expand_lessAPRI WIDGET

Un’analisi critica dei modelli biomedici per i disturbi psicologici

In questo appassionante articolo del 2013 (pubblicato nella Clinical Psychology Review), Brett J. Deacon spiega, partendo da una attenta analisi critica del vigente modello biomedico, perché le cause di molti disturbi psichici non sono unicamente ascrivibili a fattori di ordine biomedico.

 

Da parecchi decenni molti scienziati sostengono che le cause della psicopatologia dipendono da disregolazioni neurotrasmettitoriali, da anomalie genetiche e da deficit nel funzionamento e nella struttura cerebrale. Tuttavia, ad oggi, nessuno ha identificato una sola causa biologica, né un solo biomarker, responsabile di uno specifico disturbo psichico. Mentre si sostiene che i farmaci psicotropi abbiano un ruolo nel correggere lo sbilanciamento chimico, causa della psicopatologia, in realtà gli psicofarmaci non hanno dimostrato avere nessuna effettiva influenza curativa superiore a quanto già rilevato oltre mezzo secolo fa.

In compenso, invece, la patologia mentale è divenuta più cronica e più grave rispetto al passato, coinvolgendo un numero sempre crescente di individui. In parallelo è spaventosamente aumentata la stigmatizzazione verso chi soffre di tali disturbi.

In sostanza, il modello biomedico (approccio predominante negli Stati Uniti e nelle culture occidentalizzate) assume che disturbi come la schizofrenia, il disturbo depressivo maggiore, il disturbo di attenzione e di iperattività (ADHD) e l’abuso di sostanze siano condizioni causate da deficit del cervello. Questo significa che 1) i disordini mentali sono causati da anomalie biologiche che hanno la loro sede nel cervello, 2) non esiste una netta e chiara distinzione tra disturbi fisici e mentali e 3) che il trattamento biologico rappresenta l’unica cura possibile. L’obiettivo principale della ricerca biomedica è studiare le cause biologiche dei disturbi psichici, nel tentativo di scoprire la pillola magica per ciascun disturbo psichico, negando completamente l’influenza di altri possibili fattori eziologici, quali i fattori sociali, psicologici e comportamentali.

La stessa Associazione Psichiatrica Americana (APA), nel 2003, ha affermato che le cause di qualsiasi disordine mentale sono esclusivamente riconducibili ai fattori biologici.

Nella storia della cura della psicopatologia, le prime tecniche utilizzate negli anni ’30 (i.e., la terapia elettroconvulsiva, la lobotomia e la terapia di insulina) hanno incoraggiato la credenza che i disturbi psichici si potessero curare con le sole terapie biologiche. In seguito, la rivoluzione “biochimica” degli anni ’50 ha permesso di scoprire che alcune componenti chimiche erano in grado di limitare la gravità di alcune manifestazioni cliniche (anche in conseguenza a patologie organiche, come la neuro sifilide), riducendo sintomi psicotici, depressivi, maniacali, ansiosi e legati all’iperattività. Man mano, con l’avvento della psicoanalisi, sono state mosse forti critiche alla teoria dello squilibrio chimico, sia da parte della stessa psichiatria che dai freudiani, che rifiutavano con convinzione questo approccio come unica cura della patologia mentale. Nel 1980, l’uscita del DSM III rappresentò un influente traguardo scientifico che favoriva la comunicazione tra clinici di diversi paesi. Tuttavia, nonostante tutte le incertezze e le controversie in corso, il DSM si era nettamente schierato a favore del modello biomedico. Da quello stesso anno, guarda caso, le case farmaceutiche ricevettero l’autorizzazione di sponsorizzare gli interventi scientifici alle conferenze annuali dell’APA. Nel giro di un paio di anni la collaborazione tra case farmaceutiche e APA si intensificò notevolmente ed ebbe inizio una vera e propria collaborazione, che si estendeva anche alla formazione e all’aggiornamento medico.

In parallelo, il National Institute of Mental Health (NIMH) ed altre organizzazioni, iniziarono a devolvere fondi di ricerca ad enti e università che indagavano le basi scientifiche dei modelli biomedici applicati alla psichiatria, con il dichiarato benestare della National Alliance on Mental Illness (NAMI). I modelli biomedici si erano proposti anche la funzione di ridurre lo stigma verso la patologia mentale, basata, secondo loro, non su fattori socio-ambientali, ma unicamente su disfunzioni organiche.

Ad esempio, la terapia del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) promossa dal NIMH nel 2009 si basava unicamente sulla farmacoterapia. I “consumatori” che soffrivano di DOC sono stati incoraggiati a farsi prescrivere antidepressivi, ansiolitici o beta-bloccanti, dai loro medici di base (anche senza una accurata valutazione psicodiagnostica), poiché le numerose evidenze scientifiche a favore della terapia basata sull’esposizione e prevenzione della risposta (ERP) erano state completamente trascurate dal NIMH. È importante ricordare che negli USA, così come in Nuova Zelanda, le case farmaceutiche possono pubblicizzare direttamente ai consumatori i propri farmaci. Questo significa che gran parte degli investimenti economici sono orientati in questa direzione e all’educazione dei pazienti sui loro disturbi, sulle loro presunte cause biologiche e quindi sulla loro cura, a carattere unicamente biochimico.

In uno studio del 2005, Kravitz e collaboratori hanno rilevato che il 50% dei pazienti che si erano rivolti al medico per problemi di depressione, assieme alla richiesta di aiuto, e indipendentemente dalla correttezza della diagnosi, indicava già il nome esatto del farmaco per cui desiderava la prescrizione! Nonostante questo dato tristemente noto negli USA, la Food & Drug Administration (FDA), non è intervenuta ed è rimasta in silenzio! Ricordiamo che, oggi, gli antidepressivi rappresentano la terza categoria di farmaci più prescritta negli USA ed è la prima tra gli adulti tra 18 e 44 anni. Diversi clinici rilevano che circa la metà dei farmaci psicotropi viene prescritta ad individui che non hanno una diagnosi psichiatrica certa e si teme che, con il DSM5, e l’aumento delle etichette diagnostiche, questo dato possa ulteriormente aumentare.

In seguito alla “rivoluzione” biomedica, negli ultimi decenni, sono stati investiti miliardi di dollari nella ricerca nell’ambito delle neuroscienze e della genetica; ma se si fossero ottenuti dei risultati significativi, questi dati non si sarebbero già dovuti trovare all’interno dell’ultimissimo DSM5? Al contrario, i neuroscienziati, ancora, non hanno nemmeno ben compreso come definire propriamente un “circuito cerebrale”, né come tradurre l’attività o le immagini mentali (derivate dalle metodiche di neuroimmagini) nei termini di “cosa effettivamente accade nel cervello”. Una semplice “cartografia” cerebrale, che eventualmente spiega “dove” certi processi mentali hanno luogo, non è sufficiente per “spiegare” i processi che sottendono al funzionamento psichico (Castelfranchi, 2015).

Infine, altro problema irrisolto, quello della stigmatizzazione. Il tentativo di eguagliare la condizione psichiatrica a un problema organico, in modo da ridurre le discriminazioni ed evitare colpevolizzazioni, nella realtà, ha potenziato l’interpretazione di tipo biomedico e ha accresciuto i comportamenti di isolamento e rifiuto verso chi soffre di patologie mentali. Il problema della stigmatizzazione è complesso e coinvolge più aspetti, mentre il riduzionismo organicista, invece, contribuisce all’aumento della cronicità e all’irreversibilità dei problemi psichici. Di fatti, gli USA hanno una delle più alte prevalenze di malattie psichiatriche, che si sono ulteriormente cronicizzate e intensificate nelle ultime decadi. Ad esempio, la depressione maggiore è sempre più cronica e resistente al trattamento, sebbene, dalla fine degli anni ’80, la somministrazione dei nuovi farmaci antidepressivi sia aumentata del 400%! Si teme, persino, che l’uso prolungato di questi farmaci aumenti il deterioramento mentale, anziché contenerlo. La stessa cosa è accaduta per altre tipologie di psicofarmaci. Se in ambito infantile, ad esempio, il numero di problemi non-psichiatrici si è drasticamente ridotto (come per il cancro o la Sindrome di Down), i disturbi mentali, oggi, rappresentano la prima causa di disabilità in età evolutiva. Vista la scarsa efficacia dei dati relativi a questo approccio sarebbe imperativo chiedersi: “Quanto, ancora, dobbiamo aspettare per mettere definitivamente a nudo i suoi limiti e le sue inconcludenze?”.

All’interno del panorama psichiatrico, all’ombra del modello biomedico, si è sviluppata la psicologia clinica, con le sue teorie e le sue modalità di intervento e di cura. I trial clinici randomizzati (RCT) rappresentano il metodo di ricerca utilizzato per valutare l’efficacia degli interventi psicoterapici e farmacologici. Per essere riconosciuti “efficaci” dal NIMH, gli RCT devono provare l’efficacia di un certo trattamento standardizzato e manualizzato, assegnando in modo casuale i pazienti ad un trattamento o ad una condizione di controllo e basando la selezione dei partecipanti sui rigidi criteri diagnostici del DSM.

Nell’ambito dell’intervento psicoterapico, gli RCT hanno dimostrato ampiamente l’efficacia, anche considerando i costi, di molti disturbi psichici (i.e., depressione, disturbi alimentari, disturbi d’ansia, ADHD, disturbo borderline di personalità, etc.). Alcuni limiti nel testare l’efficacia degli interventi psicoterapeutici riguardano l’estendibilità dei dati osservati al mondo reale, l’utilizzo di manuali standardizzati e un numero definito di sedute. Ovviamente, questo rigore taglia fuori dalla ricerca una serie di psicopatologie più articolate e, cosa osservata di frequente, coloro i quali soffrono di disturbi sub-clinici che, pur essendo fonte di sofferenza, non soddisfano completamente i criteri del DSM. Nella maggior parte dei casi gli RCT hanno indagato l’efficacia di trattamenti specifici, come, ad esempio, gli effetti dell’esposizione in vivo a stimoli fobici, dell’esposizione tramite immaginazione ad episodi traumatici e di interventi per i pensieri ossessivi.

Molte di queste tecniche derivano da approcci terapeutici più complessi che non sono facilmente operazionalizzabili all’interno di un trial clinico rigorosamente controllato. Nella pratica clinica, inoltre, è abbastanza frequente incontrare pazienti che presentano più di un singolo disturbo psichico. Spesso è possibile osservare delle comorbilità e una sovrapposizione sintomatologica condivisa con più disturbi.

Ad esempio, il disturbo da attacchi di panico, la fobia specifica, il disturbo post-traumatico da stress, il disturbo d’ansia generalizzato e il DOC sono tutti accomunati dalla presenza di convinzioni patogene, da distorsioni nell’elaborazione di informazioni e da comportamenti “di sicurezza” che mantengono la patologia. In tutti questi casi, l’esposizione e prevenzione della risposta rappresenta l’intervento elettivo (ma non l’unico) nel trattamento. Il clinico che utilizza l’approccio del “singolo-disturbo” per diagnosticare e curare i suoi pazienti rischia di vedere l’albero, ma non la foresta.

Il modello biomedico applicato alla psicopatologia rischia di aumentare ulteriormente il gap tra la pratica Reale e la psicologia sperimentale, quando, invece, sarebbe fondamentale che la psicologia clinica conquistasse individualmente il suo spazio, alla luce, soprattutto, dei costi ridotti e degli outcome efficaci, ad oggi emersi.

Conclusioni

Il paradigma biomedico è stato spinto e sostenuto da interessi economici, politici e ideologici, senza però portare ad un effettivo miglioramento nella diagnosi o nel trattamento della psicopatologia. Ad oggi, considerando i fattori genetici, la disregolazione neurotrasmettitoriale, le esperienze traumatiche o le credenze irrazionali, non è stata identificata neanche una sola causa biologica per uno specifico disturbo.

Per quale motivo allora continuare ad insistere su un solo modello, se, ad oggi, dopo i numerosi investimenti, non si sono ottenuti i risultati sperati?

È ovvio che tutti i fenomeni psicologici abbiano un corrispettivo biologico. Affermare che un disturbo del comportamento alimentare o un disturbo d’ansia abbia una base biologica ha senso, senza che, però, questo implichi che quest’ultima sia la causa della patologia stessa. Le correlazioni cervello->mente e mente->cervello esistono, è evidente, ma non spiegano la loro reciproca relazione. Sino ad oggi, infatti, non sembra che la ricerca sulla psicopatologia abbia aiutato molto a comprendere questa connessione. Un disturbo psichico può essere spiegato, e studiato, a diversi livelli di organizzazione (i.e., molecolare, ambientale, cognitivo, neuronale, etc.) e nessuno di questi è sovraordinato rispetto agli altri, poiché appartengono tutti allo stesso fenomeno.

Al contrario, ciascun livello dovrebbe contribuire alla spiegazione del disturbo in sé e può essere oggetto di studio per diversi motivi. Ad oggi, il modello biomedico non ha considerato né i diversi livelli, né ha contribuito a creare un dibattito costruttivo e aperto con chi si occupa delle altri componenti coinvolte. Negli ultimi decenni i sostenitori del modello biomedico si sono cocciutamente opposti e chiusi a qualsiasi forma di confronto con altri professionisti, ad esempio con chi proponeva un nuovo modello medico, basato sull’approccio bio-psico-sociale di Engel (1977).

Per citarne alcuni. Nel 2003, il gruppo di attivisti MindFreedom è stato screditato e ignorato pubblicamente dall’APA quando era intervenuto per richiedere evidenze scientifiche a favore del modello biomedico. Nel 2005, l’intervento televisivo a Today Show di Tom Cruise, il quale aveva pubblicamente dichiarato che non esistono prove a favore della teoria dello sbilanciamento chimico. E, ancora, nel 2010, dopo la pubblicazione del libro “Anatomy of an Epidemic” di Robert Whitaker il quale, dopo essere stato invitato come speaker a diverse conferenze internazionali, dove aveva sollevato parecchi dubbi relativi all’infondatezza e alle incoerenze del modello biomedico, è stato duramente ripreso e screditato apertamente, senza che poi gli venisse data la possibilità di difendere o di discutere i suoi interventi. Sarebbe auspicabile, invece, utilizzare un approccio multi-disciplinare, in modo da favorire uno scambio e un dialogo collaborativo tra le numerose professionalità interessate alla diagnosi e alla cura dei disordini mentali.

 

Le domande che restano indiscutibilmente aperte, sottolinea Deacon, sono:

1) Com’è possibile considerare i disturbi mentali su base unicamente organica, se i ricercatori non sono stati ancora in grado di identificare almeno un marker biologico (ammesso che riuscirci abbia un ruolo, poi, nel trattamento) utile per la diagnosi o per distinguere un individuo con psicopatologia da uno sano?

2) Come si può considerare la teoria dello squilibrio chimico la causa dei disturbi psichici se gli scienziati non hanno identificato una baseline di come il cervello umano funzioni in condizioni di normalità?

3) Perché psichiatri, medici, biologi e organizzazioni come l’APA, il NIHM o il NAMI hanno continuato a promuovere il modello biomedico della patologia mentale, se ancora non esistono prove chiare a suo sostegno? E qual è il ruolo delle case farmaceutiche?

4) Perché vengono ancora investiti milioni di dollari nella promozione della ricerca biomedica se, ad oggi, dopo diverse decadi, non sono stati identificati farmaci, test biologici o trattamenti efficaci?

5) Se è vero che gli psicofarmaci hanno migliorato il malfunzionamento psicologico e sono ormai ampiamente diffusi, come mai i disturbi psichici sono aumentati? Non ci si dovrebbe, invece, aspettare una riduzione della psicopatologia, vista l’enorme diffusione di terapie su base biochimica?

6) L’attribuzione della patologia mentale a cause mediche non ha ridotto la stigmatizzazione ma, anzi, questa è drasticamente aumentata, contribuendo ad un sempre maggiore isolamento e rifiuto, da parte della popolazione sana, dei pazienti affetti da malattia mentale.

Considerando tutti questi interrogativi, un dibattito leale e aperto sarebbe chiaramente necessario. Fortunatamente, ultimamente il confronto è stato avviato, sia in alcune conferenze internazionali (i.e., International Society for Ethical Pshychology and Psychiatry) che sul sito www.madinamerica.com. Per la prima volta nella sua storia, conseguentemente a queste obiezioni, il DSM5 rischia di essere screditato da parecchie comunità di salute mentale che non possono ignorare quanto proposto, spesso con la forza e evitando confronti e dibattiti, dai sostenitori del modello biomedico. Il dialogo dovrebbe portare alla ricerca di una reale comprensione ed integrazione, basata su tutti i livelli di analisi possibili (dal micro al macro e viceversa), dei disturbi psichici, senza, però, scadere in un compromesso politico, invece di una reale soluzione scientifica. Quest’ultima si dovrebbe basare sulla risoluzione di alcuni punti chiave, tra i quali, il rapporto mente/cervello (per un recente approfondimento, vedi Castelfrachi, 2015) e la comprensione chiara della distinzione tra psicopatologia e neuropatologia (che coinvolge i disturbi della motilità, della sensibilità, dell’equilibrio e del linguaggio).

