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L’effetto della povertà sulle credenze e sulle emozioni dei più piccoli

FLASH NEWS

Una review della University of Massachusetts ha cercato di analizzare come la povertà e le condizioni economiche svantaggiose possano lasciare traccia su rappresentazioni e valutazioni cognitive che i bambini hanno di sé.

Sembra paradossale, ma la maggior parte degli studi si è focalizzata sui fattori esterni correlati alla povertà (ad esempio conflittualità nella coppia o depressione nei genitori) e che possono influire sulle credenze dei figli. Pochi studi hanno invece avuto il coraggio di analizzare gli aspetti interni cognitivo-emotivi dell’esperienza di vivere in situazioni economiche difficili. E di come questi aspetti cognitivi rappresentazionali possano essere mediatori dell’impatto dello svantaggio economico sui comportamenti.

Nella review dunque, la parte più interessante evidenzia due aspetti cognitivo-emotivi che potrebbero avere un ruolo nel mediare gli effetti delle difficoltà economiche sul funzionamento socio-comportamentale del bambino. I due fenomeni sono: una maggiore vulnerabilità all’ansia di stato e una maggiore probabilità di credenze stereotipiche e performances ridotte quando vengono esplicitate la condizione povertà in soggetti in età di sviluppo che vivono in situazioni economiche svantaggiate.

Questi fenomeni innescherebbero circoli viziosi in cui ad esempio, difficoltà scolastiche probabilmente originano e si correlano a credenze negative sul sé e sfiducia nelle proprie capacità.

Dal punto di vista prettamente cognitivo già dall’età di cinque anni i bambini occidentali sono in grado di comprendere e utilizzare le categorie concettuali e gli stereotipi relativi alle disuguaglianze sociali. Ad esempio, si è notato che bambini di classe socio-economica media utilizzano principalmente stereotipi (mediocre, meno bravi a scuola, con minori probabilità di realizzare le proprie ambizioni) per descrivere un bambino povero, mentre i bambini di classe socio-economica svantaggiata descrivono maggiormente le emozioni provate da chi è in difficoltà economica.

Secondo il ragionamento degli autori, crescere da poveri può porre ostacoli non solo materiali ma anche cognitivo- rappresentazionali, e di conseguenza emotivi, al benessere e a un buon adattamento della persona; per questo ancora una volta il lavoro preventivo sulla modificazione delle credenze stereotipiche e disfunzionali con l’obiettivo di interrompere circoli viziosi assume un valore importante a livello individuale e comunitario.

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Interventi evidence based contro il bullismo e il cyberbullismo: un confronto in Europa

 

Durante il XIV Congresso Europeo di Psicologia (ECP), tenutosi a Milano dal 7 al 10 luglio scorso, è stato organizzato un simposio sugli interventi evidence based contro il bullismo e il cyberbullismo utilizzati in alcune nazioni europee.

La recente letteratura ha mostrato come i comportamenti aggressivi agiti dai pari possono essere sperimentati sia faccia a faccia che attraverso le interazioni on-line; per questo motivo l’adozione di un focus specifico sia sul bullismo che sul cyberbullismo sembra essere la direzione più promettente per l’intervento con i giovani studenti.

La prima presentazione ha riguardato un modello di intervento attuato in Italia, denominato “NONCADIAMOINTRAPPOLA!”, rispetto al quale è stata valutata l’efficacia e i possibili processi di mediazione. Il progetto “Noncadiamointrappola” nasce con l’obiettivo di realizzare un intervento nelle scuole superiori volto al contrasto e alla prevenzione del bullismo e del cyberbullismo che sia fondato su prove empiriche di efficacia. L’intervento è basato su un modello di peer education-peer support ed è strutturato in fasi che coinvolgono attivamente alcuni studenti chiamati “peer educators”. Essi diventano gli agenti di cambiamento all’interno della classe, portando avanti attività faccia a faccia con i loro compagni (ad esempio role-playing, discussioni, problem solving e lavoro cooperativo) e attività online interagendo con studenti di altre scuole e con tutti coloro che sono interessati a ricevere un aiuto o un consiglio.

Durante il simposio è stato mostrato come tale modello di coinvolgimento dei pari abbia dimostrato una crescente validità ed efficacia nel ridurre i fenomeni di bullismo tradizionale e cyberbullismo. In particolare c’è stata una riduzione dei sintomi internalizzati, un’efficacia indipendentemente dal genere e una stabilità degli effetti a sei mesi dal termine del programma.

In un altro contributo, proveniente dal Belgio, è stato presentato il progetto “Friendly ATTAC”, che mira allo sviluppo di un gioco contro il cyberbullismo. Nello specifico è stato progettato un video-game in cui gli studenti, tra i 12 e i 14 anni, sono coinvolti in scenari di bullismo e sono chiamati ad agire in esso. A seguito dei loro comportamenti gli studenti ricevono un feedback e, a seguito di ciò, il bullo presente nel videogioco interrompe o meno il suo attacco. Inoltre il gioco prevede che in alcuni casi gli studenti, prima che agiscano, possano osservare la reazioni di altre persone coinvolte nello scenario. L’intervento si è dimostrato efficace e ha il vantaggio di essere svolto in un ambiente sicuro ed individuale, sebbene comunque gli studenti l’abbiano trovato poco divertente.

Infine, è stato presentato il gioco educativo “FearNot!” attivato nel Regno Unito, basato sulla teoria di Folkman e Lazarus (1985) e sull’”Experimental Learning” di Bandura. Tale gioco ha l’obiettivo di aumentare le strategie di coping delle vittime di bullismo. All’inizio del gioco viene inserito nome ed età del partecipante; in seguito un narratore presenta uno scenario in cui una bambina vuole giocare con delle coetanee le quali però non la accettano e la insultano. A questo punto al giocatore viene chiesto di scrivere cosa consiglierebbe di fare alla protagonista della scena, iniziando al contempo un vero e proprio dialogo con lei che si mostra inizialmente titubante ma successivamente segue il consiglio di cercare altri amici.

Questo gioco di simulazione si è dimostrato efficace nel diminuire il numero di vittime di bullismo anche a distanza di tempo dalla sua attuazione. Il punto di forza del “FearNot!” è l’avere personaggi autonomi, credibili e interattivi i quali possiedono anche capacità emotive e cognitive. Inoltre il narratore è sia scritto che orale.

Le diverse presentazioni del simposio hanno quindi fornito una panoramica dei diversi modelli di intervento sul bullismo e cyberbullismo, basandosi su interventi faccia a faccia e giochi di simulazione.

 

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La psicologia va in vacanza: i consigli per l’estate di libri e film – Rubrica

RUBRICA: I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM 

 

Le tanto attese vacanze estive sono ormai arrivate. Siamo in molti ad attendere l’estate per gustarci quel libro che avevamo messo da parte, per pigrizia o mancanza di tempo, o per vedere quel film che in inverno siamo riusciti a vedere solo a metà, prima di addormentarci sul divano stremati dalle corse della giornata.

In questa rubrica troverete dei consigli per la lettura di libri che trattano tematiche psicologiche, ma con un taglio a “misura di ombrellone”: romanzi contemporanei e grandi classici che affrontano argomenti psicologici in modo divulgativo e accessibile a un pubblico vasto: esperti del settore e non, adolescenti e adulti, alcuni utili da proporre ai pazienti quando il terapeuta è in vacanza. Anche le proposte cinematografiche avranno un taglio psicologico, questa volta a “misura di condizionatore”.

Questa settimana: Il giocatore di Dostoevskij – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 01

LEGGI LA RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM 

Il giocatore di Dostoevskij – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 01

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Il giocatore di Dostoevskij (Nr. 01)

TITOLO: Il giocatore
AUTORE: Fedor Dostoevskij
TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: gioco d’azzardo patologico
CONSIGLIATO A: adulti amanti dei grandi classici, psicologi e psicoterapeuti che si occupano di gambling, studenti.

Aleksei Ivanovic, protagonista e narratore, nonché giocatore incallito di roulette, è il precettore dei figli di un generale russo, anch’egli sul lastrico. Aleksei è perdutamente innamorato di Polina, alla quale dedicherà tutte le sue puntate di gioco per procurarle ingenti somme di denaro, finalizzate a risollevarla dalle gravi condizioni economiche in cui si trova insieme al generale, suo patrigno. Quest’ultimo è a sua volta innamorato di Mademoiselle Blanche, una giovane e spregiudicata donna francese, interessata non tanto al corteggiamento del generale, quanto alla possibilità che lui possa entrare in possesso dell’eredità della nonna. Sarà proprio la nonna, figura indimenticabile grazie alle descrizioni dell’autore, che con un colpo di scena riuscirà a cambiare le sorti di tutti i personaggi, quando farà capolino al tavolo da gioco per scialacquare l’ambìto patrimonio. Il giocatore è un memorabile classico della letteratura straniera, che regala una fotografia vivida, reale quanto grottesca della Russia perbenista e vanitosa dell’epoca ottocentesca.

I personaggi hanno in comune l’idealizzazione dell’immagine sociale, il bisogno di vantare successi e talenti attraverso la mistificazione della realtà, e trovano nel gioco d’azzardo la possibilità di redimersi da una condizione di mediocrità e fallimenti. Lo stile narrativo rende il libro avvincente, grazie a un susseguirsi di cambi repentini di scena che vanno dalla tragedia al tragicomico, dove l’unica costante è l’imprevedibilità del destino, riposto ciecamente nelle mitizzate virtù della roulette.

Si narra che il libro fu scritto da Dostoevskij in soli ventotto giorni, con l’intento di ricavare il denaro che gli era necessario per ripagare i suoi debiti di gioco. Un grande libro che avvicina alla cultura del gioco e all’atmosfera dei casinò, molto simile per certi aspetti alla nostra realtà contemporanea.

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Sex addiction: il paradosso di una condizione teoricamente invisibile ma praticamente riscontrabile

Marina Morgese, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Cosa si intende con il termine Sex Addiction? Il dibattito è ancora aperto… spesso il sesso è associato a qualcosa di positivo per l’essere umano, basti pensare all’ indispensabile funzione evoluzionistica che riveste, per capire come sia parte fondamentale di ogni specie.

Il sesso è visto come uno degli aspetti principali della vita di coppia e dell’individuo, un collante per i partner, un gioco relazionale in cui trovare intimità e complicità con l’altro.

Cosa ci sarebbe di male dunque nel fare tanto, troppo sesso? E’ proprio questo il punto: parlando di Dipendenza da Sesso, il confronto con altri tipi di dipendenze è inevitabile e la maggior parte degli esperti in tema di dipendenza ha avanzato diversi tipi di attacchi al concetto di Sex Addiction (Goodman, 1992):
– sociologico – il termine dipendenza non è altro che un’etichetta per un comportamento che si discosta dalle norme sociali (Levine & Troiden, 1988);
– convenzionale – la dipendenza è una condizione fisiologica e quindi ogni dipendenza deve essere definita fisiologicamente (Levine & Troiden,1988);
– scientifico – l’uso gratuito della parola dipendenza ha reso il termine senza senso e quindi facilmente utilizzabile per condizioni che non indicano una vera e propria dipendenza (Coleman, 1986);
– morale – vedere il comportamento sessuale come una dipendenza potrebbe minacciare il senso di responsabilità di ciascun individuo verso il proprio comportamento.

E nel DSM come è inquadrata la Sex Addiction?

