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Il catalogo dei seminatori – Tracce del Tradimento Nr. 20

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO – XX: Il catalogo dei seminatori

Cosa guida il comportamento dei seminatori? Perché non sono più attenti? Perché lasciano tracce che inevitabilmente complicheranno la vita e forse porteranno alla fine stessa del tradimento?

I seminatori hanno il coltello dalla parte del manico, nel senso che sanno come stanno le cose effettivamente, mentre il partner è disperatamente orientato a capirlo. Già questo li rende meno simpatici delle loro vittime perché ci appaiono come il gatto che gioca crudelmente con il topo destinato al sacrificio. Tratteniamo tuttavia i moti dell’animo, dettati anche dalla nostra tendenza a identificarci con l’uno o con l’altro, e proviamo a descriverli. I seminatori li dividiamo i due grandi categorie:

  • coloro che lasciando tracce vogliono che si verifichi un cambiamento del rapporto
  • coloro che sono certi che pur lasciando tracce non ci sarà un cambiamento del rapporto.

La prima categoria dei seminatori che vogliono un cambiamento del rapporto si divide ulteriormente in due sottoclassi:

  • la prima classe è costituita da quelli che sostanzialmente desiderano arrivare a una conclusione del rapporto e mandano messaggi perché l’altro lo capisca o la situazione diventi esplosiva fino a giungere alla rottura: fanno di tutto per essere lasciati senza avere il coraggio di affrontare apertamente il problema e per questo saranno d’ora in avanti denominati codardi;
  • la seconda classe raduna coloro che non vogliono una vera e propria fine del rapporto ma che desiderano che si modifichi, che diventi più vivo e denso di quelle emozioni dell’inizio quando nulla era scontato e per questo il desiderio era sempre attivo. E’ come se volessero segnalare al partner la possibilità di perderli per ravvivare il suo interesse e per questo li chiameremo provocatori.

Anche la seconda categoria, vale a dire quelli che non vogliono un cambiamento del rapporto e che dunque vogliono solo godersi qualcosa in più fuori dal legame stabile senza tuttavia voler rinunciare ad esso, si divide in due classi:

  • la prima classe è costituita da coloro che sono certi che non saranno mai scoperti perché non riescono ad osservarsi da fuori, a vedere i segnali che mandano e non riescono a mettersi nei panni dell’altro cogliendo ciò che prova e che può pensare. Sembra quasi che abbiano un deficit metacognitivo, una difficoltà a immaginare e costruire i pensieri e le emozioni degli altri, una sorta di incapacità di leggere la mente altrui; per questo li chiameremo deficitari;
  • la seconda classe comprende i seminatori che non si preoccupano di far attenzione per non lasciare tracce perché ritengono che anche se fossero scoperti non sarebbero mai lasciati perché sono troppo importanti per l’altro che sarebbe disposto a perdonargli qualsiasi cosa pur di non perderli. Addirittura la scoperta del tradimento e il suo perdono sarebbero un’ulteriore prova della loro grandezza. Per questo d’ora in avanti li chiameremo narcisi.

Nei prossimi articoli ci addentreremo nella psicologia dei quattro tipi di seminatori identificati: i codardi, i provocatori, i deficitari e i narcisi per definire gli scopi che li guidano, le strategie che adottano, i ragionamenti che fanno e, più avanti, le situazioni che creano a seconda di quali cercatori di tracce incontreranno.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Il Binge Eating Disorder (BED): aspetti di personalità e difficoltà nell’espressione delle emozioni

Caterina Micalizzi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il Binge Eating Disorder (BED) o disturbo da alimentazione incontrollata, secondo il DSM-IV-TR (APA, 2000) è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, senza l’uso regolare di inappropriati comportamenti compensatori, tipici invece della bulimia nervosa. Tale disturbo sembra avere origine nel periodo dell’adolescenza, in una situazione di normopeso, spesso a seguito di una significativa perdita di peso dovuta ad una dieta autogestita o scorretta.

Questi pazienti manifestano difficoltà in svariati ambiti della loro vita: – disagio sociale e giovanile esteso alla maggior parte dei rapporti interpersonali; – distorsione nella visione del proprio corpo che alimenta un senso di insicurezza e d’inadeguatezza; – pressione e stress dovuti alla grande quantità di tempo trascorso sotto regime dietetico; – in alcuni casi abuso di alcool o droghe; – difficoltà a gestire gli stati d’animo o a esprimere/manifestare le proprie emozioni, compresa la rabbia; – senso di impotenza legato all’incapacità di controllare il proprio comportamento alimentare e il conseguente aumento di peso.

Il 50% dei pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata soffre di depressione maggiore, disturbo di panico e di alcuni disturbi di personalità. Il sintomo dell’abbuffata infatti andrebbe a compensare una sensazione pervasiva di sconforto persistente presente nel momento della crisi. Un elevato sovrappeso può contribuire al mantenimento e all’accentuazione del sintomo compulsivo, in quanto restituisce a chi ne soffre un senso di fallimento, di colpa e di vergogna che autoperpetua la condotta alimentare incontrollata. Durante gli episodi di abbuffata il soggetto è inconsapevole di quello che sta facendo, per cui c’è una perdita di controllo (Mannucci, Ricca, Rotella, 2001). In seguito è in preda a sentimenti di disgusto.

I pazienti con binge eating disorder sono caratterizati da specifiche caratteristiche di personalità e proprio questi aspetti vengono considerati come fattori di vulnerabilità individuale, cioè fanno sì che coloro che ne sono portatori siano più esposti di altri a sviluppare il disturbo. Essi presentano: bassa autostima che spinge gli individui a sovrastimare l’apparenza corporea, riponendo nel raggiungimento della migliore forma fisica aspettative irreali di successo e di realizzazione personale. Inoltre, contribuisce ad interpretare in maniera eccessivamente negativa eventuali “sconfitte” o “ricadute” alimentari, favorendo l’insorgere di un altro aspetto comune nei soggetti con disturbi alimentari, e cioè il “senso di colpa”; pensiero dicotomico: il paziente sarebbe soggetto a estremizzazioni ripetute ed oscillazioni nel giudizio di se stesso e dell’ambiente. La mancanza di una sufficiente consapevolezza di sé facilita l’insorgenza e il mantenimento di comportamenti estremizzati anche in ambito alimentare, producendo l’ alternarsi di restrizioni ed abbuffate, tali da riproporre all’ individuo la propria incapacità di condurre un’ esistenza equilibrata e risulta pericoloso poiché rafforza il senso di fallimento di fronte anche ad una piccola “ricaduta” alimentare, favorendo l’insorgenza dei sensi di colpa, l’insinuarsi e il successivo perpetuarsi dei sintomi depressivi; perfezionismo patologico: valutazione di Sé eccessivamente dipendente dall’inseguimento e dal raggiungimento di determinati standard personali esigenti ed autoimposti (Dalle Grave, 2003). La persona pensa che potrà essere accettata solo a condizione di dare il massimo delle proprie possibilità senza la minima smagliatura. Il giudizio altrui viene considerato l’unico modo per stimare il proprio valore. Alessitimia: in quanto presentano difficoltà a identificare e a descrivere i propri sentimenti, associati a un senso di generale inadeguatezza e a perdita del controllo sulla propria vita (Brunch, 1973). I soggetti BED si può dire che non conoscono le mezze misure: manifestano comportamenti impulsivi o comportamenti ossessivi, presentano difficoltà a gestire le emozioni, sentendole troppo forti e intense al punto da reagire senza riflessione.

Vari studi, come quello di Fassino et al., 2002, si sono avvalsi del Temperament and Character Inventory (TCI) uno strumento specifico utilizzato per analizzare il profilo temperamentale e caratteriologico dei DCA. Essi hanno evidenziato che i pazienti con Binge eating disorder (BED) confrontati con pazienti obesi senza BED ottengono alti punteggi nella scala HA (Harm Avoidance), per cui sono soggetti più insicuri, timidi, apprensivi, nervosi, irascibili e impulsivi, più passivi e si scoraggiano più facilmente. Secondo un altro studio (Marcus et al., 1990; De Zwaan el al., 1994; Kirkley et al., 1992) i pazienti BED tendono ad ottenere tramite tale strumento bassi livelli di SD (autodirezionalità) e di C (cooperatività) per cui mostrano maggiore immaturità, debolezza, fragilità, tendenza alla colpevolizzazione altrui, scarsa capacità integrativa e sono più critici, autocentrati, intolleranti, incapaci di aiutare e opportunisti. Da tale studio emerge pure che i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata, rispetto ai soggetti senza tale disturbo, manifestano un livello di ansia e di depressione maggiormente elevato, una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo, un elevato impulso alla magrezza e tendenze bulimiche. Inoltre il disturbo è associato a disturbi psichiatrici, quali il disturbo borderline di personalità, il disturbo evitante di personalità, il disturbo paranoide di personalità e il disturbo istrionico di personalità.

L’approccio psicobiologico, che ha effettuato studi tramite il TCI, ha evidenziato tratti di personalità caratteristici del BED quali: un’alta ricerca della novità, un alto evitamento del danno ed un’autodirettività inadeguata. L’elevato evitamento del danno è la dimensione temperamentale caratteristica del soggetto BED che attiene allo spettro depressivo, che predispone alla deflessione del tono timico, alla presenza di maggior rischio suicidario e ad una bassa qualità di vita, condizioni tra loro associate, e spesso presenti nella popolazione degli obesi essenziali, ma più evidente negli obesi-BED (Fassino, Leombruni, Pierò et al., 2002). Di questi tre tratti, però, soprattutto l’autodirettività sembra l’indicatore personologico più caratteristico e rilevante dal punto di vista clinico, sia per discriminare più efficacemente dal punto di vista psicopatologico i diversi quadri sintomatologici e comportamentali, che come elemento predittivo di esito. Secondo alcuni modelli teorici (Vinai, Todisco, 2007) le persone affette da disturbo da alimentazione incontrollata riescono a percepire le emozioni solo quando raggiungono una certa intensità, al di sotto della quale sono come anestetizzati, ma appena iniziano a percepirle non sono più in grado di tollerarle. Nei pazienti con bassa autostima, la tendenza al controllo e al perfezionismo provocano facilmente emozioni negative.
Mitchell e collaboratori (1999) hanno evidenziato che nei pazienti BED l’abbuffata ha un valore edonico. Infatti essi tendono ad apprezzare in maniera significativa l’odore, il gusto, la consistenza del cibo.