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Aspetti neuropsicologici nell’anoressia nervosa e correlazioni con fattori ansiosi

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’anima desiderante dell’industria del divertimento

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 28/06/2015

 

Che il divertimento sia ormai un’industria è una (divertente) contraddizione dei giorni nostri, a cominciare dall’etimologia, latina per entrambe le parole.

Operosità, impegno e concentrazione si radunano intorno all’origine della parola “industria”, mentre divertimento è –letteralmente- volgere altrove, è allontanamento dall’impegno, è distrazione. E per distrarci l’industria del divertimento ci propone intrattenimento, parchi a tema, parchi giochi, mondiali di calcio, bordelli, Dubai e perfino cultura! Come mi dice il direttore Cancellato, ormai girano più soldi per farci divertire che per produrre cose. Miracoli dell’economia delle esperienze. Ma ogni pianeta ha il suo lato oscuro.

Forse il problema sono i desideri che tormentano l’esistenza. O forse no. Il problema non sono i desideri. Come scrivono Spada e Caselli (2011) il problema è come reagiamo mentalmente ai desideri quando essi balzano davanti alla nostra coscienza. Alcuni di noi sanno discriminare meglio i desideri su cui vogliono soffermarsi da quelli che in realtà non vogliono perseguire. Altri, purtroppo, si soffermano a elaborare mentalmente questi desideri, a immaginare le sensazioni che si provano a esaudirli, a pianificare mentalmente (come fosse un film) le azioni da compiere per raggiungerli e a identificare le ragioni valide che ci possono “concedere” o “permettere” di sceglierli. Questo processo di pensiero talvolta è tanto automatico che le persone non si rendono conto di esservi immerse. Sono fuse dentro questo canale di elaborazione. Tutto questo ha un impatto forte sulla sensazione di desiderio o di ‘fame’ per un oggetto o per un’attività.

La psicologia ha già provveduto a dare un nome tecnico alle varie aberrazioni patologiche dell’industria del divertimento. Si inizia naturalmente con lo shopping, che può diventare un obbligo, una schiavitù. L’atto dell’acquisto nello shopping compulsivo è sperimentato come un impulso incontrollabile e irresistibile, che comporta attività singole eccessive, costose e dispendiose in termini di tempo.

Tipicamente è un comportamento messo in atto in risposta ad emozioni negative, dando origine così a difficoltà finanziarie, personali e/o sociali. Nel momento dell’acquisto i compratori compulsivi sperimentano un restringimento dell’attenzione indicativo di uno stato mentale “assorbito” e che compromette qualsiasi processo cognitivo esecutivo/riflessivo. Durante questo stato dissociato/assorbito si potenziano gli effetti positivi per il proprio umore dovuti all’acquisto. Si origina, quindi, un circuito di feedback positivo: “acquistare mi fa stare bene”. In questa fase si sperimentano stati emotivi come: sollievo, gratificazione, miglioramento dell’umore e dell’autostima, che risultano però temporanei.

Con lo shopping siamo ancora in un ambito tutto sommato accettabile. Più in là inizia l’antro dei divertimenti più inquietanti. Naturalmente il divertimento sessuale è in prima fila. Accanto all’esercizio antichissimo in strada o nei bordelli, si presentano le forme tecnologiche più moderne, il cosiddetto cybersesso. Nella definizione di cybersesso rientrano tutte le modalità di utilizzo di internet che possono determinare eccitazione e gratificazione sessuale.

Si tratta di attività fra loro differenti, che comprendono la scrittura e la lettura di storie a contenuto erotico, la frequentazione di chat rooms a contenuto sessuale, la visione di filmati pornografici, l’uso di web-cam per attività erotiche a distanza e la ricerca d’incontri con persone che si prostituiscono. C’è di tutto, c’è il sesso vissuto e poi mostrato su internet, c’è il sesso procurato tramite internet, ma c’è anche il sesso vissuto esclusivamente in maniera virtuale.

La cybersexual addiction è la dipendenza da queste attività sessuali virtuali. Kimberly S. Young, docente di Psicologia presso l’Università di Pittsburgh e direttrice del Center for Online Addiction, ha tracciato un profilo del cybersexual addicted:[blockquote style=”1″] Il soggetto si dedica in modo sempre più compulsivo all’uso di internet per trovare un partner o materiale erotico, fino a considerare l’eccitazione che ne deriva come forma primaria di gratificazione sessuale, e fino a ridurre l’investimento sul partner reale. Inoltre il disagio scaturito dalla dipendenza porta il soggetto a nascondere le proprie relazioni virtuali agli altri, provando sentimenti di colpa o vergogna.[/blockquote]

Infine, in questa processione di piaceri industriali, incontriamo il gioco d’azzardo, il gambling.
Si tratta di un fenomeno in costante crescita. Studi epidemiologici stimano tassi di prevalenza compresi tra 1.1% e 5.3% nella popolazione adulta e in particolare nel contesto italiano si stimano tassi di prevalenza pari al 2.3% per i giovani e il 2.2% per gli adulti. Slot machine, video lottery, gratta e vinci, poker online e lotterie istantanee, sono centinaia le forme di gioco d’azzardo legalizzate in Italia.

A disposizione di ogni cittadino italiano ci sono più slot machine che posti letto in ospedale. Un dato allarmante, che negli ultimi anni ha contribuito all’impennata del numero di persone cadute nel vortice del gioco. Comincia così la testimonianza di Antonio, giocatore di azzardo patologico che ha perso tutti i suoi averi, alle slot e videolottery: [blockquote style=”1″]A volte ci parlavo con le slot, vedi a che livello ero arrivato[/blockquote].

I nuovi giochi d’azzardo (videopoker, slot-machine, bingo, giochi online) definiscono un nuovo modo di giocare: solitario, decontestualizzato, globalizzato, con regole semplici e universalmente valide e pertanto ad alta soglia di accesso. È un nuovo popolo del desiderio, differente dagli elitari e annoiati debosciati ottocenteschi che frequentavano le case da gioco in un’atmosfera decadentista e raffinata. Ora è un comportamento di massa che si rivolge a un pubblico che pensavamo estraneo e lontano dai luoghi culto dell’azzardo: adolescenti, casalinghe, pensionati, bambini e interi nuclei familiari, che popolano le sale gioco infestate da slot-machine e videopoker o le affollate sale da bingo.

Eccitazione e delusione definiscono un’oscillazione che il giocatore d’azzardo conosce bene, ma dalla quale non riesce a difendersi. La trappola risiede nel senso di prestigio, di onnipotenza, oltre che nelle vivide fantasie di vincita che da un certo punto in poi diventano certezza di potersi rifare, irrinunciabile modulatore dell’umore depresso che consegue alle frequenti perdite. Da qui in poi, aumentano la frequenza del gioco e il desiderio di recuperare, ma diminuiscono le possibilità di sottrarsi a questo pericoloso inganno.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il pensiero desiderante in psicoterapia cognitiva

BIBLIOGRAFIA:

Riflessioni circa l’importanza delle scale di valutazione del DSM-5

Filippo Turchi

Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore a contratto presso l’Università di Firenze. Socio SITCC e SIP. Docente presso la Scuola Cognitiva di Firenze.

 

L’organizzazione di ogni capitolo del nuovo DSM avrebbe l’ambizione, o la presunzione, di indicare come i disturbi possano essere interdipendenti a seconda di vulnerabilità preesistenti o di caratteristiche dei sintomi. Con lo stesso criterio sono stati ulteriormente suddivisi alcuni disturbi sulla base di una maggiore comprensione delle loro cause, sposando un’ottica evolutiva dei disturbi.

L’avvento della pubblicazione dei manuali proposti dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) con le scale di valutazione da utilizzare, mi ha spinto a fare delle riflessioni sull’importanza di queste scale in questo momento della storia dei disturbi mentali.

Il DSM-5 nasce, secondo le intenzioni del coordinatore della Task Force del DSM 5 David J. Kupfer, come un manuale che dovrebbe aiutare i clinici e i ricercatori a diagnosticare e classificare i disturbi mentali con più precisione, così da migliorare la diagnosi e la terapia conseguente. [blockquote style=”1″]Con la nuova edizione del DSM, noi volevamo promuovere la condivisione e la partecipazione più larga possibile e raccogliere la più ampia gamma di opinioni. Volevamo inoltre facilitare l’utilizzo finale del manuale per i clinici, i pazienti ed i ricercatori. Abbiamo raggiunto entrambi gli obiettivi e ci aspettiamo che il DSM abbia un’immediata utilità per i clinici e beneficio per i pazienti.[/blockquote] ha dichiarato Dilip Jeste, Presidente dell’American Psychiatric Association (APA).

È intenzione dell’APA promuovere futuri processi di revisione [blockquote style=”1″]con una sempre maggiore attenzione agli elementi innovativi nel campo della ricerca, con aggiornamenti continui fino a quando sarà necessaria una nuova edizione del DSM. Così come la ricerca di base sui disturbi mentali sta evolvendo a diverse velocità per diversi disturbi, anche le linee guida diagnostiche non devono essere vincolate a pubblicazioni statiche ma, al contrario, devono essere dinamiche e correlate ai progressi scientifici.[/blockquote]

L’organizzazione di ogni capitolo del nuovo DSM avrebbe l’ambizione, o la presunzione, di indicare come i disturbi possano essere interdipendenti a seconda di vulnerabilità preesistenti o di caratteristiche dei sintomi. Con lo stesso criterio sono stati ulteriormente suddivisi alcuni disturbi sulla base di una maggiore comprensione delle loro cause, sposando un’ottica evolutiva dei disturbi. Questo è un primo punto d’interesse, in quanto si propone, in questo DSM, un modello di malattia che di fatto è ibrido, a differenza di quello proposto nei precedenti manuali DSM.

La parte “ufficiale” del sistema diagnostico ripropone un modello dicotomico, per cui la malattia c’è quando ci sono i criteri e c’è salute quando non vengono soddisfatti tutti i criteri necessari. Nella sezione III del manuale, tuttavia, ci sono le dimensioni psicopatologiche e le scale di valutazione che dovrebbero misurarle e valutarle, facendo riferimento ad un modello di malattia che prevede una continuità tra normale e patologico che sfuma l’una nell’altra. Da qui la nuova proposta di concettualizzazione dei disturbi di personalità.

Un altro elemento esplicitamente sottolineato nel DSM 5 è la necessità di valutare meglio la comparsa, la durata e la gravità dei sintomi. Questo ultimo elemento ha di nuovo messo in risalto implicitamente l’importanza delle scale di valutazione nella pratica clinica quotidiana, e ne sponsorizza un maggiore utilizzo, rispetto a quanto venga fatto nella realtà odierna.

La stima della gravità offre vantaggi a cui credo non possiamo più rinunciare se vogliamo offrire trattamenti di qualità: consente di differenziare i pazienti sulla base della quantità (per la diagnosi non conta se hai 5 o 10 criteri positivi perché avrai comunque sempre e solo quella diagnosi) e della qualità dei sintomi; consente di capire e dimostrare meglio l’efficacia dei trattamenti, perché potrebbe chiarire quanto e su quali elementi agiscono maggiormente i diversi trattamenti, e in che tempi (inutile dire che questa è una delle sfide che devono essere raccolte dai clinici e dai ricercatori anche per le varie forme di psicoterapia); consente, infine, di avere elementi per personalizzare un trattamento sulla base di elementi discreti, e di poter verificare quali tra gli elementi è un indicatore migliore di risposta alla terapia nel tempo.

Non credo di poter essere smentito se affermo che in ambito clinico (SPDC, ambulatori ASL, CSM), si sente una maggior affinità con la psicodiagnostica. Come scrivono Fossati, Borroni e Somma, curatori del manuale sulle “Linee Guida di Psicometria”, psicometria e psicodiagnostica non sono ortogonali: sono poli estremi di una stessa dimensione dell’agire (e del pensare) psicologico.

La psicometria, a cui le scale rimandano, ha come interesse centrale lo sviluppo di misure (test, tecniche di intervista, prove di laboratorio ecc.) che siano quanto più affidabili e valide possibile (e anche lo sviluppo di nuovi modelli, metodi statistici e approcci computazionali alla definizione delle proprietà psicometriche delle misure psicologiche): lo sguardo è al comportamento di una misura in campioni rappresentativi di persone. L’ottica della psicodiagnostica ha a che vedere con il saper scegliere un sistema di provata affidabilità e validità per arrivare a dare una risposta a quesiti – usualmente, ma non esclusivamente, clinici – relativi a una singola, specifica persona. Senza psicometria non sarebbe possibile alcuna valutazione psicologica credibile; senza assessment psicologico (ossia psicodiagnosi) la creazione di test avrebbe un significato puramente “accademico”.

Non c’è dubbio che i clinici debbano riconciliarsi con le basi psicometriche dell’attività testologica, allo scopo di promuovere un uso sempre più competente dei test e anche il desiderio di “mettere alla prova” in prima persona nuove misure, conducendo degli studi di affidabilità e di validità, perché è un altro elemento problematico che deve essere superato. A questo punto della storia delle scienze psicologiche emerge con forza la necessità di una maggiore condivisione e standardizzazione degli item delle scale e degli score nella valutazione, che ci consentano di avere strumenti affidabili di valutazione della risposta a breve e lungo termine.

Nella sezione III del manuale viene dedicata tutta la prima parte nel tentativo di coinvolgere, spiegare l’importanza e promuovere l’utilizzo delle scale e lo studio di questi parametri. Essendo il DSM 5 manuale di transizione, e coerentemente con questa volontà d’integrazione di un sistema categoriale con quello dimensionale, si esorta all’utilizzo delle scale di valutazione per superare le limitazioni derivanti da un approccio diagnostico categoriale.

Queste scale di valutazione del paziente sono state messe a punto per essere somministrate nel colloquio iniziale e per monitorare i progressi del trattamento. Dovrebbero essere utilizzate per migliorare il processo diagnostico e non come base unica per formulare una diagnosi clinica. I vantaggi portati dall’utilizzo delle scale di valutazione includono, per gli autori del DSM 5, anche: il superamento delle difficoltà di individuare zone di discontinuità tra le diagnosi; la possibilità di definire meglio i soggetti che ricevono una diagnosi di un disturbo non altrimenti specificato; dare la possibilità di un resoconto soggettivo dei sintomi; fornire una valutazione più completa dello status mentale.

Sono sostanzialmente 5 i pacchetti di scale di valutazione nel DSM 5: 1) Le Scale di valutazione dei sintomi trasversali; 2) Le Scale di valutazione della gravità; 3) Gli Inventari di personalità per il DSM-5 (PID-5); 4) I Questionari relativi allo sviluppo infantile e all’ambiente domestico; 5) Le Interviste per l’inquadramento culturale (IIC) .

Le scale di valutazione dei sintomi trasversali si compongono di due livelli: le domande di livello 1 costituiscono un breve esame di 13 domini di sintomi per pazienti adulti (Depressione, Rabbia, Mania, Ansia, Sintomi somatici, Ideazione suicidaria, Psicosi, Sonno, Memoria, Pensieri e Comportamenti ripetitivi, Dissociazione, Funzionamento della personalità, Uso di sostanze) e 12 domini per pazienti in età infantile e adolescenziale. Le domande di livello 2 forniscono una valutazione più approfondita di alcuni domini.

Le scale di valutazione della gravità sono disturbo-specifiche e sono strettamente correlate con i criteri che definiscono il disturbo. Alcune scale possono essere compilate dal soggetto, mentre altre richiedono l’intervento del clinico.

Gli Inventari di personalità per il DSM-5 (PID-5) misurano i tratti di personalità non adattivi in cinque domini: Affettività negativa, Distacco, Antagonismo, Disinibizione e Psicoticismo. Tali domini seguono una sorta di consenso su 5 dimensioni che costituiscono la sintesi di 3 strumenti di misura di elementi personologici differenti: il modello psicobiologico a 7 fattori di Cloninger, la Valutazione dimensionale della patologia di personalità secondo il Dimensional Assessment of Personality Disorder (DAPP) e il modello di personalità “BIG FIVE”.

Sono disponibili – per gli adulti e i soggetti sopra gli 11 anni – la versione breve costituita da 25 item e la versione completa costituita da 220 item. In questa transizione del concetto di disturbo di personalità molto deve essere fatto perché si possa creare un modello condiviso ed affidabile.
I Questionari relativi allo sviluppo infantile e all’ambiente domestico possono essere utili nella valutazione delle prime fasi dello sviluppo e delle esperienze attuali relative all’ambiente domestico del bambino assistito. Sono fornite due versioni: una che deve essere compilata da un genitore, o da un tutore, del bambino; l’altra che deve essere compilata dal clinico.

