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La sindrome del brutto anatroccolo. Perché ci si sente brutti e come recuperare l’autostima

Un meccanismo non molto differente da quello che si attiva in molte persone che, per le motivazioni più varie, hanno imparato a vedersi brutte e come tali si comportano, sminuendo i propri pregi e rinforzando sempre di più l’immagine svalutante che hanno di loro stesse.

Tutti noi conosciamo la fiaba di Andersen in cui il brutto anatroccolo, diverso dagli altri, è fermamente convinto di essere, per l’appunto, brutto, e comprende solo alla fine della storia di non essere un’anatra malriuscita bensì un cigno. Decisamente un notevole cambiamento di prospettiva.

Il brutto anatroccolo ha imparato, sin da piccolo, a considerarsi inadeguato, ed è così convinto della sua visione delle cose che, quando vede riflessa nell’acqua la propria immagine di cigno, sul principio non si riconosce nemmeno.

Un meccanismo non molto differente da quello che si attiva in molte persone che, per le motivazioni più varie, hanno imparato a vedersi brutte e come tali si comportano, sminuendo i propri pregi e rinforzando sempre di più l’immagine svalutante che hanno di loro stesse.

Da dove nasce un simile atteggiamento? Lo psicoterapeuta Luca Saita cerca, prendendo spunto dalla propria esperienza clinica, di fare luce sulle ragioni che conducono le persone ad agire da brutti anatroccoli, nonostante in ognuno di noi ci sia un cigno che vuole emergere.

In altre parole, come mai una persona impara -perché di un processo di apprendimento si tratta- a vedersi brutta? Perché distorcere la propria immagine corporea, facendosi tiranneggiare da una smania di irrealistica perfezione?

L’autore individua tre meccanismi che interferiscono negativamente nella creazione dell’immagine corporea:

  • attacco diretto o indiretto;
  • proiezione;
  • etichettamento.

Nel primo caso la persona subisce un attacco, diretto o non, al proprio corpo (“oggi hai davvero un aspetto orribile!”); nel secondo caso qualcuno, in modo inconsapevole, per liberarsi di proprie caratteristiche fisiche che non accetta, le attribuisce a qualcun altro (la madre che dice alla figlia “Non metterti quel vestito, ti ingrossa”); nell’ultimo caso vengono attribuite alla persona etichette (il “nasone”, il “roscio”, “gambe storte”).

Quando una persona viene costantemente sottoposta ad influenze negative di questo genere non c’è da meravigliarsi che impari a vedersi solo ed unicamente attraverso le lenti distorte della disistima. Non bisogna sottovalutare gli effetti di un tale atteggiamento: l’immagine corporea, il modo in cui ci vediamo e ci presentiamo agli altri ha delle ripercussioni molto profonde a livello di sicurezza di sé; in altre parole, il vedersi “brutti”, il percepirsi inadeguati ha conseguenze che influiscono non solo sul corpo, ma anche sulla mente, sul modo di stare al mondo.

Chiaramente si tratta di un vissuto del tutto personale e soggettivo; esistono, come è possibile osservare nell’esperienza quotidiana di ciascuno di noi, persone considerate belle che, però, si vivono come costantemente inadeguate e sono sempre alla ricerca di un qualcosa che manca per sentirsi, finalmente, a proprio agio nel proprio corpo. Al tempo stesso, ci sono persone che, pur avendo dei piccoli difetti, si vogliono bene, vivono il proprio corpo con serenità e trasmettono tale serenità anche all’esterno, in termini di sicurezza di sé.

Per questa ragione diventa importante aiutare la persona che non si accetta e tende ad ingigantire i propri difetti, fino, in alcuni casi, a non riuscire a condurre una vita gratificante, a prendere coscienza delle convinzioni erronee che sono alla base della percezione di sé, in modo da sottoporle ad un vaglio critico, riguadagnando un’immagine positiva.

Per fare ciò l’autore suggerisce alcune strategie, che passano attraverso il contestare le etichette e l’imparare a difendersi dagli attacchi mossi alla propria immagine di sé, anche e soprattutto quando questi attacchi vengono da persone significative.

In ultima analisi, bisogna tenere a mente che  la mente è “come una lente: la visione di sé stessi e del proprio corpo avviene attraverso questa lente che può modificare, deformare, ampliare o distorcere ciò che osserva”.

Dobbiamo quindi imparare a conoscere questa lente e i suoi filtri, perché essa influisce non solo sul modo in cui vediamo il nostro corpo, ma sul modo in cui vediamo noi stessi in generale. A sua volta, il modo in cui vediamo noi stessi è a fondamento del nostro modo di porci rispetto all’ambiente, alla nostra vita.

Per questo dobbiamo neutralizzare le visioni distorte che non ci permettono di volerci bene per come siamo; come scrive l’autore tirando le somme “Date al vostro cigno una chance e non permettete mai a nessuno di convincervi che siete solo un brutto anatroccolo e che niente potrà cambiarvi”.

 

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La disabilità mentale e la progettualità per il futuro

Katia Liverani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI Modena

Autonomia, per le persone disabili, non vuol dire solo acquisire alcune competenze, ma riconoscersi adulti e sentirsi tali. Non significa “fare tutto da soli”, ma integrare le proprie competenze con quelle degli altri e saper chiedere aiuto (Contardi 2009).

Cosa intendiamo quando parliamo di disabilità mentale? L’AAMR (American Association on Mental Retardation) definisce il ritardo mentale come una disabilità caratterizzata da limitazioni significative, sia del funzionamento intellettivo che del comportamento adattivo, che si manifestano nelle abilità adattive concettuali, sociali e pratiche e che insorge prima dei 18 anni di età.

L’ICD-10 ( International Classification of Disease) definisce il ritardo mentale come: una condizione di interrotto o incompleto sviluppo psichico, caratterizzata soprattutto da compromissione delle abilità che si manifestano durante il periodo evolutivo e che contribuiscono al livello globale di intelligenza, cioè quelle cognitive, linguistiche, motorie e sociali. Il ritardo può presentarsi con o senza altre patologie psichiche o somatiche.
La disabilità mentale, quindi, è una condizione spesso congenita o che insorge nei primi anni di vita e che compromette molteplici ambiti della persona; i genitori di figli disabili affrontano, di conseguenza, fin dalla tenera età, molte difficoltà per accompagnare la crescita dei loro ragazzi.
La fatica dell’educazione e della cura diventano più pesanti con la crescita e lo sviluppo del figlio (Grasselli 2008).

Gli anni dalla nascita fino all’adolescenza, vengono utilizzati per ottenere un recupero motorio, sensoriale ed intellettivo. Nella prima infanzia, gli obiettivi principali sono quelli di favorire lo sviluppo delle competenze del bambino, il raggiungimento delle autonomie personali e dello sviluppo delle potenzialità, nell’ottica del miglioramento della qualità di vita. Con l’inizio della scolarizzazione l’obiettivo diventa, quando possibile, l’acquisizione degli strumenti di base della letto-scrittura. In ogni momento rimane, comunque, centrale, l’attenzione allo sviluppo dell’autonomia personale, sociale, comunicativa, privilegiandola ad altre acquisizioni fini a se stesse e non funzionali a tale scopo. In età adolescenziale si privilegia l’intervento di terapia occupazionale, in atelier socio-riabilitativi, con lo scopo di incrementare ulteriormente le abilità manuali, le capacità di auto-organizzazione e di problem- solving, l’autostima collegata ai risultati concreti e visibili ottenuti in tali contesti.

In questi anni vengono tenuti rapporti con tutti i soggetti organizzati che a diverso titolo possono far parte del sistema curante: scuola, associazionismo, volontariato, gestori di servizi (privato sociale) per sviluppare alleanze e sinergie (Ruggerini, Dalla Vecchia, Vezzosi, 2008).
Nella vita adulta, in cui, il compito principale diventa l’emancipazione dai mezzi che la famiglia fornisce per il sostentamento, il disabile, invece, spesso continua a svolgere le proprie attività in situazioni protette costringendo la famiglia ad un mantenimento permanente (Sorrentino, 2006)
E’ in questa fase, quando non sembra vi siano prospettive e i genitori iniziano ad invecchiare che riemerge, in modo potente, la preoccupazione per il futuro dei figli disabili (Grasselli, 2008.). Spesso questi genitori utilizzano il termine “Dopo di noi” per esprimere questo timore verso il futuro: “Come faranno a vivere senza di noi? Cosa succederà dopo di noi?”.

La sensazione che immaginiamo debbano provare i genitori nel pensare al momento in cui non potranno più prendersi cura dei figli disabili è il vuoto, l’abisso, il panico, la fuga, la rimozione del pensiero. E’ talmente alta la preoccupazione per il futuro dei figli che i genitori pensano che sarebbe meglio non separarsi mai da loro; non riescono a concepire una loro vita futura, indipendente dalla famiglia, tanto che ci sono genitori che evitano di pensare oltre il quotidiano e che non osano fare progetti, che vedono solo nel miracolo la soluzione ad ogni problema (Grasselli 2008). Tutta l’energia mostrata dai genitori, nei primi anni di vita dei loro figli, sembra improvvisamente congelarsi ed essere dedicata più alla gestione quotidiana che ad una attiva programmazione per il futuro.

Numerosi studi tra cui quelli di McCallion e McCarron (2004) e Walsh (2005) confermano che le persone disabili hanno elevati rischi di decadimento dei livelli sia di salute fisica, sia di funzionalità sensoriale e cognitiva, per cui è fondamentale la necessità di mantenere e sviluppare le abilità nelle persone disabili, per evitare il precoce decadimento.

I giovani disabili, d’altra parte, pongono domande e bisogni che però sono difficili da soddisfare dato l’avanzamento dell’età dei genitori; necessitano di nuove opportunità e soprattutto di un nuovo modo di essere considerati come persone adulte in grado di fare le proprie scelte e di poter vivere in totale e/o parziale autonomia .

Se ascoltati, infatti, i disabili parlano della loro sofferenza nel realizzare che, anche in età adulta, non viene loro permesso di operare scelte, di prendere decisioni, poiché si ritiene non siano in grado di affrontare un’autonomia reale. Parlano del conflitto tra desiderio ed incapacità, della dipendenza protratta come costrizione (oltre che come sostegno e aiuto), della difficoltà a sentirsi trattati come chi non può capire oppure sentirsi pressati da richieste impossibili. Possibili conseguenze a queste esperienze mentali possono esser l’aggressività, la rabbia o la depressione (Sorrentino, 2006).

Il diventare adulto si scontra spesso con la tendenza comune a genitori, operatori e della società, a concepire il disabile come eterno bambino, non investendo nè a livello di immaginario, nè attraverso concrete azioni educative sulla sua emancipazione. Chi ascolta i vissuti dei genitori rispetto all’ adultità dei figli con disabilità trova spesso una più o meno consapevole percezione di “vederli sempre uguali”, di “vivere alla giornata”, di “concentrarsi sui bisogni del presente”, di ansia per il futuro, per ciò che accadrà, nel timore della debolezza e dello smarrimento del figlio, per i dubbi sulla capacità della famiglia e della società di prendersi cura veramente del figlio.

Nonostante gli studi di Llewellyn et al. (1999) abbiano concluso che le famiglie con figli disabili, anche gravi non vogliono una collocazione del figlio in istituto e nonostante le persone con disabilità mentale di età avanzata che sono stati sottoposti continuamente a training di mantenimento delle abilità cognitive mostrino un minore declino in tutte le abilità, le famiglie devono comunque essere accompagnate in questo percorso verso l’acquisizione dell’autonomia.

I genitori, infatti sentono che i loro figli disabili, rispetto ai normodotati, saranno in difficoltà ad emanciparsi da loro, ponendo un’alta carica di ansia nel proiettarsi verso prospettive future. Inoltre Sorrentino (2009) evidenzia, che in presenza di una disabilità, possano esserci disturbi dell’attaccamento. L’attaccamento è quel comportamento che motiva il bambino a cercare la vicinanza fisica dei genitori, o di chi se ne prende principalmente cura, quando egli vive emozioni di paura, di sofferenza fisica e di dolore emotivo. Questo sistema comportamentale, che si attiva fin dalla nascita, è presente per tutta la vita e regola la modalità con la quale, anche da adulti saranno gestite le emozioni di paura, sofferenza e dolore (Bowlby 1969; 1973; 1980). Questo sistema può crescere non equilibrato, in quanto le diagnosi di disabilità pongono spesso pesanti interferenze alle risposte naturali di questo legame, deprimendo la madre e disorientandola di fronte ai segnali fuori norma del figlio. Il figlio, anche a causa dei deficit delle sue dotazioni, può essere angosciato da segnali variabili che rendono difficile cogliere una prevedibilità delle risposte relazionali. Tali disturbi dell’attaccamento correlati ad una diagnosi di deficit o di disabilità peggiorano i risultati riabilitativi e amplificano i disturbi dell’adattamento.

Per affrontare queste difficoltà vi è la necessità di un sostegno alle famiglie: spesso è la presenza di un equipe multiprofessionale che rassicura la famiglia. I gruppi di lavoro più avanzati utilizzano i contributi riabilitativi di più figure professionali (neuropsichiatra, assistente sociale, fisioterapista, ecc.). Anche lo psicologo-psicoterapeuta, che in passato, era spesso relegato solo al ruolo di somministratore di test, può diventare una figura centrale in un’equipe riabilitativa, offrendo consulenza alla famiglia nel suo complesso, esercitando un ruolo terapeutico diretto al paziente e praticando un sostegno alla genitorialità e alla coniugalità. Fondamentale è la partecipazione di entrambi i genitori, a momenti di verifica per renderli consapevoli dell’andamento del lavoro con il loro figlio e attivi collaboratori sul versante educativo. Anche la persona disabile deve essere invitata a partecipare alle riunioni di verifica per renderla consapevole dei programmi che la riguardano. Nel caso la persona disabile fosse gestita in collaborazione con servizi territoriali, è bene che il team comprenda tutti gli operatori implicati nel progetto riabilitativo.