Secondo Williamson, White et al. (2004) gli stimoli ambigui, informazioni riguardo al corpo o all’alimentazione attiverebbero dei bias cognitivi (attenzionali, mnestici etc) relativi allo schema corporeo, che portano a valutazioni negative sul proprio peso e corpo (sovrastima del corpo e del peso) e conducono ad emozioni negative intollerabili. Per cui vi sarebbe un alterazione della percezione corporea dei pazienti che è vissuta in modo pervasivo elicitando comportamenti adatti a far fronte a stati emotivi insostenibili.
Stice (2001) suggerisce che nel binge eating disorder il bisogno di mangiare viene decritto dai pazienti stessi come incoercibile e l’assunzione di cibo come una vera e propria compulsione all’insegna della perdita di controllo su quanto ingurgitato e sulla durata dell’abbuffata stessa (Apfeldorfer, 1996).

Tra i fattori che la letteratura recente indica come determinanti nella genesi e nel mantenimento del disturbo vi sono l’esperienza e la regolazione disfunzionale delle emozioni: le persone a rischio di questi disturbi spesso presentano difficoltà nella gestione delle emozioni, sperimentano frequentemente emozioni negative molto intense e utilizzano il cibo per regolarle (Polivy e Herman, 2002; Bardone-Cone e Cass, 2006; Macht, 2008). Alcuni soggetti riferiscono che il loro comportamento alimentare incontrollato viene scatenato da alterazioni disforiche dell’umore, come depressione, ansia, irritabilità e tristezza variamente associate. Altri non sono in grado di individuare precisi fattori scatenanti, ma riferiscono sentimenti aspecifici di tensione che ricevono sollievo dal mangiare senza controllo. Anche la quantità e la qualità di cibo ingerito paiono correlare con le emozioni provate dal paziente. Le maggiori quantità sarebbero assunte in risposta all’ansia, mentre nei casi di umore depresso vi è la tendenza a ricercare cibi particolari in cui è la qualità ad essere consolatoria. Inizialmente il paziente sente delle sensazioni di gratificazione legate al cibo e al senso di pienezza, ma ciò lascia rapidamente posto a spossatezza, fastidio fisico e deflessione del tono dell’umore (Wegner et al., 2002). Si evidenzia quindi una stretta relazione fra esperienze emozionali e comportamento alimentare. Infatti, i risultati di alcuni studi rilevano anche che l’alimentazione viene usata dalle persone con questi disturbi come regolatore degli stati affettivi (Evers, Marijn Stok e Ridr, 2010), in particolare come strumento per evitare o inibire l’esperienza emozionale.

Alcuni studi riportano nelle ragazze con Disturbi dell’Alimentazione incontrollata minore consapevolezza delle emozioni e maggiore difficoltà nella loro regolazione (Harrison, Sullivan, Tchanturia e Treasure, 2009), con un uso prevalente o esclusivo di strategie di regolazione emozionale disfunzionale, come la soppressione o l’evitamento delle emozioni (Oldershaw et al., 2012), e minore ricorso a strategie adattive come la rivalutazione cognitiva e il problem solving (Aldao e Nolen-Hoeksema, 2010). Secondo la letteratura (Speranza, Loas, Wallier, et al., 2007), l’alessitimia, conseguenza deficitaria o strategia messa in atto rispetto a una gestione emotiva disregolata o disfunzionale, è una delle caratteristiche principali dei disturbi del comportamento alimentare, incluso il BED. Elevati livelli di alessitimia corrispondono a una significativa difficoltà nell’identificare le emozioni e i sentimenti, specialmente rabbia e stati emotivi negativi, e nell’esprimerli verbalmente, associata a un senso di generale inadeguatezza e a perdita del controllo sulla propria vita (Schimdt, Jiwany, Treasure, 1993).

Sviluppi teorici classici suggerivano una stretta relazione tra deficit emozionali e binge eating, attribuendo ai soggetti BED peculiari strategie psicopatologiche “difensive”. Clinicamente si osserva il tentativo di evitare sentimenti paurosi e sgradevoli e di limitare l’esperienza emozionale in generale (Markey, Vander, 2007) . Inoltre, si è osservato in uno studio condotto da Carano, De Berardis, Gambi, et al., (2006) che ha indagato la relazione tra immagine corporea e presenza del costrutto alessitimico nei soggetti con BED, che questi ultimi mostrano una maggiore gravità del disturbo alimentare (indici di massa corporea più elevati) e una maggiore insoddisfazione per il proprio corpo rispetto ai pazienti non alessitimici. I soggetti BED alessitimici rispetto ai soggetti BED non alessitimici rispondono meno ai trattamenti psicoterapeutici e nutrizionali, mostrando elevati tassi di drop-out. Nello specifico, i pazienti BED alessitimici hanno difficoltà a identificare e a descrivere sentimenti ed emozioni senza presentare caratteristiche di pensiero orientato esternamente.

Come affermano Taylor e al., (1997), le persone affette da BED sono fondamentalmente alessitimiche, in quanto presentano deficit nel riconoscimento dei propri stati interni (fame, sazietà, senso di vuoto), nell’esplorazione del proprio mondo interiore e nella competenza necessaria per riconoscere ed esprimere le proprie emozioni. La mancanza d’informazioni sul proprio stato di benessere e sui propri desideri e bisogni, ostacola la creazione di confini stabili con gli altri, aumentando, di conseguenza, la dipendenza dall’ambiente esterno per avere conferme e sicurezze. Quindi emerge in tali pazienti una mancanza di consapevolezza enterocettiva, con conseguente confusione e incertezza nel riconoscere e rispondere in modo preciso agli stati emotivi.

Secondo le moderne teorie biopsicosociali i deficit di regolazione delle emozioni possono essere spiegati da fattori relazionali precoci, quali, in particolare, l’incapacità del caregiver di facilitare attraverso la funzione riflessiva, un pattern di attaccamento sicuro nei propri figli, determinando un’insufficiente maturazione della mentalizzazione e della regolazione emotiva (Fonagy & Target, 2001; Schore, 2001; Caretti & e La Barbera, 2005).

 

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La caffeina contrasta lo stress cronico

 

Un maggior consumo di caffeina diminuirebbe la probabilità di sviluppo di depressione e preverrebbe le alterazioni cerebrali stress indotte.

Un recente studio condotto presso l’Università di Coimbra in Portogallo, ha messo in luce la relazione esistente tra l’assunzione di caffeina e lo stress cronico. Un maggior consumo di caffeina diminuirebbe la probabilità di sviluppo di depressione e preverrebbe le alterazioni cerebrali stress indotte.

È noto che lo stress rappresenti un importante fattore di rischio per lo sviluppo di conseguenze cognitive, emotive, fisiche e comportamentali negative, come depressione, perdita di memoria e di concentrazione. In particolare la ricerca, pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), fornisce nuove conoscenze sui meccanismi molecolari alla base della correlazione tra consumo di caffeina e disturbi psichiatrici.

Le molecole di caffeina agiscono legandosi principalmente ai recettori dell’adenosina e bloccandoli. La ricercatrice Manuella P. Kaster e colleghi hanno osservato il comportamento dei topi sottoposti a situazioni stressanti, che includevano letto umido, la condivisione dello spazio di vita con gli altri, la privazione di acqua e cibo, bagni freddi e gabbie inclinate a 45 °; è emerso che lo stress altera sia il comportamento che le sinapsi, molte delle quali appaiono atrofizzate, soprattutto nell’ippocampo, regione preposta al consolidamento della memoria e all’inibizione comportamentale. I circuiti ippocampali infatti sono ricchi di recettori dell’adenosina.

Lo studio ha previsto il coinvolgimento di due ulteriori gruppi di topi (sottoposi alle stesse situazioni stressanti del primo gruppo): uno geneticamente modificato in modo che i neuroni non esprimessero i recettori dell’adenosina, l’altro di topi normali in cui tali recettori erano stati bloccati farmacologicamente.

Bloccando il funzionamento dell’adenosina in condizioni di stress cronico nei topi e somministrando loro caffeina, si è osservato come questi avessero migliori prestazioni di memoria e sinapsi meno atrofizzate rispetto al gruppo di topi stressati ma non trattati con la caffeina.

L’assunzione di caffeina potrebbe essere un tentativo inconsapevole di questi animali di auto-medicarsi, allentando la tensione e riducendo l’incidenza di depressione.

Potrebbe, in tal modo, essere spiegata la necessità impellente di caffeina da parte di chi è sottoposto a condizioni continue di stress; inoltre questa scoperta potrebbe aprire la strada a un nuovo possibile approccio alla terapia dei disturbi dell’umore e della memoria dovuti allo stress cronico.

 

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La stabilità dell’ambiente di riferimento: un fattore di protezione per i disturbi da uso di sostanze

FLASH NEWS

Un senso di stabilità e di controllo sul proprio ambiente di riferimento può modificare il modo in cui i circuiti cerebrali si strutturano, riducendo la sensibilità al consumo e all’abuso di sostanze e quindi l’impatto delle sfide che la vita pone.

Numerose ricerche hanno dimostrato che condizioni di stress e di deprivazione ambientale possono conferire un certo grado di vulnerabilità per lo sviluppo di disturbi da uso di sostanze nel caso degli uomini, mentre nel caso degli animali per il comportamento di ricerca delle sostanze; d’altro canto un senso di stabilità e di controllo sul proprio ambiente di riferimento può modificare il modo in cui i circuiti cerebrali si strutturano, riducendo la sensibilità al consumo e all’abuso di sostanze e quindi l’impatto delle sfide che la vita pone.

Con l’obiettivo di confermare le evidenze sopra dette la ricerca presente ha considerato un breve training cognitivo come strumento efficace per ricreare appunto una certa solidità e sicurezza, in quanto esso media processi di apprendimento e la formazione di ipotesi basate sulle informazioni che possono essere ricavate dall’ambiente.

In particolare lo studio ha sottoposto a tele training 74 topi che, tramite prove ed errori, dovevano infatti apprendere associazioni arbitrarie discriminando tra diversi stimoli sensoriali e ricevendo in cambio ricompense di cibo.

I topi sono stati divisi in tre gruppi, quelli del primo gruppo sono stati esposti al training cognitivo per 9 giorni e hanno ricevuto le ricompense ogni volta che dimostravano di aver appreso le giuste associazioni; il secondo gruppo di topi è stato sottoposto al training ma i rinforzi non erano conseguenti al successo durante la prova, piuttosto gli animali venivano ricompensati ogni volta che i topi del primo gruppo ricevevano il cibo; infine il terzo gruppo non è stato esposto al training e durante i 9 giorni veniva lasciato in uno stato di deprivazione di cibo. Trascorsi i 9 giorni di training venivano fatte passare 4 settimane al termine delle quali i topi venivano condizionati all’uso della cocaina.