Il DSM-III-R concettualizzò tale dipendenza come un Disagio dovuto a un pattern di conquiste sessuali ripetute o altre forme di dipendenza sessuale non-parafiliaca, che coinvolgono le altre persone, viste solo come cose da usare. Nel DSM-IV-TR la dipendenza sessuale non è stata inclusa come un disturbo mentale e sé ma è stata fatta rientrare nei Disturbi sessuali non altrimenti specificati, descrivendola come un disagio per un pattern di rapporti sessuali ripetuti che coinvolgono una serie di amanti visti dall’individuo solo come cose da usare. L’inclusione della dipendenza sessuale nel DSM-5 è stata respinta: Darrel Regier, vice-presidente della task force del DSM-5, ha detto che
[blockquote style=”1″]Anche se l’ipersessualità è stata proposta come una nuova dipendenza… non si è arrivati al punto in cui tutti erano pronti a chiamarla dipendenza[/blockquote]

Questo è scaturito soprattutto dalla scarsa ricerca in tema di criteri diagnostici per il comportamento sessuale compulsivo.
Nonostante una posizione accademica piuttosto negativa verso il concetto di dipendenza dal sesso, questo non ha frenato la crescita di ricerche in questo settore.

Uno tra gli studi più importanti, effettuato proprio con l’intento di influenzare la decisione della commissione del DSM-5 sull’ inclusione dell’ ipersessualità tra i disturbi mentali, è stato effettuato da Rory Reid nel 2012. Tale ricerca, effettuata con l’aiuto di altri esperti psicologi su un campione di 207 individui, ha testato la presenza di alcuni criteri utilizzabili per una diagnosi di Dipendenza sessuale, in individui i cui comportamenti sessuali assumevano effettivamente i connotati di una dipendenza.

I criteri definiti dai ricercatori erano: fantasie sessuali ricorrenti; impulsi e comportamenti promiscui per un periodo di sei mesi o più, che non siano causati da altri problemi, come ad esempio l’abuso di sostanze, un’altra condizione medica o episodi maniacali associati al disturbo bipolare. Inoltre deve essere presente uno schema di attività sessuale in risposta a stati d’animo spiacevoli (es. sentirsi depressi) o uno schema ripetitivo di comportamenti che utilizzi il sesso come modalità di risposta allo stress. I comportamenti sessuali devono inoltre essere fonte di disagio per chi li attua, tanto da interferire con le relazioni, il lavoro o ad altri aspetti importanti della vita personale. Per questo motivo tra i criteri sono inclusi i tentativi compiuti dal soggetto al fine di ridurre o interrompere le attività sessuali vissute come problematiche.

I ricercatori hanno così scoperto che i criteri proposti classificavano accuratamente l’ 88% dei pazienti con una dipendenza sessuale, stessa accuratezza per i risultati negativi, avutasi nel 93% dei casi. In altre parole, i criteri sembravano adatti a discriminare tra i pazienti che soffrono di dipendenza sessuale.

Già nelle ricerche degli anni ’80 veniva suggerito che circa il 3/5% della popolazione adulta stesse lottando contro una qualche forma di dipendenza sessuale. Tuttavia gli individui studiati a quel tempo erano per lo più auto-selezionati e di sesso maschile. Le più recenti analisi sul tema, indicano però che il problema della dipendenza sessuale si stia aggravando, soprattutto tra i più giovani e si mostra equamente distribuita tra uomini e donne. Dalla fine degli anni ’90, la letteratura clinica ha indicato che questo aumento dei comportamenti sessuali è strettamente correlato alla maggiore velocità di accesso a materiali con contenuto pornografico: non solo i numerosi siti internet con video e foto hard, ma anche siti di escort o app in grado di trovare, tramite GPS, i partner più vicini disposti ad avere un incontro sessuale (Weiss, 2012).

In più facciamo una breve riflessione…oltre alla mole di contenuti facilmente accessibili, cosa c’è di diverso rispetto al passato? Ricordo una scena del film “Jack” con Robin Williams, il protagonista è un bambino, Jack appunto, che per una condizione fisica sembra già un uomo, e, sfruttando questo aspetto, i suoi coetanei gli danno il compito di comprare una rivista vietata ai minori: Jack chiede molto velocemente la rivista alla cassiera ma, giratosi, vede una suora in fila dietro di lui. Prontamente Jack, rivolgendosi di nuovo alla cassiera, chiede un poster del Papa. Cosa voglio dire con questo? Prima, quando appunto bisognava comprare riviste o noleggiare videocassette per vedere qualche nudità o delle scene hard, interveniva la vergogna dell’individuo a frenare l’accesso al materiale vietato (Cosa penserà il giornalaio? E il titolare della videoteca?). Ora, protetti da uno schermo e in assoluto anonimato, possiamo sbarazzarci della vergogna e accedere in qualsiasi momento a contenuti pornografici e sessuali.

In Italia la Dipendenza da Sesso è presente e ha una prevalenza del 5,8%; i dati, raccolti da Franco Avenia e Annalisa Pistuddi (Presidente e Segretaria del AIRS – Associazione Italiana per la Ricerca in Sessuologia), non vanno trascurati poiché, come lo stesso Avenia afferma:
[blockquote style=”1″]Il dipendente da sesso reca a se stesso gravi danni economici e relazionali, quanto i soggetti con altre dipendenze (droghe, gioco d’azzardo, ecc.). Ma, aspetto ancor più rilevante, commette frequentemente reati a sfondo sessuale (esibizionismo, pedofilia, stupri). Negli Stati Uniti il 55% dei reati a sfondo sessuale sono commessi da soggetti con Dipendenza da sesso ed è lecito stimare che anche in Italia non ci si discosti da una così allarmante correlazione.[/blockquote]

Che cosa si prova ad essere un Sex Addicted?

Gli individui dipendenti dal sesso sperimentano un’alta attivazione neurochimica autoindotta, nel momento in cui fantasticano e si preparano per un atto sessuale. Questo è un momento intenso in cui la fantasia anticipatoria e il richiamo euforico inducono una scarica di adrenalina, un rilascio di dopamina e una visione-tunnel durante la quale è sempre meno possibile pensare in modo chiaro e prendere lucide decisioni. Questo stato emotivo (che provoca tachicardia, respirazione poco profonda, sudorazione, dilatazione della pupilla, sensazioni di euforia, etc.) rende quasi impossibile l’attivazione del lobo prefrontale e si sperimenta una sensazione simile a quella dei tossicodipendenti poco prima di incontrare il loro pusher, tanto che non si sa se sono già eccitati ancor prima che qualsiasi sostanza entri nel loro corpo.

Questo arousal permette all’individuo di staccarsi emotivamente da depressione, ansia e sensazioni di disagio legate a traumi passati o ad altri fattori di stress. In realtà l’orgasmo non è l’obiettivo primario, il meta-obiettivo è perdersi il più a lungo possibile in questo stato di dissociazione (Weiss, 2012). Dopo l’atto sessuale le alterazioni neurochimiche ritornano alla baseline, e insieme al loro riassetto generale si torna all’ansia, allo stress e alla depressione, il tutto aggravato dal senso di colpa di aver commesso un atto impulsivo e a volte minatorio per una sana percezione di Sé e una sana vita relazionale con il proprio partner (quasi sempre all’oscuro di tutto questo).

Chi è un Sex Addicted?

Essere dipendente dal sesso non è correlato positivamente con l’essere maschio o femmina, gay o etero, ricco o povero, o qualsiasi altra cosa.
Robert Weiss, direttore del Sexual Recovery Institute e direttore del Sexual Disorders Services for Elements Behavioral Health, ci aiuta nel capire come si presentano le persone dipendenti dal sesso.

Essi non riescono a frenare la loro dipendenza, nemmeno se instaurano un rapporto serio e duraturo con un partner (per lo meno non ci riescono a lungo), né riescono a fermarsi se diventano genitori. Un tipico esempio di pensiero da Sex Addiction è “Questa è l’ultima volta che ho intenzione di andare in quel sex shop/ scaricare le app sex-finder/ vedere il mio compagno di letto o perdere tempo su quel sito porno”.

Ma in definitiva la loro scarsa capacità di controllo, li riporta alle stesse situazioni sessuali, nonostante le conseguenze negative sulla vita, che allora si sdoppia, mantenendo la dipendenza fuori da una vita normale, fatta di amici e famiglia. Come tutte le persone tossicodipendenti, si crea così una rete di continue bugie, segreti, manipolazione, e negazione. Questo stile di vita disintegrato porta spesso a disturbi dell’umore, problemi relazionali e crisi esistenziali.

Sempre Weiss offre una serie di comportamenti tipici di chi mette in atto comportamenti connotati da iper-sessualità:
– Molteplici rapporti occasionali e poche o brevi relazioni serie;
– Ore interminabili passate su Internet e su siti pornografici;
– Masturbazione compulsiva, con o senza la pornografia;
– Partecipazione ricorrente (e di nascosto) in strip club, librerie per adulti, incontri con prostitute o operatori di massaggi sensuali;
– Rapporti di sesso anonimo o casuale con persone incontrate on-line o tramite applicazioni per smartphones;
– Pratiche sessuali non sicure e/o fisicamente pericolose;
– Coinvolgimento in ambienti connessi a determinate pratiche sessuali (sex club, club scambisti, stabilimenti balneari, ecc).

La ricerca di sesso avviene indipendentemente dalle potenziali conseguenze immediate o a lungo termine per sé o per altri.
Tra le conseguenze più frequenti ci sono:
– Perdita di controllo sulle crescenti fantasie e comportamenti sessuali
– Aumento di frequenza e intensità di pensieri e comportamenti sessuali nel corso del tempo (escalation)
– Impoverimento della creatività, l’intimità e /o il tempo libero
– Irritabilità e rabbia quando si cerca di smettere con i comportamenti sessuali
– Isolamento sociale ed emotivo
– Disturbi dell’umore
– Conseguenze negative più ampie a livello relazionale, emotivo, fisico, finanziario, legale, ecc. , legate ai comportamenti sessuali

Un modello di terapia

Patrick J. Carnes, nel 2000, pubblica un articolo in cui viene delineato un protocollo di intervento per i casi di dipendenza sessuale, esso prevede tre fasi: intervento, trattamento iniziale e terapia estesa.

La prima fase prevede un intervento del ciclo compulsivo di mantenimento del disturbo. Il terapeuta deve indagare la storia sessuale del paziente per conoscere tutti gli aspetti del comportamento problematico. Questa indagine è importante sia perché paziente e terapeuta prendono consapevolezza della portata del problema, sia per evitare al terapeuta infelici sorprese nel corso della terapia (molto frequenti, qualunque siano gli obiettivi accordati). Questa prima fase è soprattutto psico-educazionale: si informa il paziente sul disturbo, in modo tale da avere una visione più obiettiva del problema.

Quando il paziente inizia a fidarsi del terapeuta e acquista più familiarità con il disturbo, è il momento di iniziare a confrontarsi con le aree più problematiche del paziente, sarebbe auspicabile iniziare con la più frequente e la più pericolosa, ad es. il sesso non protetto con le prostitute: il terapeuta sviluppa un contratto comportamentale con il paziente che si asterrà da alcuni comportamenti durante la terapia. Ad esempio, se il rivolgersi a prostitute si verifica in una determinata zona della città, il paziente si impegna non solo ad astenersi da questi comportamenti, ma ad evitare di andare da solo in questi luoghi. Il paziente si impegna inoltre a segnalare eventuali problemi riscontrati in questa gestione del comportamento.