Utili possono risultare anche i gruppi di auto-aiuto, costituiti da alcune coppie di genitori con figli disabili, che con la supervisione di uno psicoterapeuta in incontri a cadenza regolare, favoriscono un vissuto di partecipazione che sconfigge la solitudine e aiuta i presenti a individuare strategie per affrontare gli interrogativi inerenti le autonomie (Sorrentino, 2006)

Ma che cos’è l’autonomia? Autonomia, per le persone disabili, non vuol dire solo acquisire alcune competenze, ma riconoscersi adulti e sentirsi tali. Non significa “fare tutto da soli”, ma integrare le proprie competenze con quelle degli altri e saper chiedere aiuto (Contardi 2009). Questa condizione di adultità richiede una complessa maturazione psicologica e affettiva: la persona diventerà adulta nella misura in cui la sua identità sarà autonoma e stabile; la sua separazione/individuazione dalle persone adulte della sua famiglia di origine potrà dirsi sufficientemente compiuta, quando le sue capacità progettuali elaboreranno sequenze di azioni per realizzarli, quando sarà in grado di gestirsi autonomamente la qualità del suo tempo, quando sarà in grado di accettare/costruire compromessi tra desideri e realtà, quando saprà rivestire ruoli attesi e prescrittivi in vari contesti , quando saprà elaborare un suo individuale e originale percorso affettivo, sessuale e familiare (Pavone, 2009).

Da una ricerca condotta da Henninger e Taylor (2014) si evince che, nonostante la letteratura definisca la condizione adulta come il raggiungimento di alcune competenze quali finire la scuola, trovare un lavoro, sposarsi e avere una famiglia, i genitori con figli disabili, ampliano questo concetto definendo il raggiungimento di una condizione adulta come: la capacità di avere un’occupazione o un ruolo funzionale nella società (inteso sia come essere in grado di trovare un lavoro e avere abilità lavorative ma anche essere impegnato in un lavoro con supporto o svolgere del volontariato; essere in grado di abitare fuori casa senza genitori (sia in modo indipendente che in gruppo appartamento con supporto); creare relazioni con i pari (dando più importanza alle relazioni che alle attività sociali a cui si partecipa); acquisire le abilità richieste per un buon funzionamento giornaliero (tra queste abilità sono comprese la capacità di usare il denaro; il cucinare e pagare le bollette in tempo); continuare ad avere impegni di tipo intellettuale per la crescita personale; vivere in modo indipendente utilizzando i supporti necessari; costruire relazioni positive con la comunità partecipandovi; utilizzare i mezzi pubblici; raggiungere un benessere psicologico; costruire relazioni affettive e creare una famiglia.

Fare un progetto di vita è quindi pensare in questa prospettiva futura. Sempre più famiglie si pongono il problema del preparare e del facilitare il grande distacco tra loro e il figlio e lo fanno realizzando forme di soggiorno temporaneo presso piccole comunità che permettono di allenare i disabili ad una vita senza genitori. Si tratta di esperienze di vita che aiutino il figlio a fare qualche passo significativo di autonomia e nello stesso tempo accompagnino i familiari ad elaborare gradualmente la sua indipendenza e lo sviluppo di competenze adulte (Pavone, 2009).

Per ogni persona con disabilità si dovrebbe prevedere un progetto flessibile, con possibilità di frequenza in comunità, come forma di progressivo adattamento anche per un certo periodo di tempo o per alcuni giorni alla settimana. Qualunque siano le condizioni della persona bisognerebbe sempre stimolare nei limiti del possibile percorsi di autonomia e autodeterminazione che porti a forme anche semplici di regolazione personale sulle condizioni di vita (Pavone, 2009).

Lifshitz e Merrick (2003) hanno documentato una migliore vita sociale ed attività del tempo libero quando la residenza delle persone avviene in servizi di dimensioni limitate, in cui sono stimolate attività sociali e sono previsti interventi su competenze cognitive e iniziative per un’adeguata gestione del tempo libero. All’ interno di tali servizi devono essere promosse attività concrete, funzionali alla vita in autonomia e che permettano di creare relazioni significative tra i partecipanti (Pavone, 2009).

Molti progetti, in Italia, sono basati sull’acquisizione delle abilità sopracitate e sulle esigenze esplicitate dai genitori con figli disabili; tra questi si possono nominare diverse realtà.
Nella città di Roma, i corsi di educazione all’autonomia organizzati dall’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) dal 1989, sono rivolti a ragazzi dai 15 ai 20 anni e utilizzano una metodologia di lavoro basata sull’organizzazione di esperienze concrete in cui mettersi alla prova, con un coinvolgimento attivo dei disabili nelle scelte e nella gestione delle attività evitando però fantasie impossibili (Contardi, 2009). Nella stessa città sono attive almeno tre comunità-alloggio permanenti per l’inserimento totale di 14 persone con Sindrome di Down: Casa Primula, Casa Girasoli, Casa Fiordaliso.

A Roma e a Venezia, dal 1995 è inoltre presente “Casapiù” dove persone con Sindrome di Down trascorrono, in gruppi di tre o quattro partecipanti, dei week-end nel corso dell’anno collaborando il più possibile alla gestione, con lo scopo di prepararsi gradualmente all’uscita dalla famiglia di origine (Vianello, 2006). A Forlì, dal 2013, dall’esperienza e dalla metodologia dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) è attivo il progetto “Why-Not” rivolto a giovani disabili.

 

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BIBLIOGRAFIA:

ADHD e Scuola: semplici interventi in classe potrebbero migliorare le prestazioni dei bambini con tale diagnosi?

FLASH NEWS

Un nuovo studio mostra che mettere in atto degli interventi di tipo non farmacologico all’interno delle classi potrebbe essere efficace nel migliorare i risultati delle prestazioni di bambini con ADHD.

I bambini con diagnosi di Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) sono spesso irrequieti, agiscono senza pensare ed hanno difficoltà a concentrarsi. Tali fattori hanno di solito impatto negativo sull’esito scolastico di questi ragazzi, e creano inoltre problemi di vario genere all’interno delle classi.

Un nuovo studio condotto dall’University of Exeter Medical School mostra che mettere in atto degli interventi di tipo non farmacologico all’interno delle classi potrebbe essere efficace nel migliorare i risultati delle prestazioni di questi bambini.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Health Technology Assessment, è stata guidata dalla Dottoressa Tamsin Ford, dell’University of Exeter, affiancata da collaboratori del Kings College London e dell’Hong Kong Institute for Education.

Il team di Ford ha analizzato 54 studi che testavano l’efficacia di diversi tipi di interventi volti al supporto di bambini con diagnosi di ADHD, come ad esempio consegnare quotidianamente a questi ragazzi degli schemi riassuntivi del lavoro svolto in classe, oppure affiancare loro un tutor che li aiuti a migliorare le proprie capacità organizzative e di studio.

La ricerca ripercorreva gli interventi di questo genere effettuati tra il 1980 e il 2013, con l’intento di analizzare alcune aree ritenute particolarmente importanti, ovvero: l’efficacia e i costi di interventi scolastici mirati; l’influenza di fattori sociali, quali ad esempio la disinformazione riguardo ad una diagnosi di ADHD; l’effetto del coinvolgimento di genitori e professori nel trattamento di tale problematica.

Dalla revisione effettuata da Tamsin Ford e collaboratori emerge innanzitutto la difficoltà di isolare variabili precise, in quanto gli interventi e le strategie di misurazione della loro efficacia sono estremamente vari. Pertanto, in merito a ciò, sarebbe auspicabile effettuare in futuro ricerche che utilizzino perlopiù misure standardizzate.

Dallo studio emerge inoltre che credenze scorrette da parte di genitori e professori tendono a creare stereotipi e stigma sociali negativi legati al problema dell’ADHD, con il rischio di andare incontro alla cosiddetta profezia che si autoavvera e producendo tensioni inopportune nei ragazzi e all’interno delle classi.

Sarebbe opportuno allora creare canali di informazione e comunicazione tra i professori e i genitori, provvedendo alla messa in atto di interventi educativi e di sensibilizzazione in merito al tema di una diagnosi di ADHD.

Conclude la Dottoressa Ford:

Ci sono molti studi che dimostrano l’efficacia di un intervento farmacologico, ma non tutti i bambini lo possono tollerare, oppure spesso i ragazzi stessi o le loro famiglie non vogliono percorrere questa strada. E’ allora importante dimostrare l’efficacia di altri tipi di trattamento, come abbiamo cercato di fare con il nostro studio. Tuttavia, è necessario effettuare ulteriori studi, che utilizzino possibilmente misure standardizzate e strumenti di ricerca più precisi, in modo tale da arrivare ad avere una definizione chiara di quali interventi siano efficaci nel trattamento dell’ADHD e quali no.

 

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Presentazione di Ruth Lanius, Ph.D, professoressa di Psichiatria presso la University of Western Ontario

Ruth Lanius è professoressa di psichiatria e dirige l’unità di ricerca sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presso la University of Western Ontario. E’ inoltre titolare della Cattedra Harris-Woodman di Medicina Mente-Corpo presso la Schulich School of Medicine & Dentistry della University of Western Ontario.

La Lanius si occupa da molti anni dei disturbi correlati al trauma, di cui è certamente una delle maggiori esperte mondiali e ha fondato il Servizio per lo Stress Traumatico e il Programma per lo Stress Traumatico nei Luoghi di Lavoro, servizi che si dedicano alla ricerca e al trattamento dei PTSD e dei disturbi che si riscontrano in comorbilità con esso.

Attualmente si dedica allo studio della neurobiologia dei PTSD ed alla ricerca sugli esiti del trattamento attraverso l’esame di metodi farmacologici e psicoterapeutici diversi.

I progetti di cui si occupa al momento sono diversi:

  • Attaccamento Madre-Bambino, in cui viene studiato il funzionamento neurale e delle relazioni di attaccamento in donne primipare con disturbi correlati allo stress;
  • Percezione del Dolore, in cui si indagano i correlati neurali dell’alterazione della percezione del dolore nel PTSD e nel Disturbo Borderline di Personalità;
  • Consapevolezza di Sé e Riconoscimento di Sé, volto a illustrare attraverso l’indagine di variazioni dell’attività neurale, il dato spesso riportato nell’attività clinica con pazienti con PTSD e/o Disturbo Borderline di Personalità di un instabile senso di sé;
  • Cognizione Sociale, in cui si analizza il modo in cui persone con PTSD affrontano situazioni sociali, interazioni e giudizi sociali;
  • Stress, Trauma e Ricovero: Uno Studio Precoce, che si prefigge l’obiettivo di individuare i segnali precoci di PTSD in individui a rischio, per ampliare l’attuale modello eziologico del disturbo.

Ruth Lanius è autrice di oltre 100 saggi e capitoli di libri pubblicati nel campo dello stress traumatico e tiene spesso conferenze sul PTSD in patria e all’estero.

Terrà anche un workshop il 16 e 17 ottobre 2015 a Milano, in cui affronterà le tematiche esplorate nel suo libro “Healing the traumatized self: consciousness, neuroscience, treatment”, recentemente pubblicato con Paul Frewen. Il workshop è organizzato dal CentroMoses di Milano in collaborazione con Btl Workshop. 

E’ coautrice, insieme a Eric Vermetten e Clare Pain, del libro “L’impatto del trauma infantile sulla salute e sulla malattia – L’epidemia nascosta”, una importantissima rassegna aggiornata e completa delle recenti conoscenze su questo tema.

 

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Emozioni e sindrome di Asperger. Educazione affettiva per bambini e ragazzi con sindrome di Asperger (2014) – Recensione

Scritto dal prof. Tony Attwood e dalla dott.ssa Michelle Garnett, due psicologi clinici con una grande conoscenza dell’autismo, il programma fa della chiarezza e semplicità i suoi punti forza. Una solida base di strategie tipiche della Terapia Cognitivo Comportamentale, si arricchisce di accorgimenti e strumenti specificamente progettati per la popolazione autistica.

Insegnare ad un autistico che un abbraccio potrebbe essere il comportamento più adatto nei confronti di un amico che soffre è tanto importante quanto far comprendere ad una madre che il figlio autistico potrebbe non gradire i suoi baci non perchè non le voglia bene ma perchè tollera con fatica la sensazione spiacevole di sentirsi inumidire le guance.

Se si parte dal presupposto che l’affetto non coincide con l’espressione dello stesso, regolata da convenzioni sociali a servizio della popolazione neurotipica, questo libro è un’importante risorsa per migliorare la capacità di esprimere affetto in maniera adeguata alla diverse relazioni e situazioni, nella convinzione che ciò possa incidere positivamente sulla qualità delle amicizie e delle relazioni, varibile significativa nella qualità di vita di ciascuno di noi, autistico o neurotipico.

Scritto dal prof. Tony Attwood e dalla dott.ssa Michelle Garnett, due psicologi clinici con una grande conoscenza dell’autismo, il programma fa della chiarezza e semplicità i suoi punti forza. Una solida base di strategie tipiche della Terapia Cognitivo Comportamentale, si arricchisce di accorgimenti e strumenti specificamente progettati per la popolazione autistica. Il massiccio impiego di elementi visivi, attività di role playing ed esercizi pratici in situazioni di vita reale, riduce lo spazio dedicato alla conversazione, per assecondare uno stile di pensiero e di apprendimento che predilige il canale visivo ed esperienziale a quello della comunicazione verbale.

Ampio spazio è riservato anche all’utilizzo di strategie utili a migliorare le abilità di lettura della mente tipica (TOM), quali le Social Stories e le Comic Strip Conversations, sviluppate da Carol Gray ed ampiamente diffuse in qualsiasi intervento volto a migliorare le competenze emotive e sociali nella popolazione autistica.

Dopo un’iniziale valutazione delle abilità oggetto del trattamento attraverso i questionari per i genitori e le storie in appendice,  il percorso si articola in cinque sessioni, ognuna delle quali è dedicata ad una specifica abilità:

  1. Analizzare i sentimenti di affetto
  2. Riconoscere ed esprimere l’affetto
  3. Fare e ricevere complimenti
  4. Comprendere le ragioni per le quali esprimiamo apprezzamento o amore con parole e gesti di affetto
  5. Sviluppare la capacità di esprimere affetto

Ogni sessione si apre con un riassunto della precedente e si chiude con un’attività da svolgere a casa, al fine di applicare le strategie imparate in ambito terapeutico  in situazioni  di vita reale. Per tale ragione è fortemente raccomandato il coinvolgimento della scuola, contesto privilegiato in cui sperimentarsi nell’esprimere e ricambiare l’affetto tra pari.

Il conduttore del programma deve essere un professionista con una profonda conoscenza delle caratteristiche della popolazione autistica, solo così potrà essere in grado di individualizzare nel migliore dei modi le proposte del percorso. Nel caso in cui esso venga rivolto ad un gruppo di bambini o ragazzi, si raccomanda di tenere in forte considerazione le caratteristiche dei singoli così da formare un gruppo coeso e capace di collaborazione. In questo caso il rapporto tra conduttore e partecipanti varia tra uno a due e uno a quattro, a seconda del grado di esperienza del clinico.