La ricerca ha voluto verificare in una prima fase il mantenimento del comportamento di ricerca della sostanza esponendo settimanalmente i topi al condizionamento della cocaina mentre nella seconda fase un’esposizione giornaliera alla sostanza è stata programmata per controllare l’estinzione del comportamento di ricerca della cocaina.

I risultati hanno mostrato che tutti i topi hanno sviluppato un’eguale preferenza alla cocaina il primo giorno di esposizione alla sostanza, tuttavia il comportamento degli animali cambia con il ripetersi dell’assunzione.

In particolare si è osservato che il training cognitivo ha un effetto protettivo generale rispetto al mantenimento del comportamento di ricerca, mentre nel caso dell’estinzione della preferenza per la cocaina solo i topi che fanno parte del primo e del secondo gruppo, cioè quelli che ricevono il training, mostrano una riduzione della stessa.

Tali esiti confermano le ipotesi di ricerca e le conclusioni degli studi precedenti e cioè che un maggior senso di controllo e di stabilità del proprio ambiente di riferimento può rappresentare un fattore di resilienza e di protezione rispetto ai disturbi da abuso di sostanze.

 

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Cambiamento in psicoterapia: il modello dei fattori aspecifici

Alessia Offredi, OPEN SCHOOL MODENA

 

 

Il modello dei fattori aspecifici nasce dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

[blockquote style=”1″]Everybody has won and all must have prizes[/blockquote] (Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, cap.3)

Saul Rosenzweig (1936) prende spunto dal capolavoro di Carroll per coniare un modo di dire che sarà alla base di un grande dibattito in ambito psicologico, attivo ancora oggi. Si tratta del verdetto del Dodo e nasce dall’episodio narrato nell’opera in cui l’uccello Dodo indice una gara tra i vari personaggi, senza specificare i parametri che avrebbero decretato il vincitore. Per questo motivo, alla fine della gara, per accontentare i partecipanti desiderosi di sapere chi avesse vinto, l’uccello risponde: “Tutti hanno vinto e tutti devono essere premiati”.

Rosenzweig afferma che i fattori aspecifici sono i maggiori responsabili del cambiamento in psicoterapia, pertanto non c’è nessuna differenza nell’applicazione di una o dell’altra tecnica specifica, dato che ognuna può portare a risultati apprezzabili. Questa posizione viene ripresa nel 1975, quando Luborsky e colleghi conducono il primo studio comparativo su diversi tipi di psicoterapie, riscontrando poche differenze significative tra di esse. Questo lavoro ha dato origine alla conduzione di numerosi studi pro o contro il verdetto del Dodo, che si susseguono tuttora nella letteratura internazionale.

Il modello dei fattori aspecifici si muove a favore del verdetto del Dodo, portando sempre più numerosi studi a sostenere il ruolo secondario delle tecniche scelte. Tra questi, la metanalisi di Smith e Glass (1977) considera più di 400 trial controllati, confrontando popolazione che si era sottoposta a psicoterapia e campione di controllo e mostrando l’efficacia della terapia al di là della base teorica da cui era stata sviluppata. Successivamente, Wampold (2001) non riscontra differenze tra gli effetti di differenti trattamenti e afferma che una ricerca metodologica più rigorosa non avrebbe comunque trovato delle differenze.

Il modello dei fattori aspecifici nasce quindi dalla convinzione che esista una serie di fattori comuni a tutte (o quasi) le terapie, responsabili dei benefici della psicoterapia, più degli elementi peculiari dei vari approcci.

Partendo da questo presupposto, mancava però in letteratura una visione condivisa e definita dei fattori aspecifici, che per loro natura sembrano difficilmente operazionalizzabili. Grencavage e Norcross (1990) effettuano una grande revisione dei lavori pubblicati fino a quel momento, citando tutti i fattori individuati dai colleghi e illustrati altrove. Ne risulta un elenco molto ricco (89 fattori per l’esattezza) suddiviso in 5 macro-categorie:
– processi di cambiamento (acquisizione e pratica di nuovi comportamenti, autoconsapevolezza, apprendimento emotivo e interpersonale, feedback dalla realtà, …);
– qualità del terapeuta (si mostra speranzoso o condivide le proprie aspettative, è accogliente, si pone in un atteggiamento di ascolto empatico, …);
– elementi della relazione (sviluppo di una buona alleanza terapeutica, ingaggio del paziente, …);
– elementi del trattamento (uso di tecniche o rituali, esplorazione dei contenuti emotivi, aderenza a una teoria, comunicazione verbale e non verbale);
– caratteristiche del paziente (aspettative positive, il paziente cerca aiuto in modo attivo, …).

Wampold chiarifica che i fattori aspecifici così come descritti da Grevncavage e Norcross (1990) non possono da soli giustificare un cambiamento, ma devono essere considerati nel sistema di aiuto descritto da Frank. Jerome Frank (Frank & Frank, 1993) sembra avere il merito di aver dato il via alla creazione di una cornice teorica maggiormente definita a tale approccio; successivamente Wampold e colleghi hanno ripreso e perfezionato il modello (Wampold, 2001, Wampold & Budge, 2012), concettualizzando la psicoterapia come una pratica di cura socialmente fondata.

Da questa prospettiva, vengono identificati cinque fattori considerati necessari e sufficienti a produrre un cambiamento: (a) un legame forte e emotivamente connotato tra paziente e curante, (b) un setting di cura riservato e adeguato, (c) un terapeuta che offra una spiegazione di carattere psicologico e culturalmente coerente dell’origine del disturbo emotivo, (d) una spiegazione adattiva e accettabile per il paziente, e (e) una serie di procedure che conducano il paziente a comportarsi in modo più adattivo, utile e positivo.

In questo modello l’adozione di una teoria e dei relativi protocolli nella pratica clinica non è l’elemento primario che indica il percorso di cura del paziente, bensì solo uno dei molti fattori che concorrono al cambiamento della persona. Le implicazioni di questa prospettiva sono diverse, come sottolineano Laska e coll. (2014); innanzitutto ogni terapia che contenga tutti gli elementi sopra descritti sarà efficace nel trattamento di un problema.

Secondariamente, i fattori relazionali come empatia, condivisione dell’obiettivo e collaborazione, alleanza terapeutica e buona considerazione dell’altro, potrebbero predire i risultati della terapia: ciò implica la possibilità di riscontrare differenze tra i terapeuti, a seconda di quanto siano abili nel considerare e coltivare gli elementi della relazione. Infine, ogni trattamento terapeutico (con le caratteristiche descritte) sarà più efficace di un semplice supporto o di “condizioni psicologiche placebo” (Laska, Gurman & Wampold, 2014).

Il modello descritto trova alcune aree di vicinanza con l’approccio evidence-based, che tenta invece di individuare quali siano le tecniche specifiche maggiormente funzionali per le diverse problematiche nel campo della salute mentale. In particolare, l’applicazione di procedure volte a migliorare la qualità della vita del paziente è proprio uno dei fattori aspecifici necessari e sufficienti al cambiamento.

La possibilità di integrazione che si trova in questo punto del modello è sempre stata un punto di forza secondo i suoi sostenitori, che così facendo lasciavano “spazio per tutti”. Tuttavia, sembra mancare l’attenzione verso il processo della terapia, vista la libertà lasciata al terapeuta di agire indipendentemente da ciò che si è dimostrato efficace, ma solo in accordo con la propria coscienza e la propria “buona fede”.

Lambert e Ogles (2014), che ben sottolineano tali punti d’incontro tra modelli, pongono tuttavia qualche riflessione in merito alla posizione di Laska e colleghi (2014), i quali sostengono una maggior diffusione del modello dei fattori aspecifici come linea teorica più completa e esaustiva rispetto agli approcci evidence based. Per sostenere tale posizione, affermano Lambert e Ogles, occorrerebbe che il modello dei fattori aspecifici si presentasse come una teoria in grado di spiegare le patologie, il loro trattamento e i processi di cambiamento, cosa che attualmente in letteratura non sembra esserci, sicuramente non in modo condiviso, né supportato da dati empirici. Non si fa attendere la risposta di Laska e Wampold, che tentano di far chiarezza sull’approccio da loro difeso indicando un decalogo di “cose da sapere prima di parlare dei fattori aspecifici”.

1 – I fattori aspecifici sono incorporati in una teoria scientifica
La teoria a cui fanno riferimento gli autori è quella di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993), con le relative estensioni più recenti (ad esempio, Wampold & Budge, 2012). Tale teoria non si limita a definire una lista dei fattori aspecifici, ma consiste in una spiegazione scientifica di come avviene il cambiamento in psicoterapia. Gli autori affermano che alla base del loro approccio c’è la scienza che analizza come le persone guariscono nei contesti sociali e descrive fattori specifici sottostanti alle ipotesi su cosa dovrebbe essere osservato nelle varie condizioni.

2 – I meccanismi di cambiamento dei modelli supportati empiricamente sono specifici per patologia
Wampold e colleghi (2010) analizzano il caso del disturbo post traumatico da stress, identificando 17 possibili elementi di efficacia nel trattamento del disturbo secondo il modello CBT: secondo Laska e Wampold, questo rende impossibile l’identificazione e la spiegazione del reale meccanismo di cambiamento sottostante.

3 – I modelli dei fattori aspecifici non sono un sistema chiuso, ma operano con l’obiettivo di identificare cosa renda una psicoterapia efficace, attraverso studi in continua evoluzione.

4 – Non c’è niente di paragonabile al modello dei “fattori aspecifici” – e la questione della struttura
Data la natura del modello e la sua strutturale integrazione con tecniche di intervento e teorie specifiche, è impensabile per gli autori paragonare un intervento evidence based con un intervento basato sui fattori aspecifici. Teoricamente, un intervento senza alcun razionale non risulterebbe tanto efficace quanto un intervento in cui il razionale sia chiaro e condiviso: tale posizione è in linea con la sopra citata teoria di Jerome Frank (Frank & Frank, 1993).

5 – Anomalie: occorre affrontarle
La presenza di anomalie, che possono arricchire un modello se adeguatamente integrate, possono anche inficiare la validità di un trattamento, qualora risultino eccessive e difficilmente inquadrabili. Gli autori affermano provocatoriamente: “Se l’efficacia di esposizione prolungata o EMDR sono dovuti alla presenza di elementi di esposizione, cosa conferma la necessità di una particolare tecnica di esposizione?” (Frost, Laska & Wampold, 2014).