Le Interviste per l’inquadramento culturale (IIC) possono essere utilizzate per ottenere informazioni durante una valutazione della salute mentale a proposito dell’influenza della cultura sugli aspetti chiave della presentazione clinica e dell’assistenza di un individuo. Contengono: l’Intervista per l’inquadramento culturale (IIC), l’’Intervista per l’inquadramento culturale (Versione per l’informatore) e i Moduli supplementari all’IIC.

 

La sensazione è di essere storicamente di fronte ad un momento di grande evoluzione della comprensione della mente e dei sui disturbi, e che ognuno di noi sia chiamato a fare la sua parte. In questo contesto, le scale di valutazione, che escono dal DSM 5 in questo modo, forse arbitrario e molto sperimentale, offrono comunque un substrato di lavoro perfettibile, ma che richiama tutti a fare un significativo passo in avanti nella definizione più accurata delle malattie, riproponendo un modello complesso; richiama alla necessità della condivisione scientifica e della verifica della confrontabilità e dell’efficacia dei trattamenti.

 

 

Un altro articolo dello stesso autore:

Primo, non curare chi è normale. Di Allen Frances – Recensione

Primo, non curare chi e normale. Allen Frances 2013 - SLIDE

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2015). DSM-5. Raffaello Cortina Editore: Milano.
  • Fossati, A., Borroni, S., Somma, A. (2015). Linee guida di psicometria. Raffaello Cortina Editore: Milano.

Ricadute nella depressione & attenzione selettiva verso volti rabbiosi

FLASH NEWS

Più dell’80 % delle persone che hanno avuto un episodio di depressione maggiore rischiano che l’episodio si ripresenti di nuovo nel corso della loro vita. Tra i meccanismi cui può essere attribuita l’elevata percentuale di ricaduta vi è l’attenzione selettiva verso certi stimoli.

In una recente ricerca è stato analizzato il bias attentivo verso determinate espressioni facciali in un gruppo di donne con un passato di episodi depressivi e in un gruppo di controllo.

A ogni soggetto venivano mostrate espressioni facciali neutre, tristi, felici o arrabbiate.

Il risultato è interessante: utilizzando la tecnica dell’eye-tracking è emerso che le donne con una storia anamnestica di depressione prestavano maggiore attenzione ai volti che esprimevano rabbia e collera.

Inoltre, i ricercatori hanno rivalutato nel corso dei successivi due anni le medesime donne per monitorare gli episodi di ricadute depressive. Tra le donne con storia di depressione, sono proprio coloro che prestano maggiore attenzione ai volti rabbiosi ad avere maggiore rischio di recidiva del disturbo nel medio termine.

In qualche misura è come se i soggetti a maggior rischio di ricaduta depressiva fossero iper-vigili alle espressioni facciali frequentemente legate al criticismo, al conflitto e alla svalutazione. Infine gli autori speculano sulle ricadute applicative considerando la possibilità di mettere a punto training attentivi sulle espressioni facciali nelle psicoterapie per la depressione.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La depressione e i pensieri negativi e pessimisti circa se stessi e il proprio futuro

BIBLIOGRAFIA:

Linus e la strategia di evitamento – Peanuts Nr. 07

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA Nr. 07

 

Linus e la strategia di evitamento

La strategia di evitamento è un tema caro alla psicologia, in particolare agli esperti del settore che si occupano di ansia sociale, disturbi evitanti di personalità, fobie specifiche, attacchi di panico e ansia generalizzata.

Aldilà degli inquadramenti diagnostici, l’evitamento è una strategia che a tutti è capitato di mettere in atto, anche quando non è un tratto distintivo della personalità. L’evitamento non ha solo una connotazione negativa, infatti permette di allontanarci da una situazione di pericolo o di minaccia reale.

Perde il suo valore adattivo quando si trasforma in una soluzione coercitiva, che limita le possibilità di esplorazione (Sassaroli et al., 2006).

 

 

Peanuts Nr. 07 - Evitamento

Cos’è che cerchiamo di evitare?

Quando temiamo le conseguenze di una decisione, o se non ci sentiamo sufficientemente competenti, o abbiamo il timore di sbagliare, ecco che la soluzione migliore diventa una non-soluzione. Ad esempio, ci chiediamo: “Che cosa succederebbe se non superassi l’esame all’università? O se non riuscissi a portare a termine quel compito come vuole il mio capo-ufficio? O se uscissi con quella persona e non sapessi cosa dire?” Più lo scenario che ci immaginiamo sarà catastrofico, più tenderemo a evitare le tragiche conseguenze che si disegnano nella nostra mente. Il motto di Linus è infatti un vero e proprio mantra per chi utilizza questa strategia come paradossale soluzione: non esiste problema che non possa essere evitato.

Gli effetti collaterali sono però dietro l’angolo. Più evitiamo le situazioni, meno ci sentiremo efficaci, e questo andrà a rinforzare l’idea che non siamo in grado di metterci in gioco. Inoltre, nel momento in cui decidiamo di evitare, l’ansia derivante dal rimuginio tenderà a diminuire, regalandoci un immediato senso di sollievo e facendoci credere che la strategia protettiva è stata efficace, perché ci allontana momentaneamente dallo stato emotivo negativo.

Questa vignetta può essere molto utile per aumentare la consapevolezza su questi meccanismi, che spesso diventano automatici, e per aprire il dialogo verso la ricerca di soluzioni alternative più funzionali.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

 Rubrica TRIBOLAZIONI Nr. 05: Gli Antigoal

 

Riferimento bibliografico:

  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (a cura di), Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006.

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Memorie di Scienza: nuova edizione del Premio Bassoli: tremila euro per la migliore raccolta di testimonianze orali in ambito scientifico

logo_infn SISSA logo

 

 

 

 

 

E’ uscito il nuovo bando del premio SISSA/INFN dedicato a Romeo Bassoli, inserito nel progetto Memorie di scienza.

Il premio finanzia con 3mila euro il miglior progetto per la raccolta di interviste e testimonianze orali in ambito scientifico. Tema di quest’anno sono le malattie infettive. Romeo Bassoli, scomparso nel 2013, è stato giornalista scientifico, ha collaborato a lungo con il Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA e e ha guidato per 7 anni l’Ufficio Comunicazione INFN. Per presentare la domanda c’è tempo fino al 20 ottobre 2015. Per maggiori informazioni visitate la seguente pagina.

A lungo docente del Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA e responsabile della comunicazione di INFN, giornalista scientifico di razza, Romeo Bassoli è scomparso nell’ottobre 2013. In sua memoria la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) promuovono un premio annuale di 3mila euro per il miglior progetto di interviste e raccolta di testimonianze orali in ambito scientifico. SISSA e INFN contribuiscono in parti uguali (50%) al premio che ogni anno è incentrato su un tema diverso. L’argomento dell’edizione 2015 sono le malattie infettive, in particolare le paure, le percezioni, le idee che le persone hanno delle malattie infettive e i rapporti tra cittadini ed esperti sul modo di affrontarle.

Il concorso è aperto a tutti gli appassionati e a tutte le appassionate di storia e comunicazione della scienza sul territorio nazionale. La scadenza del concorso è il 20 ottobre 2015, i vincitori saranno comunicati a novembre.

Il bando di concorso è disponibile al seguente link. Per informazioni contattare Nico Pitrelli, del Master in Comunicazione della Scienza Franco Prattico della SISSA: 0403787462, [email protected].

Più in dettaglio…

L’obiettivo del premio è accrescere il valore delle testimonianze orali nella storia e nella comunicazione della scienza, nell’ambito di un progetto più ampio. L’iniziativa, dal titolo Memorie di scienza, è promossa dalla moglie e dai familiari e amici di Romeo Bassoli, e si appoggia all’archivio di storia orale del Circolo Gianni Bosio di Roma, con la partecipazione dell’agenzia di comunicazione della scienza Zadig. Memorie di scienza raccoglie testimonianze orali, racconti e narrazioni delle più diverse figure che vivono il mondo della scienza: ricercatori, tecnici, giornalisti, decisori, persone comunque coinvolte nella progettazione e nello svolgimento della ricerca scientifica e delle sue applicazioni. La raccolta costituirà il fondo di un archivio orale consultabile online in modalità open access. La raccolta prevede sia contributi originali, sia l’individuazione di materiali già esistenti ma di difficile reperimento o comunque di difficile fruizione.

Il corpus di testimonianze è organizzato per temi e filoni narrativi, per facilitare la ricerca e l’accesso ai materiali raccolti, ma anche per privilegiare l’aspetto della narrazione, in una raccolta che vuole avere sia una valenza storica, sia una valenza comunicativa.

Memorie di scienza organizza, almeno una volta all’anno, una giornata dedicata alla presentazione dell’archivio e dei materiali raccolti, oltre a offrire un’occasione di confronto tra chi ha contribuito alla raccolta e gli interessati: storici della scienza, ricercatori, giornalisti, personalità della cultura.

Link utili e Contatti:

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Premio Internazionale per Ricerche su Trauma e Disturbi della Personalità: il premio per i giovani ricercatori

Intervista a Joanne Stubley, responsabile dell’Unità Trauma Adulti presso la Tavistock Clinic

LEGGI L’INTERVISTA IN INGLESE

Joanne Stubley è Supervisore Psichiatra presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica sita presso la Clinica Tavistock di Londra e Responsabile dell’Unità Trauma Adulti presso Tavistock and Portman NHS Foundation Trust (Londra).

Dirige la Sezione Adulti del Tavistock Trauma Service e ha una considerevole esperienza nel lavoro con individui, gruppi e organizzazioni che affrontano questo tema. È direttamente coinvolta nella formazione e nella pratica clinica, con un interesse specifico per iI trauma complesso. Dr. Stubley è membro della Società Psicoanalitica Britannica (BPS) e membro del UK Gruppo Trauma.

1. Come responsabile del Servizio Trauma Adulti presso la Tavistock and Portman NHS Foundation Trust di Londra, potrebbe brevemente descrivere cosa offre il servizio?

Il Servizio Trauma è parte dell’offerta per adulti proposta dalla Tavistock all’interno del sistema sanitario pubblico (NHS). Esso è una piccola unità, nata nel 1986. Inizialmente fondata dalla psicanalista Caroline Garland e principalmente rivolta a pazienti con diagnosi di PTSD. Per queste persone, che soffrivano di singoli episodi traumatici in età adulta, il servizio disponeva di una breve consulenza, 4-6 incontri, sufficiente per alcuni di loro. Per altre persone, dopo la consulenza iniziale, era possibile essere inseriti in un generico servizio per iniziare una psicoterapia, con interventi individuali o di gruppo. Gli incontri potevano durare da un’ora e un quarto a un’ora e mezza, oltre i soliti 50 minuti, per dare alle persone il tempo di esprimere la loro sofferenza durante l’incontro, prima del successivo stabilito circa 15 giorni dopo.
Negli anni, abbiamo incrementato l’offerta del servizio. Attualmente esso dispone di un Approccio Psicoanalitico al trauma accanto a interventi TF-CBT (Trauma Focused Cognitive Behavioural Therapy) e EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, di cui siamo in fase di formazione): in tal modo disponiamo di una diversificata opportunità terapeutica, per indirizzare al trattamento di traumi singoli, complessi o dello sviluppo.

2. Rispetto al profilo dei pazienti che afferiscono al servizio, quali sono le età, il background, le diagnosi più frequenti?

Questa popolazione può includere rifugiati e persone che necessitano di asilo politico, vittime di violenze domestiche o abusi sessuali, etc.. Il trattamento è ad oggi rivolto principalmente a traumatizzazioni croniche, sebbene ci occupiamo anche di individui con singoli episodi traumatici in età adulta. L’unità dispone di un ottimo collegamento con i servizi per adolescenti, per adulti e con altri servizi all’interno del sistema sanitario.

3. Quali tipi di trattamento offrite? Individuali o di gruppo? Che modelli terapeutici sono adottati?

La mia idea è che per lavorare con pazienti traumatizzati noi abbiamo bisogno di un trattamento flessibile, quindi seguire più di un modello di intervento può essere efficace. Tutti coloro che lavorano nell’Unità Trauma hanno un percorso formativo psicoanalitico: il principale riferimento teorico per noi. Inizialmente, infatti, ai pazienti offriamo una consulenza psicoanalitica, ma successivamente decidiamo il tipo di intervento quindi anche un trattamento TF-CBT è disponibile. È importante la flessibilità fra gli approcci d’intervento terapeutico.

Allo stesso modo, ritengo che molti pazienti necessitino di un adattamento al protocollo di intervento scelto per quanto riguarda i fattori psicosociali, che possono interferire nel trattamento. Così, molto spesso, ci occupiamo anche di cercare una sistemazione abitativa, un sostegno economico, una formazione scolastica e/o professionale, un lavoro, una soluzione alle pratiche burocratiche per i rifugiati e coloro che cercano asilo politico.

La questione della flessibilità: ogni paziente segue un intervento individuale e come tutti i pazienti ha ricevuto un’iniziale consulenza psicoanalitica. Da qui, possiamo offrire interventi TF-CBT, EMDR o diverse opzioni psicoanalitiche. Esse possono consistere in terapie di gruppo (1-2v/sett), occasionalmente un percorso intensivo (3v/sett), ma la maggior parte dei pazienti segue ciò che noi chiamiamo ‘un trattamento intermittente’(ha cioè una frequenza di meno di una volta a settimana). In questo modo è offerta la possibilità di gestire il tempo, per lo sviluppo di una relazione; alcuni pazienti frequentano ogni 2 settimane, alcuni ogni 3 o 4 settimane. Noi possiamo negoziare, in modo da disporre di una flessibilità che permetta di osservare ciò di cui hanno bisogno. Infatti, dopo un certo periodo di tempo il trattamento potrebbe evolvere in modo diverso.

Può dire qualcosa rispetto al termine del trattamento? Noi non abbiamo una definizione formale dal dipartimento, rispetto a quando terminare un trattamento. Noi utilizziamo i nostri incontri regolari (un trauma meeting 1v/15 giorni e un incontro di intervisione 1v/mese) per riflettere sul progresso dei pazienti. Ogni tanto la domanda è se il paziente è pronto o no a muoversi verso un altro intervento terapeutico. Noi, inoltre, cerchiamo di creare collegamenti tra organizzazioni esterne al servizio sanitario (es. organizzazioni di volontariato). Il termine del trattamento è una questione difficile, poichè questi tipi di pazienti spesso hanno bisogno di un percorso a lungo termine, ai fini della costruzione di una relazione.

Può dire qualcosa rispetto ai fondi? La Tavistock ha contratti con commitenti locali. Noi siamo pagati in blocco (il lavoro sul trauma è parte di tale blocco). Noi non siamo pagati a singolo paziente, ma per il lavoro psicoterapeutico generale che offriamo.

4. Come è organizzato il team, in termini di professionalità presenti e numero di operatori nel servizio?

Tutto il lavoro dello staff è part-time, presso il Trauma Unit, e il resto del tempo è dedicato ad altre responsabilità nel servizio sanitario. Ci sono 4 senior: io, Joanne Stubley (Psichiatra), dirigo l’Unità Trauma e anche una Unità Generica nel Dipartimento; Linda Young (Psicologo) dirige un team nel Dipartimento per Adolescenti; Maxine Dennis (Psicologo) dirige la Terapia di Gruppo nel Dipartimento per Adulti; Birgit Kleeberg (Medico) conduce l’Unità Fitzjohn. Noi disponiamo di esperti diversi in campi differenti. Disponiamo anche di un Patient Advice and Liaison (PALS), un ufficiale che frequenta il servizio trauma per aiutare i pazienti nelle difficoltà pratiche. Noi non abbiamo un numero definito di pazienti nè di personale sanitario.

5. Cosa prevedi per il futuro del servizio che conduci?

La mia preoccupazione sul futuro è relativa allo sforzo da mettere in campo, con le risorse che arrivano principalmente dalla Tavistock, in relazione ai problemi (n.d. tagli dei fondi) presenti nel servizio pubblico. C’è anche un problema esterno: un servizio pubblico psichiatrico frammentario, che rende difficile per i pazienti ricevere un supporto in rete. Inoltre, sono da tenere in considerazione le politiche sulla salute, che impattano questa tipologia di pazienti (es. fattori sociali).

 

L’intervista con Joanne Stubley ha evidenziato il valore della flessibilità nell’utilizzo di modelli teorici, ai fini dell’organizzazione di un piano di lavoro con pazienti che soffrono di traumi complessi, nella pratica clinica. Inoltre, mi ha permesso di riflettere sulla necessità di organizzare servizi simili al Trauma Unit, al fine di facilitare e rendere più efficace il lavoro dei colleghi in dipartimenti di salute pubblica differenti. Integrazione e flessibilità teorica risultano quindi le parole chiave per descrivere un’efficiente pratica, con effetti diretti sulla salute della comunità!