L’approccio generale deve essere sempre quello di dare enfasi al successo e alla scoperta, bandendo completamente l’utilizzo esplicito ma anche implicito del giudizio “giusto/sbagliato” perchè, come ci ricorda la famosa autistica Temple Grandin, provare amore non nello stesso modo in cui lo prova la maggior parte dei neurotipici non vuol dire essere capaci di un amore meno prezioso di quello degli altri.

Questo è l’aspetto più importante da tenere a mente per fare sì che questo prezioso programma sia davvero al servizio della popolazione autistica e non di quella neurotipica che spesso cade nell’errore di credere che uniformarsi ai propri parametri sia l’unica via per l’integrazione di chi è diverso.

 

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Linking technology and psychology: feeding the mind, energy for life – Report dal XIV Congresso Europeo di Psicologia

 

Si è svolto a Milano nei giorni 7-10 luglio 2015 il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP) dal titolo “Linking technology and psychology: feeding the mind, energy for life”, organizzato dall’ Italian Network of Psychologists’ Associations (INPA) con il patrocinio di EFPA, European Federation of Psychologists’Associations.

Questa edizione ha accolto sia le nuove ricerche sia le best practice di tutti i campi della psicologia con l’intento di estendere il contributo dell’indagine psicologica e delle sue applicazioni pratiche alla società nel suo complesso, oltre che ai tradizionali destinatari dei servizi psicologici.

Questo XIV Congresso e’ stato caratterizzato dalla presenza di psicologi provenienti da ogni parte del mondo e da un programma che ha coperto svariate aree della psicologia contemporanea con particolare attenzione al ruolo della psicologia all’interno della società. Infatti durante il congresso sono stati proposti molti contributi che mostrano come la psicologia aiuti a comprendere, prevenire e risolvere svariati problemi. In questa edizione e’ stata posta anche attenzione alla relazione tra la  psicologia, il cibo e la nutrizione come espressione del sostegno del Congresso a EXPO 2015 dedicato al tema “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”.

Scopo ultimo del Congresso è stato quello di promuovere lo scambio di idee ed esperienze tra studiosi e ricercatori, di avviare collaborazioni e azioni destinate all’implementazione di migliori politiche in materia di salute, istruzione, lavoro e benessere individuale nei diversi campi di applicazione e per tutto il corso della vita.

Le aree principali trattate nel corso del XIV Congresso Europeo di Psicologia sono state: problemi generali e processi di base, sviluppo ed educazione, cultura e società, lavoro e organizzazione, salute ed interventi clinici e tematiche relative all’Expo 2015.

Il congresso è stato aperto il giorno 7 luglio dal workshop pre-congressuale dal titolo “Trauma and mental health: Advances in EMDR therapy”, condotto dalla Prof.ssa Isabel Fernandez. Durante il workshop sono stati presentati i risultati della ricerche sui cambiamenti a seguito del trattamento EMDR. Gli obiettivi del workshop erano quelli di fornire informazioni sulle ultime ricerche sul trauma e il suo impatto sulla salute mentale e fisica, revisionare la classificazione DSM-5 dei disturbi legati allo stress e al trauma, fare una panoramica sui trattamenti evidence based per il trauma e, infine, comprendere il trattamento EMDR per il trauma, la ricerca nell’ambito e le implicazioni cliniche.

A partire dal giorno 8 luglio, invece, si sono tenuti una serie di simposi all’interno dei quali sono stati presentati diversi contributi.

Tra questi, il primo giorno, particolare rilevanza é stata data al tema del bullismo e cyberbullismo con la presentazione di una panoramica sulle principali teorie e gli interventi evidence based più utilizzati in Europa.

Inoltre é stata posta particolare enfasi al concetto di stress, il quale è stato analizzato sia da un punto di vista psicobiologico, sia da un punto di vista pratico in particolare nell’assessment e management dello stress lavoro correlato.

Durante la sessione pomeridiana si è tenuto un simposio sulla salute sessuale e il wellbeing, in cui è stato discusso il ruolo della sessuologia in Italia e in Europa e i rapporti tra organizzazione della personalità, disfunzioni sessuali e la qualità della vita sessuale.

La prima giornata é stata connotata anche da una forte impronta sull’uso delle nuove tecnologie in ambito psicologico. Partendo da una sessione dedicata ad internet e social media, sono stati poi affrontati i temi delle dinamiche sociali ed educative nello spazio virtuale e con l’ausilio delle nuove tecnologie, e del rapporto tra psicoterapia e tecnologia soffermandosi anche sulla possibilità di usufruire del cyberspazio nella carriera professionale degli psicologi e psicoterapeuti.

La seconda giornata del congresso é stata dedicata ad una serie di sessioni sulle tematiche della disgregolazione delle emozioni e il suo trattamento, il well-being e le strategie di coping, lo stato dell’arte nella terapia cognitiva, una prospettiva qualitativa nel supporto alle persone con ansia associata a PTSD e timidezza, l’esporazione del comportamento di autolesionismo da varie prospettive come quella clinica, interpersonale, cognitiva e biologica, un’ampia dissertazione sul trauma in termini di avversità infantili e psicopatologia dello sviluppo come anche della terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma. Uno sguardo è stato dato anche alle nuove frontiere nei trattamenti come la medicina integrativa, la mindfulness, l’ipnosi e l’EMDR.

Quest’ultimo tipo di intervento é stato particolarmente approfondito nella giornata del 10 luglio. Infatti è stato condotto un simposio sulla terapia EMDR focalizzato sull’uso di tale tecnica in pazienti esposti a trauma o con PTSD che presentano una diagnosi di disturbo borderline di personalità. Inoltre é stato dedicato un simposio all’uso dell’EMDR nei disturbi alimentari discutendo le modalità di applicazione e i principali risultati ottenuti in Italia e Spagna.

Sempre il giorno 10, è stata dedicata una sessione all’emotional eating e alle modalità di prevenzione e intervento nei Disturbi Alimentari.

Le sessioni pomeridiane dell’ultimo giorno del XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP) sono state caratterizzate da interventi sui metodi di ricerca in psicologia, sul ruolo dello psicologo nello sport, sulla psicologia giuridica e psiconcologia.

Un simposio particolarmente interessante che ha chiuso l’ultima giornata del congresso, è stato dedicato alle emozioni e ai disturbi emotivi nel quale sono stati proposti alcuni studi con le relative implicazioni terapeutiche da parte di ricercatori italiani e stranieri. I principali temi trattati sono stati quelli delle credenze cognitive e i processi coinvolti nella timidezza, l’uso della mindfulness in adolescenza per affrontare più efficacemente le situazioni di stress, la presentazione del modello italiano “Life themes and plans Implication of biased Beliefs” Libet e di un programma attuato a Brooklyn per insegnare le competenze emozionali e incoraggiare ad avvicinarsi alle divesità socio-culturali.

Ogni giornata del congresso è stata accompagnata dall’esposizione di poster ad opera di ricercatori di ogni parte del mondo afferenti alle diverse aree tematiche a cui il XIV Congresso Europeo di Psicologia si dedicava. Inoltre erano presenti stand delle principali associazioni di psicologia italiane e straniere.

Durante il congresso si é potuta respirare un’aria di rinnovamento e un desiderio di scambio e cooperazione tra i ricercatori presenti. Particolare degno di nota di questo XIV Congresso Europeo di Psicologia é stata la forte presenza di giovani ricercatori che hanno avuto la possibilità di presentare i loro lavori e di confrontarsi con ricercatori più esperti.

La prossima edizione del Congresso Europeo di Psicologia si svolgerà dall’11 al 14 luglio 2017 ad Amsterdam.

 

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Gli scienziati potranno leggere nella nostra mente?

Secondo quanto emerso da un nuovo studio, gli scienziati potrebbero essere ora in grado di leggere la nostra mente.

Ma, onde evitare l’insorgenza di tendenze deliranti in qualche lettore o l’apparire di qualcuno che grida all’ennesimo complotto, spieghiamo meglio quanto studiato in questa interessante ricerca.

I ricercatori della Carnegie Mellon University in Pennsylvania, hanno sottoposto dapprima i loro soggetti a un compito di apprendimento: hanno fornito loro delle informazioni sulle abitudini e sulla dieta di otto diversi animali e hanno osservato, tramite tecniche di neuroimmagine, cosa succedeva nel loro cervello nell’immagazinamento delle nuove informazioni.

E’ stato così osservato come ogni persona acquisisca una specifica firma di attivazione cerebrale per i diversi animali: specifiche regioni del cervello vengono attivate per specifici habitat, così come particolari aree cerebrali vengono attivate per le diverse diete degli animali.

Dato che le informazioni apprese per ogni animale sono associate all’attivazione di specifiche aree cerebrali, i ricercatori sono stati in grado di utilizzare le immagini di fMRI per scoprire qual era l’animale pensato dal soggetto in un determinato momento, osservando le aree cerebrali attivate nel recupero delle informazioni.

Chissà se un giorno si potrà davvero leggere la mente altrui attraverso delle scansioni cerebrali, per adesso siamo ben lontani da scenari ai limiti della fantascienza.

Sarebbe meglio concentrarsi sugli effettivi risvolti positivi che questo studio porta con sè: come sostengono i principali ricercatori Bauer e Just, i loro risultati potrebbero essere in grado di contribuire a sviluppare modi più efficaci per l’insegnamento di materie complicate scuola e far luce su come invertire la perdita di conoscenza che accompagna i disturbi come l’Alzheimer e la demenza.

Scientists are now able to read people’s minds using MRI images of the brain that show specific patterns of neural activity.
In an experiment conducted by Carnegie Mellon University in Pennsylvania U.S., researchers deduced what people were thinking about by observing brain activity following a simple learning task.

Gli scienziati potranno leggere nella nostra mente?Consigliato dalla Redazione

Gli scienziati possono leggere nella nostra mente? - Immagine: 73243812
Gli scienziati, attraverso le tecniche di neuroimaging, sono ora in grado di indovinare cosa pensiamo. E’ il risultato di uno studio della Carnegie Mellon University in Pennsylvania. (…)

 

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Funzionamento cognitivo ed emotivo di giovani tossicodipendenti

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Funzionamento cognitivo ed emotivo di giovani tossicodipendenti

Cognitive and emotional functioning in young-addicts

Autori: Marianna Sacco (1), Parolin Micol (1), Alessandra Simonelli (1), Patrizia Cristofalo (2), Daniela Mapelli (3).

(1) Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione, Università di Padova

(2) Comunità Terapeutica “Villa Renata”, Venezia Lido

(3) Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova

Abstract:

Contesto: l’adolescenza è un periodo evolutivo di vulnerabilità rispetto alla sperimentazione di sostanze stupefacenti, ma l’uso precoce di droghe comporta effetti negativi sul funzionamento cognitivo. Inoltre, l’abuso di sostanze, in età adulta ed in giovane età, è caratterizzato anche da disregolazione emotiva nei termini di elevati livelli di sensation seeking e alessitimia e scarsa intelligenza emotiva. Il controllo cognitivo e le capacità di regolazione emotiva sono associate e localizzate nelle medesime aree cerebrali frontali, le quali sono le aree maggiormente colpite nella tossicodipendenza.

Obiettivo: La presente ricerca si propone di studiare la performance neuropsicologica e il funzionamento emotivo di giovani tossicodipendenti, indagando le possibili interrelazioni tra questi due domini.

Metodo: una batteria di test neuropsicologici (ENB-2), strumenti self-report per valutare l’alessitimia (TAS-20), la ricerca di sensazioni (SSS-VI) e l’intelligenza emotiva (EQ-i) sono stati somministrati a 24 giovani tossicodipendenti. E’ stato somministrato anche un test etero-valutativo per la valutazione dell’alessitimia (OAS).

Risultati: il 67% del campione riporta concomitante compromissione del funzionamento cognitivo e della regolazione emotiva, in almeno due domini emotivi indagati.

Conclusione: i risultati ottenuti dal presente studio suggeriscono che l’uso di sostanze in giovane età possa compromettere le capacità cognitive di controllo e di regolazione delle emozioni, le quali risultano essere correlate fra loro.

Background: Adolescence is a vulnerable age for experimenting with drugs but early substance abuse have severe detrimental effects on cognitive functioning. In addition, substance abuse in adulthood and at a young age, it is also characterized by emotional dysregulation in terms of high levels of sensation seeking and low alexithymia and emotional intelligence. Cognitive control and emotion regulation abilities are directly associated and are largely implemented by the same frontal cortex areas, which are the main target of drug abuse. Objective: The present research aims to study the neuropsychological performance and the emotional functioning in young drug addicts, investigating possible interrelations between these two domains.

Methods: a battery of neuropsychological tests (ENB-2), self-report tools to assess alexithymia (TAS-20), sensation seeking (SSS-VI) and emotional intelligence (EQ-i) were administered to 24 young drug-addicts. An observer scale to evaluate alexithymia (OAS) was also used.Results:67% of the sample reported concomitant impairment of cognitive functioning and emotional regulation in at least two emotional domains investigated. Conclusion: The results obtained from this study suggest that the use of substances at a young age can affect the cognitive control and emotional regulation, which appear to be related to each other.

Parole chiave:tossicodipendenza, adolescenza, modificazione neurale, funzionamento cognitivo, regolazione emotiva.

  1. Introduzione:

La caratteristica principale del disturbo da uso di sostanze è la presenza di sintomi cognitivi, comportamentali e fisiologici derivanti dall’assunzione persistente e continua di sostanza, nonostante il soggetto esperisca significativi problemi fisici, psicologici e sociali correlati all’assunzione stessa. L’origine dei sintomi risiede nelle alterazioni cerebrali indotte dalla sostanza, che possono persistere oltre la disintossicazione e manifestarsi attraverso comportamenti di ripetizione, reiterazione e desiderio patologico (craving) (APA, 2013).

1.1 Epidemiologia

Secondo il “Word Drug Report” del 2013, condotto dall’UNODC (United Nation Office on Drugs and Crime, 2013), la prevalenza mondiale del disturbo da uso di sostanze equivale al 3,6%-6,9% della popolazione adulta (circa 300 milioni di persone). In Europa (EMCDDA, 2013), almeno ottantacinque milioni di europei (circa un quarto della popolazione adulta europea) hanno consumato sostanze illecite nel corso della vita, di cui il 90% cannabis, il 17% cocaina, il 15% anfetamine e il 13% ecstasy. In Italia nel 2013 sono stati stimati circa 438.500 soggetti tossicodipendenti, di cui 277.748 non risultano essere in trattamento presso i servizi di assistenza (Survey GPS, 2012). L’età media dei nuovi utenti è di circa 34 anni con un arrivo sempre più precoce rispetto agli anni precedenti, infatti è stata rilevata una maggior presenza di persone minorenni e soprattutto nella fascia di età tra i 18 e i 24 anni. La sostanza maggiormente assunta è la cannabis (4.01%) seguita poi dalla cocaina (0.6%), dagli allucinogeni (0.19%), dagli stimolanti, compresi ecstasy e anfetamine (0.13%) e dall’eroina (0.12%). Inoltre, circa il 64,1% della popolazione tossicodipendente assume 2 o più sostanze contemporaneamente e la combinazione di poli-abuso più frequente è composta da alcol, cannabis e tabacco. Le indagini svolte nel 2013 (Survery SPS, 2013) sulla popolazione italiana scolastica, studenti di età compresa fra i 15 e i 19 anni, confermano le tendenze riscontrate nella popolazione adulta: circa il 15% del campione, composto da 38150 studenti, fa uso di sostanze stupefacenti, di cui 17.7% cannabis, 0.09% cocaina, 0.01% eroina, 0.13% allucinogeni, 0.05% stimolanti, 0.51% altre sostanze come tabacco, alcol e inalanti e circa il 4% fa uso di due o più sostanze.