Quando questo punto è raggiunto, ha inizio la seconda fase di trattamento, in cui vengono impiegate alcune strategie:
Partecipazione a un gruppo terapeutico con persone che condividono lo stesso problema
Accordo scritto di astinenza, in tre parti: i comportamenti distruttivi da cui il paziente si impegna ad astenersi; cosa è necessario fare per evitare quei comportamenti; una dichiarazione completa dei comportamenti sessuali che il paziente desidera coltivare (discussi poi nella terapia e nei gruppi di sostegno).
Piano di prevenzione delle ricadute. Con l’aiuto del terapeuta, il paziente si prepara un piano globale per prevenire le ricadute, tra cui la comprensione dei trigger (Oggetti /eventi specifici che attivano le compulsioni sessuali del paziente), un elenco degli eventi attivanti (ad esempio stress estremo, una lite con il coniuge, ecc), nonché l’esecuzione di “esercitazioni antincendio” (vale a dire risposte automatiche per prevenire le ricadute).
Periodo di astinenza, che comprende anche la masturbazione, dalle 8 alle 12 settimane. Se la persona ha un partner, anch’egli deve impegnarsi in questo processo. Questo periodo è progettato per ridurre il “caos sessuale” e per esplorare ciò che concettualmente costituisce la salute sessuale (spesso, durante questo periodo, al paziente riaffiorano ricordi della prima infanzia come abusi sessuali e fisici).
• Al termine del periodo di astinenza, terapeuta e paziente creano un piano di sesso, che sottolinea ulteriormente la differenza tra sessualità sana e distruttiva.
Coinvolgimento della famiglia. I partner e membri della famiglia hanno bisogno di essere ascoltati in terapia per un lavoro su se stessi e per non screditare le piccole conquiste terapeutiche del paziente.
Riduzione della vergogna. Il terapeuta lavora con il paziente utilizzando diverse strategie per ridurre sia la vergogna sessuale che la vergogna per il comportamento passato.

Dopo la seconda fase, e se un periodo libero da ricadute è stato mantenuto, si passa alla terza fase del trattamento. Questa fase si concentra su questioni legate allo sviluppo e alla famiglia d’origine, e a quei problemi qui sorti che si sono poi riflessi nella sfera sessuale del paziente. In questa fase si potrebbe venire a contatto con dolori non risolti e questo richiederà particolare tatto e attenzione, poiché si potrebbe avere una ricaduta.
Nonostante la ricerca continui e, come abbiamo visto, alcuni esperti abbiano avanzato proposte di trattamento per la dipendenza da sesso, questa è ben lontana dall’essere riconosciuta ufficialmente tra i disturbi mentali. Tutto ciò crea non pochi problemi a terapeuti, psicologi e psichiatri che hanno in carico pazienti con comportamenti di ipersessualità molto simili a una dipendenza. Si spera dunque che il panorama scientifico possa lasciare uno spazio sempre maggiore alle ricerche in tema di sex addiction: una condizione che, seppure legata a uno degli aspetti più naturali e piacevoli della vita, potrebbe, a lungo andare, trasformare tale piacere in vera e propria patologia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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FLASH NEWS

Il legame cognizione ed emozioni ancora una volta sembra fondamentale, poiché le risate sarebbero delle vere e proprie promotrici di apprendimento psico-motorio, proprio e già a partire dai primi anni di vita.

 

Many studies have shown that making children laugh enhances certain cognitive capacities such as attention, motivation, perception and/or memory, which in turn enhance learning. However, no study thus far has investigated whether laughing has an effect on learning earlier in infancy. The goal of this study was to see whether using humour with young infants in a demonstration of a complex tool-use task can enhance their learning. Fifty-three 18-month-old infants participated in this study and were included either in a humorous or a control demonstration group…

Sull’onda di pagine di letteratura che parlano del legame tra emozioni e apprendimento, quelle sonore e autentiche risate dei bimbi nei primi anni di vita sono anche un buon segno per lo sviluppo cognitivo, motorio e comportamentale.

In uno studio alcuni ricercatori hanno manipolato proprio la variabile humor per indagarne gli effetti sull’apprendimento osservativo in bambini di 18 mesi.

Il task sperimentale prevedeva di prendere una paperella di gomma aiutandosi con un rastrello di cartone coinvolgendo bambini che ancora non erano in grado di farlo. I bimbi sono stati sottoposti a un piccolo training per riuscire nel task: alla metà del campione sono state date ripetute dimostrazioni serie (seppur con uno sperimentatore sorridente e gentile) su come raggiungere il giocattolo, mentre all’altra metà dei soggetti le dimostrazioni sono state fornite sotto forma di scherzi divertenti.

Al termine di questi micro-training, il momento della prova finale: i ricercatori avvicinano il rastrello alla mano del bambino per vedere se spontaneamente imita l’azione dell’adulto prendendo la paperella di gomma.

Tra i bambini nella condizione di dimostrazioni divertenti il 93% è riuscito nel compito (e tra questi è il 19% riesce nel compito anche se non ha riso durante il training), mentre il successo si è registrato solo per il 25% dei bambini cui venivano fornite istruzioni serie e non divertenti.

Dunque il legame cognizione ed emozioni ancora una volta sembra fondamentale, poiché le risate sarebbero delle vere e proprie promotrici di apprendimento psico-motorio, proprio e già a partire dai primi anni di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Setting e terapia con gli adolescenti: quando la complessità semplifica le cose

Giorgia Di Fabio

La costituzione del setting con l’adolescente, quindi, non può che subire l’influenza della soggettività del terapeuta, della sua posizione personale, della sua formazione, con la sua propria costellazione di difese ed angosce, con una sua “insatura sensibilità/curiosità” (Maltese, 2005, p. 113) verso la sua stessa adolescenza, con l’esperienza acquisita (Roussilion, 1995), professionalmente e non.

Quella della mobilità e della flessibilità del setting nella psicoterapia con gli adolescenti è una questione quanto mai attuale ed urgente su cui confrontarsi. Infatti nella progettazione della cura con un adolescente diviene sempre più cruciale intendere una pluralità di possibili scelte rispetto ai dispositivi disponibili, quando uno degli obiettivi da porsi è favorire la soggettivazione del ragazzo/a.

Per soggettivazione si intende, nell’accezione fornita da Cahn (2000), il processo continuo ed interrotto di appropriazione soggettiva della propria realtà psichica. Tale processo che implica l’acquisizione graduale di un proprio modo di essere e di sperimentarsi in modo vitale e creativo, va incontro ad una svolta cruciale in adolescenza, quando la posta in gioco è la capacità, o l’incapacità, di accedere alla posizione di soggetto della propria vita.

Allora entrano in gioco variabili nuove ed anche gli ingredienti, che, di norma, definiscono la relazione con l’adolescente, devono fare i conti con la necessità che il setting non sia rigido. Dato che il rapporto con il paziente giovane implica necessariamente l’incontro con tutto quello che la famiglia rappresenta e che questo coinvolgimento intensifica la trama del racconto e ne arricchisce l’intreccio, il concetto di duttilità diviene una caratteristica intrinseca e fondativa del lavoro di cura.

La variabile soggettiva del terapeuta, nella posizione di persona e rispetto alla propria adolescenza, si configura come condizione necessaria per la definizione di una geografia del campo terapeutico in cui si installa la cura e di cui il setting è espressione, fino all’ampliarsi dello scenario a vantaggio della cura stessa.

La costituzione del setting con l’adolescente, quindi, non può che subire l’influenza della soggettività del terapeuta, della sua posizione personale, della sua formazione, con la sua propria costellazione di difese ed angosce, con una sua “insatura sensibilità/curiosità” (Maltese, 2005, p. 113) verso la sua stessa adolescenza, con l’esperienza acquisita (Roussilion, 1995), professionalmente e non.

Si definisce quindi un percorso-processo che si sviluppa a partire dal progetto terapeutico per poi scorrere parallelamente ad esso e che riguarda anche il terapeuta ed il suo modo di pensare il setting, di realizzarlo o di modificarlo nel corso della cura.

La natura dinamica del concetto di setting, specie con adolescenti, modulato sulle richieste e sulle possibilità del ragazzo ma anche della sua famiglia, si fonda sulla capacità del terapeuta di avere dentro ben saldo il proprio setting, per cui ben oltre i vincoli di spazio, tempo e presenza di terapeuta-paziente, oltre i confini della stanza di terapia, il setting diviene “l’area generativa del discorso d’aiuto” (Baldini, 2005, p. 107).

In tal senso è, esso stesso, sede di processi trasformativi, area di scambio, di transito in cui co-determinare un campo comune (Baranger, 1990), dove si incontrano gli attori della terapia con i loro affetti passati e presenti. L’idea di setting, inteso come condizione preliminare che consente l’esistere di un campo mentale, matura da una riflessione antropologica: esso affonda le radici in un terreno socio-culturale e germoglia in un ambiente fisico-umano che definisce con le sue caratteristiche, il margine per cui il disagio psicologico può risolversi oppure cronicizzarsi.

In questa prospettiva il lavoro terapeutico viene concepito come “presa in carico della multi-appartenenza” del paziente ai diversi campi di vita e ai differenti luoghi e tempi fondativi della sua personalità: famiglia, gruppo sociale ristretto e allargato (D’Elia, 1988).

Se rendere più complesso il setting per semplificare il percorso di terapia può suonare come una contraddizione in termini, oppure un facile gioco di parole, in realtà è solo un buono spunto di riflessione nato dal pensiero delle difficoltà e delle insidie che si incontrano se si procede, nel tracciare le coordinate di un progetto terapeutico, ignorando che l’esistenza psichica è garantita anche dall’appartenenza attuale alle relazioni familiari.
Al contrario se si intende il paziente come una persona nel suo “essere-in-relazione”, la cui identità è anche il frutto dello scambio tra generi, generazioni e stirpi, è necessario ammettere che esiste un’ “anteriorità ontologica dei legami di appartenenza familiare e culturale rispetto al mondo rappresentazionale” (Cigoli, 2006, p. 35). Per questo può diventare cruciale, nel pensare la terapia con un adolescente, rivolgersi al mondo dei legami, creare spazi di rappresentazione scenica che permettano l’accesso al corpo familiare (Cigoli, 2006).

Inoltre, più che fermarsi all’intreccio delle trame e degli scambi generazionali, o al riconoscimento della loro verità affettivo-etica, diventa utile mettersi alla ricerca di una pluralità di senso (Cigoli, 2006), rifigurare le relazioni, restituire loro la complessità, agire in favore del legame, andando alla riscoperta, nella praxis familiare, delle ritualità, della mitologia, per costruire uno spazio transizionale.

In questo senso la scelta di utilizzare setting di cura diversi e mobili, cui far corrispondere, attraverso la matrice di interconnessione tra campo gruppale familiare e campo terapeutico, una nuova possibilità di mobilitazione delle risorse del paziente, come dei suoi familiari, può permettere di recuperare un organizzatore mentale della gruppalità verso il sociale.

Così anche il setting diviene, in questa nuova luce, un dispositivo che “deve essere mobile ed aperto a rapide variazioni a seconda dell’emergere della necessità di coinvolgere persone significative del mondo relazionale del paziente […]” perché “[…] il significante mentale <mobilità> diventi operatore psichico di nuove connessioni” (Pontalti, 1998, p. 19).

Ogni possibilità terapeutica richiede il suo progetto e soprattutto “una estrema duttilità di gestione sull’interfaccia del campo terapeutico e del campo familiare” (Pontalti, 2000, p. 47), nutrendosi della complessità di un itinerario che deve continuamente ripensare se stesso interrogandosi sulla pensabilità dei passaggi e dei movimenti psichici proposti al paziente.

Sintonizzarsi sulle possibilità della rappresentabilità psichica del paziente o dei familiari che entrano nel campo terapeutico significa marcare psichicamente i transiti evolutivi e co-evolutivi che la terapia dovrebbe preparare. Significa individuare i punti di ancoraggio, andando alla scoperta dei codici di significazioni che consentano di collocarsi, in modalità mobile, nell’interspazio di connessione tra un qui e un altrove, definendo nuovi codici di trasduzione tra una territorialità psichica e l’altra.

Questa prospettiva risulta vantaggiosa specie nel caso di adolescenti ‘separati’, ovvero figli di genitori separati, spaccati a metà e spesso, incapaci di ricomporre la scissione, paralizzati tra un prima e un dopo temporale cui facilmente corrisponde un blocco tra un dentro e un fuori geografico-spaziale, oltre che psicologico. Nel caso di questi adolescenti e delle loro famiglie, simbolicamente e fisicamente separate all’inizio e poi “sparpagliate” tra case, città e/o famiglie diverse, diviene necessario salvaguardare la cura del legame anche in presenza di un patto coniugale violato, attraverso la presentificazione di corpi familiari, non solo delle loro valenza rappresentazionali, e, con essi, delle loro storie di legami intergenerazionali.