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Interview to Joanne Stubley, consultant psychiatrist at the Tavistock Clinic

BIBLIOGRAFIA:

Fondamenti per l’interpretazione del MMPI-2 e del MMPI-A – Recensione

 

Un viaggio di 450 pagine in quindici capitoli che affronta gli aspetti più importanti legati alla somministrazione, allo scoring e all’interpretazione dello strumento per l’assessment psicologico più usato al mondo. Un testo tanto valido quanto utile attraverso cui s’impara a conoscere e apprezzare lo strumento.

Fondamenti per l’interpretazione del MMPI-2 e del MMPI-A pubblicato da James N. Butcher e Carolyn L. Williams è una guida preziosa all’uso del Minnesota Multiphasic Personality Inventory. La sua pubblicazione ha costituito una testimonianza concreta del decennale progetto di ricerca rivolto alla sua ristandardizzazione.

Un viaggio di 450 pagine in quindici capitoli che affronta gli aspetti più importanti legati alla somministrazione, allo scoring e all’interpretazione dello strumento per l’assessment psicologico più usato al mondo. Un testo tanto valido quanto utile attraverso cui s’impara a conoscere e apprezzare lo strumento.

Gli autori forniscono un’illustrazione pulita e coerente che parte dagli albori della sua nascita nel servizio psichiatrico del Minnesota e non trascura le difficoltà della sua costruzione e applicabilità, per poi introdurre una riflessione sul suo diffusissimo impiego, in medicina generale, nelle scuole, in ambito di selezione, per ricerche di tipo psichiatrico e psicologico.

Era davvero necessario un passo di adeguamento al futuro, si pensi al campione normativo di contadini bianchi di ceto medio del Minnesota su cui era stato costruito, alla nosologia krapeliana e agli item datati, che conservasse tuttavia la sua originalità. L’impegno di un comitato di esperti come Butcher, W. Grant Dahlstrom, Johnn R. Graham e Auke hanno reso questo progresso possibile, attraverso l’introduzione di nuove scale rispondenti a nuovi problemi e utilizzando punti T uniformi che potessero essere equivalenti ai valori percentili delle scale.

Nel tempo l’attenzione riservata alla sua applicabilità, non poteva che crescere fino a rendere possibile la produzione di diverse tipologie quali, carta e matita con copertina morbida e rigida, adatta dove non ci sono supporti, su audiocassetta per coloro che hanno problemi di vista, lettura o impedimenti fisici, computerizzata che riduce il tempo di compilazione.

Il volume si propone come valido e prezioso ausilio per il clinico che intende utilizzare questo inventario con diverse raccomandazioni rivolte alla sua somministrazione, scoring e interpretazione. Si consiglia un setting controllato, un atteggiamento serio e il rispetto della riservatezza. Con gli adolescenti si sostiene l’importanza di verificare che siano collaborativi, abbiano compreso il testo e l’ampia disponibilità di tempo, di fornire intervalli e rinforzi.

Il passo successivo che corrisponde all’elaborazione del test può essere compiuto ricorrendo a griglie trasparenti applicate sul test, o preferendo la modalità computerizzata.

Le norme di questo questionario si basano su una trasformazione lineare di punti T con media 50 e deviazione standard 10, indicati in punti T uniformi. L’intervallo clinico è definito da un punto T uguale o superiore a 65 che corrisponde al 92° percentile per le 8 scale cliniche e per le scale di contenuto.

Per la valutazione della validità del protocollo l’attenzione deve ricadere sulle misure di validità. Più precisamente ciò che il soggetto è o vorrebbe farci credere è affrontato dagli autori attraverso una rassegna completa e attenta delle scale di validità Lie, Frequency, Superlative, Correction.

La prima fornisce informazioni sulla tendenza del soggetto a difendersi dal test, pertanto quando il punto T ha un’elevazione uguale o superiore a 65, il profilo non è più valido, la presentazione del soggetto appare come troppo virtuosa. Viceversa la seconda invalida il profilo quando si eleva a 110 e suggerisce che il soggetto sta esagerando i propri problemi. La scala S indaga se il soggetto si sta presentando sotto una luce eccessivamente positiva, quando il punteggio è uguale o superiore a 65 e per finire la scala K informa il clinico se il soggetto sta tentando di negare i propri problemi.

Terminata questa prima fase è importante valutare i punteggi del soggetto nelle scale cliniche, esse misurano rispettivamente l’ipocondria, la depressione, il disturbo di conversione, la deviazione psicopatica, la mascolinità e femminilità, la paranoia, la psicoastenia, la schizofrenia e l’ipomania.

La scala della mascolinità e femminilità e la scala dell’introversione sociale forniscono informazioni rilevanti sia nel caso di elevazione, sia di punteggio molto basso. La prima fu costruita per identificare la tendenza verso interessi femminili e maschili, ed è influenzata dallo stato socio-economico e culturale, punteggi estremi (70 o superiori) possono riferirsi a persone insicure nel ruolo maschile o femminile, punteggi estremamente bassi, informano su dubbi circa la loro mascolinità e femminilità e sull’abilità intellettuale limitata. Nella seconda gli alti punteggi valutano l’introversione sociale e i bassi l’estroversione sociale.

Ognuna di queste scale è costituita da sottogruppi di item raggruppati per contenuto che formano le scale Harris Lingoes che forniscono informazioni aggiuntive sull’elevazione riscontrabile in ciascuna scala.

Oltre che all’interpretazione scala per scala si può ricorrere all’interpretazione per codici, essa si riferisce ai punteggi più elevati delle scale cliniche collocate in ordine secondo la loro elevazione. È possibile riscontrare un codice a una sola punta, a due punte, due scale cliniche hanno un punteggio uguale o superiore a 65, a tre punte e quello a quattro punte che è piuttosto raro. Nel testo si dedica un ampio spazio ai più comuni codici riscontrati nei setting clinici e alla loro importanza per la diagnosi.

Un altro importante contributo alla comprensione dell’elevazione delle scale cliniche è offerto dalle scale di contenuto, che forniscono informazioni sulla personalità e su ciò che il soggetto riconosce di provare. Le prime sei scale, ANX (ansia), FRS (Paure), OBS (Ossessioni), DEP (Depressione), HEA (preoccupazioni per la salute), BIZ (ideazione bizzarra) misurano sintomi, preoccupazioni e percezioni particolari provate dalla persona. Le successive quattro scale, ANG (rabbia), CIN (cinismo), ASP (comportamenti antisociali) e TPA (tipo A) rilevano la capacità di controllare il comportamento e l’espressione delle emozioni. Un ulteriore gruppo di scale supplementari raccoglie informazioni su disturbi da abuso di alcol, droghe, disagio coniugale e ostilità.

Per procedere alla stesura di un profilo mediante una relazione gli autori raccomandano di interrogarsi sull’atteggiamento di risposta al test, i sintomi, e così via in modo da costruire un quadro coerente della personalità del soggetto e della necessità di un trattamento.

La seconda sezione del test conduce il lettore alla conoscenza del MMPI costruito appositamente per gli adolescenti. Ancora una volta una descrizione onesta di potenzialità e limiti della sua introduzione e diffusione. Il MMPI-A nasce per studiare la predisposizione giovanile alla delinquenza. La prima ricerca in tale ambito è da attribuire a Dora Capwell, in seguito a questa fu condotto un imponente studio su 15.300 scolari provenienti dal Minnesota, che dimostrò la validità dello strumento. Dalla somministrazione del MMPI e MMPI-A emersero importanti differenze tra adulti e adolescenti. Gli adolescenti per esempio manifestano un tipo di risposta più emotivo, inoltre prediligono il divertimento rispetto alle attività intellettuali. La validità di un profilo può essere indagata ricorrendo a sei misure raggruppabili in due categorie, che si riferiscono all’atteggiamento difensivo e stile di risposta e allo stile di risposta esagerato e a caso. Come per il MMPI per adulti si procede a valutare le scale di base, di contenuto e supplementari.

Un merito particolare deve essere riconosciuto alle qualità di questo testo, per indicarne alcune, una ricca raccolta d’informazioni, tabelle di rapida lettura e il riferimento a casi clinici, che lo rendono un indispensabile strumento per il clinico interessato a indagare problematiche e comportamenti disadattavi, compiere previsioni e individuare caratteristiche strutturali della personalità attraverso il questionario autodescrittivo più conosciuto al mondo.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

La Valutazione della Personalità con la Shedler-Westen Assesment Procedure (SWAP-200)

 

BIBLIOGRAFIA:

Quando le esperienze traumatiche non colpiscono solo il paziente: il trauma vicario nel terapeuta

Michela Grandori – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi  San Benedetto del Tronto

I professionisti che lavorano con pazienti traumatizzati in maniera aperta, impegnata ed empatica e che sentono la responsabilità o l’impegno di aiutare queste persone, sono più vulnerabili a sviluppare un trauma vicario. Ciò significa che saranno trasformati dalla loro attività dato che lavorare sul trauma può essere sì molto importante e gratificante, ma allo stesso tempo anche molto difficile e doloroso.

Infatti non è facile mantenere un atteggiamento di neutralità terapeutica quando un paziente espone le sue memorie traumatiche. Questi racconti suscitano emozioni molto forti non solo nel paziente ma anche nel terapeuta. Il rapporto empatico con le persone traumatizzate può causare un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo. Ascoltando i dettagli delle esperienze traumatiche che vengono riportate dal paziente in seduta, il terapeuta diventa testimone della realtà traumatica del paziente e questa esposizione può portare ad una trasformazione all’interno del suo funzionamento psicologico. Queste modificazioni negli schemi cognitivi del terapeuta possono avere effetti negativi sulla sua vita personale e professionale (Blair et al., 1996; McCann et al., 1990).

Una prima concettualizzazione di questo fenomeno si è avuta con l’introduzione del termine Traumatizzazione Vicaria, intesa come un cambiamento in negativo degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze in colui che svolge una professione d’aiuto, che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche dei pazienti. In tal senso è opportuno ritenere che la traumatizzazione vicaria nel terapeuta non derivi necessariamente dall’evento in sé ma dalla relazione di aiuto con un individuo che sta soffrendo a causa di quell’evento (McCann et al., 1990). Il costrutto è stato successivamente esteso fino a comprendere sintomatologie di tipo post-traumatico ed è stato indicato da Figley come Stress Traumatico Secondario, ovvero l’insieme di reazioni comportamentali ed emotive alla conoscenza di eventi traumatici sperimentati da altri o in seguito all’aiuto o al tentativo di aiuto a persone traumatizzate.

Se si esclude il fatto che in questa particolare condizione l’esposizione all’evento traumatico è indiretta, la tipologia di sintomi che ne consegue è la stessa riscontrabile in un quadro clinico di disturbo da stress post-traumatico: pensieri intrusivi, evitamento, aumento dell’arousal e, più in generale, una compromissione del funzionamento dell’individuo (Figley, 1995; Jenkins et al., 2002). Lo stesso Figley propone successivamente il costrutto di Compassion Fatigue che principalmente descrive i sentimenti di profonda partecipazione e comprensione per qualcuno colpito da sofferenza, accompagnati da un forte desiderio di alleviare la sofferenza stessa o eliminarne la causa (Figley, 1995).


Sebbene ci siano alcune differenze in termini di origine teorica del costrutto, i concetti Traumatizzazione Vicaria, Stress Traumatico Secondario e Compassion Fatigue possono essere considerati largamente sovrapponibili. La Compassion Fatigue può, pertanto, essere considerata un rischio professionale a pieno titolo. In questo senso Figley propone che la risposta all’esposizione a un evento traumatico si inserisca in un continuum che va da un estremo positivo, di soddisfazione lavorativa (Compassion Satisfaction) a un estremo negativo, di logoramento (Compassion Fatigue). L’autore delinea inoltre un modello causale per cui lo sviluppo della Compassion Fatigue è influenzato sia dalle strategie di coping sia da fattori contestuali come un’esposizione prolungata all’evento traumatico (Craig et al., 2010; Figley, 2002; Sprang et al., 2007).

Al quadro finora descritto si affianca il rischio di sviluppare una sindrome da Burnout, intesa come una combinazione di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e senso di ridotta efficienza nello svolgimento della propria professione, caratterizzata da cinismo, distress psicologico, insoddisfazione, difficoltà nel funzionamento interpersonale, ottundimento emotivo e conseguenze fisiologiche (Maslach, 1982). I fattori centrali determinanti il Burnout sembrerebbero essere la percezione del carico di lavoro, la pressione temporale e gli stressor riferiti alla relazione con l’utenza: tra questi si evidenzia, in particolare, il contrasto tra la richiesta di inibire le proprie emozioni sul lavoro (allo scopo di mantenere un buon livello di performance) e quella di mostrare empatia per il fatto di avere un ruolo da caregiver (Craig et al., 2010; Maslach et al., 2001).

Il Burnout e la Compassion Fatigue si distinguono su alcune dimensioni principali:

  • Il Burnout viene descritto come il risultato di uno stress psicologico generale dovuto al lavoro con pazienti difficili; il professionista ha la sensazione di essere sovraccaricato dal lavoro e le eventuali problematiche del paziente sono secondarie a tale sovraccarico. Invece la Compassion Fatigue è vista come una reazione specifica e diretta dovuta all’esposizione al materiale traumatico presentato dal paziente.
  • La Compassion Fatigue è improvvisa ed acuta e può emergere anche come il risultato di una singola esposizione ad un incidente critico. La sindrome da Burnout, invece, corrisponde ad un graduale e progressivo consumarsi del professionista che si sente sopraffatto dal proprio lavoro e incapace di promuovere un cambiamento positivo.
  • La Compassion Fatigue si verifica solamente tra coloro che lavorano con persone che hanno vissuto eventi traumatici, mentre il Burnout può presentarsi in persone che svolgono qualunque tipo di professione.

Nonostante queste differenze, il Burnout e la Compassion Fatigue condividono caratteristiche simili. Entrambi possono provocare sintomi fisici, emotivi e comportamentali, problemi lavorativi ed interpersonali. Inoltre, entrambi sono responsabili di una diminuzione di preoccupazione e di stima per il paziente, fattore che può determinare un calo nella qualità della cura del paziente stesso (Craig et al., 2010; Sprang et al., 2007).

E’ utile distinguere tre circostanze diverse in cui un terapeuta che lavora con pazienti traumatizzati può sviluppare un trauma vicario ed entrare in uno stato di stress e paralisi:

  • I terapeuti che non hanno mai vissuto personalmente un evento traumatico possono farsi sconvolgere da ciò che emerge nel corso del trattamento di persone con PTSD. Possono sviluppare, quindi, sintomi traumatici secondari sotto forma di incubi, senso di colpa, senso di impotenza, fantasie di salvezza o comportamento evitante/ottundimento. Ciò può creare un circolo vizioso in cui più il terapeuta diventa sintomatico, disadattivo e inefficace, più si immerge a fondo nel suo lavoro. Quando ciò avviene, il terapeuta tenderà a non rendersi conto della gravità del suo problema e a non cercare la supervisione e l’aiuto dei colleghi.
  • Il terapeuta può sviluppare un’autentica reazione di controtransfert in cui il materiale del paziente risveglia ricordi intrusivi di esperienze traumatiche vissute in passato dal terapeuta. Poiché l’esposizione a un evento traumatico non è un evento raro, e di certo gli psicoterapeuti non ne sono più esenti di altri, terapeuti e supervisori dovrebbero essere pronti a riconoscere ed affrontare queste reazioni di controtransfert.
  • Anche i terapeuti sono esposti alle esperienze traumatiche per cui cercano di aiutare gli altri. Per esempio, possono aver vissuto lo stesso disastro naturale (come un terremoto o un’alluvione) di un loro paziente. In queste circostanze, il terapeuta deve fare un debriefing o una terapia per i suoi sintomi post-traumatici prima di poter pensare di aiutare altre persone (Blair et al., 1996).

Il concetto di Traumatizzazione Vicaria è stato concettualizzato da McCann e Pearlman nell’ambito della Teoria Costruttivista dello Sviluppo del Sé (Constructivist Self Development Theory – CSDT). La CSDT cerca di integrare le teorie psicoanalitiche (della Psicologia del Sé e delle Relazioni Oggettuali) con le teorie cognitive della Social Cognition, allo scopo di creare una cornice dinamica per comprendere le esperienze dei sopravvissuti ad eventi traumatici e di chi si prende cura di loro (McCann et al., 1990; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

La premessa di questa teoria riguarda il fatto che ciascun individuo costruisce la propria realtà mediante percezioni e schemi cognitivi che facilitano la comprensione delle esperienze che accadono nella propria vita. La teoria sostiene che, nel momento in cui il terapeuta prende in carico pazienti traumatizzati e si espone alle loro memorie traumatiche, avvengono dei cambiamenti nei suoi schemi cognitivi e nei sistemi di credenze e questo può essere considerato il risultato di un adattamento cognitivo. Gli stili di adattamento individuali sono considerati come l’esito dell’interazione tra la personalità del terapeuta e gli aspetti salienti dell’evento traumatico, tutto ciò nel contesto delle variabili sociali e culturali che fanno da sfondo alle risposte e alle azioni psicologiche (Saakvitne et al., 1996; Smith et al., 2007).