1.2 Vulnerabilità in adolescenza

I soggetti con scarse capacità di autocontrollo possono mostrare una maggiore vulnerabilità per un disturbo da uso di sostanze (APA, 2013), tale fenomeno si verifica soprattutto in adolescenza.

Lo sviluppo cerebrale che si manifesta in questo periodo evolutivo, specialmente nelle regioni prefrontali, è alla base dell’immaturità cognitiva rilevata negli adolescenti (Dahl, 2004). Il modello teorico del “sistema duale” (Somerville et al, 2010) mette in evidenza una sostanziale asincronia di sviluppo fra il sistema socioemozionale, localizzato nelle aree limbiche e para-limbiche, e il sistema del controllo cognitivo, riferito alla corteccia prefrontale; il primo, già sviluppato, è caratterizzato da un’intensa attività alla quale l’immaturo sistema cognitivo non riesce a far fronte (Casey et al., 2010). Questo squilibrio cognitivo comportamentale predispone il soggetto a sopravvalutare le ricompense e a sottovalutare i rischi associati all’attuazione di un comportamento, tale da esporre l’adolescente ad un’elevata vulnerabilità allo stress e all’uso di sostanze, dove la sostanza stessa può diventare una ricompensa attraente agli occhi dell’adolescente (Geier, 2013).

1.3 Neuropsicologia della tossicodipendenza

A livello neurobiologico l’ipotesi fondamentale è che i cambiamenti comportamentali osservati nei soggetti tossicodipendenti si manifestino a causa di sottostanti modificazioni neurali, dovute alla neurotossicità delle sostanze stupefacenti (Koob et al., 1988). Tale neurotossicità consiste principalmente nella capacità delle sostanze di aumentare la concentrazione dopaminergica nelle sinapsi fra i neuroni dell’area tegmentale ventrale del mesencefalo e i neuroni dell’area dello shell del nucleo accumbens, situato nella corteccia striato-ventrale, ossia quello che viene definito circuito mesolimbico o circuito della ricompensa (Pontieri et al., 1995). Inoltre, poiché il tegmento ventrale ha proiezioni neurali dopaminergiche in altre aree cerebrali, come la corteccia prefrontale e l’amigdala, le alterazioni neurobiologiche coinvolgono gran parte dell’encefalo (Everitt et al., 1999).

Le conseguenti alterazioni cognitive riguardano soprattutto le capacità delle funzioni esecutive, localizzate principalmente nel lobo frontale e nelle sue connessioni corticali e sottocorticali (Verdejo-Garcı́a et al., 2005). In generale, sia nei tossicodipendenti adulti sia in quelli più giovani, le funzioni che risultano maggiormente deficitarie sono:

– Decision Making: nei soggetti tossicodipendenti si evidenzia la tendenza a favorire scelte svantaggiose che però portano ad ottenere risultati a breve termine (Rogers et al., 2001). Studi di neuroimaging hanno riscontrato un’attivazione anomala della corteccia prefrontale ventro-mediale (Goldstein et al., 2002).

– Controllo inibitorio: studi neuropsicologici condotti con l’ausilio di tecniche di neuroimaging hanno individuato, in soggetti dipendenti da oppiacei, un’anomala riduzione dell’attività della porzione dorsale della corteccia cingolata anteriore durante compiti di controllo inibitorio. Tale modificazione funzionale è stata riscontrata anche negli assuntori di cocaina e cannabis. Questi risultati suggeriscono che l’abuso di sostanze psicoattive possa ridurre la capacità del soggetto di autoregolarsi e auto-monitorare i propri errori comportamentali (Lee et al., 2005).

– Memoria: l’eccessiva concentrazione dopaminergica nel circuito della ricompensa, rilevata nella tossicodipendenza, altera il normale funzionamento della corteccia prefrontale e delle sue connessioni con il nucleo accumbens e lo striato ventrale (Montague et al., 2004), diminuendo le risposte alle ricompense naturali e favorendo la ricerca compulsiva della ricompensa indotta dalla sostanza, per la quale il soggetto è altamente sensibile (Volkow et al., 1993). Di conseguenza quest’alterazione neurale riduce le possibili esperienze di apprendimento nelle quali il soggetto potrebbe coinvolgersi, provocando una successiva parziale rappresentazione mentale del mondo esterno, strettamente legata agli stimoli correlati alla sostanza (Goldstein et al., 2002).

1.4 La disregolazione emotiva nella tossicodipendenza

Studi di neuroimaging hanno evidenziato un coinvolgimento importante delle aree cerebrali frontali e prefrontali nella regolazione emotiva, sottolineando il ruolo esercitato dalle capacità cognitive frontali (funzioni esecutive) nei processi di controllo emotivo (Verdejo-García et al., 2009). Di conseguenza molti studi suggeriscono che l’assunzione di sostanze psicoattive alteri il normale funzionamento delle regioni frontali, andando a determinare disfunzioni nel controllo cognitivo ed emotivo (Fuchs et al., 2004). Nel dettaglio, secondo la teoria di Damasio (1996) dei marker somatici, applicata nel contesto della regolazione emotiva in condizione di tossicodipendenza da Verdejo-Garcia e Bechara (2009), durante il processo decisionale, nel quale è coinvolta principalmente la capacità di decision making, il sistema cognitivo valuta non solo le informazioni somatiche e fisiologiche, ma anche le informazioni emotive derivanti dalla percezione di uno stimolo. Di conseguenza, un decision making deficitario, come lo è quello dei soggetti tossicodipendenti, non è in grado di compiere tali valutazioni, dando origine così a comportamenti impulsivi e privi di giudizio.

La disregolazione emotiva in adolescenza, che si manifesta soprattutto attraverso difficoltà di organizzazione, integrazione e modulazione delle emozioni, costituisce una fonte di rischio maggiore rispetto agli adulti per il disturbo da uso di sostanze, mentre una buona capacità di gestione delle emozioni può identificarsi come un fattore di protezione (Wills et al., 2001).

Le difficoltà di controllo emotivo che si presentano nei soggetti tossicodipendenti, adulti e adolescenti, si manifestano con maggior frequenza nelle forme di alessitimia, elevato sensation seeking e scarsa intelligenza emotiva.

1.5 Alessitimia

Il rapporto intercorrente fra alessitimia e tossicodipendenza è stato individuato in numerose ricerche, infatti indipendentemente dal tipo di sostanza assunta, è stato rilevata una maggiore incidenza dell’alessitimia in soggetti con disturbo da uso di sostanze rispetto alla popolazione normale (Cleland et al., 2005). Negli adulti tossicodipendenti la prevalenza del disturbo alessitimico oscilla in un range compreso fra il 48% e il 78% (Uzun, 2003), valori che sembrano variare in funzione della durata dell’astinenza, mentre nella popolazione tossicodipendente più giovane ed adolescente la prevalenza si aggira attorno al 30%-40% (Troisi et al., 1998).

L’alessitimia è considerata un forte fattore predisponente al disturbo da uso di sostanze, soprattutto in soggetti già ad esso vulnerabili, primi tra tutti gli adolescenti (Taylor et al., 1999); tuttavia la letteratura esistente in materia non chiarisce se l’alessitimia sia o meno un fattore primario nella tossicodipendenza (Handelsman et al., 2000).

A livello neurale i soggetti tossicodipendenti con difficoltà alessitimiche mostrano alterazioni negative del normale funzionamento del lobo frontale e del processamento emotivo; inoltre sono state evidenziate anomalie neuro-trasmettitoriali nelle aree cerebrali della corteccia cingolata anteriore e dell’insula (Lyvers et al., 2012).

1.6 Sensation Seeking

Gli adolescenti di norma hanno una maggiore predisposizione ad assumere condotte pericolose, nonostante non si mostrino meno capaci degli adulti nella valutazione dei rischi, ma risultino più influenzabili dagli impulsi e dagli stimoli esterni, come per esempio il gruppo dei coetanei (Reyna et al., 2006). Martins (2008) in uno studio effettuato su 5049 adolescenti di età compresa fra i 12 e i 18 anni in trattamento per un disturbo da uso di sostanze, ha rilevato che più dell’80% dei pazienti in questione mostra un elevato sensation seeking.

Secondo il modello biosociale del sensation seeking, applicato poi al contesto dell’uso precoce di sostanza, vi sono due processi che condizionano le capacità decisionali dell’adolescente: la maturazione cerebrale e l’influenza sociale (Roomer et al., 2007). Nel contesto dell’uso precoce di sostanza, la ridotta valutazione dei rischi, dovuta all’immaturità cerebrale e direttamente influenzata dal sensation seeking, accompagnata dal bisogno dell’adolescente di essere approvato e affiliato al gruppo di pari, possono rinforzare gli effetti gratificanti derivanti dall’assunzione di sostanza e ridurre la valenza negativa dei rischi associati (Steinberg, 2008). In condizioni normali si evidenzia nel cervello adolescente una reattività accentuata del nucleo accumbens agli incentivi e ai contesti socio emotivi che induce il soggetto a cercare livelli più elevati di stimolazione esterna, ciò diviene disfunzionale ed amplificato nel contesto dell’uso precoce di sostanze (Gardner et al., 2005).

1.7 Intelligenza Emotiva

La tossicodipendenza è caratterizzata da difficoltà riferibili all’intelligenza emotiva, nei termini di percezione, differenziazione e regolazione delle emozioni, ma non è stato ancora chiarito se la presenza di queste difficoltà sia causata o sia la causa stessa del disturbo (Kun et al., 2010).

Il declino nell’intelligenza emotiva in adolescenza si manifesta in problemi come disperazione, alienazione sociale, tossicodipendenza, crimini e comportamenti violenti, bullismo e abbandono scolastico (Goleman et al., 1996). La pressione del gruppo di coetanei inoltre sembra possa diminuire le abilità di gestione delle emozioni nell’adolescente, soprattutto se tali pressioni riguardano l’uso di sostanze come il tabacco e l’alcol (Mayer et al., 1999). Quindi, in questa particolare fase evolutiva, caratterizzata dallo sviluppo delle capacità di controllo emozionale e comportamentale, una ridotta intelligenza emotiva rappresenta un importante fattore di rischio per il disturbo da uso di sostanze (Bray et al., 1999). Di fronte a queste scarse capacità di gestione e valutazione delle emozioni l’adolescente potrebbe usare la sostanza come una sorta di strategia di coping per fronteggiare lo stress (Kauhanen et al., 1992). Craig (2008), in uno studio sulle capacità emotive di giovani tossicodipendenti, ha stimato che circa il 73% del suo campione (costituito da 161 giovani studenti universitari) mostra scarse capacità di intelligenza emotiva, indipendentemente dalla sostanza assunta.

A livello neurale, sia negli adolescenti sia negli adulti, una buona intelligenza emotiva correla negativamente con l’attività dei circuiti cerebrali coinvolti nella valutazione dei marker somatici, ossia la corteccia prefrontale ventro-mediale, l’amigdala e l’insula, mentre risulta sostenuta dall’attività neurale del cervelletto e della corteccia visiva associativa (Killgore et al., 2007).

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

 

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Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

La nuova ipotesi avanzata dai ricercatori californiani era che un sovradosaggio degli X-linked escapee genes potesse essere associato allo sviluppo di sintomi psichiatrici tanto nei soggetti con sindromi cromosomiche, quanto nella popolazione generale.

La diagnosi della maggior parte dei disturbi psichiatrici è prettamente di tipo clinico, basata cioè su criteri descrittivi osservazionali, sulla base dei quali il professionista individua sintomi specifici a carico del comportamento, della sfera emotiva o delle relazioni interpersonali del paziente. Come ogni diagnosi clinica, anche quella dei disturbi psichiatrici è caratterizzata pertanto da un certo grado di soggettività. Dall’E-BioMedicine Journal si apprende ora che dei ricercatori del Dipartimento di Psichiatria di San Diego, dell’Università della California, hanno identificato dei marcatori biologici per la diagnosi dei disturbi maggiori dell’umore.

Gli autori, coordinati dal dr. Xianjin Zhou, sono partiti dalla considerazione che in alcune rare sindromi genetiche la presenza di cromosomi X soprannumerari sembri contribuire alla patogenesi di sintomi psichiatrici attraverso una sovrapproduzione dei cosiddetti ‘X-linked escapee genes’, particolari geni che ‘sfuggono’ al processo di inattivazione del cromosoma X. Tale processo biologico, regolato, tra gli altri, dal gene XIST (X-inactive specific transcript), interessa tutte le femmine di mammifero e consiste nella disattivazione di uno dei due cromosomi sessuali X.

Tale cromosoma viene “silenziato”, ovvero reso inerte dal punto di vista trascrizionale, con una conseguente riduzione dell’espressione, in tutte le cellule somatiche, dei suoi geni e dei relativi fenotipi. Il 10-15% dei geni tuttavia, gli X-linked escapee genes appunto, sfugge all’inattivazione. È stato quindi suggerito in letteratura che un sovradosaggio degli X-linked escapee genes, dovuto alla presenza di un cromosoma X in più, possa contribuire allo sviluppo dei sintomi psichiatrici presenti nella sindrome di Klinefelter (XXY) e nella sindrome della Tripla X (XXX).

La nuova ipotesi avanzata dai ricercatori californiani era che un sovradosaggio degli X-linked escapee genes potesse essere associato allo sviluppo di sintomi psichiatrici tanto nei soggetti con sindromi cromosomiche, quanto nella popolazione generale. Hanno così studiato l’espressione dello XIST e di diversi X-linked escapee genes, tra cui il gene KDM5C, in 60 linee di cellule di donne con disturbo bipolare o depressione maggiore ricorrente e in 36 linee di cellule di donne sane.