A volte può essere fondamentale, allora, il recupero di luoghi e tempi passati, di volti in un altrove che è anche la storia delle ultime generazioni della famiglia. Inoltre ripensare i possibili transiti verso appartenenze del passato permette anche di lavorare su altre transizioni: per i genitori, dalla propria storia coniugale di coppia ad altre possibili storie di relazione; per l’adolescente, dal gruppo familiare ad altri gruppi nel sociale, dalla stanza di terapia, al mondo fuori.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le sindromi culturalmente determinate: una classificazione obsoleta?

Fiammetta Monte, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il termine culture-bound syndrome, potrebbe essere tradotto con sindrome culturalmente determinata. Sta ad indicare un insieme eterogeneo di disturbi cognitivi e comportamentali, cosiddette sindromi, diffuse generalmente in specifici contesti geografici.

Come rileva Piero Coppo (Coppo, 1996), anche se recentemente alcuni autori hanno proposto di iscrivere nell’ambito delle sindromi legate alla cultura anche disturbi come l’anoressia nervosa, gli attacchi di panico e la depressione (in quanto patologie legate al contesto della cultura occidentale), i casi descritti in letteratura riguardano piuttosto sindromi non occidentali, non a caso prima che venisse introdotto il termine di sindromi reattive culture-bound (Yap, 1969), queste condizioni erano descritte come “esotiche” (termine eurocentrico ormai in disuso).
La psichiatria culturale in passato si è dedicata a scoprire analogie tra queste ed i principali disturbi generalmente riconosciuti dalla psichiatria (Yap, 1969).

Tra le sindromi culturalmente determinate, una delle più conosciute è l’Amok, individuato per la prima volta da Kraepelin. Si tratta di un improvviso attacco omicida che colpisce in particolare giovani uomini. L’individuo colpito da Amok inizia a correre armato e colpisce chiunque incontri sul suo cammino. Tale crisi si conclude con l’uccisione o la cattura del corridore il quale nel caso in cui sopravviva non ricorda nulla dell’accaduto. È stato identificato nell’Asia Sud-Orientale, Malaysia, Indonesia, Thailandia.

In Groenlandia, Alaska e nell’artico canadese è stato identificato “Pibloqtoq”: una smania incontrollabile di lasciare il proprio rifugio, strapparsi di dosso i vestiti ed esporsi all’inverno artico.

Presso alcune tribù amerindiane si crede che esista il Withigo, un gigantesco spirito cannibale fatto di ghiaccio, e sono frequenti le “psicosi da Withigo”, caratterizzate da un forte stato d’ansia e dalla paura di trasformarsi in Withigo, di poter mettere in atto atti cannibalici.
Il Koro fu inizialmente osservato in giovani uomini del Sud-Est asiatico; ma piccole “epidemie” si sono verificate più recentemente anche in alcuni paesi africani: esso comporta la convinzione delirante che il proprio pene si stia ritraendo nell’addome e la convinzione che, a ritrazione completata, sopravverrà la morte. Tentativi dettati dal panico di impedire al pene di ritrarsi possono provocare gravi danni fisici.

Tra le donne Malaysiane, quelle che manifestano il Latah presentano un comportamento imitativo incontrollabile e la tendenza della persona che ne è colpita a comportarsi in modo lontano da quello per lei abituale (per esempio dicendo oscenità).
Così come l’obesità e l’anoressia sono legate al modo in cui una donna (o un uomo) fa esperienza del proprio corpo in relazione alle immagini della forma del corpo che sono della nostra cultura, allo stesso modo queste sindromi costituiscono nelle rispettive culture una rete di significati peculiari e sono associate ad un insieme di stress individuali e di risposte dell’ambiente e della società agli stessi, nonché alle rappresentazioni del benessere ed agli ideali che prevalgono nelle stesse culture.

Ad esempio l’Amok, come afferma Carr (Carr, 1978) è una forma di comportamento violento imposto dalla cultura malese, sancito dalla tradizione come risposta adeguata ad un certo tipo di condizioni. Il malese è incoraggiato dalla stessa società a mettere in atto tale comportamento nel momento in cui si trova a sperimentare una sensazione di malessere ed umiliazione che può essere provocata da diverse cause, come ad esempio essere esposti ripetutamente ad insulti, vivere un’esperienza di scacco particolarmente frustrante, o avere la sensazione di condurre un’esistenza priva di significato. Nella cultura malese, in altre parole, quanto più un individuo è mortificato, tanto più deve essere plateale la risposta che porta al riscatto. Il Latah è invece spesso favorita da un “rumore inatteso, un tocco o un gesto sperimentato in presenza di persone che la vittima considera superiori o che desidera compiacere” (Murphy, 1976): fu individuato per la prima volta alla fine del 1800, quando si diffuse in proporzioni quasi epidemiche in Malesia, tra gli indigeni e vicino gli insediamenti dei coloni europei. Dal 1920 divenne sempre più rara tra i giovani, e tra gli uomini, mentre si concentrò soprattutto nei luoghi lontani dai centri abitati dagli europei e tra le donne che lavoravano come domestiche presso le case dei coloni. L’epidemiologia del Latah, come osserva Alex Cohen (Cohen, 1999) fa riflettere sul rapporto tra questa sindrome e fattori sociali come ad esempio il rapporto con gli europei ed il cambiamento dei ruoli sociali nelle donne.

Alcuni antropologi e psichiatri hanno cercato, in una prospettiva epidemiologica, di tradurre le categorie popolari delle malattie di particolari società, per cercarne la corrispondenza con la nosologia classica. Secondo il modello da loro costruito le malattie derivano da processi universali, il modo in cui si manifestano però, è modellato dalla cultura cui l’individuo appartiene, in base alla quale gli individui selezionano alcuni sintomi associati ad una condizione di malattia e ne mettono in ombra altri: di fronte cioè ad uno stesso insieme di sintomi, individui che appartengono a diverse culture cercheranno cura per alcuni di questi e non per altri (Cozzi e Nigris, 1996).

A tale posizione universalistica si è contrapposta in passato quella del relativismo culturale: quella cioè di coloro che ritengono che in ogni società esista una certa nosologia, in quanto ogni società distingue comportamenti normali e patologici in modo peculiare. Di conseguenza anche il disagio prodotto da ogni cultura è unico e non confrontabile con il disagio prodotto da altre culture. Mentre insomma per gli universalisti le sindromi culturali sono espressioni culturalmente elaborate di fenomeni neuropsicologici o psicopatologici, per i relativisti culturali, una sindrome legata alla cultura è espressione di costrutti specifici di quella cultura e non può essere appresa in modo acontestualizzato, al di fuori di quella cultura, le cui credenze sono costitutive della sindrome.

È oggi senz’altro necessaria in una società multietnica come la nostra, in cui i flussi migratori si fanno sempre più intensi, ricercare ed adottare approcci che tengano conto della diversità culturale e che rendano possibile il trattamento delle “psicopatologie dell’immigrazione”, purtroppo sempre più frequenti e legate a cause diverse: dalla nostalgia per il proprio paese alla incapacità di orientarsi in un universo di valori completamente nuovo all’ostilità a volte espressa dai membri del paese accogliente. È importante predisporre spazi (mentali e fisici) di cura ed assistenza dotati di maggiore sensibilità culturale.

D’altro canto è specularmente importante tenere conto nella pratica clinica che proprio i flussi migratori, la globalizzazione, la nascita di comunità on-line e la condivisione al livello mondiale di simboli e stili di vita propri inizialmente soltanto di una certa società, favoriscono lo sviluppo di un processo di omogeneizzazione delle culture, dovuto all’incremento della possibilità che persone appartenenti ad orizzonti culturali differenti si incontrino e procedano ad un interscambio di usi, costumi, credenze ed abitudini, mettendo pesantemente in crisi, come sostiene Mantovani (Mantovani, 1998) l’idea che possano esistere culture separate, immobili, legate ad un solo contesto e ad un solo territorio e di conseguenza il concetto di sindrome culture-bound, almeno nella sua accezione classica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Onicofagia: il mangiarsi le unghie ha un nome ed un perché

Quante persone soffrono di onicofagia? In molti di fronte a questa domanda con buone probabilità alzeranno un sopracciglio mostrando un’espressione perplessa. Eppure sono davvero tanti i soggetti che possono essere definiti degli onicofagi.

Perché l’onicofagia nient’altro è che il brutto e frequente vizio che molte persone hanno di mangiarsi le unghie. Un’abitudine riscontrabile in tantissima gente, la quale si rosicchia le unghie con una certa frequenza, talvolta asportando anche pellicine e cuticole sottostanti.

Una serie di ricerche ha messo in luce che sono soprattutto i bambini e gli adolescenti ad essere onicofagici. La fascia di età che va dai 12 ai 18 anni pare quella maggiormente coinvolta nella pratica di questo vizio. Tuttavia vi è anche un buon numero di persone che continua a mangiarsi le unghie anche in età adulta (Grant et al, 2010).

Si tratta di una cattiva abitudine da non trascurare. Il DSM IV TR (“Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, quarta edizione) annovera l’onicofagia tra i disturbi del controllo degli impulsi. La caratteristica principale di tali disturbi è l’incapacità di resistere ad un impulso o ad una tentazione di compiere un’azione che, in qualche modo, è dannosa.

Tra tali disturbi rientra anche la tricotillomania, ossia il toccarsi, tormentarsi e talvolta strapparsi i capelli, un’altra brutta abitudine che sovente è associata all’onicofagia. Tra i due disturbi però sembrerebbe vi sia una rilevante differenza: nella tricotillomania il soggetto riferisce di non provare dolore nel tormentarsi i capelli, piuttosto se li stuzzica senza rendersene contro; nell’onicofagia, invece, il dolore alle dita pare essere quasi sempre presente.

Rosicchiarsi le unghie potrebbe sembrare una pratica innocua, ma non è proprio così. Infatti è considerata una vera e propria forma di autolesionismo, che con buone probabilità può comportare anche dei danni alle dita. E non solo: i medici hanno messo in luce che le unghie, essendo un potenziale canale di trasmissione di infezioni, possono recare danno anche allo smalto dei denti, favorendo così il rischio carie.

Sarebbe quindi una condotta da evitare, e molti soggetti sono riusciti a debellarla distraendosi e creandosi alternative, quali potrebbero essere il tenere la bocca occupata con un chewingum, oppure il mantenere le mani impegnate maneggiando altri oggetti.

Ma la soluzione ideale per contrastare l’onicofagia è quella di risalire e comprendere le cause che originano il vizio, per poterle, se possibile, superare. 

Infatti dietro la pratica di mangiarsi le unghie può celarsi un perché. Quasi tutti i soggetti che soffrono di onicofagia dichiarano di aver cominciato in età infantile.

Le motivazioni sottostanti alla prassi di questo malsano comportamento possono essere molteplici, e all’origine di questa condotta vi è quasi sempre un motivo di natura psicologica (Roberts e all, 2013). L’onicofagia sembra manifestarsi prevalentemente nei periodi di non tranquillità.

Volendo scendere maggiormente nel dettaglio, queste sono le principali cause che sottendono al disturbo:

  • Pare che soprattutto nei momenti di stress e di ansia il soggetto onicofago scarichi il suo nervosismo e la sua preoccupazione mordendosi le unghie. Ciò gli darebbe un senso di sollievo momentaneo, in quanto gli permetterebbe lo sfogo di una tensione emotiva.
  • In altre circostanze l’onicofagia può essere percepita come una vera forma autolesionistica: in termini più semplici, un’emozione di rabbia o aggressività potrebbe essere scaricata sul proprio corpo anziché rivolta verso l’esterno. queste forme di autolesionismo si verificano prevalentemente in età adolescenziale
  • Vi sono poi situazioni in cui ci si mangia le unghie per noia, o meglio la persona che possiede questa abitudine ha difficoltà a controllarla, per cui con buone probabilità tenderà a manifestarla anche nei momenti di inattività e di non azione delle mani.
  • un’altra motivazione potrebbe essere quella imitativa: cioè si comincia in età infantile imitando qualche adulto che fa lo stesso, e poi, con il passare del tempo, questa abitudine semplicemente si protrae.