La Traumatizzazione Vicaria causa un cambiamento nel modo in cui il terapeuta percepisce sé stesso, gli altri e il mondo, coinvolgendo le sue relazioni interpersonali e il suo mondo interno. Questo è ritenuto normale, prevedibile e inevitabile ma, se il terapeuta non lavora con la trasformazione che sta prendendo piede, ciò può avere effetti negativi molto seri su di lui, sia come individuo che come professionista (Pearlman & Saakvitne, 1995).
Secondo la CSDT è possibile individuare diverse componenti del Sé che riflettono le aree in cui si verificano i cambiamenti nel sistema di credenze:

  • Quadro di Riferimento: si riferisce alla struttura dell’individuo che comprende la propria identità, visione del mondo e sistema di credenze e che gli consente di visualizzare e comprendere sé e il mondo. Eventuali rotture nel quadro di riferimento possono creare un senso di disorientamento nel terapeuta e possibili difficoltà nella relazione terapeutica. Ad esempio, nel tentativo di comprendere il dolore del paziente, il terapeuta, parlando dell’evento traumatico, può concludere attribuendo la colpa alla vittima. La rottura del quadro di riferimento potrebbe indurre il terapeuta a non accogliere la possibilità di una vittima incolpevole.
  • Capacità del Sè: si tratta delle capacità interne dell’individuo che permettono di mantenere un costante e coerente senso d’identità e una buona autostima. Queste capacità permettono all’individuo di gestire le proprie emozioni, sostengono le sensazioni positive e permettono di mantenere buone relazioni con gli altri. Eventuali rotture in questa componente possono verificarsi nel momento in cui il terapeuta sperimenta un trauma vicario. Egli può vivere la sensazione di perdere la propria identità e possono verificarsi difficoltà interpersonali e nella gestione delle emozioni negative. Ciò può avere implicazioni serie nel lavoro con i pazienti traumatizzati.
  • Risorse dell’Io: queste consentono agli individui di soddisfare le loro esigenze psicologiche personali e relazionali. Le rotture in questa componente possono determinare l’insorgenza del perfezionismo e un’eccessiva attenzione e dedizione nei confronti del proprio lavoro. Inoltre i terapeuti possono anche sperimentare una certa difficoltà ad essere empatici con i loro pazienti.
  • Esigenze Psicologiche e Schemi Cognitivi: tra le esigenze psicologiche troviamo le esigenze di sicurezza, di fiducia, di stima, d’intimità e di controllo. Queste esigenze si riflettono nella formazione degli schemi cognitivi di sé, degli altri e del mondo e nella loro eventuale modificazione qualora le esigenze stesse non venissero soddisfatte.

Esigenze di Sicurezza: possedere il senso di sicurezza è fondamentale per il benessere dell’individuo. Tali esigenze comprendono i bisogni di protezione, dipendenza, libertà dalla paura e un ambiente stabile, sicuro e strutturato.

  • Schemi Cognitivi: i terapeuti che sviluppano un trauma vicario possono sentire che non vi è alcun rifugio sicuro che li protegga dalle minacce alla propria sicurezza personale. Livelli elevati di timore, vulnerabilità e preoccupazioni possono essere i modi in cui si manifesta questa perturbazione nelle esigenze di sicurezza. I terapeuti possono così diventare eccessivamente cauti nei confronti dei loro figli, sentire un forte bisogno di seguire un corso di autodifesa, installare un sistema di allarme in casa, etc…

Esigenze di Fiducia: queste esigenze riflettono la capacità dell’individuo di fidarsi delle proprie percezioni e credenze e di quelle degli altri. Tutti gli individui hanno una naturale propensione a fidarsi di sé e degli altri.

  • Schemi Cognitivi: l’esposizione ripetuta al materiale traumatico del paziente rende il terapeuta vulnerabile al trauma vicario e scuote la fiducia che egli nutre nei confronti degli altri, del mondo e di sé stesso. Così, ad esempio, se il paziente è stato vittima di un attacco terroristico da parte di un gruppo minoritario, il terapeuta potrebbe diventare sospettoso, in generale, nei confronti di tutti i gruppi di minoranza; oppure il terapeuta potrebbe iniziare ad avere una minore fiducia in sé stesso e a mettere in discussione le proprie capacità di giudizio e di intervenire in modo efficace con il paziente.

Esigenze di Stima: si basano sul valore di sé e dell’altro.

  • Schemi Cognitivi: il terapeuta che sperimenta il trauma vicario potrebbe sentirsi inadeguato e mettere in discussione le proprie capacità di aiutare l’altro. La stima per l’altro, invece, potrebbe essere compromessa quando il terapeuta si trova a dover fare i conti con la capacità delle persone di essere crudeli e del mondo di essere ingiusto.

Bisogni d’Intimità: possono essere definiti come la capacità di sentirsi in contatto con sé stessi e con gli altri.

  • Schemi Cognitivi: eventuali rotture in questa componente possono generare sentimenti di vuoto, difficoltà a godere del tempo libero o un intenso bisogno di riempire il tempo libero e un ritiro dalle relazioni con gli altri. Il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può allontanarsi o, al contrario, diventare sempre più dipendente dalle proprie figure significative.

Esigenze di Controllo: queste esigenze sono relative all’autogestione.

  • Schemi Cognitivi: quando si creano rotture in quest’area, le credenze e i comportamenti risultanti possono essere di impotenza e/o di maggior controllo in altre aree. Queste credenze generano disagio e il terapeuta che sperimenta il trauma vicario può mettere in discussione la propria capacità di farsi carico della sua vita, di essere l’artefice del suo futuro, esprimere i propri sentimenti e agire liberamente (Pearlman & Mac Ian, 1995; Pearlman & Saakvitne, 1995; Trippany et al., 2004).

Secondo la teoria poc’anzi delineata, il trauma vicario comporta conseguenze nel terapeuta sia a livello personale che professionale. A livello personale il terapeuta può incrementare la propria consapevolezza dei pericoli e della frequenza dei traumi e sentirsi, pertanto, più vulnerabile. Il senso di protezione e quello di sicurezza possono risultare minacciati e il terapeuta può sperimentare un profondo senso di impotenza per non essere riuscito a proteggere il suo paziente dai traumi passati e dalla sofferenza presente. Il terapeuta, inoltre, può essere sopraffatto dalle narrazioni del paziente e provare paura, dolore e sofferenza simili a quelli del suo paziente così come può sentirsi in colpa per non essere stato risparmiato da quegli orrori (Janoff-Bulman, 1992). Questi sentimenti possono suscitare varie reazioni poco appropriate che interferiscono con la terapia. Il terapeuta potrebbe non rispettare i confini terapeutici (ad esempio, dimenticando gli appuntamenti, non rispondendo al telefono o, al contrario, contattando in maniera inopportuna il paziente); potrebbe provare rabbia qualora il paziente non rispondesse alla terapia; potrebbe dubitare delle proprie capacità e conoscenze e smettere di concentrarsi sui punti di forza e sulle risorse del paziente; infine, potrebbe evitare di parlare del trauma o, al contrario, mostrarsi eccessivamente intrusivo nell’esplorazione delle memorie traumatiche del paziente, sondandone ogni specifico dettaglio. Le forti emozioni provate nel corso della terapia potrebbero indurre il terapeuta a compiere tentativi di soccorso e diagnosi errate (Herman, 1992; Trippany et al., 2004).

Va sottolineato che il trauma vicario può avere effetti negativi anche sulle relazioni amicali e familiari del terapeuta il quale può risultare emotivamente meno accessibile. Ciò può portarlo a ritirarsi dalle relazioni amicali, familiari e dalle relazioni con i propri colleghi, oltre a sviluppare un certo cinismo che non apparteneva al proprio carattere. Il terapeuta può andare in burnout e diventare un peso per i colleghi o lasciare il campo di attività prematuramente, sfiduciato e inaridito (Herman, 1992; Saakvitne et al., 1996).

Per affrontare, o meglio, prevenire il trauma vicario la prima cosa da fare può essere limitare il numero di colloqui con pazienti traumatizzati per evitare di sfinirsi a causa del lavoro (Hellman et al., 1987; Trippany et al., 2003).

Inoltre, è essenziale mantenersi in collegamento con i colleghi e avere la disponibilità di una supervisione continua che riduca la sensazione di isolamento e aumenti l’obiettività e l’empatia del terapeuta (Dyregrov et al., 1996; Lyon, 1993; Pearlman et al., 1993). Possedere un’adeguata formazione in psicotraumatologia è di fondamentale importanza in quanto fornisce al terapeuta gli strumenti essenziali per un intervento efficace e può, pertanto, ridurre l’impatto del trauma vicario (Pearlman & Saakvitne, 1995). Importante è anche bilanciare lavoro, svago e riposo, mantenere attiva la propria rete amicale e curare le proprie relazioni familiari, effettuare una dieta adeguata, fare esercizio fisico e dedicarsi ai propri hobby e/o attività creative. Tutto questo, oltre a prevenire il trauma vicario, può aiutare a preservare un solido senso di identità personale (Stamm, 1995; Trippany et al., 2004).

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Nella mente dello Psicoterapeuta (Cortometraggio di animazione)

BIBLIOGRAFIA:

  • Blair D.T., Ramones V.A. (1996). Understanding vicarious traumatization. Journal of Psychosocial Nursing and Mental
  • Craig C.D., Sprang G. (2010). Compassion satisfaction, compassion fatigue, and burnout in a national sample of trauma treatment therapists. Anxiety, Stress, & Coping, Vol. 23:319-339.
  • Dyregrov A., Mitchell J.T. (1996). Work with traumatized children: Psychological effects and coping strategies. Journal of Traumatic Stress, Vol.5:5-17.
  • Figley C.R. (1995). Compassion fatigue: Coping with secondary traumatic stress disorder in those who treat the traumatized. Brunner/Mazel, New York.
  • Figley C.R. (2002). Compassion fatigue: Psychotherapists’ chronic lack of self care. Psychotherapy in Practice, Vol. 58:1433-1441.
  • Hellman I.D., Morrison T.L., Abramowitz S.I. (1987). Therapist experience and the stresses of psychotherapeutic work. Psychotherapy, Vol.24:171-177.
  • Herman J.L. (1992). Trauma and recovery. New York: Basic Books.
  • Janoff-Bulman R. (1992). Shattered assumptions: Towards a new psychology of trauma. Free Press, New York.
  • Jenkins S.R., Baird S. (2002). Secondary traumatic stress and vicarious trauma: A validational study. Journal of Traumatic Stress, Vol. 15:423-432.
  • Lyon E. (1993). Hospital staff reactions to accounts by survivors of childhood abuse. American Journal of Orthopsychiatry, Vol.63:410-416.
  • Maslach C. (1982). Burnout, the cost of caring. Englewood Cliffs, N.J.: Prentice-Hall.
  • Maslach C., Schaufeli W.B., Leiter M.P. (2001). Job burnout. Annual Review of Psychology, Vol. 52:397-422.
  • McCann I.L., Pearlman L.A. (1990). Vicarious traumatization: A framework for understanding the psychological effects of working with victims. Journal of Traumatic Stress, Vol. 3:131-149.
  • Pearlman L.A., Mac Ian P.S. (1993). Vicarious traumatization among trauma therapists: Empirical findings on self-care. Traumatic Stress Points: News for the International Society for Traumatic Stress Studies, Vol.7:5.
  • Pearlman L.A., Mac Ian P.S. (1995). Vicarious traumatization: An empirical study of the effects of trauma work on trauma therapists. Professional Psychology: Research and Practice, Vol. 26:558-565.
  • Pearlman L.A., Saakvitne K.W. (1995). Trauma and the therapist: Countertransference and vicarious traumatization in psychotherapy with incest survivors. Norton, New York.
  • Saakvitne K.W., Pearlman L.A. (1996). Transforming the pain: A workbook on vicarious traumatization. Norton, New York.
  • Smith A.J.M., Kleijn W.C., Trijsburg R.W., Hutschemaekers G.J.M. (2007). How therapists cope with clients’ traumatic experiences. Torture, Vol. 17:203-215.
  • Sprang G., Whitt-Woosley A., Clark J. (2007). Compassion fatigue, burnout and compassion satisfaction: Factors impacting a professional’s quality of life. Journal of Loss and Trauma, Vol. 12:259-280. DOWNLOAD
  • Stamm B.H. (1995). Secondary traumatic stress: Self-care issues for clinicians, researchers and educators. MD: Sidran Press, Lutherville.
  • Trippany R.L., White Kress V.E., Wilcoxon S.A. (2004). Preventing vicarious trauma: What counselors should know when working with trauma survivors. Journal of Counseling & Development, Vol. 82:31-37.
  • Trippany R.L., Wilcoxon S.A., Satcher J.F. (2003). Factors influencing vicarious trauma for therapists of survivors of sexual victimization. Journal of trauma practice, Vol.2:47-60.

Il Gambling & l’happy-ending di una vincita: gli effetti del Temporal Markdown

FLASH NEWS

L’effetto delle esperienze molto recenti gioca un ruolo molto forte nei processi di decision-making: ciò che è appena accaduto può influenzare in modo preponderante quello che sceglieremo di fare nell’immediato futuro.

Questo accade frequentemente nel gambling patologico, in cui l’happy-ending di una vincita è in grado di distorcere ampiamente i pensieri e i comportamenti successivi, anche se tonnellate di esperienze accumulate nel passato suggerirebbero il contrario.

Una ricerca ha coinvolto soggetti sani e ha utilizzato task sperimentali di gambling: ai partecipanti veniva richiesto di accumulare quanti più gettoni possibili mediante una sorta di gioco d’azzardo.

Lo studio ha dimostrato che la stragrande maggioranza di essi ha ceduto alla “fallacia del banchiere”: l’individuo si focalizza sulla possibilità del guadagno immediato a discapito di una rendita più stabile a lungo termine.

Il meccanismo cognitivo che ci sta dietro è definito dai ricercatori “temporal markdown” e consiste in una svalutazione delle esperienze temporalmente precedenti: anche se ancora relativamente recenti le esperienze passate rispetto ad altre avrebbero un peso proporzionalmente minore nei processi di scelta.

Viceversa ciò che è appena stato vissuto godrebbe di un vantaggio enorme nell’influenzare il comportamento futuro, persino a discapito di una storia coerente di informazioni contrarie.

Solo un’esigua parte del campione (9 su 41 soggetti) è stata in grado di mantenere lucidità nel richiamare alla memoria in modo accurato le esperienze pregresse senza sottovalutarle rispetto a quelle recentissime, e attuando comportamenti più razionali.

Studi futuri dovranno rispondere al perché certi individui e non altri sarebbero più accurati nella valutazione cognitiva delle esperienze pregresse quando si tratta di gambling e guadagni economici.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Gambling: credenze metacognitive e comorbidità psichiatrica

BIBLIOGRAFIA:

Interview to Joanne Stubley, Consultant Psychiatrist at the Tavistock Clinic

Joanne Stubley is the Hand of Adult Trauma Unit at the Tavistock and Portman NHS Foundation Trust (London)

Joanne Stubley is a Consultant Psychiatrist in Psychotherapy at the Tavistock Clinic. She leads the Adult Section of Tavistock Trauma Service, and has considerable experience of working with individuals, groups and organisations which have experienced trauma. She is actively involved in teaching and training in this field, with a particular interest in complex trauma. Dr Stubley is a member of the British Psychoanalytic Society (BPS) and member of UK Trauma Group.

1. As Head of The Adult Trauma Unit at the Tavistock and Portman NHS Foundation Trust, London, could you briefly describe the services offered?

The Adult Trauma Service is part of the Adult services provided from the Tavistock in the NHS Foundation Trust. It is a small unit that has been running since 1986. Initially founded by the psychoanalyst Caroline Garland, and was mainly for people who had a diagnosis of PTSD. For those people, who suffered with a single episode of adult trauma, the service offered a brief consultation, 4-6 sessions: for some people this was enough. Others, after the consultation, would go into the generic service to start a psychotherapy, individual or group treatment. The consultation appointments would last about an hour and a quarter or an half, more than the usual 50 minutes, to give people time to tell the suffering they feel, in the session, and there would generally be two weeks between sessions to help process what happened.
Over the years, we have been increasing what the service offers. Currently, it follows a Psychoanalytic Approach to trauma alongside TF-CBT (Trauma Focused Cognitive Behavioural Therapy) and EMDR Treatment (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, actually we are in the process of training): thus we offer a variety of therapeutic packages to address single episode trauma, complex and developmental trauma.