Dai risultati è emersa una sovrapproduzione, nelle pazienti, sia dello XIST che del KDM5C. [blockquote style=”1″]Una sovra-espressione dello XIST hanno suggerito gli autori potrebbe determinare un’alterazione del processo di inattivazione del cromosoma X, con una conseguente maggiore espressione di alcuni X-linked escapee genes, incluso il KDM5C. L’espressione dei geni XIST e KDM5Cpuò essere usata come marcatore biologico per la diagnosi dei disturbi maggiori dell’umore in un largo sottogruppo di pazienti della popolazione generale femminile, fino al 60% dei casi in base al campione preso in esame.[/blockquote] affermano gli autori.

Il fatto che quasi la metà delle pazienti esaminate non presenti queste alterazioni, tuttavia, sottolinea la presenza di una grande eterogeneità nell’eziologia genetica dei disturbi maggiori dell’umore. In ogni caso, considerando che per valutare l’espressione dei geni XIST e KDM5C è sufficiente sottoporsi ad un semplice esame del sangue, i risultati di Zhou e del suo team possono dare un grande contributo nel favorire la precocità della diagnosi.

Ma non solo: invertire l’attività anomala del cromosoma X inattivo potrebbe rappresentare una potenziale nuova strategia per il trattamento dei disturbi maggiori dell’umore, allargando così il ventaglio delle possibilità terapeutiche.

 

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BIBLIOGRAFIA:

L’onore e l’utile: Europa del burro ed Europa dell’olio

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Giovedì 09 Luglio 2015

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi importa sottolineare che la struttura culturale dell’onore è altamente sociale ed emozionale ed è anti-utilitaristica e anti-pragmatica. Non vi è alcun obiettivo utile ed economico immediato nel difendere l’onore. Non si tratta di produrre alcun bene e nemmeno di mantenere il controllo su alcuna fonte di reddito, se non indirettamente.

Ormai è certo: greci e tedeschi, nordeuropei e mediterranei, parlano linguaggi differenti. È possibile descrivere questa differenza nei termini della scienza, evitando i toni intuitivi e generici? Non so quanta letteratura sociologica e antropologica esista sulla differenza culturale tra Europa settentrionale e meridionale, tra Europa del burro ed Europa dell’olio, tra civiltà dell’utile e civiltà dell’onore. Probabilmente molta. Vorremmo saperne di più, in questi giorni in cui greci e tedeschi si azzuffano. La psicologia cross-culturale è un argomento delicato e non politicamente correttissimo come tutte le volte in cui si fanno paragoni tra culture, paragoni che somigliano pericolosamente ai paragoni tra etnie.

Una volta questi paragoni erano più frequenti. Erano però epoche meno ossessionate –nel bene e nel male- dal timore di offendere le sensibilità altrui. Probabilmente la raffigurazione del paragone tra nord e sud più capace di entrare nell’immaginario comune è la teoria di Weber (1904-1991) sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Quando si parla di rigore nordico e lassismo meridionale si eseguono una serie di associazioni che credo abbiano il loro nodo nel libro di Weber. Il sentimento generale, sottile eppure robusto, di un maggiore senso civico e di un più diffuso spirito pubblico che apparterebbe alle zone settentrionali dell’Europa trae probabilmente origine da li.

Il libro di Weber su capitalismo e protestantesimo era un denso trattato di sociologia delle religioni, sebbene inaspettatamente leggibile. L’idea di quel libro era però semplice e finiva per dare una descrizione scientifica a un fenomeno che ormai era sotto gli occhi di tutti da più di un secolo: il successo economico e militare crescente delle nazioni anglo-sassoni e germaniche e il declino politico delle nazioni latine dal 1753 almeno, dopo la guerra dei sette anni e ancor di più dopo la sconfitta di Napoleone.

Il tempo di Weber, l’inizio del novecento, era un tempo molto più feroce di quello attuale, almeno nel campo delle idee. Prevaleva una forma di darwinismo scientifico non priva di tratti ripugnanti scopertamente razzistici. Il divario nord-sud era apertamente misurato tutto in termini di forza e potenza, economica e militare. Il senso civico non era l’argomento principale della controversia. Era una visione machista della storia, in cui l’ampiezza degli imperi coloniali o a potenza degli eserciti conservavano tutto il loro significato.

Malgrado la sensibilità di Weber fosse diversa dalla nostra, il suo paragone è sopravvissuto alla svergognata fine nazista delle idee razzistiche. Si è tradotto in un giudizio meno brutale: al nord c’è più senso civico e maggiore capacità di organizzazione, e questo assicura a quei popoli una maggiore prosperità, che viene accettata con qualche mugugno ma senza troppe proteste. In fondo tutti ritengono che tedeschi e scandinavi la loro ricchezza se la siano meritata, quasi fosse una versione contemporanea e leggera della vecchia credenza calvinista che la ricchezza sia segno della grazia divina. Più sottotraccia traluce ancora la deduzione che tutto questo civismo poi si traduca in maggiore potenza economica e politica. Dietro la maschera severa di Calvino s’intravede il ghigno toscano di Machiavelli, ma i nordici sono particolarmente bravi a nasconderlo.

Il gap di civismo e ordine tra nord e sud ha ricevuto un altro avallo scientifico abbastanza noto, sia pure minore rispetto a quello di Weber. Si tratta della teoria di Putnam sul familismo amorale che affliggerebbe le regioni meridionali, la tendenza a curare gli interessi della famiglia e del clan a danno degli interessi sociali. Soprattutto, la tendenza a curare gli interessi dei legami affettivi, familiari e di sangue a scapito di quelli impersonali e funzionali della società. Considerazione non incoraggiante: tutto questo non favorisce il buon funzionamento della democrazia (Putnam, 1993).

Questa versione, rispetto a quella di Weber, offre il vantaggio di non destare troppi sospetti di razzismo. Fu scritta da Putnam in uno spirito genuinamente ottimistico e volenteroso, com’era giusto dopo i deliri del nazismo: una conoscenza in grado di concorrere a curare i mali del sud, non a condannarlo in un destino d’inferiorità razziale. Certo, il giudizio d’inferiorità morale sulle civiltà mediterranee traspariva inevitabilmente, ma non vi era più alcun compiacimento darwinistico e nessuna parentela con le sparate di Nietzsche sugli inferiori e sui malriusciti da gettare ai fossi, e senza tanti complimenti, fuori dal cerchio della vita.

Tutte le teorie sociali sono discutibili, compresa quella di Weber e di Putnam. È stato fatto notare che la teoria di Weber vale solo per il protestantesimo calvinista e non per quello luterano. O che esiste una forma di capitalismo rinascimentale cattolico che ha la sua base nella scuola francescana di Salamanca. E così via. Tutto verissimo, ma la differenza continua a sentirsi quando viaggi verso il nord.

Che dire, però del polo mediterraneo? Finora lo abbiamo descritto solo in negativo, come ciò che non obbedisce alle regole del civismo e del rigore. E cosa sono, invece, le culture mediterranee? Qual è la loro peculiarità? Uno dei più importanti studi di antropologia del Mediterraneo è stata l’opera collettiva Honour and shame: the values of Mediterranean societies (Onore e vergogna: i valori delle società mediterranee) curata da Peristiany (1966).

Peristiany argomentò che il costrutto onore-vergogna è la caratteristica antropologica più distintiva delle culture mediterranee. Onore è una nozione legata al ruolo sociale e familiare dei maschi, ed è una sorta di proclama degli uomini del loro essere giusti e orgogliosi. I fattori che sottolineano l’onore dell’uomo esprimono il suo rango sociale -come le origini familiari e la ricchezza- le sue qualità morali -come la generosità- e la sua capacità di controllare la propria reputazione, ovvero il grado di rispetto e di sottomissione degli altri membri del clan, della tribù o della famiglia.

Per capire perché tra greci e tedeschi ci sia un dialogo tra sordi importa sottolineare che la struttura culturale dell’onore è altamente sociale ed emozionale ed è anti-utilitaristica e anti-pragmatica. Non vi è alcun obiettivo utile ed economico immediato nel difendere l’onore. Non si tratta di produrre alcun bene e nemmeno di mantenere il controllo su alcuna fonte di reddito, se non indirettamente. L’obiettivo è solo il controllo della reputazione e del rispetto, di quello che gli altri pensano e del loro modo di comportarsi, che deve appunto essere rispettoso. Se gli altri pensano bene e si comportano rispettosamente, ovvero manifestando deferenza e sottomissione, allora l’obiettivo è raggiunto. Per ottenere questo obiettivo si possono sperperare beni e ricchezze. Il rango nobiliare non è direttamente legato al potere economico: si può essere nobili ed economicamente indeboliti, oppure essere economicamente in ascesa eppure esclusi dal rango onorevole dei patrizi. Quel che importa sono i segni esteriori di deferenza, rispetto, sottomissione.

È chiaro che con l’onore siamo agli antipodi del pragmatismo utilitarista delle fredde società nordiche. L’uomo d’onore meridionale lotta per ottenere il rispetto e disprezza la ricchezza, l’uomo pragmatico del nord lavora per produrre, lotta per ottenere il controllo dei beni, delle ricchezze, e l’unica buona reputazione a cui tiene è quella dell’affidabilità finanziaria, della solvibilità. Un po’ come i Lannister del Trono di Spade, che pagano sempre i debiti. Per questo greci e tedeschi non si intendono in questi giorni. I primi lottano per l’onore, i secondi per la solvibilità.

Per l’uomo d’onore del sud il razionalismo pragmatico dei nordici è incomprensibile. Il razionalismo pragmatico è sempre strumentale, ovvero ritiene che ogni tradizione, ogni abitudine, ogni costume, ogni convinzione o idea vadano sottoposte al vaglio critico della loro utilità, alla domanda che vuole sapere: ma a che serve questo? Quale scopo si prefigge? E quanto efficientemente serve allo scopo? Tradizioni, onori e idee sono ridotte alla loro efficienza. Questa è la visione utilitaristica ed economicistica della vita, che risulta incomprensibile ai greci.

Sfogliamo i primi capitoli di L’azione umana del filosofo economista Ludwig von Mises (1966). Attraverso la lente scientifica della metodologia utilitaristica ogni comportamento umano finisce con l’essere bollato con l’etichetta di comportamento acquisitivo. Ogni altra motivazione è rigettata come favola per educande. Per von Mises, in realtà anche il nobile distacco o la rinuncia ascetica si possono e si devono spiegare solo in termini di scopi e di mezzi. Scopi non grettamente materialistici, è vero, ma comunque scopi: desiderio di gloria, soccorso dei deboli, distacco dal mondo. Tutti questi scopi sono in realtà beni da acquisire, e non vi è gerarchia morale tra loro.

Nella visione economicistica e pragmatica del nord l’onore stesso, a cui tanto tengono i mediterranei, diventa un bene da acquisire e conquistare. È il disincanto del mondo, o delle azioni umane, la critica di ogni nobile o ameno inganno, e la riduzione dell’uomo ad animale conquistatore. Notevole è la conseguenza finale, rigorosamente logica: la coincidenza integrale del razionale con l’economico. Von Mises sottolinea con forza questo punto: l’economico non è un sottoinsieme logico del razionale, ma è il razionale stesso. La razionalità non è altro che calcolo economico, scelta dei mezzi in base ai fini.

Colpisce come i principi della visione economicista del mondo corrispondano con quelli della psicologia scientifica. È un’ulteriore dimostrazione che nella concezione moderna l’utilitarismo non è solo una visione del mondo, ma è concepito come la forma strutturante della mente. Infatti la moderna psicologia cognitiva sostiene un’idea semplice. Sostiene che la mente è un elaboratore d’informazioni. È una concezione dell’attività mentale che è estremamente simile a quella economicista di von Mises: il pensiero non è altro che la scelta delle azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi dell’individuo. L’attività umana è sempre finalizzata a uno scopo ed è quindi utilitaristica.

E in nome di questo utilitarismo vengono condannati i comportamenti umani non finalizzati a uno scopo pratico. A cominciare dai valori del passato: l’amore, raccomandato dalla morale cristiana, e l’onore, sostenuto dalla morale classica greco-romana. Attenzione, l’etica utilitarista non esclude i bisogni umani di amore e di onore (che oggi chiameremmo approvazione). Tuttavia, li pone in posizione strumentale: essi sono utili se ci danno benessere, ma non sono beni in sé. Il che può sembrare non particolarmente nuovo, ma lo diventa se siamo pronti a svalutare criticamente questi beni laddove essi non ci siano utili. È l’atteggiamento critico la vera novità, non tanto il porre al centro il benessere. Già i greci antichi avevano il valore dell’eudamonia, dello stare bene (letteralmente: del buon genio, che non è esattamente il benessere). Tuttavia per i greci esisteva una via maestra che solo attraverso la virtù arrivava all’eudamonia. Non vi era quindi una concezione strumentale della virtù, ma un legame intimo. E quindi non era possibile una critica utilitarista della virtù stessa.

È invece l’essere pronti a svestirsi dei vecchi indumenti che ne svela il carattere di semplici strumenti. Spicca una ruvida concezione solitaria dell’individuo. La comunità non è più luogo di relazioni sociali di approvazione o disapprovazione, e quindi luogo dell’onore e della reputazione, ma sede di relazioni utilitarie con gli altri, associazioni costituite per perseguire scopi pratici, al modo nordico. Lo stesso civismo nordico, reale e invidiabile, è concepito come uno strumento asservito al benessere e non come valore in sé. Difficile capirsi in Europa, non solo tra greci e tedeschi.

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BIBLIOGRAFIA:

Lo spettro bipolare: diagnosi o moda? (2015) – Recensione

 

Lo spettro bipolare: diagnosi o moda? E’ questa la domanda che fa da filo conduttore al libro di Joel Paris, tradotto in Italia recentemente.

Cosa possiamo definire diagnosi e cosa una moda? Dove si pone il confine tra una diagnosi corretta e una moda diagnostica? L’autore apre una riflessione sull’eccessiva frequenza della diagnosi di disturbo bipolare e sulle conseguenze negative in termini di trattamento clinico.

Diverse sono le motivazioni analizzate dall’autore; un sistema diagnostico ancora basato quasi esclusivamente sulla fenomenologia (sintomi riferiti dai pazienti e segnali interpretati dai clinici), categorie nosografiche poco chiare considerate varianti del disturbo bipolare, l’irritabilità indicata come sintomo alternativo alla presenza di un umore anormalmente elevato, la teorizzazione di uno “spettro bipolare” che contempla forme sfumate del disturbo e l’adozione di strumenti di screening sensibili a caratteristiche non specifiche per il disturbo bipolare (alcuni di facile reperibilità tanto da essere divenuti strumenti clinici popolari).

