati neurali del meccanismo proiettivo, riscontrando uno specifico pattern fronto-parietale in risposta a stimoli visivi non strutturati. Partendo dai suddetti risultati il presente studio ha lo scopo di indagare i correlati neurali dell’attività proiettiva in un campione clinico di pazienti con sintomatologia psicotica. L’ipotesi dello studio era che i pazienti psicotici mostrassero una maggiore attivazione delle aree frontali e parietali durante la presentazione di stimoli visivi non strutturati comparati con i soggetti di controllo.  I dati EEG di 8 pazienti con diagnosi di schizofrenia sono stati registrati in modo continuo a 250 HZ con il Geodesic Sensor Net a 256 canali, mentre ai pazienti veniva richiesto di attribuire un significato agli stimoli visivi presentati (strutturati vs non strutturati). Sono state analizzate le componenti temporali dei potenziali evento correlati (ERP) e la tomografia elettromagnetica a bassa risoluzione (sLoreta). L’analisi delle sorgenti (sLORETA) ha mostrato un significativo coinvolgimento delle aree fronto-temporali di sinistra ( 42,43,44 BA) durante la presentazione di stimoli visivi strutturati. I risultati hanno mostrato il coinvolgimento di tre aree specifiche, le stesse aree che risultano essere correlate alle allucinazioni verbali uditive. Le allucinazioni potrebbero venire elicitate da compiti che richiedono un minor impiego di risorse cognitive; al contrario un maggior impiego di strategie cognitive volte a disambiguare uno stimolo non strutturato potrebbero inibire la produzione spontanea allucinatoria dei pazienti con sintomatologia psicotica.

English abstract

Projection is a defense mechanism that involves taking our own unacceptable qualities or feelings and ascribing them to other people. In this context the hallucinatory phenomena could be considered as a projection of content intolerable to the patient through a sense organ. A previous studies showed that projective mechanism in healthy subjects is facilitated with non-structured visual stimuli and that a diffuse activity of frontal and parietal areas is involved during projection activity. The aim of the present study was to investigate the neural correlates of projective mechanism in patients with psychotic symptoms. The hypotheses of the study was that psychotic patients will show a greater activation of frontal and parietal areas during non-structured visual stimuli presentation compared to healthy subjects. The EEG data of 8 patients with a diagnosis of schizophrenia were recorded continuously at 250 Hz with the Geodesic Sensor Net with 256 channels while patients were asked to assign a meaning to visual stimuli presented (structured vs. not-structured). Event related potential (ERP) components and low-resolution electromagnetic tomography (sLoreta) were analysed. Source analyses (sLORETA) showed a greater involvement of the left frontal- temporal areas (left 42, 43, 44 BA) during the presentation of the structured visual stimuli. Findings show the involvement of three areas that seems to be related to auditory verbal hallucinations (AVU). AVU could be elicited by tasks that require less use of cognitive resources; differently greater use of cognitive strategies designed to disambiguate a stimulus un-structured could inhibit the spontaneous production of hallucinatory psychotic patients.

Allegato 1 (Soggetto Clinico)Allegato 2 (Soggetto di Controllo)

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