Comunque, secondo gli esperti, ad originare questa condotta sono soprattutto le cause ricollegabili ad ansia, stress e nervosismo: il soggetto si porta (spesso inconsapevolmente) le mani alla bocca e si rosicchia le unghie. In questo modo tiene in qualche modo a bada le proprie tensioni personali.

Si tratta di un gesto automatico e spontaneo, ma non è un salutare passatempo, in quanto consiste in una condotta difficile da controllare, con uno scopo ben preciso (quale potrebbe essere ad esempio quello di attenuare la tensione emotiva).

Talvolta, nei casi più gravi, potrebbe essere utile l’aiuto da parte di uno psicoterapeuta, il quale aiuti il soggetto ad individuare le cause che sottendono al disturbo per poter poi intervenire.

 

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Tipologia delle tracce IV – Tracce del Tradimento Nr. 19

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – Tipologia delle tracce IV (Nr. 19)

 

Tra le tracce più tangibili ci sono i regali ricevuti dall’amante e quelli acquistati per l’amante e non ancora consegnati. L’amante non fa un regalo a caso ma sempre qualcosa di assolutamente improbabile, che non vi sareste mai comprati da soli e che va esibito: è un test, vediamo quanto ci tenete e accettate di correre il rischio o lo tenete vigliaccamente nascosto.

Infatti sarebbe possibile distruggere i regali ricevuti e stare sereni ma ciò non si può fare. In genere sono le donne a perdere i pezzi molto più degli uomini e a lasciare segni evidenti del loro passaggio (basti pensare ai profumi e ai rossetti) e seppure non è dato sapere esattamente il perché si possono fare varie ipotesi come un innato bisogno di marcare il territorio, oppure il fatto che i vestiti e gli ornamenti delle donne sono di più e più vari. Della stessa serie sono i segni corporei come morsi difficilmente attribuibili ai colleghi di lavoro, o profumi inconsueti.

Di fronte a questi segni si perseguono in genere due strategie: l’occultamento o il disvelamento. Chi occulta cerca di fare di tutto perché il coniuge non se ne accorga e quando ciò avviene cade dalle nuvole e mostra egli stesso meraviglia ma se non è bravo rischia l’imbarazzo che è sempre una mezza confessione; chi disvela gioca d’anticipo e appena entrato in casa chiama il coniuge, gli mostra il segno sul collo, gli chiede ansiosamente a suo avviso di cosa può trattarsi, si mostra preoccupato e telefona al dermatologo finendo la serata con massaggio di cortisone sulla parte lesa. Meno evidenti ma altrettanto allarmanti sono le rinnovate cure che il seminatore dedica al proprio corpo: dopo anni di gioiosa pinguedine il nostro quarantenne si iscrive in palestra quattro volte a settimana, salta il pranzo e lo sostituisce con integratori e la sera si contenta di bistecca e insalata; se smette di bere e magari di fumare la situazione è forse preoccupante e l’amante probabilmente giovane. A volte c’è anche un rinnovo del guardaroba con la scusa dell’avvenuto dimagrimento ma il nuovo stile è diverso, sportivo, ammiccante, quasi adolescenziale, talvolta francamente imbarazzante; ma si sa l’innamorato ignora il ridicolo.

In questo le donne sono meno sfacciate forse a motivo della maggiore cura che tradizionalmente hanno per il loro corpo cosicché il cambiamento è meno brusco, la discontinuità con il passato meno evidente. Tuttavia a un occhio attento non sfuggono sottili cambiamenti, una luminosità nuova un sorriso più accattivante, una generica maggiore benevolenza verso il mondo intero persino verso il vecchio e noioso coniuge che si illude di essere il destinatario se non l’artefice di tale cambiamento.

Meno sfacciate sono le tracce lasciate con i pedaggi autostradali riportati dal riassunto del Telepass o le foto degli autovelox. Il riepilogo delle bollette telefoniche con tutti i numeri chiamati, il servizio telecom che permette di sapere l’ultimo numero che ci ha chiamato o il semplicissimo “richiama l’ultimo numero” (tastino R/P sul telefono di casa) che costringe a fare ogni volta, dopo una chiamata passionale, una chiamata a vuoto con il risultato che le telefonate all’amante costano il doppio (forse è fatto apposta). Ancora più subdolo è il conta chilometri dell’auto che implacabilmente conteggia tutti i nostri spostamenti: per cui la gita per andare fuori porta a trovare la vecchia zia risulta essere stata di 600 Km.

A volte le tracce non sono attuali, sono tracce riciclate di vecchie storie ormai finite o addirittura di storie precedenti all’attuale che erano assolutamente legittime e conosciute: anche con queste il seminatore riesce a perseguire i suoi scopi perché non è importante che ci sia effettivamente il tradimento ma che ce ne siano le tracce. In questo caso è sufficiente indugiare su qualche ricordo relativo a luoghi o abitudini di un tempo, riordinare archivi fotografici o vecchie agende: con poco impegno e senza l’aggravio di dover effettivamente iniziare una relazione il risultato può essere assolutamente soddisfacente con un ottimo rapporto costi/benefici. Tradire e lasciar tracce sono due cose diverse, anche se molto spesso si associano; infatti non tutti quelli che tradiscono lasciano tracce e non tutti quelli che lasciano tracce tradiscono: c’è infatti chi mette in atto dei comportamenti che sono indirizzati a sollecitare del sospetto pur senza effettivamente tradire. Gli scopi che li muovono sono identici a chi tradisce lasciando le tracce e molto diversi da chi tradisce senza lasciare tracce.

Infine c’è chi tradisce e viene scoperto senza aver avuto la minima distrazione ed avendo posto tutta l’attenzione e la perizia possibile per non essere scoperto: sono gli sfortunati colpiti dal caso che è comunque sempre in agguato; non sarebbe corretto includerli tra i seminatori.

Una donna invita a casa il suo amante solo dopo essersi assicurata che il marito alle 21 di sera fosse effettivamente in un albergo a 500 km di distanza, alle 23 lo chiama ancora per la buona notte e si dedica ad una notte di passione. Alle 24 il marito viene chiamato dalla madre che lo avverte di un grave malore del padre che sta andando in ospedale; si mette immediatamente in macchina e pensa di non avvertire la moglie per non allarmarla, passerà direttamente a prenderla intorno alle 5 del mattino. Lei, pensa, resterà sorpresa. Invece resteranno sinceramente sorpresi entrambi.

Un signore durante le vacanze della moglie pensa di fare un giro sopra la città con un aereo leggero insieme alla sua amante straniera: l’aereo cade ed entrambi muoiono. Questa è una variante particolarmente drammatica della grande categoria di eventi sfortunati dove gli amanti vengono scoperti perché coinvolti in un incidente stradale insieme e in un luogo dove non dovevano essere.

Un altro caso estremo non inconsueto riguarda la morte di uno dei due amanti durante un loro incontro segreto: liberarsi di un cadavere non è facile ed è anche un reato per cui in genere si viene scoperti e tutti quanti si vergognano da morire, tranne il morto.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Fobia sociale sui social network: l’imbarazzo emerge anche dallo schermo

FLASH NEWS

Per i fobici sociali i social network hanno un appeal non da poco in quanto artefatti che consentono di evitare le interazioni faccia a faccia.

Ma non è da darsi per scontato che la fobia sociale scompaia online. Anzi un nuovo studio evidenzia che le persone con ansia sociale tradiscono comunque segnali di imbarazzo anche sui social network.

Più di 70 studenti di età media di 19 anni sono stati reclutati in un recente studio che ha previsto sia l’assessment dell’ansia sociale che l’analisi di diversi aspetti delle pagine di profilo personale di Facebook.

E sorprendentemente diversi indici correlano con l’ansia sociale: ad esempio, elevati punteggi di ansia sociale sono correlati a un minore numero di amicizie online, a un minore numero di aggiornamenti del proprio status e di foto caricate online.

Dunque la fobia sociale lascia traccia anche attraverso il web. Questo è stato visto dall’occhio clinico e scientifico degli psicologi, ma è visibile anche a chi di psicologia non è esperto? In un altro esperimento sono state mostrate le pagine profilo di alcune persone ad altri coetanei, chiedendo a questi ultimi di stimare l’ansia sociale della persona di cui stavano osservando il profilo su Facebook.

Che dire? Ansiosi sociali, mettetevi tranquilli: dai risultati all’occhio non esperto gli indizi sono solo in parte riconosciuti e rimane piuttosto difficile scovare l’ansia sociale sui social network.

Se è vero che l’evitamento sembra resistere online, i segni di fobia sociale sono sicuramente meno visibili rispetto al blushing e ad altri fenomeni non verbali che spesso si scatenano vis a vis quando entra in gioco l’ansia nelle relazioni interpersonali.

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Anche online le bugie hanno le gambe corte!

BIBLIOGRAFIA:

  • Weidman, A., & Levinson, C. (2015). I’m still socially anxious online: Offline relationship impairment characterizing social anxiety manifests and is accurately perceived in online social networking profiles Computers in Human Behavior, 49, 12-19 DOI: 10.1016/j.chb.2014.12.045 DOWNLOAD

 

 

BEING HERE: la tecnologia al servizio della psicoterapia

Davide Antognazza, Pedagogista, Ed.M Docente Ricercatore @ SUPSI

 

Con questo contributo intendiamo presentare ad un pubblico di specialisti della psicologia una APP, scaricabile gratuitamente da Apple Store ed Android Market, che permette agli utilizzatori di tenere traccia dei propri stati emotivi.

Denominata Being here, letteralmente “essendo qui” l’APP realizzata per una Scuola Universitaria Professionale elvetica, offre la possibilità di selezionare il proprio “sentire” del momento tra sei categorie di stati emotivi: benessere, disagio, rabbia, paura, felicità e tristezza, più una settima categoria definita “altro”.

Le sei categorie sono state in parte definite a partire dagli studi sulle emozioni proposti da Paul Ekman. Ekman postula infatti l’esistenza di sette emozioni di base a cui gli autori dell’APP hanno fatto riferimento, adattando comunque le categorie scelte per favorire un uso quotidiano e semplice dell’APP stessa.

Selezionando una tra le categorie elencate, una successiva schermata invita a scegliere più nel dettaglio l’emozione che la persona sente di stare vivendo in quel momento. Ad esempio, se si sceglie felicità, si può poi ulteriormente scegliere tra commosso, allegro, divertito, felice ed eccitato.

Scegliendo invece la settima categoria, “altro”, è possibile inserire una parola o una breve frase che descrive il proprio stato emotivo.

In seguito, si chiede di indicare con quale intensità si sta provando quello stato emotivo, e/o aggiungere dettagli tipo “cosa è successo”, “dove sei”, “perché ti senti così”, “quali sono i tuoi pensieri”, …

LEGGI ANCHE: LA TECNICA ABC: SITUAZIONI, PENSIERI, EMOZIONI

 

Il monitoraggio degli stati emotivi

Tramite l’APP, i singoli utenti possono monitorare i propri stati emotivi nel corso di periodi più o meno lunghi, ottenendo un grafico facilmente consultabile sul proprio smart phone che illustra in una singola schermata la frequenza con cui un certo stato emotivo è stato percepito. L’utente può inserire i dati ogni volta che desidera, o può impostare il software in modo che, automaticamente, gli richieda tre volte al giorno di indicare lo stato emotivo che sta vivendo in quel momento.

Dopo le attività di sperimentazione, gli utenti segnalano una accresciuta capacità di percepire e nominare i propri stati emotivi, unitamente ad una maggior consapevolezza dei fattori (pensieri, situazioni, persone, …) che sono in qualche modo collegate al vivere certi stati emotivi.