Come retroscena non possiamo tralasciare l’inizio dell’era del litio e l’inevitabile ruolo dell’industria farmaceutica. Ricordiamo inoltre la fisiologica tendenza della psichiatria ad essere oggetto di mode, l’odierna accessibilità delle diagnosi e l’ampia disponibilità di canali di fascinazione e seduzione per la loro diffusione (pensiamo solo alla potenza di internet, alla consuetudine di attribuire disturbi psichiatrici a personaggi storici o famosi, al cinema).

Questo contesto ha dato forma a quello che Paris denomina “imperialismo bipolare”; diagnosi di disturbo bipolare costruite sulla base dell’osservazione di sintomi bipolari “minori” (sbalzi d’umore, irritabilità, impulsività), che arrivano ad includere sotto un unico ampio spettro altri disturbi o semplicemente caratteristiche presenti nella popolazione generale.

Riferendoci all’ambito della patologia, disturbi di personalità, depressione, schizofrenia, disturbi impulsivi e disturbi comportamentali infantili sono spesso unificati dal concetto di spettro bipolare e accomunati da uno stesso destino di trattamento, una risposta farmacologica composta da stabilizzatori e antipsicotici atipici, che spesso ha come beneficio un aspecifico effetto sedativo.
Il vocabolario utilizzato per riferirci a questa patologia riflette e insieme contribuisce al panorama descritto.

Dal concetto di malattia maniaco-depressiva introdotto da Kraepelin, terminologia che indicava chiaramente la necessaria presenza degli episodi maniacali e rappresentativa di un quadro nosografico grave, si è passati al concetto di bipolarità, etichetta di per sé più neutrale, fino a parlare di spettro bipolare, sufficientemente ampio da includere gran parte del campo d’interesse della psichiatria; molti dei disturbi mentali sono infatti caratterizzati da anomalie o instabilità affettive.

Il disturbo bipolare è oggi divenuto un’entità nosografica confusa, dai confini in continua evoluzione e ampliamento.
Così una persona che soffre per una depressione che non risponde ai farmaci o con tendenza a divenire irritabile o caratterizzata nel suo decorso da labilità dell’umore, un bambino con difficoltà nella regolazione delle emozioni, una persona con problemi di gioco d’azzardo patologico o dipendenza da sostanze, un paziente che ci racconta una sofferenza vissuta e alimentata all’interno delle relazioni, possono tutti in teoria ricevere un’unica diagnosi e un unico trattamento.

Doveroso a questo punto, secondo l’autore, farsi delle domande. L’instabilità affettiva osservata in molti pazienti rientra nello spettro bipolare?
Per i sostenitori dello spettro bipolare l’instabilità affettiva sarebbe una forma di bipolarità; una variante ciclica estremamente rapida, con finestre temporali su base giornaliera, o persino oraria, piuttosto che settimanali. Questa sovrapposizione si basa su somiglianze superficiali e non tiene conto di importanti aspetti che rendono l’instabilità affettiva un fenomeno psicologico più complesso, particolare e differenziato. Le evidenze in letteratura riportate dall’autore sottolineano una fenomenologia caratteristica, uno status di ereditarietà particolare, una risposta differente ai trattamenti e un esito differente rispetto al disturbo bipolare.

Solo soffermandoci sulle modalità di manifestazione dell’instabilità affettiva sono già evidenti differenze sostanziali. Gli stati d’animo disforici durano spesso poche ore e, anche se possono richiedere un po’ di tempo prima di ridimensionarsi, sono qualitativamente differenti rispetto alla stabilità interna agli episodi dei disturbi classici dell’umore (pensiamo a quanto è difficile scorgere variazioni in una persona depressa, pur di fronte ad una buona notizia, o ridimensionare l’umore durante una fase di mania o ipomania).

La percezione soggettiva dei pazienti con rapide e instabili variazioni dell’umore ha sfumature talvolta molto diverse e il contesto interpersonale ha un peso importante nel generare in queste persone stati di disregolazione emotiva, a fronte di variazioni d’umore spesso indipendenti dalle relazioni interpersonali nel caso del disturbo bipolare.

La sofferenza causata da un’affettività intensa e mutevole è spesso caratteristica dei disturbi di personalità ma ricercatori e clinici si sono spinti fino ad affermare che alcune categorie diagnostiche non hanno più ragione di esistere. Uno degli esempi è rappresentato dal disturbo borderline di personalità, che ha come tratto caratteristico proprio l’instabilità dell’umore.
Nuovamente, tuttavia, stupisce come non si prendano in considerazione evidenti indicatori che segnalano, oltre che caratteristiche cliniche diverse, percorsi differenti di costruzione delle sofferenza: una vulnerabilità ereditaria differente da quella del disturbo bipolare, fattori di rischio specifici, un decorso differente da quello tipico dei disturbi dell’umore (una prognosi migliore è conosciuta per il disturbo borderline di personalità ), prove insufficienti per raccomandare qualsiasi agente farmacologico nei casi di disturbo borderline, che risponde, d’altra parte, ai metodi terapeutici squisitamente sviluppati per trattare i disturbi di personalità.

Come afferma Paris, il riconoscimento dell’instabilità affettiva come processo separato e differente dalla bipolarità implica considerare gli affetti e le emozioni non come un “driver” primario in grado di produrre disturbi psicologici ma come aspetto di un sistema complesso e interattivo. Considerando questa variazione nell’impostazione teorica, è facilmente comprensibile l’inefficacia di risposte preconfezionate e valide su larga scala.

Concludendo, solo tollerando un certo grado d’incertezza si può resistere alla tentazione di agire soluzioni semplici a questioni più complesse.
Come sottolinea l’autore, è necessario trovare modi migliori per identificare i pazienti che hanno forme subcliniche di disturbo bipolare e trattarli di conseguenza. Il “grano di verità” insito nel concetto di spettro bipolare emerge da questa attenta analisi della letteratura sui disturbi chiamati in causa; alcuni pazienti con depressioni gravi hanno il disturbo bipolare e devono essere trattati come tali. Ma questo gruppo è costituito, probabilmente, da una piccola minoranza di casi osservati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Paris, J. (2015). Lo spettro bipolare: diagnosi o moda? Raffaello Cortina Editore, Milano.

Si può imparare ad essere più empatici? Tre consigli per capire meglio gli altri

L’empatia è la capacità di comprendere gli stati emotivi e mentali altrui e di rispondervi con comportamenti adeguati: non significa solo mettersi nei panni dell’altro, dunque, ma anche andare verso l’altro e portarlo nel proprio mondo.

L’empatia rappresenta così un processo: l’essere con l’altro. Non basta l’osservazione esterna per essere empatici, bisogna sentire l’altro interiormente: bisogna sentire la sua storia, ciò che pensa, ciò che prova e guardare il mondo con i suoi occhi, tralasciando i propri giudizi personali.

L’empatia è una aspetto intergrante nella vita di molte persone: secondo le ultime ricerche delle neuroscienze, il 98% delle persone (ad eccezione degli individui con tendenze psicopatiche) è dotato della capacità di entrare in empatia con l’altro, capirne i sentimenti e assumere le sue prospettive. L’empatia è dunque pietra miliare in una sana relazione interpersonale.

Tuttavia ci capita a volte, nella vita di tutti i giorni, di non voler o poter mettere in atto atteggiamenti empatici: siamo troppo in ritardo per aiutare un signor anziano ad attraversare la strada o cambiamo canale alla prima notizia di una strage in qualche paese da noi lontano. Ma anche nei battibecchi quotidiani col nostro partner l’empatia può essere l’ultima cosa che guida il nostro comportamento.

Arrivano però buone notizie: esistono dei semplici metodi per imparare ad essere più empatici. Prima però sarebbe più utile valutare qual è il livello delle nostre capacità empatiche: a tal proposito potremmo svolgere l’interessante test ideato dal neuropsicologo Simon Baron-Cohen, chiamato Leggere la mente negli occhi. Nel test vengono mostrati 36 sguardi e i soggetti devono indicare quale parola, tra le quattro suggerite, descrive meglio ciò che gli occhi esprimono. Il punteggio medio di circa 26 suggerisce una capacità sorprendentemente elevata – anche se ben lungi dall’essere perfetta – nel leggere le emozioni altrui.

Dopo aver effettuato il test, se non siete soddisfatti del risultato, potreste migliorare le vostre capacità empatiche attraverso tre semplici mosse: siate soliti all’ascolto radicale, cercate l’uomo dietro ogni cosa e siate curiosi verso gli estranei. Sarà merito della mia empatia, ma immagino che adesso avrete voglia di saperne di più, per questo vi rimando all’articolo consigliato. Buona lettura!

Open Harper Lee’s classic novel To Kill A Mockingbird and one line will jump out at you: ‘You never really understand another person until you consider things from his point of view – until you climb inside of his skin and walk around in it.’ Human beings are naturally primed to embrace this message.

Si può imparare ad essere più empatici? Tre consigli per capire meglio gli altriConsigliato dalla Redazione

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Nonostante l’empatia faccia parte dell’essere umano, ci capita a volte di non voler o poter mettere in atto atteggiamenti empatici. Esistono però dei semplici metodi per imparare ad essere più empatici. (…)

Tratto da: BBC News

 

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Diventare genitori: le emozioni nei neopadri

Laura Bernardi – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Modena

Solo recentemente la società ha cominciato a sostenere che la genitorialità è un’impresa condivisa sia dalle madri che dai padri. Uno dei segnali più rilevanti del cambiamento che ha investito la coppia e il rapporto padre‐figlio è la maggior partecipazione del padre dalla gestazione alla nascita del figlio.

Fino ad oggi la quasi totalità delle ricerche e dei libri sul tema della genitorialità si sono concentrati sulla figura della madre e sul suo ruolo nel rapporto con il bambino appena nato.

La paternità è rimasta sullo sfondo, come un dato per scontato: se quello materno è stato per secoli definito un istinto, quello paterno si è configurato come un ruolo prevalentemente economico‐disciplinare, cui ben si ottempera se si provvede adeguatamente alle necessità familiari delegando le attività domestiche e di cura alla madre (Dell’Agnese & Ruspini, 2007).

I padri hanno quindi la tendenza a interpretare le nuove responsabilità a livello esteriore, a concentrarsi per fornire alla famiglia tutto il necessario, a considerare i loro doveri dal punto di visto economico (Cabrera et al., 2000). Questa preoccupazione materiale è dovuta anche al fatto che per molto tempo non si è parlato dell’emotività del padre, argomento per secoli evitato perché in opposizione a una tacita regola secondo la quale l’uomo deve essere forte e maschio (Pellai, 2007). La cultura prevalente nella maggior parte delle società ha infatti da sempre alimentato lo stereotipo secondo il quale la mascolinità mal si concilierebbe con l’espressione dei sentimenti essendo quasi sempre le donne delegate a ciò e indicando come disdicevole per l’uomo fare riferimento al proprio mondo privato, personale (Connell, 1996; Bellassai, 2004).

Per molto tempo quindi la preoccupazione primaria per il padre dopo il parto è stata quella di provvedere alla famiglia economicamente: concentrarsi sul lavoro forniva al padre anche un ruolo chiaro, un obiettivo sicuro che serviva a ridurre la confusione e l’incertezza che caratterizzano il primo periodo dopo la nascita di un figlio (Cabrera et al., 2000; Greenberg, 2006).

L’ invisibilità del padre dovuta alla lontananza dai figli per motivi di lavoro va di pari passo con la piena assunzione del ruolo educativo della donna mettendo in crisi la funzione del padre in questo ambito (Zanfroni, 2005). Solo recentemente la società ha cominciato a sostenere che la genitorialità è un’impresa condivisa sia dalle madri che dai padri (Cabrera et al., 2000). Uno dei segnali più rilevanti del cambiamento che ha investito la coppia e il rapporto padre‐figlio è la maggior partecipazione del padre dalla gestazione alla nascita del figlio, testimoniata ulteriormente dalla sua presenza in sala parto. Oggi infatti è consuetudine che i futuri papà partecipino ad alcuni incontri dei corsi preparto, siano presenti al momento della nascita dei figli, cambino i pannolini, leggano le favole, stiano svegli la notte per cullare i neonati e indossino i marsupi. Sembra che l’espressione dell’affettività e il coinvolgimento in talune attività di cura nei confronti dei figli non vengano più percepiti come inadatti , quando non minacciosi, al ruolo paterno‐maschile (Volta et al., 2006).

Sono poche, infatti, le ricerche psicologiche che prendono in considerazione anche il padre durante il periodo perinatale e quando viene fatto è solo in maniera marginale o indiretta; ciò probabilmente è dovuto sia alle maggiori difficoltà che si riscontrano nel coinvolgere i padri (Turan, Nalbant, Bulut & Sahip, 2001) sia al fatto che gli uomini raramente si sono soffermati a riflettere sugli aspetti emozionali della paternità, avendo la tendenza ad esprimersi più in termini di fatti concreti che in termini di vissuti (Pellai, 2007).

E’ stato appurato che le difficoltà nel rapporto di coppia, la mancanza di supporto sociale e in particolare del proprio compagno, l’assenza di una persona con cui confidarsi sono considerati fattori rilevanti per problematiche nella salute mentale nella donna e per l’insorgenza della depressione postpartum (Romito et al, 1999; Nielsen Forman et al., 2000; Watt et al. 2002; Stewart et al., 2003); la depressione post-partum è un disturbo dell’umore che colpisce il 10-20% delle donne nel periodo immediatamente successivo al parto caratterizzato da crisi di pianto, cambiamenti di umore, irritabilità generale, perdita dell’appetito, insonnia o all’opposto difficoltà a rimanere svegli, assenza di interesse nelle attività quotidiane e/o verso il neonato (Gaynes, Gavin, Meltzer-Brody et al., 2005). Si può quindi ipotizzare che coinvolgere maggiormente il padre negli interventi possa produrre risultati migliori nella prevenzione di malesseri che possono insorgere nella donna e nella coppia dopo la nascita di un bambino. Altre ricerche, inoltre, dimostrano che l’interazione dei padri con i loro figli neonati può esercitare una positiva influenza nello sviluppo del bambino (Cabrera et al., 2000; Coleman et al., 2004).

Per molti uomini diventare padre è una conquista a lungo sognata, un obiettivo della vita che si realizza. Per altri, invece, è un evento a lungo rimandato, spesso evitato, non sempre cercato e voluto, anche quando si concretizza nella realtà, nonostante i diversi vissuti tutti gli uomini vivono inevitabilmente esperienze emotive profonde in prossimità dell’evento nascita del proprio figlio, ma ciò che colpisce è che pochi uomini riescono davvero a raccontare e parlare di tutto questo con qualcuno. L’esperienza emotiva dei nuovi padri rimane ancora un mistero inesplorato, un evento interiore di cui si sa pochissimo (Pellai, 2007).