2. Regarding the profiles of patients moving through the unit, what kind of patients you treat/age/background/usual diagnoses?

This population may include asylum seekers and refugees, victims of domestic violence or childhood sexual abuse, and so on. The nature of the treatment is now on chronic episodes of trauma although we do also see people with single episode adult trauma as well. We have good links with the adolescent and generic departments within the trust.

3. Which kinds of treatments are offered? Individual or group? Which models of treatment are adopted?

My feeling is that working with trauma patients we need to use a treatment that requires flexibility, to use more than one model may be effective. We all are trained in the psychoanalytic model as our primary training. We may initially offer a psychoanalytic consultation but then decide to offer a TF-CBT treatment. It is important to have flexibility in treatment approaches.

In the same way I think that a lot of patients also have to need an adaptation in terms of dealing with psychosocial factors. So quite often we can also look at this: for housing, finances, education and training and work and also for the refugees/asylum seeker the immigration status.

The question of flexibility: each patient has an individualized treatment, but all of those patients have a trauma psychoanalytic base consultation first of all. From there, we may be offer EMDR, TFCBT or a number of psychoanalytic options. This might be once a week individual or group therapy, occasionally an intensive (3/week session), but probably the majority of patients follow what we call ‘an intermittent treatment’ (which is less than once a week). That is a place that offers time for a relationship to develop; some patients come every 2 weeks, some patients every 3 or 4 weeks. We can negotiate, as a sort of flexibility in terms of seeing what they need. After a period of time it might be followed by something else.

What’s about the ending of the treatment? We don’t have a formal definition of when the treatment ending is required by the department. We use the regular trauma meeting (2/month) and peer groups meeting (1/month) to think about the progress of the patients. Sometimes the question is if this patient is ready or not to move in other treatment. We also try to get links with other external agency (eg. voluntary organizations). This is a difficult question, because these kinds of patients often need a long time, in terms of building the relationship.

What’s about funds? The Tavistock has contracts with local commissioners groups. We are paid in block (the trauma work is a part of that). We are not paid for individual patients, but for the general psychotherapy work that we do.

4. How is your team organised in terms of varying professional roles and size of team?

All the staff work part time and have other responsibilities in the department. There are 4 senior staff: Joanne Stubley (Psychiatrist) leads the Trauma Unit and also a Generic Unit in the Department; Linda Young (Psychologist) leads a team in the Adolescent Department; Maxine Dennis (Psychologist) leads the Group Therapy in the Adult Department, Birgit Kleeberg (Medical) leads the Fitzjohn’s Unit. We have different kinds of expertise in different fields. We have a Patient Advice and Liaison (PALS) officer who attends the trauma service to help patients with practical difficulties. There is not a defined number of patients or personnel staff.

5. What do you envisage for the future of the services you provide?

My concern about the future is that we will continue to struggle with resources in the Tavistock, particularly in relation to wider problem in NHS. There is also the problems externally: a very fragmented NHS psychiatry service which makes it very difficult for patients to get support. Moreover, there are problems with welfare to keep in mind that affect these patients (social factors).

 

The interview with Joanne Stubley has highlighted the value of flexibility in the use of theoretical models in order to organize clinical practice when treating patients with complex trauma. In addition, it allowed me to reflect on the need to organize services such as Trauma Unit to facilitate the work of colleagues in other mental health departments. Integration and flexibility are the key words to describe an efficient practice, which can affect the health of the community!

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

EMDR con disturbi dissociativi: intervista a Dolores Mosquera – Congresso Nuove Frontiere nella cura del trauma 2015

 

BIBLIOGRAFIA:

Toward a Hope-Centered Psychology: Theory, Assessment, and Interventions – Lezione del Prof. Anthony Scioli a Milano

Toward a Hope-Centered Psychology: Theory, Assessment, and Interventions – A. Scioli

Lunedi 6 luglio dalle 11.00 alle 12.30 nella sede della Sigmund Freud University Milano in Ripa di Porta Ticinese 75/77 è possibile assistere gratuitamente alla lezione in inglese del Prof. Anthony Scioli sul suo modello psicopatologico del’emozione della speranza. La lezione è intitolata “Toward a Hope-Centered Psychology: Theory, Assessment, and Interventions”

Il prof. Anthony Scioli insegna al Keene State College del New Hampshire. Ha studiato la speranza per più di un decennio e ha sviluppato una teoria generale che combina le migliori intuizioni di scienziati, filosofi, poeti e scrittori e li tesse in un unico grande arazzo interdisciplinare.

 

I suoi libri sono:
  • “The Power of Hope” (2010)
  • “Hope in The Age of Anxiety” (2009)
Il suo sito è www.gainhope.com
E’ stato intervistato su State of Mind:
The Psychology of Hope: Interview with Anthony Scioli – APA 2014, Washington DC

 

Sigmund Freud University Milano - Università di Psicologia

Una semplice perizia – Centro di Igiene Mentale – Cim n. 21 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE #21

Una semplice perizia

Per la prima volta dalla sua fondazione, nell’ultimo semestre il CIM di Monticelli aveva dovuto predisporre delle liste di attesa per le crescenti richieste di psicoterapia. Il dottor Irati, assistendo ad un contemporaneo assottigliamento della ricca clientela del suo avviato studio privato, attribuiva il fenomeno alla crisi economica che impediva al ceto medio di permettersi il ricorso al privato.

La dottoressa Daniela Filata, ottimista e come sempre d’accordo con la Mattiacci, lo spiegava con la crescente credibilità del servizio pubblico ed il suo progressivo radicarsi nel territorio, espressione cara ai veterocomunisti e con la fiducia conquistata dei medici di medicina generale che avevano nel CIM un interlocutore presente e autorevole. A parere di Gilda e di Giulio Renzi, stranamente d’accordo, alla sensazione di assedio non corrispondeva un effettivo incremento della clientela e la spiegazione andava cercata nel progressivo impoverimento del servizio pubblico che dappertutto vedeva un calo del personale a favore delle strutture private in nome di una strisciante controriforma psichiatrica che sarebbe approdata a nuovi manicomi privati e servizi di sola emergenza territoriale. Secondo Gilda psicologi e assistenti sociali sarebbero definitivamente scomparsi ed i dipartimenti sarebbero stati finanziati direttamente dalle aziende farmaceutiche. Alla riunione generale settimanale Biagioli, geneticamente democristiano, sostenne che le liste d’attesa dipendevano certamente dal fatto che erano in pochi ma soprattutto che quei pochi erano davvero buoni e riconosciuti tali. Dava sempre ragione a tutti ed a nessuno, non era certo avesse un pensiero suo vero e proprio. A lui interessava soprattutto che ci si rimboccasse le mani di fronte alle liste per accorciarle e che una miniequipe costituita da Brugnoli e la dottoressa Filata esaminasse tutte le richieste per stabilire le priorità. Luisa Tigli, forse a motivo di qualche dissapore nella loro relazione privata, gli fece notare che più invecchiava più smetteva di chiedersi il perché delle cose e si rifugiava in un fare simile ad un affaccendarsi ascopico. Carlo accusò il colpo distraendosi dal dibattito. Si chiedeva se gli rodesse di più la definizione di superficiale o di vecchio. Concluse per la seconda e la mente sfiorò dolorosamente recenti episodi in contesti molto più intimi che aveva messo da parte in attesa di oblio definitivo.

L’attesa media era di un paio di mesi ma la signora Olga Simoni non aveva aspettato neppure un giorno e l’appuntamento venne fissato direttamente col Dr. Biagioli, nonostante fosse fuori zona, neppure residente nel comune di Monticelli.

La spiegazione poteva sembrare dall’esterno assolutamente ovvia. La Simoni era la moglie del sindaco del capoluogo Vontano e la vicedirettrice della Cassa di risparmio (la Ca.Ri.Vo) che tante iniziative riabilitative del CIM aveva sponsorizzato. Biagioli si trovò in imbarazzo a spiegare questa sua decisione autonoma che puzzava di pressioni e raccomandazioni lontano un miglio ai suoi intransigenti operatori mantenendo il segreto sulle vere cause. Il dottor Pace, sostituto procuratore della repubblica di Vontano, che aveva salvato dalla galera Marco Polti, Giulio Renzi, Luigi Cortesi e Giulio Nitti e probabilmente il CIM dalla chiusura a seguito della vicenda di “Villa Santovino” aveva convocato Biagioli in tutta confidenza in un orario serale quando gli uffici della Procura erano deserti.

Neppure lui si fidava dell’utilizzo del telefono ed un incontro in luogo segreto gli sembrava imbarazzante e ridicolo. La notissima e potente signora Olga Simoni era implicata in una vicenda processuale piuttosto oscura dopo che ella stessa aveva sporto denuncia contro la cooperativa “Bau Bau” che gestiva il canile comunale per essere stata morsicata da un cucciolo durante una delle sue consuete visite. Il giudice aveva chiesto una perizia psichiatrica e il dottor Pace si era permesso di suggerire il Dottor Biagioli per la competenza e la riservatezza. Tecnicamente agli arresti domiciliari non essendoci pericolo di fuga né di inquinamento delle prove, aveva ottenuto il permesso di recarsi una volta a settimana presso l’ambulatorio di Monticelli che garantiva un minimo di privacy nonostante sui giornali locali si scatenassero le ipotesi più fantasiose sul perché di un provvedimento cautelare emesso improvvisamente a carico di un soggetto che risultava parte lesa.

Il Corriere lasciava sospettare che dietro ci fosse una manovra del sindaco stesso che, stufo dei continui tradimenti, volesse arrivare a un divorzio con addebito alla moglie in modo da evitare gli alimenti all’avida consorte. Di lei i mezzi di informazione locale con forte vocazione al gossip davano da tempo un’immagine bifronte. Da un lato una donna generosa, dedita al volontariato e animatrice culturale di quel mondo che si estende con ampie sovrapposizioni dalle frange estreme della sinistra fino ai gruppi religiosi più attivi. Dall’altro una ricca borghese scostante e sprezzante con quelli che non considerava al suo livello, ovvero tutti con in prima fila il marito Gustavo tanto da infuriarsi se qualcuno la chiamava Esposito col il cognome di lui che trovava proletario e meridionale.

Biagioli non volle leggere altro per non esserne influenzato. Già erano sufficienti i pregiudizi che aveva verso il mondo radical chic che lo facevano faticare non poco per empatizzare con alcuni pazienti. Andava meglio da quando aveva capito che era un altro modo per avercela con se stesso (era innegabilmente di quel mondo). Quando la incontrò la prima volta capì esattamente il significato dell’ aggettivo “algida” che sin da piccolo aveva rappresentato per lui sono una marca di gelati. Olga aveva 46 anni, l’estrema magrezza ultima propaggine di un disturbo anoressico adolescenziale danneggiava una bellezza nordica che doveva essere stata appariscente. I capelli biondi con un’ acconciatura anni ’60 nascondevano chiazze di alopecia. La gonna del tailleur grigio celava le ossa sporgenti del bacino. Gli occhi grigi, che se davvero sono lo specchio dell’anima ne denotavano l’assenza, guizzavano nervosamente a scannerizzare l’ambiente alla ricerca di possibili pericoli. Era un animale in allarme e Biagioli le permise di acclimatarsi e di marcare il territorio disseminando in tutti gli angoli la cenere della sua Marlboro light ( il vaso del Ficus regalato dalla madre di Clotilde,una conchiglia con la vocazione ad essere confusa con un portacenere e soprattutto il davanzale della finestra dove il vento eliminava le tracce della trasgressione).

Fu lei a decidere quando sedersi nella poltrona di fronte alla scrivania. Certa che lo sguardo di Biagioli ne avrebbe seguito l’armonico movimento per indugiare poi sulle sue famose cosce velate da calze trasparenti ormai fuori moda, accavallò le gambe e iniziò a spiegare la dinamica dell’incidente per cui aveva fatto causa alla cooperativa che gestiva il canile, mostrando tutta la sua indignazione per essere passata da parte lesa a indagata per la morte di un cucciolo di labrador.

Effettivamente quando il cucciolo cui stava tagliando il pelo del collo per una infezione provocata dal collare aveva reagito tentando di aggredirla, si era spaventata terribilmente perdendo il controllo e colpendo l’animale con le forbici adoperate a pugnale. Era vero che non aveva chiamato subito gli inservienti ma solo perché resasi conto che la povera bestiola se fosse sopravvissuta sarebbe rimasta ceca ( gli aveva cavato gli occhi) e paralizzata per il colpo alla colonna, aveva sentito il dovere di porre fine alle sue sofferenze tagliando con precisione chirurgica la carotide sinistra. Le conoscenze mediche le aveva acquisite in un corso per volontari della Croce Rossa che prima aveva frequentato e poi per una decina di anni finanziato con i fondi di beneficenza della Ca. Ri. Vo.

Biagioli voleva farla sentire a suo agio e abbassare la sospettosità. Ritenne inopportuno indagare meglio sull’episodio ( del resto non spettava a lui) e mostrando ammirazione per le sue numerose attività e con quel fare seduttivo che mirava a far sentire l’interlocutore unico le chiese della sua vita. Anche lei era molto esperta nel flirtare ma, si diceva in città, meno brava di Biagioli nel sapersi fermare in tempo. Motivo per cui il sindaco era sulla bocca di tutti e si diceva che se anche avesse avuto solo i voti degli amanti della moglie avrebbe governato per decenni con la maggioranza assoluta. Carlo invece credeva fosse molto più il fumo che l’arrosto ma non aveva intenzione di verificare, gli inciampi con Luisa Tigli sconsigliavano di cimentarsi in terreni sconosciuti. La chiamò Olga mettendo da parte il più formale dottoressa Simoni e ciò diede la stura al tumultuoso racconto della sua drammatica vita.

Il padre l’ingegner Simoni era un imprenditore edile. Tutta la parte nuova di Vontano era stata costruita con guadagni inversamente proporzionali alla qualità strutturale ed estetica delle abitazioni dalla SIMONI s.r.l. L’ingegnere Dario sponsor unico della giunta democristiana che aveva governato Vontano ininterrottamente dal dopoguerra aveva un potere enorme. Biagioli ricordava di essersi sempre chiesto che merito avesse quel bieco palazzinaro perché una via fosse dedicata a “Ginetto Simoni” figlio dell’ingegnere, di cinque anni più grande di Olga, morto a 4 anni e dunque poco prima della nascita di Olga in uno strano incidente domestico. Sbattendo contro lo spigolo di un tavolo si era fracassato il cranio. Questo era il primo episodio ad aver segnato la vita di Olga prima ancora che iniziasse.

Lei era stata messa al mondo in pronta sostituzione di Ginetto in un clima familiare luttuoso, cupo e di reciproche accuse. Già il fatto di essere femmina la rendeva una copia inadeguata a colmare il vuoto lasciato dal geniale e idealizzato fratellino.

La famiglia aveva di fatto cessato di esistere con la morte del bambino.

Dario e la moglie Teresa litigavano furiosamente. Teresa si era rifugiata in una fede quasi delirante, passava la giornata al cimitero ed aveva cominciato a bere di nascosto. Per due volte Olga l’aveva trovata in coma etilico. Toccava a lei badarla. Insomma lei era nata da una famiglia già morta negli affetti. Si chiedeva se fosse stato il padre a mettere incinta di lei la madre tanto li vedeva distanti. Dario si era buttato a capofitto nel lavoro. Come Gaetano Scirea e più o meno nello stesso periodo era in Polonia per ottenere appalti dal governo locale quando un autocarro ubriaco prese troppo larga una curva della superstrada che traversa la Pomerania occidentale nei pressi di Stettino. Faccenda finita.

Teresa convinta che stesse in compagnia di mignotte non tirò fuori i soldi per il rimpatrio della salma e l’ingegnere Simoni che aveva costruito una cappella sontuosa nel cimitero di Vontano giace in una fossa comune nel cimitero cattolico di Danzica.

Olga aveva 10 anni e quanto la madre era odiata e disprezzata ( più volte aveva pregato in cuor suo che morisse ubriaca una buona volta) tanto il padre era amato e ammirato.

Quella fu la prima occasione in cui Olga sperimentò quello stato d’animo di assoluta indifferenza su cui Biagioli avrebbe incardinato tutta la perizia. Non ricordava i giorni seguenti alla notizia della morte del padre ma era certa di non aver provato alcun dolore. Per la verità, confessò con un inquietante sorrisetto a stento trattenuto, aveva goduto nel trovarsi al centro dell’attenzione delle sue amichette e nel vedere le sue foto sul “Corriere”. Dal vescovo al sindaco tutte le autorità cittadine avevano fatto visita a casa sua. Una mozione del consiglio comunale chiese al capo dello Stato la nomina a “Cavaliere del lavoro” alla memoria per l’uomo caduto per portare all’estero l’operosità del popolo italiano. In città non si parlò d’altro e ciò le procurava un piacere quasi fisico. Le prime fantasie masturbatorie la vedevano a fianco di uomini potenti che dominavano gli altri e che lei manipolava a piacimento con la sua straordinaria creatività sessuale.