 

L’articolo prosegue sotto al video: Emotional Life of Your Brain, Richard J. Davidson

https://www.youtube.com/watch?v=5GMSczR7xrs

 

 

APP come supporto e integrazione alla Psicoterapia

L’utilizzo per psicologi e psicoterapeuti è legato alla possibilità di fornire ai propri clienti un codice, che permette poi al terapeuta di ricevere in posta elettronica, con cadenza regolare, tutti i dati inseriti dall’utente, in modo da poter avere una panoramica del mutare degli stati d’animo del soggetto che sta utilizzando l’APP e di tutte le variabili ad esso correlate.

Durante gli incontri, lo psicoterapeuta può discutere di stati d’animo e situazioni specifiche, avendo inoltre lui stesso uno sguardo sull’andamento della vita emotiva del cliente per periodi di tempo determinati, verificando ad esempio se alcuni vissuti emotivi spiacevoli sono collegati a luoghi, persone o pensieri specifici o avvengono in particolari momenti della giornata o della settimana.

La lettura condivisa di quanto scritto dal cliente in termini di luoghi, tempi e situazioni – dati che il cliente stesso inserisce facilmente quando la situazione si verifica – facilitano inoltre il rivivere le emozioni e i ricordi del momento, agevolando il compito del terapeuta nel porre domande mirate nella sua richiesta di approfondimenti. Il fatto di ricevere in anticipo questi dati, aiuta a preparare la propria seduta, con tutti i vantaggi che da questo derivano in termini di prontezza di reazione e di capacità di approfondimento.

La possibilità di monitorare in modo semplice, asincrono e in remoto la vita emotiva dei propri clienti apre ulteriormente, per chi fosse interessato, la possibilità di svolgere ricerche che si avvalgono di dati aggiornati e sfruttano tecnologie disponibili a tutti. Sia in termini individuali, sia in termini aggregati, i dati ricevuti possono infatti essere rielaborati al fine di fornire statistiche sui vissuti emotivi più comuni, oppure sugli stati emotivi caratteristici di specifiche fasce di età o di campioni di clienti.

L’uso delle tecnologie in psicoterapia è un campo in rapida evoluzione e ricco di prospettive ancora inesplorate. L’APP “Being here” richiama nel suo uso quello di un diario, con il vantaggio di essere però sempre disponibile nella tasca o nella borsa dell’utente, a cui bastano pochi tocchi sul display per fissare uno stato emotivo, per sua natura passeggero. Al terapeuta il compito e la possibilità di utilizzare nella sua pratica, in modo anche innovativo e non necessariamente solo in quello  descritto in questo breve articolo, le informazioni che riceve, prendendosi il tempo di riflettere su come approfondirle e su come usarle a beneficio di un positivo sviluppo della relazione terapeutica.

 

Per maggiori informazioni su codici e ricezione dati in posta elettronica, e sui costi del servizio, scrivere a:

[email protected]

SCARICA APP

BIBLIOGRAFIA:

  • Gyatso Tenzin (Dalai Lama) & Ekman P. (2014) Felicità emotiva. Sperling & Kupfer
  • Ekman, P. (2014). I volti della menzogna. Gli indizi dell’inganno nei rapporti interpersonali. Giunti Editore

Il disturbo psicosomatico e la somatizzazione – Introduzione Psicologia Nr. 24

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 24)

 

 

Da sempre, il disturbo psicosomatico, riveste un ruolo importante tra le malattie psichiche, poiché evidenzia come il corpo sia un perfetto strumento di comunicazione di uno stato di sofferenza mentale o di disagio psichico.

 

La malattia psicosomatica risale ai tempi di Freud che si occupò della stessa proprio attraverso una serie di studi realizzati in questo ambito.

Da sempre, il disturbo psicosomatico, riveste un ruolo importante tra le malattie psichiche, poiché evidenzia come il corpo sia un perfetto strumento di comunicazione di uno stato di sofferenza mentale o di disagio psichico.

Le emozioni possono essere espresse tramite il corpo? Sì, certamente! Vediamo come: la paura fa sudare freddo, la rabbia fa venire i bollori, l’amore fa battere il cuore o tremare le gambe e l’ansia fa rallentare la salivazione o venire le farfalle allo stomaco, etc. Chiaramente, si tratta di piccoli esempi che mostrano come il corpo è strettamente connesso alle emozioni.

Ai tempi di Freud questa malattia era definita come disturbo di conversione, e per riuscire a capire esattamente cosa si verificava in questi pazienti diede vita a una serie di osservazioni che formano i famosissimi Studi sull’isteria, primo tra tutti il celeberrimo caso di Anna O, ancora oggi studiato e largamente dibattuto.

Insomma, con il termine malattia psicosomatica si indicano tutte quelle forme patologiche che si situano tra lo psichico e il corporeo, e soprattutto mostrano manifestazione di una sintomatologia organica imputabile a un mal funzionamento della psiche.

La somatizzazione è il processo alla base del disturbo psicosomatico. Infatti, con tale termine si intende il meccanismo che permette di trasformare i processi psichici in somatici, coinvolgendo il sistema endocrino ed immunitario.

Insomma, i disturbi psicosomatici (o somatoformi) mostrano sintomi fisici che suggeriscono l’esistenza di un disturbo organico (da qui somatoforme), i cui sintomi non derivano né da una condizione medica generale né dagli effetti diretti di una sostanza, ma solo dalla presenza di un disagio mentale.

Immaginiamo, a esempio, una situazione tipica in cui potrebbe verificarsi un disturbo psicosomatico: una rabbia non espressa, inibita, potrebbe essere gestita canalizzandola, attraverso un meccanismo di somatizzazione sul corpo producendo, in questo modo, un sintomo organico come il mal testa ricorrente.

Solitamente questi meccanismi sono determinati dalla presenza di forte stress, da ansia patologica, da paura costante o a un forte disagio. Si attiva, così, il sistema nervoso autonomo, che a sua volta risponde con reazioni vegetative che portano alla manifestazione di problemi fisici, come:

  • disturbi dell’apparato gastrointestinale: quali nausea, meteorismo, vomito, diarrea, colite, ulcera, gastrite, intolleranza a cibi diversi;
  • disturbi dell’alimentazione: quali anoressia, bulimia.
  • disturbi dell’apparato cardiocircolatorio: quali aritmia, ipertensione, tachicardia;
  • disturbi dell’apparato urogenitale: quali dolori e/o irregolarità mestruali, disfunzioni dell’erezione e/o dell’eiaculazione, anorgasmia, enuresi;
  • disturbi dell’apparato muscolare: quali cefalea, crampi, torcicollo, mialgia, artrite;
  • disturbi della pelle: quali acne, psoriasi, dermatite, prurito, orticaria, secchezza cutanea e delle mucose, sudorazione eccessiva;
  • disturbi pseudo-neurologici: quali sintomi da conversione come alterazioni della coordinazione e/o dell’equilibrio, paralisi o ipostenie localizzate, difficoltà a deglutire, afonia, cecità, sordità, amnesie;

Le manifestazioni organiche non sono prodotte intenzionalmente né tantomeno sono il frutto di simulazione, ma sono disagi reali. Questi sintomi organici possono portare ad un grado di sofferenza molto elevato in diverse aree del proprio funzionamento, come la vita affettiva, sociale, lavorativa e familiare.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La Terapia Gestalt nelle disfunzionalità di coppia

 

Questo articolo vuole, nella sua brevità e semplicità, proseguire in questo processo motivato e creativo, proponendo di applicare la terapia Gestaltica in un campo tecnicamente complesso, terapeuticamente impegnativo e umanamente coinvolgente come la terapia di coppia.

Introduzione

La terapia della Gestalt nel corso degli ultimi due decenni ha progressivamente integrato ulteriori e differenti costrutti teorici con conseguenti sviluppi dei suoi strumenti terapeutici, ampliando il tradizionale approccio individuale e di gruppo, vi è stata una crescita entro e oltre l’iniziale intuizione e cornice costruita da Fritz Perls (1951). Questo articolo vuole, nella sua brevità e semplicità, proseguire in questo processo motivato e creativo, proponendo di applicare la terapia Gestaltica in un campo tecnicamente complesso, terapeuticamente impegnativo e umanamente coinvolgente come la terapia di coppia.

Definizione teorico- clinica del setting

La tecnica Gestaltica ha come obiettivo e peculiarità tecnica di:

  • Permettere uno spazio d’incontro e di consapevolezza del piano emotivo, inteso come vissuto personale, intimo, profondo, irripetibile dell’individuo.
  • La verifica, ed eventuale, messa in discussione dei fondamenti e processi cognitivi dell’individuo alla luce delle sue concrete esperienze.
  • L’espressione e la comprensione – in una condizione protetta ed in una modalità specificatamente commisurata – del proprio vissuto, non soltanto attraverso il veicolo verbale.

Da questo è possibile evincere come, nel caso specifico della terapia di coppia, la tecnica Gestaltica offra un interessante spazio di manovra (Zinker, 1977).

Stili emotivi nella coppia

La coppia che si appresta a sperimentare un setting terapeutico presenta un vissuto emotivo molto variegato, che può essere suddiviso nei tipi (Nardone, 2010):

  • Depressivo/Aggressivo: predomina un ciclo emotivo riassumibile, in sostanza, nella modalità di tipo Frustrazione – Rabbia – Risentimento/Colpa. Questo ciclo, apparentemente chiuso, mina la capacità di riconoscere, incontrare ed attivare le risorse interne come anche verso le possibili risorse esterne. In questo caso l’evento disfuzionale che presenta la coppia ha funzione di problema/soluzione.
  • Ambivalente/Schizoide: predomina un ciclo emotivo rappresentabile nella modalità di tipo Manipolativa con un conseguente binomio richiesta/sfiducia, difesa/attacco, amore/odio. Il sentire l’emozione è considerato pericoloso e quindi vi è un meccanismo di auto-negazione e auto-mistificazione per cui il mondo interno emotivo è costantemente posto in una condizione di squalifica e tensione proiettando sul coniuge. In questo caso l’evento disfuzionale della coppia ha funzione di ridefinire, di volta in volta, i confini interni ed esterni nonché il potere individuale nella coppia stessa.
  • Ansiogeno/Ossessivo: predomina un ciclo emotivo rappresentabile nell’interazione di una modalità sia Depressa che Manipolativa e, nel comportamento manifesto, il binomio diviene: controllo/resistenza cui segue limite/collusione. Il bisogno di controllo verso l’esterno poggia su un vissuto di totale assenza di risorse – sia esse interne che esterne – provocando un effetto ansiogeno esponenziale, ove è richiesto progressivamente più controllo sino ad un evento risolutivo paradossale che evoca uno stallo nella quale nessun controllo è il massimo controllo. A questo punto, l’evento disfuzionale della coppia, è come una fonte di sedazione, come fonte di ristrutturatore interno. A questo vi è un ulteriore aspetto da aggiungere, ovvero che l’evento disfuzionale diviene capitale nell’economia della coppia tanto da divenirne l’unico tema possibile, tanto da essere poi percepito come risoluzione definitiva verso l’ansia relazionale.

I temi esistenziali della coppia

La coppia può presentare un variegato elenco di temi e situazioni, ma ognuno di questi è riconducibile a due elementari tematiche esistenziali:

  • Ossessivo/Aggressivo: i processi cognitivi e i loro contenuti hanno come presupposto funzionale e caratteristica saliente una ricorrenza e continuità molto serrata ed ossessiva che, in questo lavoro specifico e nella terapia di coppia, definirei come mind looping. L’obiettivo strategico di questi contenuti, nell’economia comunicativa della coppia, è la coazione a ripetere di concetti ritenuti aperti o non pienamente soddisfatti e l’elemento abbinato a questi processi e contenuti è l’aspetto aggressivo implicito.
  • Paradossale/Schizoide: le affermazioni fatte all’interno (verso se stessi e verso il proprio vissuto relazionale) e all’esterno (verso la realtà e le risorse disponibili) seguono una logica paradossale, nella quale la definizione delle cose e i rapporti tra le cose stesse riconducono ad uno schema rappresentabile come doppio legame e necessità di agire un potere all’interno e all’esterno dello spazio/coppia.