6 – Quali sono le ipotesi sottostanti alla teoria degli approcci supportati empiricamente?
In questo punto gli autori si rivolgono ai colleghi invitandoli a riconsiderare le proprie posizioni. In letteratura è stato dimostrato che non ci sono differenze di outcomes in differenti tipologie di trattamento (ad esempio, sui disturbi alimentari, Zipfel et al., 2014), trattamenti privi di fondamento teorico si sono dimostrati efficaci (Cuijpers et al., 2012) e la rimozione di alcuni elementi non inficia l’efficacia di un intero percorso terapeutico (Ahn & Wampold, 2001). Resta quindi da chiedersi cosa aspettino i terapeuti di vari approcci a riconsiderare il loro modo di lavorare alla luce di questi dati.

7 – I fattori aspecifici non implicano che “una cosa vada bene per tutti”
Una delle critiche maggiormente mossa al modello dei fattori aspecifici consiste proprio nel fatto che tale modello sembri incoraggiare l’assunzione della stessa posizione per ogni disturbo e scoraggiare, d’altra parte, l’adozione di tecniche specifiche. Come sottolineato da Beutler (2014), il vantaggio di adottare un approccio basato sui fattori aspecifici risiede proprio nella flessibilità e nella possibilità di adattamento ad ogni paziente. Così, se il paziente preferisce un trattamento meno rigido, il terapeuta sarà libero di realizzarlo senza essere imprigionato nelle trame della propria teoria di riferimento.

8 – Le omissioni sono importanti
Ad oggi sembrano non esserci evidenze sufficienti a favore della diffusione di modelli basati sull’efficacia; non abbiamo alcuna prova in letteratura che investire in questa direzione porterà a ottenere dei miglioramenti. Inoltre la conduzione di studi di efficacia comporta ingenti costi per la loro realizzazione: Laska (2012) ha calcolato che dal 1999 al 2009 sono stati spesi 11 milioni di dollari nella conduzione di trial clinici, senza ottenere risultati processabili.

9 – I trial clinici randomizzati non sono l’unica via per la conoscenza
Kazdin (2007, 2009) afferma che i trial clinici non evidenziano i meccanismi di cambiamento, ma si limitano a sottolineare correlazioni tra meccanismi e outcomes. Inoltre, sebbene sia arduo dal punto di vista etico e metodologico, è possibile considerare i fattori aspecifici all’interno delle sperimentazioni, per esaminarne gli effetti. Ad esempio, nel caso dell’empatia, è stato dimostrato che l’interazione con clinici empatici migliora i risultati ottenuti con pazienti che soffrivano di sindrome dell’intestino irritabile, relativamente a qualità della vita e sintomatologia (Kaptchuk et al., 2008; Kelley et al., 2009).

10 – “Pensieri diversi per diversi strizzacervelli”
Per concludere, gli autori evidenziano la necessità di lasciare un certo spazio di movimento ai terapeuti, in modo da poter includere qualità e predisposizioni individuali all’interno della terapia, arricchendola e creando una sorta di pratica evidence based individualizzata.

Il dibattito è ancora aperto e aspettiamo di vedere quale sarà la risposta dei colleghi al decalogo riportato. Senza dubbio conoscere e considerare i fattori aspecifici è di fondamentale importanza per qualsiasi professionista: condurre una terapia senza considerare l’alleanza del paziente è pressoché impossibile. Sebbene in letteratura si riscontri un forte dibattito volto a sostenere questo approccio, manca una chiarificazione di cosa comporti sposare il modello dei fattori comuni e di come ciò sia realizzabile.

Anche il decalogo qui riportato, apparentemente molto semplice ed essenziale, in realtà risulta caratterizzato da contraddizioni e mancanza di chiarezza. Se un terapeuta si svegliasse domattina volendo diventare esperto di fattori aspecifici potrebbe leggere i lavori di Jerome Frank e probabilmente sperare di avere delle qualità intrinseche adatte al mestiere, ma poco altro. Questi aspetti, ampiamente studiati, per loro natura sembrano sfuggire alla possibilità di essere insegnati e appresi e non risulta nemmeno che questa sia l’intenzione dei sostenitori (si noti il punto 10 del decalogo). L’impressione è che si richieda a gran voce una loro diffusione, ma senza l’uso di trial (costano e non aggiungono conoscenze) o forse sì (possono comunque essere indagati), che vengano considerati da tutti i professionisti (che prove gli servono ancora?), ma senza definizioni o rigidità (il professionista deve poter muoversi nella conduzione della terapia).

Il rischio, dal punto di vista della ricerca scientifica, è di focalizzarsi molto sul come funzionano i meccanismi del cambiamento (elemento che non è tralasciato nemmeno nelle terapie evidence based) e smettere nel contempo di cercare cosa funziona, tralasciando i numerosi dati a sostegno delle tecniche specifiche finora applicate e suggerite dalle linee guida (Sassaroli & Ruggiero, 2015). Emerge infine lo stereotipo purtroppo diffuso del professionista che si attiene ai modelli evidence based come fosse un enorme diagramma di flusso incapace di gestire una risposta non preconfezionata. E per fortuna non è proprio così.

 

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Davanti allo specchio: il disturbo di dismorfismo corporeo

Il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è grave, la sua diffusione è sottovalutata e i pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da quelli che si occupano di salute mentale. Il disturbo è stato studiato in modo continuo e sistematico solo negli ultimi due decenni. 

davanti allo specchio-Manet
Davanti allo Specchio – Manet

Il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è grave, la sua diffusione è sottovalutata ed è poco studiata sia dagli psicoterapeuti che dai farmacologi e i pazienti chiedono aiuto a specialisti diversi da quelli che si occupano di salute mentale.

Nel DSM-5 (APA, 2014) il disturbo di dismorfismo corporeo è stato inserito nella categoria dei disturbi ossessivo compulsivi e disturbi correlati e diagnosticato con i seguenti criteri:

  • Preoccupazione per uno o più difetti o imperfezioni percepiti nell’aspetto fisico che non sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve;
  • A un certo punto, durante il decorso del disturbo l’individuo ha messo in atto comportamenti ripetitivi (ad esempio, guardarsi allo specchio; curarsi eccessivamente del proprio aspetto; stuzzicarsi la pelle, ricercare rassicurazioni) o azioni mentali (ad esempio, confrontare il proprio aspetto fisico con quello degli altri) in risposta a preoccupazioni legate all’aspetto.
  • La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti;
  • La preoccupazione legata all’aspetto non è meglio giustificata da preoccupazioni legate al grasso corporeo o al peso in un individuo i cui sintomi soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare.

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali richiede di specificare se il disturbo è presente con dismorfia muscolare e con quale grado di insight. Nel primo caso l’individuo è preoccupato dall’idea che la sua costituzione corporea sia troppo piccola o insufficientemente muscolosa, mentre il grado di insight è classificato in buono o sufficiente (l’individuo riconosce che le convinzioni relative al Body Dysmorphic Disorder (BDD) sono decisamente o probabilmente non vere o che possono o non possono essere vere), scarso (l’individuo pensa che le convinzioni relative al disturbo siano probabilmente vere), assente con convinzioni deliranti (l’individuo è assolutamente sicuro che le convinzioni circa il BDD siano vere) (APA, 2014, p. 280).

Il disturbo è stato studiato in modo continuo e sistematico solo negli ultimi due decenni. Le conoscenze sulle caratteristiche cliniche, l’epidemiologia e il trattamento sono cresciute, e iniziano a emergere significativi dati neurocognitivi e neurobiologici.

Alcuni studi epidemiologici hanno riportato una prevalenza di punto che va da 0,7% a 2,4%. Secondo tale prevalenza il disturbo di dimorfismo corporeo è dunque più comune di disturbi come la schizofrenia o l’anoressia nervosa (APA, 2000).

Il disturbo è presente con una prevalenza che varia dal 9% al 12% nei pazienti dermatologici, dal 3% al 53% nei pazienti sottoposti a interventi di chirurgia estetica, dall’8% al 37% in soggetti con disturbo ossessivo compulsivo, dal 10 al 13% nei soggetti con fobia sociale e dal 14% al 42% in quelli con disturbo depressivo maggiore ( APA, 2014).

Il BDD può essere un po’ più comune nelle donne, ma colpisce anche molti uomini. I maschi hanno più probabilità di avere preoccupazioni legate ai genitali, mentre le femmine hanno più di frequente un disturbo alimentare in comorbidità (APA, 2014).

 Inoltre il rischio relativo di presentare il disturbo cresce tra coloro che non sono sposati, tra i divorziati e tra i disoccupati (Scarinci, Lorenzini, 2015). Quindi sembra che situazioni di frustrazione e perdita e il vissuto di non accettazione possano esprimersi nel disturbo.

La dismorfofobia comincia solitamente durante l’adolescenza, l’età media all’esordio è di 16 anni con un decorso cronico, se non viene trattata.

E’ spesso in comorbidità con altri disturbi mentali. La più comune è con il disturbo depressivo maggiore (75%); seguono i disturbi da uso di sostanze (dal 30% al 48,9%); il disturbo ossessivo compulsivo (dal 32% al 33%); la fobia sociale (dal 37% al 39%), i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi di personalità (Wilhelm, Phillips, Steketee, 2013).

L’eziopatogenesi del disturbo è legata all’identità e costruita in relazione al corpo. L’attribuzione estetica che si forma sulle rappresentazioni definisce l’autoimmagine che è parte dell’autostima e predica sul valore personale.

Una minaccia all’immagine di sé comporta un danneggiamento all’autovalutazione positiva con la necessità di adottare comportamenti di salvaguardia che tendano a ripristinare un’immagine che, sia nel confronto sociale, sia nell’assunzione delle valutazioni altrui su di sé, possa uscire conforme agli standard e soddisfacente.

I processi di valutazione affettiva del proprio corpo possono generare cognizioni e comportamenti automatici ricorsivi disfunzionali anche per l’influenza della cultura d’appartenenza. Non è forse un caso se negli ultimi tempi questa patologia si è largamente diffusa. Nella nostra società il look è definito da canoni estetici rigidi, quasi autoritativi che impongono un rispetto assoluto pena l’esclusione e la svalutazione.
E ‘ stato riscontrato che un’effettiva discrepanza con l’ideale dell’immagine corporea è correlata a sintomi e a sentimenti di insoddisfazione e alcune caratteristiche della self discrepancy possono determinare, oltre a un’instabilità emotiva, anche una deiezione del soggetto, un modo di essere inautentico che sfocia in un’estraneazione dal mondo e dagli altri (Scarinci, Lorenzini, 2015).