L’esordio nella realtà della sessualità fu decisamente più crudo. Per l’occasione dovette rispolverare quella modalità di distacco dalla realtà che ancora riusciva ad attivare a comando. Aveva 13 anni ed il fratello Enrico quasi 23. Dopo la morte del padre privato d’ogni regola e controllo aveva sottomesso la madre per ottenere i soldi per le droghe e il gioco d’azzardo. Ancora oggi Olga ci teneva a precisare che in quella prima volta lui non aveva partecipato.

I creditori gli avevano fatto notare che non era vero non avesse nulla da dare in cambio. Nella villa gelida per l’inverno sul lago di Vontano di un certo Aristide aveva passato 18 ore che era certa fossero le ultime della sua vita. Non credeva sarebbe sopravvissuta alle violenze umilianti. Invece si era ritirata in sé e ce l’aveva fatta ( era stata più fortunata di due ragazze che nello stesso mese rimasero uccise in circostanze analoghe in una villa al Circeo, erano cose che allora succedevano). Ricordava solo il passaggio di tanto in tanto del fratello per accertarsi che non finisse uccisa. Aveva imparato a lasciare il corpo lì e andarsene in un altro mondo dove nulla poteva toccarla. Dopo quell’episodio viveva nel terrore che potesse ripetersi. Aveva scoperto che il fratello teneva nella scrivania una beretta calibro 9 che era appartenuta al padre e sequestrata dalla magistratura dopo la morte di Ginetto. Temette che quello potesse essere stato lo spigolo contro cui il piccolo aveva sbattuto ma allontanò prontamente il pensiero. Un incidente causato da Enrico? Quella stronza della madre o l’adorato padre? Non poteva essere.

Tra i personaggi importanti che frequentavano casa Simoni dopo la scomparsa del padre il più gradito a lei era Gaetano Coretti il cinquantenne presidente della Cassa di risparmio di Vontano. La famiglia comprese rapidamente che le trattative sulle dilazioni per il progressivo rientro dallo scoperto che l’azienda aveva con la banca avevano maggiori possibilità di successo se a condurle privatamente con il dottor Coretti fosse stata proprio Olga.Nonostante con i suoi diciassette anni fosse la più giovane della famiglia aveva argomenti estremamente convincenti.

Fiorina la moglie emiliana del Coretti che aveva sempre tollerato scappatelle occasionali del marito purchè non dirottasse all’esterno le risorse economiche della famiglia si allarmò e con un blitz improvviso negli uffici al secondo piano colse i due amanti in flagrante adulterio. Garantitasi un congruo assegno di mantenimento per sé e i due figli accettò rapidamente il divorzio lasciando libero Gaetano di convolare a seconde nozze con la giovanissima Olga Simoni che a diciannove anni abortì il figlio concepito nel peccato attendendo tempi migliori per ampliare la famiglia.

Entrata come cassiera nella filiale di Borgo al Vontano a soli 23 anni fu nominata dal consiglio di amministrazione vicedirettore della filiale del capoluogo con delega alle attività promozionali, di immagine e benefiche. Bella da sempre e affascinante per il suo stile inconfondibile, figlia del mitico ingegner Simoni, moglie del brillante direttore della Ca.Ri.Vo. e a sua volta vicedirettrice della banca, divenne rapidamente la donna più ammirata e potente della città. Raccontando a Biagioli quel periodo felice Olga scoppiò in singhiozzi e in un pianto a dirotto. Stentava a procedere con la narrazione del periodo infernale della sua vita. Si asciugò con un fazzoletto di stoffa che bizzarramente Biagioli si ostinava ad usare a riprese. In quel periodo l’unica pecca della sua vita era la mancanza di un figlio che non voleva saperne di venire. Vedeva la sua sterilità ( Gaetano aveva avuto due bei figli con Fiorina) come la punizione per l’aborto. La genetica o l’esempio della madre la portarono a cercare consolazione nell’alcol.

Impegnata sin dalla morte del padre in un controllo anoressico del cibo trovò negli aperitivi e negli amari un poderoso alleato. L’alcol divenne praticamente il suo unico alimento. Ad esso fu attribuita la disgrazia. Al termine della gita di pasquetta Gaetano stava svuotando il portabagagli della lancia Thema aziendale e riordinando il materiale da campeggio nell’armadio metallico sul fondo del box. Olga attendeva sulla rampa con il motore acceso che tornasse per affidargli la delicata manovra di accostamento. Tirato il freno a mano era scesa per accendersi una sigaretta. Gaetano non voleva si fumasse in macchina. Olga si strappò due unghie della mano destra e si bruciò il palmo con la sigaretta nel tentativo di trattenere il pesante mezzo che correva in avanti. Secondo il medico legale non si era quasi accorto e non aveva sofferto.

La situazione psichica di Olga era peggiorata ed il consumo di alcol proporzionalmente aumentato. Già allora il giudice Pace si era occupato di lei su sollecitazione del fratello Enrico che non voleva saperne di quella matta della sorella e aveva ordinato un periodo di disintossicazione presso la comunità CEIS di San Elpidio a mare.

Tutti i rapporti con Vontano furono interrotti e la popolazione iniziò a dimenticare questa meravigliosa e disgraziata donna. Biagioli che ascoltava attento era inquietato dalla tendenza di Olga a parlare di sé in terza persona come se fosse un osservatore esterno e distaccato dei fatti che narrava. Anche nei momenti di maggiore espressione emotiva con pianti a singhiozzi o esplosioni di rabbia contro il destino cinico e baro, avvertiva qualcosa di inautentico. Si limitava a fornire il suo ormai zuppo fazzoletto ma sentiva di annoiarsi come di fronte ad un film mal recitato. Dovette cacciare le sue ruminazioni circa la propria progressiva mancanza di empatia e l’opportunità di lasciare questo lavoro e tornare ad ascoltare in attesa di un nuovo colpo di scena che puntualmente arrivava a risvegliare lo spettatore distratto. Un giorno di inizio estate si presentò alla Comunità CEIS di San Elpidio a mare il sindaco di Vontano Gustavo Esposito accompagnato dall’assessore ai servizi sociali che aveva stipulato una convenzione con la comunità per la presa in carico dei numerosi giovani tossicodipendenti. Gustavo Esposito indugiava sulla metà degli anni quaranta in quell’età in cui si è incerti se tentare una resistenza giovanilistica o accelerare il doloroso passaggio e arrendersi alla mezza età.

Gustavo era giunto a Vontano immigrato dalla Puglia per il lavoro di carpentiere del padre ed era in debito con la vita per una adolescenza da emarginato che escludendolo dai salotti bene della provincia e dalle discoteche gli aveva fatto trovare la sua nicchia ecologica nelle fumose stanze del Partito. Nonostante i capelli castano chiari si fossero ritirati in precipitosa fuga sulla cima del cranio lasciandolo quasi calvo non voleva rinunciare a quello che riteneva gli fosse stato sottratto e che il prestigio di sindaco neoeletto facilitava. Diventare sindaco e imparentarsi con la storica famiglia Simoni, per quanto decaduta, gli parve il compimento del suo sogno di affermazione. Avrebbe riscattato le umiliazioni del padre che per quei signori aveva lavorato. Rendeva appetibile la missione la ancora prorompente bellezza di Olga che era certo di poter curare con il suo amore più di quanto non facesse il CEIS. Stava ancora nel periodo di prova per la dimissione definitiva quando il matrimonio fu celebrato proprio dall’assessore ai servizi sociali nella sala comunale delle lance. Anche nel racconto gioioso di quello splendido giorno la dichiarata felicità di Olga non riusciva ad arrivare al cuore di Biagioli. Non c’era niente da fare si stava proprio inaridendo. Pensò per un attimo. Poi tornò a concentrarsi su di lei e su quanto aveva sentito dire in città. I suoi modi scostanti e aristocratici non erano stati per nulla mitigati dalle tante disgrazie vissute, anzi si diceva ne fosse uscita incattivita.

Il ruolo di first Lady poi la rendeva ancora più odiosa. I figli, nonostante il cambio del marito non arrivavano e la gente perfidamente sosteneva che fosse troppo cattiva per farli. In realtà si andavano delineando due diverse personalità. Quella privata capricciosa, volubile, arrogante e insopportabile che trattava i domestici come schiavi mettendoli rapidamente in fuga. Quella pubblica impeccabile, tutta dedita al lavoro in banca e alla promozione di attività culturali e di volontariato che finanziava con la Ca. Ri. Vo.

E cui si dedicava personalmente. Per essere più precisi, quella pubblica, dedita a fare il bene degli altri aveva, a sua volta due declinazioni. Da un lato il volontariato per i più indifesi bambini, malati, anziani. immigrati. Meglio ancora se le categorie si sovrapponevano come bambini malati o addirittura bambini immigrati malati. Dall’altro un’altra categoria che beneficiava della sua generosità erano i maschi dai venti ai cinquanta anni in carenza sessuale. Gli spostamenti della first lady con la sua mercedes cabrio rossa erano piuttosto evidenti ed il sindaco Esposito era piuttosto irritato per la notorietà che andava involontariamente acquisendo per meriti non politici.

Olga non mostrava alcun imbarazzo con Biagioli a narrare le sue numerosissime avventure sessuali e le sue acrobatiche prestazioni. Unica preoccupazione era il frequente richiamo al segreto professionale trattandosi di personaggi noti e ben conosciuti da Biagioli. Carlo nell’ascoltare i resoconti dettagliatissimi si meravigliava di non provare alcun eccitamento sessuale e di non aver mai rimpianto di non aver incontrato Olga in un contesto diverso. Si chiese perché? Come per tutte le altre emozioni non sentiva una reale partecipazione di Olga che sembrava quasi impegnata ad eseguire un compito. Seguendo questa intuizione cercò di indagare meglio. Olga gli confermò di essere praticamente anorgasmica e che al compimento dell’atto, quando il partner veniva lei provava semplicemente un senso di soddisfazione. L’impressione che tutto fosse a posto e avesse fatto il proprio dovere. Il suo obiettivo non era il piacere personale ma la soddisfazione dell’altro che vedeva nella rilassatezza post orgasmica. Con la stessa dedizione si dedicava anche a Gaetano che continuava a sbandierare, tra i sorrisini sarcastici degli amici, il suo matrimonio come il miglior affare della sua vita. Una prima svolta foriera di tutti i successivi drammi avvenne quando volontariato solidale ed erotico si contaminarono. Il primo passo, che ricordava perfettamente, fu quando decise di tranquillizzare il signor Aurelio Vincenti di 73 anni, cui faceva domiciliarmente le notti che non riusciva a prendere sonno per i lancinanti dolori alla schiena da ernia discale tra D6 e D7. Fu un successo clamoroso che comportò non solo un sonno rilassato e profondo ma nei giorni seguenti, con il proseguire del trattamento, un miglioramento delle condizioni generali.

La sua associazione “Compagni nel dolore” assisteva a casa molti anziani, sostituiva nei turni di notte i genitori nel reparto di lungo degenza pediatrica dell’ospedale generale di Vontano e organizzava attività di intrattenimento nella residenza “Controcorrente” per adolescenti problematici. Olga estese il trattamento sperimentato con Aurelio. Andava progressivamente aumentando la competenza tecnica e, ci tenne a sottolineare a Biagioli che con l’utenza solidale non metteva quasi mai in gioco i propri genitali. Col passare del tempo questo tipo di utenza, più bisognosa, soppiantò la prima con grande beneficio per il sindaco meno chiacchierato. Si accorse come l’ orgasmo – terapia aveva una efficacia trasversale rispetto all’età e al sesso.

Bimbe oncologiche di tre anni e vecchie terminali con piaghe da decubito provavano lo stesso sollievo. Appena significativa era forse una maggiore efficacia negli adolescenti maschi di “Controcorrente”. La cabrio rossa la si trovava continuamente parcheggiata nei luoghi di sofferenza della città: l’ospedale generale, la comunità “Controcorrente”, l’RSA “Villa della quiete” e la sede centrale dell’Hospice “Unica Armonia” da dove partivano per le attività domiciliari. Tutto utilissimo per la campagna elettorale di rinnovo del sindaco. Ritrovata la serenità familiare la vita di Olga procedette in questa routine per oltre due anni. Prima di parlare della seconda e decisiva svolta Olga volle rassicurarsi che Biagioli non avesse assunto un atteggiamento critico nei suoi confronti perché sembrava voler dare una accelerata per la conclusione della perizia. In verità Biagioli era sempre più interessato alla vicenda della signora Simoni/Esposito. Chi pressava per una rapida conclusione erano altri. Il giudice Pace che aveva fissato a 120 giorni la prima udienza del processo contro la cooperativa “Bau Bau”. Gli altri operatori che mal tolleravano il tempo dedicato all’elegante fascinosa signora dal loro capo, prima fra tutti Luisa Tigli mossa anche da malcelata gelosia giustificata dalla fama equivoca della first lady.

Rassicurata sull’atteggiamento non giudicante di Carlo, così aveva iniziato a chiamarlo, riprese la narrazione. Il difetto della terapia che Olga praticava era che non portava ad una risoluzione definitiva e dunque andava continuamente ripetuta. In taluni casi addirittura sembrava determinare una certa assuefazione ed andavano aumentate le dosi con crescita insostenibile del lavoro anche considerato che lei era l’unica terapista in circolazione. Colse quasi un segno del destino nel fatto che anche la seconda svolta avvenne grazie al signor Aurelio Vincenti dal quale tutto era iniziato. In una notte in cui era particolarmente tormentato dai dolori alla schiena Olga gli somministrò evidentemente un’ overdose. Alla sesta somministrazione dopo una pausa di mezz’ora dalla precedente avvertì che Aurelio aveva depositato nella sua bocca qualcosa di più del consueto appiccicume. Bastò scuoterlo per rendersi conto che si trattava dell’anima. Il volto di Aurelio si compose in un sorriso rilassato che non lo avrebbe più lasciato. Ecco l’intuizione! La morte dava quella pace risolutiva che l’orgasmo lascia solo intuire fuggevolmente.

Si aggiunga il vantaggio che non necessitano ripetuti trattamenti e quindi anche da sola avrebbe potuto coprire il fabbisogno. Per i piccoli della lungodegenza pediatrica si orientò sull’abbraccio assoluto. Faticoso con i più grandicelli consisteva in una progressiva stretta che esitava in un blocco respiratorio o in una frattura vertebrale. Pensava che il piccolo comunque avrebbe sperimentato un vissuto di affetto avvolgente e protettivo. Più facile per gli anziani era il tradizionale metodo del cuscino. Per non lasciare sempre le stesse tracce talvolta usava il warfarin aggiunto con una siringa alla flebo. Nelle notti invernali particolarmente gelide aveva tentato la finestra spalancata togliendo coperte e lenzuola ma non era immediato e tanto meno certo. Un vecchiaccio con la polmonite si era ripreso in ospedale e rischiava di rivelare tutto se non fosse prontamente intervenuta con il supplemento del cuscino.

Olga concluse la sua rassegna dei metodi con quelli escogitati per l’utenza più difficile, gli adolescenti di “Controcorrente”. Per loro aveva prodotto delle pasticchine di Tanax, procuratogli da un suo ex amante veterinario (probabilmente convinto di por fine all’attuale governo comunale). Alcuni le consumavano direttamente, per altri doveva scioglierle nella birra o imbeverci alcune foglie di cannabis che poi venivano fumate. Queste cose probabilmente erano già a conoscenza dell’autorità giudiziaria e non spettava a Biagioli accertarle. A lui veniva chiesto se la signora Simoni era nel momento in cui le compiva in grado di intendere e di volere e se c’era pericolo di reiterazione dei fatti. Registrò con il permesso di Olga la seduta in cui indagò il vissuto soggettivo della paziente per riportarne il trascritto nella stessa perizia.

Olga ricordava vagamente i singoli episodi. Sembrava raccontasse un sogno sbiadito. Il suo pensiero era concentrato sulla necessità di far cessare la sofferenza. I gesti dopo la prima volta andavano in automatico. Non provava piacere, nè un senso di onnipotenza. Compiuto il lavoro sentiva che tutto era al proprio posto, esattamente come quando faceva sesso. L’unico senso di colpa che conosceva era quello nei confronti dei genitori per non averli esentati dal dolore per la perdita di Ginetto ma era troppo piccola.