Abbiamo sempre e comunque due aspetti salienti da dover considerare, ossia una capacità comunicativa ed espressiva specifica:

  • Verbale: la comunicazione schiettamente verbale risente degli aspetti strutturali e funzionali che nella coppia sono sperimentati, di volta in volta, dai partners sia come egosintonici che egodistonici rispetto alle reazioni dell’altro. In tutti e due i casi abbiamo, quindi, una relativa verbalizzazione dei pensieri e un’ambivalenza fortissima nel definire e comunicare i sentimenti e le emozioni, sia proprie che altrui.
  • Non verbale: sono marcati gli atteggiamenti di chiusura estrema o di aperta sfida reattiva che si determinano in una vera e propria ristrutturazione sia degli atteggiamenti, sia della ripartizione degli spazi/potere.

Modalità di resistenza al contatto nella coppia disfunzionale

Da un punto di vista strettamente legato alla problematica della resistenza al contatto in Gestalt (Naranjo, 2009), la coppia disfunzionale si muove all’interno di uno spazio mai veramente definito e mai interamente vissuto, che comprende quattro aspetti distinti:

  • lo spazio d’intimità
  • lo spazio sociale
  • lo spazio della trasgressione
  • lo spazio della collusione

La coppia disfunzionale non vive in modo consapevole nessuno di questi spazi o, per meglio dire, il vissuto è presente ma è distorto e condizionato dai presupposti, dalle tematiche e dai giochi impliciti nella coppia stessa. Non riuscendo a vivere di volta in volta in modo funzionale questi diversi spazi, la coppia vive l’evento disfunzionale e problematico come unica realtà capace di concretizzare un qualche tipo di vissuto ed idea futura di coppia. In questo caso definiamo l’elemento disfunzionale come il mediatore e driver di ogni possibile vissuto emotivo e cognitivo e di ogni possibile atto sia esso agito che mancato.

La coppia disfunzionale è un tipo di evenienza clinica complessa, proteiforme e pluriforme che mantiene, sempre e comunque, delle precise costanti. Queste costanti sono gli elementi e i temi che esplicano la disfunzionalità relazionale della coppia stessa; l’evento, o gli eventi, disfunzionali non sono da considerarsi come un punto di inizio della problematica sistemico/relazionale, ma sono invece un punto di arrivo e di concretizzazione di tutta una serie di vissuti e fattori che hanno determinato come risoluzione di compromesso l’evento disfunzionale che è, al contempo, l’aspetto problematico, ma anche l’aspetto risolutorio di un processo disfunzionale alla base.

In questo senso la terapia della Gestalt aiuta a identificare tre processi salienti di contatto interno ed esterno della coppia disfunzionale:

  • Retroflessione: negazione della problematica disfunzionale o sua totale presa in carico da parte di un solo elemento della coppia. L’elemento strategico preponderante è la squalifica dell’elemento responsabilità e della contrattazione delle risorse disponibili.
  • Deflessione: il focus problematico e disfunzionale è riferito ad elementi che volutamente esulano dalla coppia. L’elemento strategico preponderante è la mistificazione delle responsabilità e delle risorse.
  • Confluenza: l’elemento problematico è posto in una modalità collusiva estrema. L’elemento strategico preponderante è l’aggressività come paradossale assunzione di responsabilità ma inutilizzo delle risorse da contrattare.

Metodo

Prendiamo ad esempio una coppia con problematica di etilismo. Sia che la coppia presenti tutti e due gli elementi come problematici o anche uno solamente, comunque vi sono delle evidenze ricorrenti che sono specifiche di questo sistema relazionale.

La coppia è un sistema a tre (Minuchin, 1974). In questo sistema l’Io incontra e sperimenta un Tu, in questo incontrare e sperimentare l’altro l’individuo percepisce, sperimenta, proietta, agisce/reagisce in un nuovo livello che è ben di più della semplice somma delle parti Io /Tu e tale livello nella sua qualità e quantità prende il nome di Noi.

L’Io che incontra il Tu lo fa a tutti i livelli del proprio essere accorpando ognuno dei seguenti sistemi integrati:

  • Fisiologico-Corporeo
  • Cognitivo-Comportamentale
  • Ideativo-Emotivo
  • Sistemico Relazionale

coinvolgendo, in modo diretto o indiretto, conscio o inconscio, tutto ciò che riguarda l’aspetto pregresso evolutivo dell’individuo stesso: i suoi condizionamenti; le distorsioni più o meno evidenti della personalità; i piccoli o grandi disturbi di personalità; i processi di inferenza sulla Realtà Presente e Futura; la manipolazione e l’interazione de facto di se stesso con l’ambiente a breve e lungo termine.

Se l’Io porta con sé tutto questo, la stessa cosa compie il Tu. Il Noi allora non è solamente un contenitore ove vanno a collocarsi ed agire le istanze e i processi individuali ma, paradossalmente, assume la funzione di un terzo elemento che è ben più della semplice somma delle parti, come dire: 1+1= 3, dove 1 e 1 stanno per un Io e per un Tu che interagiscono sia a livello proiettivo che concreto e dove 3 sta per un Noi e tutto ciò che concerne l’esperienza della coppia.

Questo 3, il Noi, è da considerarsi come un nuovo elemento, definito con caratteristiche strutturali e processuali assolutamente nuove ed impreviste. Il Noi va inteso come sinergia di strutture e di tratti di personalità, quindi non può essere considerato come semplice somma di elementi, tanto meno è possibile pensare agli elementi costituenti come elementi a loro volta linearmente riconducibili ai separati contesti di Io e Tu.

Il Noi come una struttura che, per la sua complessità e funzionalità, obbliga ad un processo irreversibile o meglio parzialmente reversibile: dall’Io al Tu sino al Noi, ma da Noi all’Io ed al Tu si viene a perdere qualcosa, il processo inverso è funzionalmente carente. Prendete come esempio generico il processo di combustione in natura.

Il metodo di contatto e di lavoro con la coppia, quindi, prevede di:

  • Individuare quali sono i meccanismi di resistenza al contatto, chi li attua, quando e come.
  • Individuare quali sono, specularmente, i meccanismi di contatto, chi li attua, quando e come.
  • Come, attraverso il linguaggio non verbale ed il vissuto corporeo, è ulteriormente espresso e rappresentato il reciproco vissuto.
  • I giochi di potere, i vantaggi primari e secondari, impliciti nelle modalità di resistenza al contatto e nelle modalità di contatto vere e proprie.
  • Il ruolo eventuale dei figli – sia essi reali e presenti nella coppia e sia immaginativi in un futuro progetto – e la loro ripartizione sia implicita che esplicita nella dinamica di coppia.
  • Il rispettivo imprinting della famiglia di appartenenza e quindi: la storia famigliare, i temi esistenziali prevalenti nella famiglia di origine.
  • L’interazione reciproca tra le famiglie di origine – se questo evento accade nella realtà o anche se è ad un livello immaginativo.
  • Chi altro c’è nella stanza: le produzioni fantasmatiche psicodinamiche consce ed inconsce, che ognuno dei due termini della coppia porta con sé e che agisce nel setting: Produzioni fantasmatiche su di sé; Produzioni fantasmatiche sul compagno\a; Produzioni fantasmatiche sul terapeuta o la coppia di terapeuti; Le aspettative verso la terapia e verso una vita senza l’elemento alcool.

Tecnica

Nella terapia di coppia il termine terzo (Minuchin, 1974) è quanto di più evidente da riconoscere e, contemporaneamente, difficile da gestire. Ogni coppia che si reca da un consulente specializzato porta con sé ed attua il proprio terzo elemento e di più ancora questo fanno le coppie dove uno o entrambi i termini siano legati ad un evento disfunzionale o ad un aspetto di un preciso evento o sequela di eventi disfunzionali.

Questo perché già di per sé il Noi è un terzo elemento risultante da un sistema di relazione. Questo Noi si presta facilmente ad essere il contenitore non solo dei processi creativi e sani degli individui, ma diviene il contenitore preferenziale e l’agente primario anche di tutto ciò che concerne la patologia relazionale della coppia.

Come dire che è il Terzo che assume su di sé e contemporaneamente determina le regole, la qualità e l’intensità delle relazioni per poi retroattivamente determinare le regole, la qualità e l’intensità delle relazioni di ambedue i singoli individui. Stando così le cose, non è possibile definire il problema disfunzionale di una coppia come specifico di un termine solo e relativo per l’altro, ma ciò riguarda la coppia come sistema ed ambedue gli individui come reciprocamente interagenti.

Vanno considerati in modo specifico e motivato ambedue i termini della coppia come disfunzionali distinguendo in:

  • Disfunzionale Diretto: l’individuo che agisce attivamente la problematica.
  • Disfunzionale Indiretto: l’individuo che è agito passivamente dall’altrui problematica ovvero il compagno\a.

Da un punto di vista strettamente analitico rivediamo la consueta relazione Sadico-Masochista (Fromm, 1973) ove sia l’uno che l’altro agiscono, in turni paradossalmente già ben stabiliti, un comportamento di volta in volta aggressivo-passivo.

  • Per il disfunzionale diretto è l’aggressività cognitivo-emotiva delle proprie frustrazioni interne elaborate, poi, esternamente nella realtà in una aggressività egosintonica con ripercussioni dirette verso l’esterno.
  • Per il disfunzionale indiretto è la passività cognitivo-emotiva delle proprie frustrazioni e di impotenza innanzi al comportamento del compagno/a.

Nell’aggressività dell’etilista attivo, rimanendo sull’esempio precedente, vi è tutta la passività di fondo di chi agisce schemi comportamentali inadeguati all’elaborazione del disagio esistenziale e, di contro, nella passività del compagno/a chiaramente, identifichiamo, l’aggressività di difesa tipica di chi deve agire primariamente non tanto verso l’individuo in sé, ma verso il comportamento e le conseguenze del comportamento che l’altro significa. Il quadro è notevolmente complesso, ma è proprio ora che l’elemento terzo – il Noi – entra così chiaramente.

Tutto questo non avviene a carico esclusivo di un Io o di un Tu, ma avviene nel sistema relazionale della coppia, che è struttura e contesto significativo che agisce ed è agita dalla disfunzionale stessa. E ciò avviene in modo così forte e cementato che il paradosso della coppia disfunzionale è il seguente: avrebbe senso di esistere questa coppia, così come essa è, rimosso il problema che la assilla?

Ovvero: è la relazione di coppia ad essere patologica e la problematica presentata è solamente l’ennesimo approdo di un processo degenerativo a livello relazionale, o è l’elemento problematico contingente, con la sua capacità destabilizzante e demolitrice, a disintegrare una relazione invece potenzialmente sana?

Quindi la tecnica terapeutica avrà come obiettivi primari:

  • Incontrare e valutare l’aggressività e la rabbia presente nei rispettivi individui.
  • Incontrare e valutare la passività – la resistenza al cambiamento – e la frustrazione presente nei rispettivi individui.

Successivamente, se possibile, incentrare il lavoro sulla modalità di coppia:

  • Presenza e gestione delle responsabilità di coppia.
  • Valutazione e ricorso alle risorse interne ed esterne della coppia stessa.
  • Livello di manipolazione e gestione del potere presente nella coppia.

Un altro passo sarà valutare il senso della coppia, ovvero:

  • Come questa coppia è insieme e come è quando non si è insieme.
  • Quando questa coppia è insieme e quando non è insieme.
  • Quale obiettivo ha questa coppia nel rimanere insieme o nello sciogliersi..
  • Con chi si sta in questa coppia.