Molti sono gli stati emotivi che il soggetto sperimenta spesso con forte intensità.

 La percezione di avere qualcosa che non va rende diversi e mette inevitabilmente fuori dal gruppo, e l’emozione della vergogna pervade il soggetto. La perdita di un’immagine corporea bella lo rende triste e quando si rende conto di essere affetto da un disturbo grave l’intensità assume livelli ancora più intensi. La consapevolezza che il problema sia gravissimo e dunque comprometta molti degli scopi del BDD comporta un’intensa ansia e comportamenti di controllo del corpo per verificare l’evoluzione del problema. Inoltre l’invidia chiude il soggetto in un isolamento rancoroso.

Le emozioni sperimentate più intensamente, sono correlate preminentemente a due sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, Monticelli, 2008): il sistema di rango (vergogna, invidia, tristezza da sconfitta, paura da giudizio) e il sistema di attaccamento (rabbia, tristezza da perdita).

In definitiva, il dismorfofobico avverte uno specifico difetto ben circoscritto (poco importa se del tutto inesistente o lievemente presente) che rende impossibile l’esistenza. Il difetto diventa il concentrato di tutto quello che nel soggetto non va.

Di fronte ad un compito esistenziale importante, ad esempio l’uscita dalla famiglia e la collocazione nel mondo, il soggetto può sperimentare un’angoscia profonda. Tutta la sua identità ed il suo valore sono messi in gioco e se i processi di assimilazione e accomodamento di questa esperienza dirompente falliscono può vivere qualcosa di simile all’umore predelirante. Quando l’insight è scarso o assente si affaccia l’esperienza dell’eureka e la nascita del delirio che permette di salvare la propria identità con un ragionamento del tipo: non sono io che non vado bene, è la mia cicatrice che mi rende orribile e inaccettabile e se riuscirò a eliminarla tutto andrà a posto.

L’intervento con questi pazienti presuppone, perciò, una rielaborazione cognitiva e la critica agli errori di valutazione che dovrebbe portare all’accettazione della propria identità, vero problema sottostante all’espressione sintomatologica (per un approfondimento del trattamento si veda Scarinci, Lorenzini, 2015).

 

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Si può incrementare la felicità con dei semplici esercizi?

 

Lo psicologo Martin Seligman, insieme ad altri colleghi, ha condotto una ricerca in cui ha misurato empiricamente l’efficacia di alcuni esercizi per aumentare la felicità e diminuire la depressione.

Quando si parla di felicità, crediamo subito di sapere di cosa stiamo parlando, finché non proviamo a definirla: viene fuori che ognuno ha una sua concezione. Fermatevi un momento prima di continuare a leggere e chiedetevi cosa significa per voi essere felici.

Anche nella letteratura psicologica non esiste un concetto univoco di felicità, ma ben tre filoni di significato (Seligman, 2002):

  • le emozioni positive e il piacere (la vita piacevole);
  • l’impegno (la vita impegnata);
  • il senso (la vita piena di significato).

Secondo Seligman le persone soddisfatte sono quelle che si orientano verso tutti e tre tipi di obiettivi, con il maggior peso trasportato all’impegno e al significato (Peterson, Parco, e Seligman, 2005b).

Lo psicologo Martin Seligman, insieme ad altri colleghi, ha condotto una ricerca pubblicata sulla rivista American Psychologist (Positive Psychology Progress, 2005), in cui ha misurato empiricamente l’efficacia di alcuni esercizi per aumentare la felicità e diminuire la depressione, verificando i risultati attraverso la somministrazione, prima e dopo 6 mesi, di un test per misurare la felicità – Steen Happiness Index (SHI) e di uno per misurare la depressione (Beck Depression Inventory).

Uno degli esercizi era focalizzato sulla costruzione della gratitudine, due erano focalizzati sulla crescente consapevolezza di ciò che è risultato più positivo di se stessi, e due erano concentrati sull’individuazione dei propri punti di forza. La ricerca è stata randomizzata e prevedeva un gruppo di controllo che effettuava un esercizio placebo.

Gli esercizi erano i seguenti:

  • Esercizio di controllo placebo: i partecipanti sono stati invitati a scrivere i loro primi ricordi ogni sera per una settimana.
  • Esercizio di gratitudine: ai partecipanti è stato assegnato il compito di scrivere e poi consegnare una lettera di ringraziamento a una persona che era stata particolarmente gentile con loro, ma non era mai stata adeguatamente ringraziata.
  • Tre cose belle: ai partecipanti è stato chiesto di scrivere per una settimana ogni sera tre cose che sono andate bene durante il giorno e perchè.
  • Al tuo meglio: i partecipanti sono stati invitati a scrivere di un tempo in cui erano al loro meglio, di rileggere una volta al giorno la storia e quindi di riflettere sui punti di forza personali individuati.
  • Utilizzare i punti di forza in un modo nuovo: i partecipanti sono stati invitati a fare un test on-line sull’inventario dei punti di forza e a ricevere un feedback personalizzato per il loro primi cinque punti di forza (Peterson et al., 2005a). Si chiedeva successivamente di utilizzare uno di questi primi punti di forza in una nuova situazione e in modo diverso ogni giorno per una settimana.
  • Identificare i punti di forza: simile al precedente, ai partecipanti veniva chiesto di individuare i cinque punti di forza con il questionario e di utilizzarli più spesso durante la settimana.

Tanti dei partecipanti hanno continuato a fare gli esercizi anche dopo la settimana di prova e sono stati monitorati dal gruppo di ricerca. Due degli esercizi – Utilizzare i punti di forza in un modo nuovo e Tre cose belle – hanno avuto come effetto l’aumento della felicità e la diminuzione dei sintomi depressivi per sei mesi. L’esercizio della gratitudine ha generato grandi cambiamenti positivi, ma solo per un mese. Gli altri due esercizi e il controllo con placebo hanno creato effetti positivi ma comunque transitori sulla felicità e sui sintomi depressivi.

Quindi, se volete essere felici, provate a scrivere ogni sera tre cose positive capitate durante la giornata per un periodo minimo di sei mesi, oppure, dopo averli individuati, cominciate a utilizzare i vostri punti di forza in modi nuovi.

Se qualcuno pensa che sia più facile fare gli esercizi insieme agli altri, per Tre belle cose esiste un evento su Facebook a cui si può partecipare condividendo ogni giorno le proprie belle cose. Un modo per utilizzare il social in maniera intelligente, ispirando e lasciandosi ispirare.

E visto che voglio dare il buon esempio, scrivere questo articolo è stato per me una bella cosa. Sapere che qualcuno è diventato più felice sarebbe la seconda…la terza è l’attesa dei vostri risultati!

 

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La paura della felicità e i suoi rischi – Psicologia

BIBLIOGRAFIA:

  • Seligman, M. E. P., Steen, T. A., Park, N.,  Peterson, C.,(2005), Positive Psychology Progress. Empirical Validation of Interventions.  American Psychologist, 60(5), 410-421. DOWNLOAD

Stimolazione transcranica con correnti dirette per il trattamento dei deficit cognitivi nella schizofrenia

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

L’applicazione di una lieve stimolazione elettrica al cervello dei pazienti con schizofrenia migliora alcuni aspetti del loro funzionamento cognitivo, secondo un recente studio condotto dagli psicologi della Gertrude Conaway Vanderbilt University e pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

I network cerebrali che coinvolgono la corteccia frontale ci consentono di adattare il nostro comportamento alle richieste che provengono dall’ ambiente in cui siamo inseriti e ad aggiustare la nostra modalità di elaborare le informazioni in caso di errori. Una disfunzione a questo livello può interessare una varietà di disturbi psichiatrici, tra cui la schizofrenia, in cui i deficit di controllo del comportamento adattivo costituiscono un sintomo centrale. Un indice di controllo adattivo rilevabile in laboratorio e compromesso nei pazienti con schizofrenia è la presenza di un riduzione quasi impercettibile della velocità di risposta a seguito di un errore.

La mancanza di questo rallentamento esemplifica il comportamento rigido, perseverante e maladattivo che caratterizza questi pazienti, dotati generalmente di scarse capacità di automonitoraggio. Il correlato neurofunzionale del controllo adattivo è costituito dalla presenza di onde theta (oscillazioni elettriche a bassa frequenza rilevabili attraverso l’elettroencefalogramma) a livello della corteccia fronto-mediale, tramite cui il sistema esecutivo invia dei segnali alle funzioni cognitive subordinate (percezione, attenzione etc) per regolarne il funzionamento.

In uno studio precedente, il Dr. Robert M.G. Reinhart, primo autore della ricerca, è riuscito a potenziare le capacità di monitoraggio dell’errore in soggetti sani applicando alla loro corteccia fronto-mediale una stimolazione elettrica a basso voltaggio. Si tratta della cosiddetta ‘stimolazione transcranica con correnti dirette’ o tDCS (dall’inglese ‘transcranial Direct Current Stimulation’), una metodica di stimolazione cerebrale non invasiva capace di indurre cambiamenti funzionali nella corteccia cerebrale. Questa tecnica consiste essenzialmente nell’applicare sullo scalpo degli elettrodi eroganti una corrente continua di bassa intensità, in grado di raggiungere il cervello e influenzarne in funzionamento.

Dopo il successo ottenuto sui soggetti sani, il nuovo obiettivo che si ponevano i ricercatori era dunque di valutare la possibilità di replicare un simile miglioramento anche nei pazienti con schizofrenia. Dai risultati ottenuti è emersa innanzi tutto la presenza, tanto nei soggetti sani, quanto nei pazienti, di un’attività a bassa frequenza a livello della corteccia fronto-mediale, che, mentre nei primi era regolare e sincronizzata, nei secondi si mostrava debole e disorganizzata. A livello comportamentale, inoltre, i pazienti non presentavano, come ipotizzabile, il classico rallentamento nella velocità di risposta a seguito della commissione di errori. Subito dopo aver applicato la stimolazione elettrica, tuttavia, si è osservata una normalizzazione della prestazione comportamentale dei pazienti, che li rendeva indistinguibili dai soggetti di controllo.