Per capire meglio i sentimenti e le emozioni dei neo-papà, nel 2006 presso il punto nascita di Montecchio Emilia (AUSL Reggio Emilia), sono stati coinvolti in Metodo 118 padri alla loro prima esperienza, consecutivamente afferiti all’Ospedale di Montecchio Emilia, sono stati valutati utilizzando un questionario costruito ad hoc con scala di Likert, somministrato prima e dopo il parto. L’obiettivo fu quello di indagare come i padri vivono l’attesa del figlio e quali sentimenti ed emozioni sviluppano dopo la nascita, di valutare inoltre se la modalità del parto (spontaneo o da taglio cesareo) influisce sul loro vissuto e se la partecipazione a un corso di accompagnamento alla nascita rappresenta un elemento di facilitazione nella relazione padre-figlio. Dalle risposte ai questionari somministrati prima del parto sono emersi la consapevolezza del proprio ruolo di padre, la conoscenza delle competenze del neonato, la voglia di prendersi cura del figlio senza delegare altri, il desiderio di protagonismo al fianco della madre.

Il questionario somministrato dopo il parto rileva emozioni forti, desiderio di contatto fisico col neonato, sentimenti di protezione, felicità e tenerezza alla vista della prima poppata. Non sono emerse differenze significative tra i padri che hanno partecipato ai corsi di accompagnamento alla nascita e quelli che non vi hanno partecipato; anche la modalità del parto (spontaneo o operativo) non sembra incidere sul vissuto dei padri. La maggior parte di questi neo papà sono risultati ben consapevoli dell’importanza del loro supporto nei confronti sia della mamma che del bambino; in molti hanno esplicitato il desiderio di un contatto fisico con il figlio, verso il quale hanno espresso sentimenti di protezione e di tenerezza; i sentimenti manifestati alla vista del bambino sono risultati profondi e assai poco virili, e molti papà hanno dichiarato la volontà di prendersi cura del figlio senza delegare ad altri questo compito. E’ probabile che questi padri sopravvalutino le loro competenze e intenzioni, e che alla prova dei fatti si mostrino invece poco attivi e insicuri; dobbiamo però riconoscere che le loro percezioni sono risultate ricche e profonde.

Presso L’ASL di Varese la ricerca di Pellai e coll. del 2009 riporta che presenti e coinvolti, i nuovi padri sono ancora in difficoltà nel riconoscere, validare e condividere con altri uomini e con la propria compagna i propri stati interni associati alla propria imminente esperienza genitoriale. È fondamentale, dicono i ricercatori, aiutare gli uomini a conquistare una nuova consapevolezza emotiva, riconoscendo e dando parole alle molte emozioni che si affollano nel loro mondo intrapsichico quando si avvicinano allo status di padri.

La letteratura internazionale si è concentrata sui padri ed il loro vissuto. In uno studio del 1991, Angela D. Henderson e A. Jenise Brouse hanno condotto una ricerca che ha dimostrato come la transizione alla genitorialità sia un evento stressante, riconoscendo attraverso la letteratura che il ruolo del padre nella società nordamericana stava cambiando. Lo scopo di questo studio qualitativo era chiarire la comprensione dell’esperienza dei nuovi padri durante le prime 3 settimane dopo il parto: sono stati intervistati nelle loro case 22 padri; i risultati suggerirono che i nuovi padri passano attraverso un prevedibile processo in tre fasi durante la transizione verso la paternità.

Altri studi di Richard J. Fletcher, Stephen Matthey and Christopher G Marley (2006) hanno evidenziato come i padri possono essere involontariamente emarginati nella fase perinatale dai Servizi e della compagne. Hanno constatato che si assiste ad un crescente riconoscimento del fatto che depressione ed ansia paterne nel periodo perinatale possono avere gravi conseguenze per la nuova famiglia e sottolineato come i Servizi sanitari potrebbero meglio supportare i nuovi padri fornendo loro informazioni sulla genitorialità dalla prospettiva paterna o permettendo loro di seguire incontri specifici come parte integrante di programmi di assistenza prenatale di routine.

Chi si occupa di genitorialità sa bene che intercettare i genitori durante la gravidanza è il periodo migliore per coglierne la collaborazione propositiva all’ascolto di tematiche teoriche e pratiche che vadano a sensibilizzarne il vissuto psicologico. Genitori e partner di coppia più consapevoli delle dinamiche della neonata famiglia e del primissimo sviluppo del bambino avranno maggiori opportunità per generare circoli virtuosi di emotività equilibrata nei loro piccoli e inevitabilmente nel proprio contesto famigliare nucleare e allargato.

Attualmente non sembra essere il tempo della prevenzione sia essa psicologica, educativa o sociale bensì degli interventi, delle emergenze e forse della frustrazione di percepire raramente il successo delle azioni rivolte alla risoluzione del problema.

Lavorare con i genitori nel percorso dell’accompagnamento alla nascita potrebbe determinare davvero uno spazio privilegiato per la maturazione di percorsi di sviluppo e competenza, anche nei genitori che tanto ne abbisognano e che tanto sentono di doversi nascondere, che tanto faticano a chiedere aiuto.

Lavorare con i papà sarebbe poi un’esperienza duplice in termini di risvolti positivi: andrebbe infatti ad influenzare sensibilmente la salute psicologica e medica della mamma alle prese con cambiamenti impegnativi legati al corpo e alla mente non sempre accolti di buongrado (Pomicino L., 2006). Il rapporto di coppia sarebbe inoltre maggiormente sostenuto da un papà partner non per forza più presente –come lo stereotipo vorrebbe farci credere- ma bensì più consapevole emotivamente. Vi sono esperienza italiane presso il Consultorio di Somma Lombardo dove è previsto un modello di intervento preventivo rivolto agli uomini e definito Il cerchio dei papà. Tale progetto è stato pensato per sostenere la funzione paterna nel periodo della gravidanza e del primo semestre di vita del neonato ed è finalizzato a favorire il coinvolgimento emotivo-affettivo del padre nell’accudimento del proprio figlio, migliorando la triangolazione madre-padre-bambino e facilitando lo sviluppo di un attaccamento sicuro nel neonato (Pellai,20058). Sostiene Alberto Pellai, conduttore degli incontri coi neopadri:

Il cerchio dei papà è un primo esperimento di questo tipo e, considerato la risposta e la partecipazione che ha ottenuto da parte dei papà coinvolti, potrebbe divenire un esempio di buona pratica alla quale ispirarsi per replicare la medesima esperienza in altre realtà e contesti affinché si crei una cultura dell’evento nascita in cui mamma e papà insieme possano partecipare ai corsi di preparazione alla nascita.

Ecco un altro buon auspicio: la prevenzione psicologica con parent training (corsi per genitori). Si potrebbe intercettare la coppia in attesa già durante le visite ostetrico-ginecologiche, dove sarebbe possibile proporre la partecipazione a momenti dedicati all’approfondimento sì del travaglio/parto come già viene fatto dal personale ostetrico, ma anche di tutte quelle dinamiche psicologiche connesse al periodo dell’attesa, per poi continuare ad incontrarsi anche dopo la nascita. E’ infatti con il lieto evento che terminano i cosiddetti corsi pre parto, oggi -con un ampliamento di visuale anche terminologica e di significato -accompagnamento alla nascita, il punto di vista della prevenzione però sarebbe proprio quello di non salutarsi con la nascita ma di continuare con i genitori un percorso di conoscenza del ruolo genitoriale e dello sviluppo del bambino. Successivamente, con l’inserimento nei primi servizi educativi quali nidi e scuole d’infanzia, la prevenzione educativa potrebbe passare fisiologicamente al personale educativo competente. Questo sarebbe a mio avviso un modo per lavorare sia sulla coppia genitoriale che sul coinvolgimento dei padri ai quali si potrebbero dedicare momenti (come anche alla madri) non necessariamente di coppia , avvicinandosi all’esperienza del cerchio dei papà.

La riflessione sulle competenze di ruolo genitoriale e sulla conoscenza dello sviluppo psicologico del bambino sopraccitate è da proporsi anche ai pediatri che si trovano a convogliare nella propria onnisciente professione, la medicina certo, ma molta consulenza psicologica; per alcuni pediatri è il sapore della propria missione, per altri può essere fonte di burnout professionale.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Volta, A., Bussolati, N., Capuano, C., Ferraroni, E., Novelli, D., Pisani, F. (2006). Paternità: un’indagine sulle emozioni dei nuovi padri. Quaderni acp, 13:146-9. DOWNLOAD
  • Pellai, A., Dalessandro, D., Baggiani, P., et al. (2009) Nella mente dei padri: Uno studio per indagare le emozioni di un gruppo di padri partecipanti al Percorso Nascita di un Consultorio familiare. Quaderni acp, 16(3): 104-108 . DOWNLOAD
  • Fletcher, R.J., Matthey, S., Marley, C.G. (2006). Addressing depression and anxiety among new fathers. Article in The Medical Journal of Australia , november 2006.
  • Henderson, A. D. e Brouse, A.J.(1991).The experiences of new fathers during the first 3 weeks of life. Journal of Advanced Nursing.
  • Apollonio, M., Barbiero, C., Bascucci, S., Chert, T., Nanni, R., Paviotti, E.,Montico, M., Ciotti, F. e Tamburlini, G. (2005). Supporto precoce ai neogenitori. E’ necessario? Serve? Medico e Bambino, 9, 589‐598.
  • Badolato, G. (1993). Identità paterna e relazione di coppia. Trasformazione dei ruoli genitoriali. Milano : Giuffrè Editore.
  • Baldassarre, I. (2006). Cʹè anche il papà : qualche consiglio per essere padri sufficientemente buoni. Gardolo, Trento: Erickson.
  • Heinowitz, J. (2000). Il papà incinto. Diventare genitori insieme. Pavia: Riccardo Bonomi Editore.
  • Romito, P., e Saurel‐Cubizolles, M.J. (1997). I costi della maternità nella vita delle donne. Polis, 11, 67‐88.

SITOGRAFIA:

Una buona memoria di lavoro aiuta i bambini a mentire meglio!

Laura Pancrazi

FLASH NEWS

Per la prima volta, i ricercatori dell’Università della Florida e dell’Università di Sheffield, U. K., hanno dimostrato che una buona memoria di lavoro aiuta i bambini a mentire meglio.

La Dottoressa Tracy Alloway, docente di Psicologia presso l’Università della Florida, è l’autrice principale dello studio “Liar, liar, working memory on fire: Investigating the role of working memory in childhood verbal deception“, pubblicato sul Journal of Experimental Child Psychology.

La memoria di lavoro si definisce come l’abilità di processare le informazioni. Più sviluppata è tale capacità nei bambini, tanto meglio saranno in grado di mentire. [blockquote style=”1″]Questa ricerca dimostra che i processi di pensiero, nello specifico la memoria di lavoro verbale, hanno un ruolo importante nelle interazioni sociali complesse, come mentire, perché i bambini devono utilizzare molte informazioni per assumere la prospettiva degli altri e costruire una bugia credibile[/blockquote] afferma la Dottoressa Alloway.

Hanno partecipato all’esperimento 137 bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni. Innanzitutto, veniva testata la loro memoria di lavoro. Quindi, venivano interrogati su una serie di nozioni di base e quesiti di cultura generale, riportati su delle apposite carte; i bambini erano consapevoli del fatto che sul retro della carta erano scritte le risposte esatte, con colori differenti tra loro e ognuna accompagnata da un’immagine. Ad un certo punto, i ricercatori lasciavano la stanza, raccomandando ai bambini di non sbirciare le risposte scritte sul retro della carta. Una telecamera nascosta permetteva di vedere i bambini che “baravano”.

Ovviamente, i bambini che avevano sbirciato davano la risposta esatta. Tuttavia, quando erano poste loro domande a trabocchetto sul colore e l’immagine legate alla risposta esatta, coloro che avevano una migliore memoria verbale di lavoro rispondevano scorrettamente, proprio al fine di coprire il piccolo imbroglio che avevano messo in atto. Invece, i bambini che ai test avevano dimostrato di possedere una più scarsa memoria di lavoro, rispondevano correttamente alle domande a trabocchetto poste dai ricercatori, rivelando in questo modo che essi avevano di fatto sbirciato il retro della carta.

Questo esperimento dimostra l’esistenza di una relazione direttamente proporzionale tra memoria di lavoro verbale e capacità di costruire bugie credibili. Al contrario, la memoria visuo-spaziale di lavoro non si è dimostrata correlata a tale abilità. Questo probabilmente perché mentire richiede capacità verbali e non ha molto a che fare con l’abilità di processare informazioni legate ad immagini e numeri.

La dottoressa Alloway nota che a volte i genitori sono frustrati dalle bugie che i figli raccontano loro, anche quando vengono “colti con le mani nella marmellata” e si ostinano a negare l’evidenza; questi genitori, suggerisce, potrebbero anche tirare un sospiro di sollievo, pensando che, tanto più elaborate sono le bugie che i bambini raccontano loro, tanto più si possono considerare intelligenti.

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BIBLIOGRAFIA:

Pensare fuori dagli schemi o con schemi patologici? La correlazione tra creatività e disturbi psichiatrici

Le persone con la vena artistica potrebbero avere il 17% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di essere portatori delle varianti genetiche legate a schizofrenia e disturbo bipolare.

L’essere visto come una persona creativa presenta spesso due facce della stessa medaglia: a volte si attira incomprensione da parte degli altri, basti pensare a quando eravamo piccoli e i nostri maestri proprio non capivano perché quel bambino si ostinasse a disegnare unicorni colorati e cavalieri con spade infuocate mentre tutti gli altri rappresentavano casette e gattini; d’altra parte però avere estro creativo risulta anche una caratteristica positiva: il pensare fuori dagli schemi, il creare dal nulla opere ricche di bellezza e originalità è senza dubbio motivo di ammirazione da parte degli altri (e anche noi donne sappiamo bene il successo che riscuotono i poeti maledetti!).

Un recente studio, tuttavia, mette in luce una correlazione che potrebbe suscitare una certa preoccupazione nei più creativi: esaminando il materiale genetico da più di 86.000 individui in Islanda sono state individuate le varianti genetiche legate ad un rischio maggiore di schizofrenia e disturbo bipolare. I ricercatori hanno poi cercato queste varianti in un gruppo di oltre 1.000 soggetti, membri delle società nazionali di artisti, tra cui artisti visivi, scrittori, attori, ballerini e musicisti. Il risultato? Le persone con la vena artistica hanno il 17% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di essere portatori delle varianti genetiche legate alle condizioni di salute mentale di cui sopra.