Vi è un doppio binario terapeutico da seguire e a cui attenersi: le emozioni e i concetti che individualmente vengono vissuti ed esperiti all’interno della coppia.

La tecnica Gestaltica è particolarmente utile in questo contesto poiché, pur non negando il valore profondo del passato come esperienza ed identità, centra l’individuo nel suo presente reale e sulle sue possibili risorse rispetto ad una problematica che rappresenta sofferenza e che provoca un blocco evolutivo.

Fondamentale sarà una linea di colloquio tesa a restituire alla coppia, e non tanto al singolo esclusivo individuo, le idee, le emozioni e gli aspetti non verbali che di volta in volta si presenteranno. In questo modo il terapeuta potrà:

  • Essere in una condizione di ascolto attivo significativo per sé e per la coppia.
  • Agire da terzo terapeutico con funzione di agente attivo e suppletivo nell’esame di realtà.
  • Evitare il proprio coinvolgimento, anche involontario, nel gioco delle parti o in assetti di potere.
  • Monitorare e facilitare, come Io ausiliario, l’espressione e gli eventuali blocchi nei livelli cognitivo-emotivo e corporeo.
  • Agire sulla coppia in una vera e propria terapia di coppia e non, erroneamente, come in una terapia individuale in coppia: agendo sul sistema in modo globale e completo, proteggendo, salvaguardando e valutando attentamente le risorse e le resistenze al cambiamento dei due individui.

 

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La terapia di Coppia in Psicoterapia Cognitiva

BIBLIOGRAFIA:

La comunicazione terapeutica: gli strumenti e le strategie per renderla efficace

La comunicazione connota le relazioni fra gli esseri umani. Il bisogno di comunicare è frutto, secondo Habermas, dell’agire sociale. In esso, un posto di rilievo lo occupa l’interazione fra curante e curato, che si concretizza nella comunicazione terapeutica. Esistono strumenti – strategie che la implementano e la rendono più efficace.

Intelligenze multiple, agire relazionale e pragmatica della comunicazione umana

Ogni essere umano è caratterizzato dal possesso di intelligenze multiple (Gardner, 1994). Fra queste, si trova l’intelligenza interpersonale, ovvero quella dimensione cognitiva che nel rapporto con l’alterità si impianta e si ipertrofizza. La comunicazione connota le relazioni fra gli esseri umani. Secondo Habermas (1997) il bisogno di comunicare nasce dal fatto che l’agire umano è sempre frutto di una coordinazione sociale, cioè si comunica per direzionare l’agire, conseguenza di interazioni sociali (agire comunicativo o relazionale).

La pragmatica della comunicazione umana, attraverso gli assiomi che governano il comunicare, ha stabilito che l’uomo non può non comunicare, anche il silenzio che si instaura in una relazione è frequentemente il prodotto di un’intenzionalità comunicativa. In altri termini, il silenzio trasmette il desiderio di non comunicare (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971, pag.41). D’altra parte, l’uomo parla continuamente. Lo fa esternando le sue parole ad un interlocutore, lo fa con se stesso attraverso il self – talk o linguaggio interiore. In entrambe le situazioni, dal punto di vista neuroscientifico, sono attivati gli stessi meccanismi neuronali, come dimostra una recente ricerca (Magrassi et al., 2015).

La teoria dell’informazione

Nell’ambito della teoria dell’informazione, il comunicare è il risultato di una relazione che si instaura fra emittente e ricevente. In pratica, l’emittente invia delle informazioni al ricevente, attraverso un canale (aria, ecc.). Laddove queste informazioni sono espresse in un codice conosciuto da entrambi diventano dei messaggi, che hanno la capacità di influire sui partecipanti alla comunicazione. [blockquote style=”1″]Quanto maggiore è la condivisione di codici (linguistico, affettivo, cognitivo) tanto maggiore è la possibilità di una comprensione del messaggio e di una risposta adeguata[/blockquote] (de Mennato, 1998, pag. 98).

Mappa cognitiva, sistema di significazione, identità culturale

Ogni persona percepisce la realtà in base alla mappa cognitiva che possiede. È proprio questo sistema di significazione che orienta la comunicazione, attraverso un’attenzione selettiva per quello che si sta ascoltando, per quello che dice l’interlocutore. In altre parole, è la mappa cognitiva che interviene nella selezione e nell’elaborazione dell’informazione. La mappa concettuale costituisce l’identità culturale dell’individuo. Solitamente <i soggetti…comunicano con minore tasso di fraintendimento nel momento in cui riconoscono reciprocamente l’appartenenza alla stessa identità culturale> (de Mennato, op. cit., pag. 99).

Comunicazione, relazione e contesto

La comunicazione fra gli esseri umani è sempre inserita nell’ambito di una relazione ed è proprio questo aspetto relazionale che la contraddistingue e la ipoteca, come affermato dal secondo assioma della pragmatica della comunicazione umana (Watzlawick, Beavin e Jackson, op. cit., pag. 44). In altre parole, laddove ci si sente a proprio agio nel rapporto con l’altro, la comunicazione diventa fluida, cosa che non succede in una situazione di disagio. In pratica,

[blockquote style=”1″]ogni atto comunicativo…non è comprensibile al di fuori del proprio contesto e della sequenza di atti comunicativi all’interno dei quali si colloca[/blockquote] (de Mennato, op. cit., pag. 101).

Le nostre conversazioni, il più delle volte, hanno come argomento principale noi stessi e il nostro mondo. È un modo per consolidare i legami sociali, attraverso la condivisione delle soggettività. Sembra che parlare di sé obbedisca ad un bisogno primordiale dell’essere umano. Infatti, una ricerca compiuta da Tamir e Mitchell della Harvard University ha dimostrato che quasi la metà delle nostre conversazioni ha per oggetto i vissuti relazionali, sia quelli che sperimentiamo nel rapporto con noi stessi che con l’alterità. I ricercatori paragonano questo bisogno, alla luce delle attivazioni cerebrali prodotte, al bisogno di mangiare. Di fatto, entrambi i bisogni incrementano l’attività del sistema dopaminergico mesolimbico (Tamir e Mitchell, 2012).

L’implementazione della comunicazione terapeutica

Alla luce dei costrutti delineati, la comunicazione terapeutica ha il paradigma fondante nella relazione che si instaura fra curante e curato. In altri termini, è proprio questa interazione che ipoteca al positivo o al negativo il comunicare. La comunicazione terapeutica si implementa attraverso alcuni strumenti e strategie, quali:
– l’essere il più concreti possibile per evitare fraintendimenti;
– mettersi sempre nell’ottica di comunicare con piuttosto che contro;
– “considerare ogni interlocutore degno di una storia che non possiamo conoscere se non è lui a narrarla” (de Mennato, op. cit., pag. 103);
– debellare ogni analfabetismo emozionale, ovvero essere coscienti delle emozioni provate e di quanto esse influiscono sui processi comunicativi (Contini, 1997).
– saper superare il proprio egocentrismo cognitivo/affettivo, ossia “decentrarsi” sull’altro per capire il suo messaggio (de Mennato, op. cit., pag. 106);
– implementare le abilità empatiche, cioè quelle competenze che ci permettono di “sentire il mondo personale” del nostro interlocutore, con l’obiettivo di capire il suo valore e il significato (Rogers, 1970, pag. 57).

 

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La comunicazione emotiva: un ponte tra linguaggio e musica

 

BIBLIOGRAFIA:

Credenze autocriticiste: la tecnica Directed Abstraction può modificare l’ idea negativa di noi stessi

FLASH NEWS

Faticoso quanto vero il fenomeno per cui le persone che hanno credenze negative su di sé mantengono- quasi involontariamente- tali assunti pessimistici a dispetto di contrarie evidenze concrete. In un nuovo articolo viene descritta una tecnica definita Directed Abstraction che può aiutare nel cambiamento delle proprie credenze autocriticiste.

Faticoso quanto vero il fenomeno per cui le persone che hanno credenze negative su di sé mantengono- quasi involontariamente- tali assunti pessimistici a dispetto di contrarie evidenze concrete: è un deficit di generalizzazione del successo, da un singolo evento positivo è difficile generalizzare a un tratto stabile della propria persona. E’ frequente inoltre generalizzare e legare gli effetti di una prestazione negativa a tratti stabili del sé e del valore personale.

In un nuovo articolo viene descritta una tecnica definita Directed Abstraction che può aiutare nel cambiamento delle proprie credenze autocriticiste.

In un primo studio i partecipanti dovevano stimare il numero di puntini proiettati su uno schermo; in seguito venivano forniti loro dei feedback estremamente positivi sulle loro performance, non sempre aderenti alle reale performance ma comunque convincenti e realistici. In seguito gli studenti sono stati divisi in due gruppi:

  • ad alcuni è stato chiesto di spiegare in che modo hanno portato a termine il compito, condizione che mantiene le credenze a un livello concreto e specifico (il come);
  • ad altri veniva richiesto di completare la frase Sono stato in grado di eseguire bene il compito perché sono…., condizione che stimola l’astrazione delle credenze relative al sé (il perché)

Secondo i risultati la condizione in cui si stimola l’astrazione delle credenze partendo da un successo (o evento positivo) darebbe particolare beneficio – che cioè si traduce in una maggiore autostima – proprio a quei partecipanti con delle credenze negative e pessimiste su sé stessi.

Similmente lo stesso trend di risultati si mantiene anche in un secondo esperimento in cui i soggetti sono sottoposti a public speaking.

Questa semplice tecnica, utilizzata frequentemente secondo diverse declinazioni in psicoterapia, trova un piacevole riscontro empirico in questo studio su campione non patologico.

 

 

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La profezia che si auto-avvera – Introduzione alla Psicologia Nr.09

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Manca un’adeguata assistenza psicologica ai detenuti nelle carceri

Caos carceri, Aupi denuncia: dieci minuti di assistenza psicologica all’anno ai detenuti, 1500 casi di tentato suicidio, agenti penitenziari in difficoltà, “esperti” esterni chiamati a lavorare per poche ore a settimana. 

[blockquote style=”1″]Ci sono 1500 casi di tentato suicidio all’anno all’interno dei penitenziari italiani. Molti finiscono bene, perché si riesce a intervenire in tempo. Altri, come dimostra la cronaca di questi giorni, purtroppo, hanno un tragico epilogo. Non possiamo tacere di fronte a questa situazione perchè coinvolge anche noi psicologi.[/blockquote] Così il segretario generale di AUPI (Associazione Unitaria Psicologi Italiani), Mario Sellini, sui due suicidi a distanza di poche ore nel carcere romano di Regina Coeli.

[blockquote style=”1″]Nessuno sa che i detenuti hanno mediamente dieci minuti di assistenza psicologica all’anno. Questo perché il Ministero della Giustizia non ha previsto all’interno delle strutture penitenziarie il riconoscimento di questa professione. In pratica, nelle carceri lavorano poche centinaia di cosiddetti “esperti”, personale esterno che ha un contratto di poche ore mensili e, dunque, non è nelle condizioni di poter fare assistenza psicologica. E oltre il danno la beffa: due anni fa il Ministero ha diramato una circolare dove faceva sapere che non venivano rinnovati gli incarichi dei vecchi “esperti”, per lasciare entrare nuove professionalità, con pochissima esperienza e impreparati a lavorare in un luogo tanto problematico.[/blockquote] continua Sellini.

Ma c’è un altro dato che fa riflettere e riguarda le condizioni di lavoro degli agenti penitenziari.

[blockquote style=”1″]Noi vogliamo dare sostegno agli agenti di polizia penitenziaria perché il personale è stato ridotto del 20 per cento e i turni sono massacranti. Oltre al fatto che trovarsi di fronte ad un suicidio mina la stabilità psicologica anche di queste persone che dovrebbero svolgere il proprio lavoro in condizioni appropriate, considerata la delicatezza del settore in cui operano[/blockquote] conclude Sellini.

 

Angela Corica
Ufficio stampa AUPI
333 9892161

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