[blockquote style=”1″]Questi risultati indicano che tramite tDCS è possibile ripristinare il monitoraggio dell’errore negli schizofrenici, con importanti implicazioni per il trattamento dei loro deficit cognitivi[/blockquote] spiegano gli autori. Chiaramente c’è ancora molto lavoro da fare prima di essere certi che la tDCS possa essere proposta come trattamento standard. È infatti necessario approfondire la comprensione dei processi attraverso i quali avviene il miglioramento, identificare la durata dei benefici e la possibile presenza di altri effetti non preventivati.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Reinhart, R. M., Zhu, J., Park, S., & Woodman, G. F. (2015). Synchronizing theta oscillations with direct-current stimulation strengthens adaptive control in the human brain. Proceedings of the National Academy of Sciences, 201504196.  DOWNLOAD

Il Mobbing – Introduzione alla Psicologia Nr. 25

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 25)

 

 

Con mobbing si indica solitamente una forma di terrore psicologico esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o superiori ed è caratterizzato da comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti nei confronti di un collega o di un sottoposto.

 

Mobbing è un termine preso in prestito dall’inglese to mob, che significa assalire, aggredire, affollarsi attorno a qualcuno, circondarlo.

Con mobbing, dunque, si indica solitamente una forma di terrore psicologico esercitata sul posto di lavoro da parte di colleghi o superiori ed è caratterizzato da comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti nei confronti di un collega o di un sottoposto.

La vittima si vede emarginata, calunniata, criticata; gli sono affidati compiti dequalificanti, ed è sistematicamente messa in difficoltà di fronte a clienti o superiori, attraverso critiche, diniego e svalutazione. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni poco lecite per riuscire a mandar via definitivamente il mal capitato.

La messa in atto di tale comportamento può essere di varia natura, ma sempre volto all’annientamento dell’altro. Lo scopo è eliminare una persona divenuta in qualche modo scomoda, per motivi non sempre concreti, spesso si tratta di problematiche inerenti alla sfera emotiva. In questo modo la persona è indotta a rassegnare le proprie dimissione, perché stremata dalle vessazioni, o in alcuni casi lo stress ripetuto provoca problematiche lavorative tali che portano inevitabilmente al licenziamento.

Il Mobbing consiste in azioni ripetute per un lungo periodo di tempo e compiute in maniera sistematica. Il mobbizzato è letteralmente accerchiato, soggiogato, e aggredito intenzionalmente dal o dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. L’invettiva diventa il principale lavoro quotidiano esercitato nei confronti del mobbizzato, fino alla distruzione mentale e corporale.

Il Mobbing provoca effetti devastanti, poiché mira a danneggiare a menomare volutamente le sua capacità lavorativa e la fiducia in se stesso pian piano cede il posto alla tristezza più totale.

Per questo, il mobbizzato non riuscendo a smaltire lo stress mostra manifestazioni psicosomatiche, stati depressivi o ansiosi, tensione continua e incontrollata. Le ricerche hanno dimostrato che il Mobbing può portare a un danno psichico o psicofisico permanente, tale da consentire una regolare richiesta di risarcimento per invalidità professionale.

Il Mobbing ha quindi effetti deleteri e distruttivi, acuiti dalle scarse possibilità di difesa, perché la paura prepotente e costante di perdere il lavoro e di non avere più altre possibilità, porta la vittima a subire gli attacchi in maniera indefessa.

La vittima, dunque, è sempre in una posizione inferiore, inteso come status, rispetto ai suoi avversari e gradualmente perde la sua posizione lavorativa, il rispetto degli altri, il suo potere decisionale, la salute psichica, la fiducia in se stesso, l’entusiasmo nel lavoro e, soprattutto, la propria dignità.

I più coraggiosi ricorrono alla legge ma, in merito a tale materia, è scarsa e ambigua, di fatto il confine tra lecito esercizio del comando in termini lavorativi e puro arbitrio aggressivo è impalpabile e molto flebile.

Purtroppo, è ancora difficile far riconoscere il Mobbing come una vera malattia professionale risarcibile e come pratica criminale punibile penalmente. Di recente comincia a muoversi qualcosa, ma la luce in fondo al tunnel è ancora lontana.

Ricordiamo, però, che il Mobbing vero e proprio è un abuso vero, che dovrebbe essere combattuto, denunciato, e riconosciuto, non solo a livello individuale ma anche sociale nella speranze possa essere anche punito in futuro.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Open source per il sociale: arriva Symhelper, il software per facilitare la creazione degli In-Book

logo SymHelper

Comunicato Stampa

Grazie ad una campagna di crowdfunding è stato possibile realizzare l’applicativo, completamente gratuito, utile per l’apprendimento dei bambini con disabilità nella comunicazione

Milano, 22 luglio – Dopo due anni di sviluppo e collaborazione tra tecnici informatici e utenti finali, è finalmente pronta la versione 1.0 di Symhelper. Il software, completamente gratuito, facilita l’importante operazione di riquadratura per gli In-Book: libri i cui testi sono tradotti in simboli, utilizzati all’interno di percorsi di Comunicazione Aumentativa Alternativa (C.A.A.).

 

Symhelper permette di velocizzare e semplificare la creazione di pagine con simboli già riquadrati, in maniera che autori o genitori possano concentrarsi sull’impaginazione, sulla disposizione dei simboli oppure sull’inserimento di immagini, invece che sull’operazione meccanica di riquadratura dei simboli svolta fino ad ora manualmente. Symhelper è capace di riconoscere in maniera automatica i simboli non riquadrati del file PDF che analizza, producendo un documento con simboli riquadrati in formato ODF (Open Document Format) per successive modifiche o integrazioni tramite LibreOffice o OpenOffice.

L’idea di realizzare Symhelper nasce da Luca Errani (membro della Comunità dell’Arca L’Arcobaleno) e dall’esperienza diretta con sua figlia Chiara, una ragazza che comunica e apprende da sempre tramite la C.A.A.

I libri in simboli – spiega Luca Errani – hanno una particolare importanza per il singolo bambino o ragazzo con difficoltà nella comunicazione, perché, attraverso un codice più accessibile, consentono di avere maggiori strumenti in entrata per arricchire la propria esperienza, il proprio vocabolario e la lettura di ciò che vivono. Anche numerose esperienze per l’inserimento di bambini stranieri testimoniano l’efficacia della C.A.A. come mezzo di apprendimento della nuova lingua. Fino ad ora – continua Errani – noi genitori non avevamo a disposizione un software che consentisse una riquadratura automatica dei simboli e lo dovevamo fare manualmente, è per questo che mi è venuta l’idea di crearne uno ad hoc. Idea che è stata subito sostenuta dal Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa del Policlinico di Milano, dall’Ausilioteca di Bologna e dall’Associazione Territoriale per L’integrazione Il Volo Onlus di Fiscaglia (FE).

La realizzazione del software nasce dallo sforzo di tutto il gruppo di sviluppo ed è stata possibile grazie a una campagna di crowdfunding, che ha permesso di raccogliere i fondi necessari. Il coordinamento tecnico del progetto è stato seguito dalla società VNS, attiva da tempo nel mondo Open Source, che ha contribuito donando due risorse tecniche per questo importante contributo nel sociale.

La versione Symhelper 1.0 è scaricabile gratuitamente al seguente indirizzo.

 

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Il figlicidio materno: caratteristiche e fattori di rischio

Maura Crivellenti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente.

È il 24 Giugno del 2002 quando Simona decide di portare i suoi due bambini al laghetto, Davide di ventuno giorni e Matteo di quattro anni. Mentre passeggia coi bambini Simona pensa: Io a casa non ci torno…io in quella situazione non ci torno, perché dirà poi Sarei rimasta ancora sola…mio marito non poteva capire niente dei miei desideri. Fa caldo e chiede al più grande se vuole rinfrescarsi un po’. La mamma lo aiuta ad entrare in acqua, poi entra lei con Davide. Il più piccino scivola dalle sue braccia e Simona non fa nulla per trattenerlo. Anche Matteo va a fondo, riemergendo poco dopo privo di sensi. Simona si mette sulla schiena e fa il morto nell’acqua. Mi sono sentita andare via (Pannitteri, 2006).

Nessun crimine come l’omicidio di un figlio da parte della propria madre ci lascia così inermi. Di fronte a fatti come questi la domanda che nasce spontanea in ognuno di noi è: Come può una madre riuscire ad uccidere un figlio? Quali sono i motivi che la spingono a compiere questo orribile gesto?. La risposta che tranquillizza la società di fronte a certi casi è senza dubbio quella di attribuire alle madri una patologia mentale, giustificando il gesto come pazzia, perché non è normale che una madre abbia il desiderio di uccidere il proprio bambino. Attribuire questo gesto alla follia ha uno scopo rassicurante, sia perché funge da spiegazione, sia perché allontana da noi l’ipotesi di poterlo commettere in quanto soggetti sani.

Come scrive McKee (2006), questi fatti evocano nella memoria la nostra infanzia, quando avevamo paura della rabbia dei nostri genitori, domandandoci oggi se le nostre madri possono aver avuto l’intenzione o il solo pensiero di ucciderci in quei momenti, di farci del male o d’abbandonarci; per i genitori, rievocano invece episodi della vita in cui si sono sentiti così arrabbiati nei confronti dei figli tanto che la loro reazione è andata oltre i limiti consueti, accettati, spaventati dalla capacità di tale violenza, mai conosciuta prima.

Nel profondo della mente di padri e madri si insinua un pensiero pericoloso e segreto che riguarda la paura che possano anche loro, prima o poi, commettere un atto impulsivo nei confronti del proprio bambino. A volte, però, la patologia non sta solamente nella persona, ma anche nell’ambiente familiare e nelle sue dinamiche. Lo psichiatra americano First e altri suoi collaboratori (Peccarisi, 2004) hanno parlato di sindrome chiamata Disturbo Relazionale (Relational Disorder), nella quale non è considerato malato il singolo individuo, ma un gruppo di soggetti e la relazione che intercorre tra loro. Può quindi accadere che un soggetto con tale disturbo se osservato da solo non riveli nulla di patologico. È il modo con cui alcune persone interagiscono all’interno di specifiche relazioni che può risultare disturbato, con modalità del tutto simili a quelle che caratterizzano la malattia mentale.

La maternità è un periodo spesso idealizzato, dove il male deve essere allontanato. La collettività dipinge, infatti, il periodo della gestazione, del parto e dei primi periodi di vita del neonato come un periodo idilliaco, come un momento che deve appartenere a tutte le donne, un desiderio innato che non si apprende. Ma si può davvero parlare di istinto materno? In realtà, sarebbe meglio parlare di sentimento materno, in quanto culturalmente e non biologicamente determinato (Merzagora, 2003). Così come tutti i momenti della propria vita, la maternità si caratterizza per la compresenza di spinte aggressive e spinte libidiche, se vogliamo parlare coi termini di Freud. È il giusto equilibrio tra queste due spinte emotive a renderci sani. L’essere madre porta con sé, accanto alla gioia, molte angosce, paure, difficoltà, rabbia, insofferenza, che le donne da sole non sempre possono affrontare, soprattutto quando questi sentimenti diventano insormontabili, arrivando a travolgerle. Perché queste donne sono spesso lasciate sole nelle loro paure, nonostante siano nella maggior parte dei casi circondate da familiari o da mariti, che pur essendoci in realtà non sono presenti affettivamente, che ignorano e minimizzano quanto la neo mamma sta attraversando.