La conclusione della perizia di Biagioli sosteneva che nel momento dei fatti la signora Simoni non era in grado di intendere e di volere e dunque non imputabile. Inoltre a suo avviso la consapevolezza che la signora aveva acquisito durante il lavoro di valutazione per la perizia escludevano la probabilità del ripetersi dei fatti e dunque non si ritenevano necessarie misure cautelari. Si consigliava altresì il proseguimento di un lavoro psicoterapeutico al quale si era cercato di motivare l’interessata. Il giorno dopo la sentenza Olga Simoni telefonò a Biagioli per comunicarle la sua imminente partenza per una missione umanitaria in Burkina Faso e, contrariamente a molti politici che lo dichiarano semplicemente, partì davvero. Circa ogni mese arriva al CIM una cartolina che staziona in bacheca fino alla successiva con scritto “tutto bene!”. Anche Gaetano Esposito che non è stato rieletto si è dedicato al volontariato.

 

TORNA ALL’INDICE DELLA RUBRICA

LEGGI ANCHE:

CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

Il ruolo del supporto sociale in un gruppo di giovani madri adolescenti

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Il ruolo del supporto sociale in un gruppo di giovani madri adolescenti

Autrice: Erika Leoni (Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’)

Abstract

È documentato che i genitori adolescenti seguono traiettorie di sviluppo differenti rispetto ai loro pari sia prima che dopo la nascita dei loro figli. Questi giovani genitori devono affrontare sfide uniche, come il fronteggiare i compiti evolutivi adolescenziali e le nuove responsabilità connesse alla genitorialità. Non sorprende, ci sono effetti negativi sulla prole che possono essere ricondotti a fattori presenti prima della nascita, così come l’ambiente genitoriale fornito dai giovani genitori. Abbiamo somministrato strumenti riguardanti lo sviluppo di se stessi, la propria percezione nel ruolo genitoriale, la percezione della disponibilità e della soddisfazione relativa al supporto sociale ricevuto e la percezione delle difficoltà emotive comportamentali dei propri figli a 11 madri adolescenti. I risultati hanno confermato che queste madri adolescenti hanno mostrato difficoltà con i loro bambini e più elevati livelli di stress.

English abstract

There is evidence that teenage parents are on different trajectories than other adolescents, before and after the birth of their children. These young parents face unique challenges, such as juggling adolescent developmental tasks with new parenting responsibilities. Not surprisingly, there are negative effects on offspring that can be traced to factors present before the birth as well as the parenting and home environment provided by the young parents. 11 adolescent mothers completed measures of adolescent self-development and motherhood, perceived availability and satisfaction with social support, emotional and behavioral characteristic of their children and mother-child interactions, combining qualitative and quantitative methods. The data confirmed that these adolescent mothers showed difficulty with their infants and higher levels of stress.

 

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I vissuti psicologici e psicopatologici della maternità

Multitasking: chi ha detto che non si possono fare due cose contemporaneamente ed entrambe bene?

Irene Rossi

FLASH NEWS

La ricerca in oggetto è stata condotta su persone anziane che dovevano completare compiti cognitivi mentre pedalavano su una cyclette. Ciò che è stato osservato dai ricercatori è un rilevante miglioramento nella velocità della pedalata senza che ciò andasse a discapito della prestazione ai compiti cognitivi.

Un nuovo e recente studio, pubblicato il 13 Maggio sulla rivista Plos One e condotto all’Università della Florida, sfida l’idea comunemente diffusa che svolgere due attività contemporaneamente ci porti a farle male entrambe.

La ricerca in oggetto è stata condotta su persone anziane che dovevano completare compiti cognitivi mentre pedalavano su una cyclette. Ciò che è stato osservato dai ricercatori è un rilevante miglioramento nella velocità della pedalata senza che ciò andasse a discapito della prestazione ai compiti cognitivi.

La scoperta è stata nella realtà dei fatti una sorpresa per i ricercatori del team. Originariamente l’obiettivo dello studio era quello di stabilire il grado di deficit nelle prestazioni di doppio compito nei pazienti affetti da sindrome di Parkinson, confrontandoli con la prestazione di anziani sani che fungevano da gruppo di controllo. Tutti gli studi condotti sino ad ora e presenti in letteratura mostrano che quando le persone eseguono due compiti contemporaneamente la prestazione peggiora. Tutti noi abbiamo avuto modo di osservare le numerose persone che per strada rallentano la camminata, nel momento in cui estraggono il cellulare dalla tasca.

Durante lo studio 28 pazienti con malattia di Parkinson e 20 anziani in salute hanno dovuto completare 12 compiti cognitivi in due diverse situazioni: mentre erano seduti in una stanza tranquilla e mentre pedalavano. La difficoltà dei compiti che dovevano svolgere andava dalla semplice richiesta di pronunciare la parola “go” nel momento in cui era presentata una stella blu fino al compito più difficile in cui dovevano ripetere una lista sempre più lunga di numeri in ordine inverso rispetto a quello in cui erano stati presentati. Nel frattempo un sistema di rilevazione del movimento registrava la velocità della pedalata.

È stato quindi osservato che la velocità di pedalata dei partecipanti aumentava all’incirca del 25 percento mentre eseguivano semplici compiti cognitivi, con il miglior aumento durante i primi 6 compiti più semplici, mentre poi rallentava man mano che i compiti diventavano più difficili. Nello specifico il compito più difficile riportava i partecipanti alla velocità cui pedalavano prima di iniziare i compiti cognitivi.

La ragione dell’effetto facilitante del multi-tasking probabilmente coinvolge numerosi fattori che dovranno essere approfonditi in futuro, tuttavia il gruppo di ricerca ha ipotizzato come probabile spiegazione l’interazione degli effetti dei meccanismi di arousal cognitivo e fisiologico.
In particolar modo il gruppo di studio suggerisce che dover affrontare due compiti contemporaneamente viene percepito come una situazione altamente sfidante, il che comporta un incremento di arousal nella persona.

La conseguenza a livello cerebrale è un rilascio di dopamina, norepinefrina ed epinefrina che migliorano la velocità e l’efficienza del cervello, in particolare nei lobi frontali. Questi effetti aumentano la disponibilità di risorse cognitive supplementari che facilitano la performance sia nei compiti motori che in quelli cognitivi con effetto di rinforzo reciproco.

Di conseguenza quando l’aumento di risorse attentive dovuto all’attività motoria e cognitiva si incontra con la domanda combinata dei due compiti la performance può essere mantenuta senza alcun costo in entrambi. Il costo per il doppio compito si manifesta solo quando l’arousal addizionale non fornisce risorse sufficienti, viceversa quando la domanda è minore di quella prevista possiamo avere un vantaggio nei due compiti, esattamente come è stato rilevato.

Questo modello è coerente anche con il comportamento osservato nei pazienti con Parkinson, i quali avevano velocità di pedalata globalmente più lenta dei soggetti sani, associata ad un minor incremento di velocità durante i compiti cognitivi semplici. Questo può essere spiegato dal fatto che tale malattia porta a deterioramento degli input dopaminergici ai lobi frontali e alle regioni sottocorticali, cosa che influenza di conseguenza i livelli di norepinefrina ed epinefrina ed interferisce con l’aumento delle risorse cognitive per effetto dei meccanismi di arousal.

I risultati ottenuti dallo studio in oggetto suggeriscono quindi la possibilità di combinare attività cognitive semplici ed attività motoria per massimizzare gli effetti di miglioramento in entrambe.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Multitasking: quali sono le conseguenze sul cervello?

BIBLIOGRAFIA:

Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza

Family-Based Treatment nella cura dei disturbi alimentari in adolescenza
Roma 3-6 Novembre 2015

Relatore: Daniel Le GRANGE, Ph.D., University of California

Direttore scientifico: Dott. Armando COTUGNO

WORKSHOP PROMOSSO DALLA ASL ROMA E

IN COLLABORAZIONE CON L’ ASSOCIAZIONE FENICE LAZIO ONLUS

 

PER ISCRIZIONI: LINK

Depressa da morire: è concepibile l’eutanasia per casi di depressione?

Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo.

Entro la fine dell’estate una ragazza di 24 anni che chiameremo Elena morirà di depressione. In Belgio. Non si parlerà di tentato suicidio perché non ci sarà nulla di tentato, ci sarà anzi un’iniezione letale che le verrà somministrata in una stanza che Elena ha già scelto, così come i funerali e la bara.
Elena ha avuto una brutta storia, una brutta vita, niente di promettente. Come purtroppo se ne sentono diverse. Papà alcolista e violento, genitori separati e assenti, infanzia con i nonni e primi pensieri suicidari a soli 6 anni.

Elena però, intervistata, dice che non se la sente di attribuire le sue difficoltà alla sua storia familiare: secondo lei, semplicemente non ha mai voluto vivere e questo sarebbe successo a prescindere dalle difficoltà in casa. La vita di Elena prosegue poi costellata di ricoveri in diverse cliniche, tutti per depressione, tutti senza buon esito. Al chè, la ragazza inizia a pensare di avere dentro di sé qualcosa di strano, che non le permetterà mai di stare bene, o anche solo di stare meglio: di guarire non se ne parla neanche. Un giorno Elena viene a conoscenza della possibilità di praticare l’eutanasia non solo sui malati terminali, ci pensa e consulta diversi professionisti; dichiara che è stanca di combattere, che combatte quotidianamente da una vita, che questi 24 anni sono stati un’eternità, che è stanca. Tre diversi medici danno il loro parere favorevole a questa proposta e valutano Elena come perfettamente in grado di prendere questa decisione serenamente, come “persona equilibrata”, e secondo le procedure stabilite dalla legge le aprono le porte verso questa ultima decisione.

Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo. Negli anni i criteri della legge sull’eutanasia si sono aggiustati fino a consentire la morte non solo delle persone gravemente malate e in fin di vita, ma anche di quelle che “soffrono in modo insopportabile”.

Il problema è: cosa vuol dire “insopportabile”? La valutazione di “sopportabilità” fatta da una persona depressa è attendibile? D’altro canto, può una persona esterna valutare quanto una situazione emotiva interna a un altro individuo sia sopportabile? Quella di una persona depressa è una scelta libera o è dettata dall’umore?

Sono interrogativi difficili, che da una parte muovono la coscienza civile e morale e dall’altra ci spaventano perché ci fanno sentire la morte davvero molto a portata di mano. Quante volte un paziente depresso ci ha parlato di idee suicidarie o ha addirittura tentato di uccidersi? Quante volte poi abbiamo visto lo stesso paziente stare prima meglio, poi addirittura bene, aiutato dalla psicoterapia, dai farmaci e da un contesto di vita diverso?

E se lo stesso paziente avesse deciso per l’eutanasia proprio nel momento più nero, cosa sarebbe successo? Avrebbe gettato la spugna forse troppo presto, avrebbe seguito la mancanza di speranza e la difficoltà di progettazione che sono tautologicamente parte dello stato depressivo. Forse scegliere l’eutanasia per una persona depressa è frutto della patologia stessa, come per un paziente maniacale avere un senso esagerato di onnipotenza. E questo è un dato.

Poi però ci vengono in mente anche tutti quei pazienti che sono depressi in modo cronico, che nell’ipotesi migliore hanno un periodo di “minore sofferenza”, ma che davvero non possono dire di stare bene. Ecco, questi pazienti ci mettono più in crisi, perché non reagiscono in modo significativo alla terapia, come ai farmaci e a tutti i tentativi che i familiari o chi per loro possono fare. Per loro ha senso gettare la spugna? Soffrono in un modo diverso da come soffre un malato terminale?

Forse la parte che andrebbe maggiormente chiarita è quella che si riferisce alla lucidità della persona gravemente depressa, che ci porterebbe a valutare come attendibili le scelte compiute in uno stato emotivo che di per sé non porta all’attendibilità. Diciamo spesso ai pazienti che la depressione è una specie di occhiale scuro, che ci fa vedere tutto nero, cerchiamo di insegnare ai pazienti a prendere le distanze dalle proprie valutazioni, a non credere troppo ai loro pensieri che sono appunto frutto di una distorsione negativa e pessimista. Nel massimo rispetto della libertà individuale, bisognerebbe forse tenere a mente che anche la decisione di farla finita una volta per tutte, tramite l’eutanasia, è frutto dello stesso sistema di valutazione e decisione, e che gli occhiali neri ancora sono sul naso.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Alzheimer e suicidio assistito: togliersi la vita prima che sia la malattia a farlo

Black Dog: ho un cane che si chiama depressione

BLACK DOG – HO UN CANE CHE SI CHIAMA DEPRESSIONE PER SAPERNE DI PIÙ: https://www.stateofmind.it/2014/01/BLACK-DOG-VIDEO-DEPRESSIONE-OMS-PREVENZIONE/

Sillabando: un’app per potenziare la via fonologica della lettura

Sillabando è una nuova app che permette di allenare la capacità di riconoscimento della struttura sillabica delle parole, migliorando così sia la velocità sia la correttezza della lettura.

Si tratta di un tipo di training molto utile soprattutto per i bambini delle prime classi elementari, che stanno imparando a leggere. Inoltre, gli esercizi proposti da questa app possono essere di aiuto anche per i bambini più grandi, per migliorare nella lettura e nell’ortografia. Infine, ma non meno importante, questi esercizi, basati sulla presentazione tachistoscopica degli stimoli, sono adatti anche per pazienti con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA).

La ‘lettura tachistoscopica’ si basa sulla presentazione temporizzata degli elementi, sillabe o parole, per intervalli di tempo definiti e decrescenti, con lo scopo di sviluppare le abilità connesse con la decodifica e ricodifica del testo scritto.

Alla base del funzionamento di questa app, c’è l’idea che tempi elevati di permanenza degli stimoli scritti sullo schermo favoriscano, nella lettura, la ‘via fonologica’, sub-lessicale, in cui l’utente legge lettera per lettera, convertendo i singoli grafemi nei fonemi corrispondenti. La via fonologica si attiva, in genere, nella lettura di non-parole o di parole nuove. Al di sotto di certe soglie di tempo, invece, è possibile utilizzare solamente la ‘via lessicale’ di lettura, in cui l’utente legge gli stimoli a livello globale, attraverso l’attivazione dei lessici e delle conoscenze semantiche. E’ proprio la stimolazione della modalità globale e visiva di lettura l’obiettivo principale degli esercizi proposti da Sillabando. Questa modalità di decodifica degli stimoli scritti tende a strutturarsi autonomamente a partire dalla terza elementare, per poi integrarsi e armonizzarsi con l’altra modalità, quella fonologica. Tuttavia, la modalità visiva rischia di rimanere deficitaria negli anni scolastici successivi.

Tutti gli esercizi considerano la sillaba, e non la singola lettera, come elemento di base su cui i bambini costruiscono ed esercitano le proprie abilità di lettura. In questo modo, si facilitano alcuni processi cognitivi tipici dell’attività di lettura, come la memorizzazione e associazione dei suoni delle sillabe.

Sillabando fornisce un’ampia gamma di esercizi, oltre ottanta, che si distinguono per livello di difficoltà dello stimolo (ad esempio parole bisillabe o trisillabe) e per tempo di esposizione dello stimolo (in genere decrescente, all’interno dello stesso esercizio). Gli esercizi sono strutturati a partire dall’esposizione dello stimolo (sillaba o parola) che rimane esposto per un tempo limitato e pre-impostato. Successivamente, l’utente dovrà riscrivere lo stimolo appena letto. In questo modo l’applicazione riesce a valutare la correttezza dell’esecuzione e costringe il bambino ad esercitarsi anche nell’analisi fonemica, oltre che nella memorizzazione.

Tutti i risultati degli esercizi svolti sono registrati e sempre consultabili, anche rispetto a training precedenti.
L’applicazione permette anche di settare alcune preferenze, utili per adattare maggiormente gli esercizi alle proprie esigenze. Ad esempio è possibile scegliere la funzione del ‘mascheramento percettivo’, per ridurre l’effetto di persistenza retinica dello stimolo visivo. Oppure è possibile aiutare l’utente a focalizzare l’attenzione sullo stimolo con la funzione ‘puntatore’.

Dopo ogni risposta, compare un’animazione giocosa, come feedback per l’utente. E’ proprio la parte ‘giocosa’ a poter essere migliorata e resa più chiara e, di conseguenza, più efficace.

A livello tecnico, invece, sarebbe interessante la possibilità di creare un profilo ‘tutor’, distinto da quello del bambino, per impostare le giocate e consultare i risultati, soprattutto in un’ottica riabilitativa.

Sillabando rappresenta un’ottima soluzione che, a partire da fondamenti scientifici, sfrutta le potenzialità delle nuove tecnologie per presentare esercizi il più possibile adattabili al tipo di utente e al contesto d’uso.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Perché accelerando la scomparsa delle parole migliorano le abilità di lettura nei bambini con dislessia? Il ruolo dell’attenzione spaziale

 

BIBLIOGRAFIA:

cancel