L’autore dello studio Kari Stefansson spiega come i risultati dello studio non avrebbero dovuto destare sorpresa, perché per essere creativi, è necessario pensare in modo diverso dalla massa.

Alan Manevitz, psichiatra al Lenox Hill Hospital di New York, non coinvolto nello studio, ha commentato comunque tali risultati sostenendo che gli autori dovrebbero forse meglio definire di quale tipo di creatività si sta parlando: potrebbe esserci differenza tra le persone che si definiscono creative, e le persone che in realtà lavorano in professioni creative.

Manevitz offre tuttavia una possibile interpretazione dei risultati dello studio, per conoscerli (e per saperne di più sull’argomento) vi rimando però alla lettura dell’articolo consigliato…o sarete così creativi da provare a immaginare quali sono state le sue conclusioni?

Creativity May Be Genetically Linked with Psychiatric DisordersConsigliato dalla Redazione

Pensare fuori dagli schemi o con schemi patologici? La correlazione tra creatività e disturbi psichiatrici - Immagine: 20576492
People who carry the genetic components of creativity and may also have genetic links to some psychiatric disorders, according to a new study. (…)

Tratto da: LiveScience.com

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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16° CONFERENZA EUROPEA EMDR. Milano 10-12 Luglio 2015

ANTEPRIMA: 16° CONFERENZA EUROPEA EMDR. Milano 10-12 Luglio 2015

Domani inizierà ufficialmente la 16° Conferenza Europea EMDR a Milano, ma oggi tutti i Trainer e i Supervisori Europei hanno partecipato ad un preliminare incontro, per discutere e incrementare le loro conoscenze in merito al protocollo EMDR.

Nel pomeriggio di oggi, Jennifer Lendl (Senior EMDR Trainer) ha condiviso le sue riflessioni e linee guida finalizzate a migliorare il collegamento tra trasmissione di alti standard, nell’uso del protocollo, e background formativo dei supervisori.

Scoprire l’efficacia dei suggerimenti di una delle prime cliniche scelte da Francine Shapiro come trainer e poterli immediatamente sperimentare nei lavori di gruppo proposti ha determinato un forte interesse e un’alta aspettativa per le prossime giornate. L’abilità a incentivare il confronto e la riflessione tra professionisti junior e senior, nonché provenienti da ogni paese europeo ha anche incentivato lo scambio e le occasioni di divertimento nel rivedere il protocollo attraverso linguaggi diversi.

Il programma è davvero ricco sia di esperti internazionali sia di argomenti inerenti il trattamento della psicopatologia nella pratica clinica. Fino a domenica la full immersion sul trauma è garantita…con esito positivo!

Per informazioni www.emdr2015.it

 

LEGGI TUTTI I REPORTAGE DAI CONGRESSI EMDR

 

 

PREVIEW: 16th European Conference EMDR. Milan 10-12 July 2015
Tomorrow will officially begin the 16th European Conference EMDR in Milan, but today all the trainers and supervisors of Europe attended their preliminary meeting to discuss and increase knowledge about the EMDR protocol.

This afternoon, Jennifer Lendl (EMDR Senior Trainer) shared her reflections and guidelines improving the laison between transmitting EMDR high standards of practice and consultees training background. She is one of the first clinics chosen by Francine Shapiro as a trainer.

She suggested tips and we immediately experienced in teamwork. The ability to stimulate discussion and reflection among junior and senior professionals, as well as from every European country has also encouraged the exchange and opportunities for fun in reviewing the protocol through different languages.
The program is full of international experts, who will provide advice on specific therapeutic treatments in clinical practice. Until Sunday, we will see a full immersion in the sense of trauma and various ways to get out … successfully!

For information ww.emdr2015.it

Charlie Chaplin: riflessioni sulla comunicazione non verbale

Guardare una comica di Charlie Chaplin è vedere materializzarsi le parole di una poesia. La storia, gli attori, la pantomima, le espressioni facciali, la musica, il montaggio…nulla è lasciato al caso, di tutto si occupa lui.

Centouno anni fa appariva per la prima volta sullo schermo un omino con cappello, baffetti, bastone da passeggio e un paio di scarpe enormi e consumate. A vestire questi panni un giovane inglese Charles Spencer Chaplin arrivato negli Stati Uniti come attore di teatro e notato dal re delle comiche Mack Sennett che lo mette subito sotto contratto con la Keystone. Era il 1914, il cortometraggio in cui appare si intitola “Making a living”, “Guadagnarsi da vivere”, e segna l’esordio dell’attore. Il suo celebre personaggio ” The tramp”, “Il vagabondo” comparirà nella sua interezza poco più avanti, ma già in questa opera si intravvedono tutti i tratti caratteristici della maschera del vagabondo di quel personaggio, con cui viene identificato ancora oggi.

Da qui una serie di cortometraggi dal titolo “Charlot e…” tutte le avventure più impensabili. Il successo è enorme e dalla Keystone il passo è breve, con una paga più alta ad accettare le diverse altre proposte con la Essenay e con la Mutual. Stufo però, di non poter esprimere appieno la sua forma artistica, soggetta alle richieste delle case di produzione, lascia tutti ed insieme ad altre tre leggende del cinema muto (Statunitense) Mary Pickford, Douglas Fairbanks ed il regista che ha inventato il linguaggio cinematografico classico David Wark Griffith , fonda la United Artists con la quale produce i suoi film più importanti.

Ma perché è speciale Chaplin? Perché se si pensa al cinema muto, l’immaginario comune (per comune intendo il mondo e per immaginario intendo un immaginario che comprende diverse generazioni) lo associa a lui?

Guardare una comica di Charlie Chaplin è vedere materializzarsi le parole di una poesia. La storia, gli attori, la pantomima, le espressioni facciali, la musica, il montaggio…nulla è lasciato al caso, di tutto si occupa lui. Un artista che è lui stesso la sua arte. Una persona profondamente empatica e sentimentale e che riesce con le comiche a trasmettere messaggi sociali, a descrivere la società com’era, come secondo lui sarebbe diventata come invece sarebbe dovuta essere, messaggi in grado di arrivare a tutti, a tutto il mondo attraverso un certo tipo di comunicazione, quella non verbale, comprensibile a tutto il mondo, un mondo che parla circa 6000 lingue .

Nel libro di Luigi Anolli “Fondamenti di psicologia della comunicazione“, si analizzano i diversi approcci della comunicazione, dal punto di vista semiotico, pragmatico, sociologico e psicologico e i processi interpretativi, simbolici, relazionali ed espressivi della comunicazione nella fattispecie, e quindi anche le funzioni della comunicazione non verbale.

Nella CNV ci sono 3 aree di indagine:
– il corpo e i suoi messaggi: la comunicazione interpersonale e sociale nelle dinamiche dell’interazione prossemica, della gestualità, della mimica e dei segnali del corpo (Darwin, Lorenz, Morris, Hall, Hinde);
– linguaggio psicomotorio nella dimensione integrata mente-corpo: la dimensione corporea come interazione fra aspetti motori, emotivi, relazionali e cognitivi e la corporeità come fattore determinante nella conoscenza e nel rapporto sé-mondo campo antropologico, filosofico, sociologico, neurofisiologico (Wallon, Piaget, Spitz, Ajuguerra, Merleau-Ponty, Lacan)
– la corporeità come espressione del corpo: le capacità espressivo-comunicative proprie della dimensione corporea come la danza, il teatro gestuale, la musicoterapia, l’arte terapia, il training autogeno, le tecniche di analisi corporea (Fraisse, Orff, Munari, Schultz).

La CNV è un area di indagine ricca e con diverse sfaccettature ed è sorprendente come l’artista, pensandoci bene sia riuscito, già allora, ad usare con senso innato e geniale prossemica, mimica, corporeità, gestualità e tempistica senza, presumibilmente, aver approfondito un campo di studi così ampio e con il solo bagaglio di esperienza (per prima teatrale e poi cinematografica) e riuscendo a creare capolavori come “Il monello”, “La febbre dell’oro” o “Luci della Città”.

I film di Chaplin sono caratterizzati da un’ alternanza sistematica di scene comiche e drammatiche. Commuove e diverte, fa riflettere e precede i tempi, sa esattamente quando arriverà la risata e quando si piangerà e soltanto una conoscenza approfondita dell’animo umano permette la realizzazione di tali opere.

Chaplin è un vero artista e la comunicazione non verbale parte già dai piccoli dettagli che chiarificano prima della storia anche i personaggi. L’abbigliamento del vagabondo, ad esempio, caratterizza perfettamente la personalità del personaggio, questo ha una maniacale attenzione ai dettagli, utilizza una giacchetta aderente e dei pantaloni larghi, le scarpe hanno una misura smisurata e con la bombetta e il bastone di bambù ottiene un personaggio di primo acchito goffo e simpatico, ma che non dice solo questo. Nonostante la sua condizione ha una grande nobile personalità di signore distinto, è sì un vagabondo, ma non rinuncia alle formalità del tempo, il capello ed il bastone sono sempre con lui, segno che contraddistingue un gentiluomo, il suo comportamento è sempre impeccabile, nonostante la sua vita si svolga in strada cura sempre la sua figura.

Oltre questo la mimica facciale e la gestualità sono sempre ponderati, potremmo non avere le didascalie, quello che sta accadendo in una qualsiasi storia narrata da Chaplin la potremmo capire senza problemi. L’uso della percezione aptica (tutti quei comportamenti che prevedono un contatto fisico) sopperisce infatti la mancanza delle parole, la prossemica non è lasciata al caso. Le sue pellicole mute sono proiettate ancora oggi e sono un chiaro esempio di abilità, genio innato, estrema sensibilità d’animo e non per ultimo di come la comunicazione sia costituita non solo di parole.

 

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Tipologia delle tracce – Tracce del tradimento Nr. 17

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XVII: Tipologia delle tracce 

 

Quasi una dichiarazione esplicita di tradimento sono l’espressione di vari bisogni incomprensibili, come quello di “avere un momento di riflessione”, “trascorrere un periodo per proprio conto”, “ritrovare se stesso”, “capire cosa fare della propria vita”, “conoscere davvero se stessi”: in sostanza essi spesso sono la richiesta di allontanarsi e in genere si concretizzano in una richiesta specifica come le vacanze separati o crearsi uno spazio abitativo privato, inaccessibile all’altro.

Probabilmente il fatto che nell’esprimere questi bisogni il soggetto si mostri in difficoltà, smarrito, tremante come persona che ha perduto la strada, suscita nell’altro un atteggiamento di comprensione, tendenzialmente benevolo e accondiscendente; altrimenti non si spiega come spiegazioni ingenue, vecchie e conosciute, riescano invece a sembrare credibili proprio agli occhi del primo destinatario che spesso chiede consiglio su come aiutare il proprio partner in difficoltà oltre che nel modo già scelto e più ovvio consistente nel lasciargli tutta la libertà di allontanarsi.

Conservare in posti più o meno segreti bigliettini e lettere è da sempre un classico per essere scoperti; non esiste posto sufficientemente sicuro e prima o poi, magari in corrispondenza delle pulizie pasquali o del trasloco o della ricerca della pompa della bicicletta i reperti verranno immancabilmente alla luce. Conservare delle prove tangibili della relazione segreta sembra rispondere al bisogno di esserne certi, di avere a propria volta le prove di qualcosa che, sconosciuto a tutti, potrebbe effettivamente non esistere. E così si archiviano non solo le lettere ricevute ma anche la triste fotocopia delle proprie inviate; carteggi veri e propri, privi solo di numero di protocollo, in attesa forse di essere pubblicati in appendice alla propria biografia.

Tale bisogno di disseminare prove tangibili dell’avvenuta relazione deve essere molto intenso in quanto fa trascurare il fatto che, scrivendo lettere, si mettono in mano ad un’altra persona, che oggi è l’angelo che dà senso alla nostra vita ma domani potrebbe diventare il demone che la rende invivibile, degli strumenti di ricatto formidabili; gli si dà la possibilità di poter, in qualsiasi momento, far saltare la serena riconquistata vita familiare per i motivi più vari e imprevedibili. Oggi le lettere scritte su carte pregiate e particolari sono state ampiamente soppiantate dalle e-mail che in quanto a riservatezza non sono molto più sicure: basti pensare che sono in rete, nel web. Noi mettiamo nella piazza più grande e condivisa, nata proprio per impedire le barriere al diffondersi della conoscenza, i segreti più grandi della nostra piccola vita protetti da una breve stringa di caratteri composta, magari, dalle iniziali dei nomi dei nostri figli o dalla nostra data di nascita. Deve certamente trattarsi di una forma grave di esibizionismo, del desiderio di essere finalmente protagonisti di qualcosa di sconvolgente, di risvegliare gli aspetti drammatici di una esistenza altrimenti piuttosto assonnata.

Si, certamente, esistono le password a protezione dei matrimoni; ma pur non considerando la facilità di aggiramento di questi sistemi domestici che non necessitano per essere scavalcati di hacker in grado di entrare nella banca dati del pentagono, il segnale stesso del tradimento è costituito dalla messa in atto di questi sistemi. Perché fino a ieri il “computer era di tutta la famiglia” ed oggi per riuscire a scrivere una e-mail occorre ricordare a memoria una mezza dozzina di parole d’ordine di cui le ultime due sono diverse per i due coniugi perché “un po’ di privacy ci vuole anche nella coppia”? La traccia non è protetta dal segreto e dalla riservatezza, anzi, essi stessi diventano traccia; già si sostanzia quell’esclusione che costituisce il nucleo essenziale del tradimento. Un tempo il ripetuto passaggio di una malattia infettiva tra due persone che non avevano ufficialmente occasione di una vicinanza particolare poteva destare sottili sospetti, come quell’influenza o quell’herpes che colpiva sempre contemporaneamente papà e la domestica per non parlare delle malattie a inequivocabile trasmissione sessuale che arrivavano nella coppia coniugale non si sa da dove (la tesi difensiva più accreditata era la scarsa igiene dei bagni pubblici).

Una signora trentacinquenne teneva celata la sua passionale storia d’amore dietro un paio di password che riteneva invalicabili; lo stesso disco rigido era suddiviso in tre parti: una per lei, una per il marito ed una per i bambini. Sicurezza assoluta mista a compiacimento assaporava nel tenere così vicine le sue identità di madre amorevole, moglie fedele, professionista impegnata, amante senza freni. Un giorno tuttavia, mentre era fuori per lavoro il computer si ruppe seriamente e il marito, sapendo quanto per lei fosse uno strumento utile e per non lasciarla sola al suo ritorno, chiamò un tecnico informatico…

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

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