I cosiddetti momenti bui, come spesso sono definiti nei racconti successivi al fatto dalle mamme che hanno commesso figlicidio, arrivano senza che nessuno se ne accorga. I sentimenti negativi non possono essere espressi o comunicati perché diventare madre deve essere bellissimo.

Il figlicidio: una definizione e classificazione

Comunemente si tende ad associare il figlicidio materno ad una patologia mentale (tenendolo ben differenziato dal figlicidio commesso dai padri, perché assume caratteristiche differenti). Eppure, il figlicidio non è solo un atto di natura patologica, non sempre deriva da una mano dominata da allucinazioni e deliri psicotici e la nostra società non è nuova a queste vicende. Basta ripercorrere brevemente la storia dell’umanità per rendersene conto.

 L’infanticidio o l’esposizione prolungata dei neonati al freddo (inteso come abbandono) erano metodi comunemente utilizzati ed accettati nella Roma e nella Grecia antica. Al pater familias era lasciato pieno diritto di decisione sulla vita o la morte di ogni figlio che nasceva. Le deformazioni, in particolare, erano considerate un peccato e quando un bambino nasceva sfortunato la sua vita era subito troncata. È solo nel 374 d.C. che la legge Romana decreta che l’uccisione di un infante è considerato omicidio (Palermo, 2002). Gli omicidi dei più piccoli però continuarono, perché nel 400 d.C. ancora si credeva che i bambini che non smettevano di piangere fossero posseduti dal demonio, possibile causa scatenante ancora oggi dell’atto omicida (Palermo, 2002). L’infanticidio, quindi, è stato utilizzato spesso come strumento di controllo demografico, dove anche i fattori culturali hanno un grande peso. Basti pensare che nell’infanticidio il sesso del nascituro è importante, soprattutto in determinate culture, come ad esempio la Cina o l’India.

Una definizione dei termini usati dalla letteratura è di fondamentale importanza per essere consapevoli di cosa intendiamo con la parola figlicidio, rispetto alla parola neonaticidio e infanticidio. Il diritto distingue solamente tra infanticidio e omicidio. Si parla di infanticidio, secondo l’articolo 578 c.p., quando l’uccisione del feto avviene durante o dopo il parto, in condizioni di abbandono materiale e morale. Al contrario si parla di omicidio, in particolare nell’articolo 575 c.p., quando un genitore, non necessariamente la madre, uccide il figlio che può essere anche un neonato, ma senza le condizioni previste nell’articolo precedentemente citato, che spesso risultano di difficile individuazione. In questo contesto è possibile applicare inoltre le aggravanti del caso (Bramante, 2005).

La criminologia, rispetto alla giurisprudenza, fa una distinzione sulla base dell’età della vittima. L’uccisione entro le 24 h dalla nascita è chiamata neonaticidio, l’infanticidio va dal primo giorno di vita al compimento del primo anno di età ed infine il termine figlicidio si utilizza per i bambini uccisi dal primo anno di vita in poi. Anche Resnick (1969), uno tra i più importanti studiosi dell’argomento, preferisce distinguere il neonaticidio dal figlicidio propriamente detto, termine che egli utilizza dalle 24 h di vita in poi (Bramante, 2005). Il motivo di questa distinzione sta proprio alla base della motivazione che porta a commettere il neonaticidio rispetto al figlicidio. Nel primo caso la principale motivazione è quella di impedire l’inizio della vita del feto, per lo più non voluto, e l’istaurarsi quindi di un legame affettivo. Nel secondo caso, invece, il rapporto è già iniziato e le motivazioni possono essere di gran lunga più numerose. Questa prima definizione criminologica sull’età funge anche come prima classificazione, ma presenta diverse limitazioni. Infatti una suddivisione che si basa solo sull’età della vittima, non permette di individuare gli eventuali fattori di rischio e di attuare strategie preventive (McKee, 2006).

La prima importante revisione della letteratura sul figlicidio è stata fatta dallo psichiatra Philip Resnick nel 1969, il quale trovò 155 riferimenti pubblicati dal 1751 al 1967. Egli sviluppò una classificazione del figlicidio basandosi sulle maggiori motivazioni che possono sottostare all’agito materno, suddividendole in cinque categorie:

  • Figlicidio altruistico, nel tentativo di alleviare una sofferenza immaginata o reale al bambino o nel desiderio di evitare una sofferenza futura.
  • Figlicidio psicotico, comprende quelle madri che uccidono sotto l’influenza di un chiaro e grave disturbo psicopatologico, come una schizofrenia o una psicosi post-partum.
  • Figlicidio del bambino non voluto, quando la madre non lo ha desiderato e il legame non si è mai istaurato.
  • Figlicidio accidentale, è una morte non intenzionale causata dalla negligenza della madre o da un abuso fisico per un’eccessiva punizione.
  • Figlicidio come vendetta verso il coniuge, quando l’impulso omicida è diretto verso il bambino nel tentativo di provocare una sofferenza nel proprio partner, come rivendicazione.

Dalla prima classificazione di Resnick ne sono susseguite molte altre. In tutte queste classificazioni non si notano grandi differenze, cambiano le denominazioni delle categorie ma le definizioni sono per lo più molto simili.

Un’importante innovazione nella stesura di un modello di spiegazione del figlicidio è stato effettuato da Ania Wilczynski, nel 1997. L’autrice decide di proporre una classificazione sulla base di motivi primari e secondari, perché spesso le ragioni che spingono il genitore a questo crimine possono essere ricondotte a diverse categorie. Il motivo primario è quello dominante, ragione o causa del figlicidio; il motivo secondario è una ragione con meno importanza nella spiegazione del figlicidio. Per esempio, una madre che sente delle voci allucinatorie che la esortano a punire il figlio, il quale muore a causa delle eccessive percosse, ha come motivo primario senza dubbio la psicosi mentre come motivo secondario la disciplina. Ovviamente se la psicosi è tenuta sotto controllo con i farmaci le due motivazioni saranno invertite: primaria sarà la disciplina, secondaria sarà la psicosi (McKee, 2006).

Nel 2006 un’ulteriore classificazione è stata presentata da McKee, il quale ha condotto lunghe interviste a madri, adolescenti e adulte, accusate di aver ucciso il proprio figlio. La classificazione elaborata da McKee presenta queste categorie: Madri Distaccate; Madri Abusive/Negligenti; Madri Psicotiche/Depresse; Madri Vendicative; Madri Psicopatiche.

Il figlicidio e le sue caratteristiche

Resnick (1969) ha definito il figlicidio propriamente detto come l’atto omicida attuato dalla madre nei confronti del figlio dal primo giorno di vita in poi. Diversamente dal neonaticidio, la madre che commette figlicidio ha già istaurato, più o meno profondamente, un rapporto con il bambino e di conseguenza anche le motivazioni sottostanti sono differenti. Resnick è dell’opinione che il rischio per un bambino di essere ucciso dai propri genitori diminuisce con l’aumentare della sua età. In altre parole, il bambino è più vulnerabile quando il rapporto madre-figlio non ha ancora raggiunto un legame solido e un solido attaccamento materno. Il figlicidio può essere suddiviso in una serie di tipologie non solo motivazionali, ma anche situazionali in un continnum che va dall’assenza di patologia fino alla patologia più grave (Merzagora, 2003).

La porzione più piccola nei campioni riportati nella letteratura è rappresentata dalla Sindrome o Complesso di Medea, dove l’omicidio del figlio è compiuto per vendetta, e richiama il mito greco di Medea. Il fattore scatenante è la conflittualità con il marito. In altre parole, il bambino è utilizzato come un vero e proprio strumento, al fine di creare sofferenza o di attirare l’attenzione di chi è il vero oggetto di ostilità, spesso acuita prima dell’atto omicida da un ulteriore lite con il marito (Merzagora, 2003).

Un altro tipo di figlicidio riguarda quello accidentale, in cui non vi è l’intento di uccidere, ma è l’atto estremo come risultante dell’evoluzione della Sindrome del Bambino Maltrattato, la Batter Child Sindrome, un comportamento impulsivo spesso in risposta al pianto, alle urla o all’applicazione della disciplina. La categoria del figlicidio accidentale è la più grande o la seconda più grande nei campioni studiati in letteratura insieme ad un’altra tipologia di figlicidio caratterizzata da una patologia psichiatrica (McKee, 2006). Le madri che commettono un figlicidio di tipo accidentale hanno spesso un disturbo di personalità, una modesta intelligenza, irritabilità e un’incapacità a mantenere un lavoro stabile (Merzagora, 2003). Sono anche donne che provengono da famiglie numerose e/o che a loro volta sono state più probabilmente vittime di maltrattamenti nella loro infanzia. Queste esperienze possono condurre all’incapacità di sviluppare un sicuro legame di attaccamento nei confronti dei propri figli, fino a portarle nei casi estremi a commettere l’omicidio. Arshad e Anasseril (1984) hanno affermato che esiste una sostanziale differenza tra le madri figlicide e quelle abusanti. Le prime infatti, soffrono di un grave disturbo psichiatrico al momento dell’atto e hanno avuto più frequentemente in passato una malattia mentale, facendo rientrare i figli nei propri deliri. Raramente, inoltre, hanno abusato del figlio prima di ucciderlo e loro stesse hanno meno probabilmente una storia di abuso alle spalle. Al contrario, le madri abusanti hanno una significativa assenza di un disturbo mentale sia al momento della valutazione, sia nel loro passato. Sono spesso però già segnalate ai servizi, sia nel presente come madri abusanti, sia nel passato come vittime di abuso da parte dei propri genitori.

Tra i casi di maltrattamento velato troviamo la Sindrome di Munchausen per Procura, in cui la madre inventa sintomi o segni che il bambino non ha o che lei stessa gli procura somministrandogli farmaci ad esempio, esponendolo di conseguenza ad una serie di accertamenti od operazioni, più o meno invasive, fino a procurargli la morte nei casi estremi (Bramante, 2005). Il comportamento adottato da queste madri è amichevole, collaborante e cordiali e difficilmente portano i medici a pensare di trovarsi di fronte ad una madre maltrattante. Il padre in questi casi è una figura piuttosto debole, ai margini della scena, assente sia fisicamente che emotivamente (Bramante, 2005). La letteratura (Rosen et al. 1984; Bools et al. 1993; Merzagora, 2003) sembra essere concorde nel negare una grave patologia mentale in queste madri, più spesso portatrici di un disturbo di personalità (Borderline, Istrionico, Paranoide) come accade per le altre mamme maltrattanti. Nell’anamnesi si possono poi ritrovare condotte autolesive, utilizzo di sostanze, abusi o maltrattamenti.

Il profilo della madre che commette figlicidio è stato più volte elaborato. L’età media individuata nei studi va dai 25 anni ai 30. Una buona parte presenta un basso quoziente intellettivo, influenzato probabilmente anche dal livello di istruzione più basso. Per quanto riguarda lo stato coniugale la maggioranza di queste donne sono sposate o con una relazione al momento della morte del figlio, ma vivono in una situazione socioeconomica caratterizzata da difficoltà finanziarie. Nella loro infanzia è frequente trovare una storia di abuso, ma è stata rilevata un’alta prevalenza di violenza domestica anche al momento dell’omicidio. Queste madri presentano una percentuale decisamente maggiore di disturbi psichiatrici, sia nell’anamnesi personale che familiare.

Nell’anamnesi familiare non è infrequente trovare una malattia mentale in uno o più familiari della madre, mentre rispetto all’anamnesi personale la letteratura è concorde nel riportare una precedente storia di malattia mentale e di trattamento; infatti, la maggior parte di queste madri era stata antecedentemente ospedalizzata o aveva ricevuto cure psichiatriche in concomitanza al periodo in cui era stato ucciso il bambino. Grande attenzione è stata rivolta alla diagnosi clinica, i disturbi mentali infatti sono individuati in molte review della letteratura. Nonostante le differenze i disturbi più frequenti sono senza dubbio quelli psicotici e quelli dell’umore, oltre a disturbi dell’adattamento, abuso o dipendenza da sostanze e ai disturbi di personalità.

La prevenzione e i fattori di rischio

La prevenzione in casi drammatici come il figlicidio materno riveste un ruolo fondamentale. Cercare di anticipare i comportamenti omicidi o semplicemente gli stati di sofferenza a cui una madre può andare incontro durante la maternità potrebbe salvare la vita di un bambino. Per poter fare prevenzione è necessario sapere innanzi tutto quale comportamento vogliamo evitare e quali sono i segnali premonitori, cioè i fattori di rischio. La letteratura riporta diversi studi in cui si è cercato di fornire un quadro degli aspetti che fanno rientrare una madre in una condizione di rischio e che dovrebbe destare attenzione e allarme sia nella società che nei servizi di salute mentale. I fattori di rischio sono caratteristiche, condizioni, segnali e circostanze ambientali associate a un’elevata probabilità che si manifesti un determinato target. La fonte del rischio può essere individuale, come le caratteristiche demografiche della madre, familiare, cioè legata alle caratteristiche o alle interazioni tra i membri della propria famiglia d’origine, e infine situazionale, associata alle circostanze immediate al fatto. Ovviamente esistono anche dei fattori protettivi, cioè un qualsiasi fattore di rischio mancante, un suo opposto oppure un giusto mezzo tra due estremi di un aspetto.

 Una recente matrice dei fattori di rischio è stata elaborata da McKee, organizzata secondo due dimensioni: il dominio (individuale, familiare, situazionale) e le fasi della maternità (pre-natale, perinatale, primo post-partum, tardo post-partum e tarda infanzia). Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse cause, che potremmo chiamare concause, perché un singolo fattore di rischio non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi. Inoltre, non possiamo considerare i fattori indipendenti tra loro. Più probabilmente i diversi aspetti si intrecciano e si influenzano l’un l’altro, aumentando la complessità del fenomeno. Il figlicidio materno quindi è un fenomeno composito, caratterizzato da un gruppo di madri molto eterogenee tra loro. È possibile che gruppi di madri figlicide che rientrano in categorie differenti (ad es. figlicidio accidentale e figlicidio con patologia psichiatrica) possano avere fattori di rischio molto differenti.

Tra i fattori di rischio individuali che la letteratura riporta troviamo:

  • età della madre inferiore a 16 anni o superiore a 35 anni
  • profilo intellettivo basso o ritardo mentale
  • livello istruzione basso
  • livello socioeconomico basso, impiego con ridotto profitto o non stabile
  • stato medico della madre (malattia terminale, utilizzo di sostanze)
  • diagnosi di depressione, psicosi, abuso o dipendenza da sostanze psicoattive, disturbo di personalità (Paranoide, Antisociale, Narcisistico e Borderline).
  • presenza di un trauma infantile (abuso fisico o sessuale o negligenza, perdita della madre, divorzio dei genitori o violenza domestica)
  • attitudine materna verso il nascituro (ad esempio gravidanza indesiderata).

Tra i fattori di rischio familiari troviamo:

  • madre poco supportava dal punto di vista materiale ed emotivo, che soffre di malattia mentale o abusa di sostanze illegali
  • presenza di un padre abusante o abusa di sostanze illegali o che soffre di malattia mentale
  • instabilità familiare caratterizzata da separazioni, divorzio, violenza, difficoltà finanziarie o trasferimento.

Tra i fattori di rischio situazionali troviamo:

  • assenza del partner oppure presenza di un partner abusante e coercitivo; bassa soddisfazione e adattamento coniugale
  • condizioni di povertà o dipendenza dall’assistenza sociale
  • più figli da accudire da sola e avere gravidanze ravvicinate nel tempo perché a sua volta aumenta il rischio di depressione post partum
  • bambino con temperamento difficile.

Il maggior rischio per il figlicidio, secondo la letteratura, si ha durante il primo anno di vita del bambino, perciò diventa importante riconoscere i sintomi dei disturbi tipici del post-partum, come la depressione o la psicosi ma anche l’abuso di sostanze, meno tipico ma allo stesso modo molto pericoloso per la possibilità di slatentizzare un disturbo psichiatrico. Quindi diventa necessaria una preparazione anche rispetto ai fattori di rischio dei disturbi puerperali (Craig, 2004).

Gli studi hanno dimostrato che l’aver presentato una depressione precedente al parto è un rischio per lo sviluppo di una depressione post-partum nel periodo del puerperio. Alcune ricerche hanno evidenziato la presenza o l’assenza di pregressi stati psicopatologici al parto e il ruolo del contesto familiare e sociale (Verkerk et al. 2005). Infatti, il funzionamento sociale, insieme alla gravità dei pregressi stati depressivi e al livello di accudimento ricevuto dai genitori durante l’infanzia, sono dei fattori altamente predittivi dell’evoluzione dei disturbi puerperali (King et al. 1997).

Friedman e colleghi (2005) hanno riportato che uno tra i diversi fattori di rischio per i casi di figlicidio-suicidio, in cui la madre oltre a uccidere il figlio si suicida, era un precedente contatto con i servizi di salute mentale, così come i precedenti tentativi di suicidio, confermato anche da studi più recenti (Lysell, 2014). Inoltre, è stato evidenziato che dopo la nascita del primo figlio una condizione depressiva stabile è influenzata dall’abuso di sostanze e da tratti borderline o antisociali di personalità (Lewinsohn et al. 2000).

Grande attenzione è stata data quindi ai disturbi psichiatrici nella ricerca rivolta a individuare i fattori di rischio per il figlicidio. Gli autori tendono a precisare però che sebbene i disturbi psichiatrici siano un fattore di rischio per il figlicidio, la maggioranza delle donne malate non uccide o aggredisce il proprio bambino e alcune delle donne che compiono figlicidio non hanno nessun disturbo (Craig, 2004).

Oltre alla patologia mentale, sono stati citati in letteratura anche altri importanti fattori di rischio, come ad esempio l’eccessiva dipendenza dagli altri e i conflitti presenti all’interno del nucleo familiare. I fattori di rischio per il figlicidio, rispetto a quelli del neonaticidio, offrono maggiori possibilità di prevenzione, attraverso non solo la clinica prenatale, ma anche con follow-up nel post-partum che permettono di seguire i casi ad alto rischio. Diversi interventi sono possibili quando dopo il parto si manifestano sintomi d’ansia e dell’umore.

Sicuramente si può attivare un intervento educativo rivolte alle madri nel tentativo di fornire loro informazioni sulla genitorialità, sulle cure e lo sviluppo del bambino. Si può agire anche all’interno di un supporto empatico o con terapie cognitivo-comportamentali indirizzate sia alle madri che alle coppie di genitori. Ancora ci sono terapie di gruppo pre e post-natali, che aiutano le madri a trovare rassicurazioni nella condivisione delle stesse difficoltà con altre donne, oltre che visite domiciliari, che nei casi di negligenza e di abuso hanno avuto in particolare un grande successo (Olds et al. 1997). Diversi autori hanno esteso questo approccio a tutto il campione di madri figlicide, mentre Overpeck e colleghi (1998) hanno proposto un cross-training per i professionisti della salute per permettergli di individuare la violenza domestica. Ancora molto c’è da fare in questo ambito, perché non bastano solo nuove ricerche che possano ulteriormente confermare i fattori che portano a considerare un caso ad alto rischio, ma è necessaria anche una adeguata formazione professionale per coloro che sono più a diretto contatto con le madri, dai pediatri ai medici di base, così che possano essere messi nella condizione di inviare casi allarmanti a servizi specializzati, in una prospettiva di intervento di rete.

 

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Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza domestica. Come prevenire?

BIBLIOGRAFIA:

Philip Zimbardo: My journey from evil to heroism – Report Pt. 2

Nel 1971 il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Standford creò una prigione simulata reclutando 24 studenti per impersonare guardie e carcerati. I risultati dell’esperimento condotto da Philip Zimbardo scioccarono il mondo intero.

L’esperimento, da cui è stato fedelmente tratto il film di cui vi abbiamo mostrato il trailer, aveva inizialmente lo scopo di studiare l’influenza dell’autorità sul comportamento umano e sarebbe dovuto durare due settimane. Fu interrotto dopo soli 6 giorni perché gli studenti, persone “normali” (cioè senza alcun tratto psicopatologico) che erano stati assegnati random al ruolo di carcerati o guardie, si erano talmente calati nella parte da dar vita ad uno scenario a dir poco agghiacciante.

Leggendo i primi capitoli del libro “L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” di Zimbardo, in cui viene descritto giorno per giorno l’esperimento, si viene invasi da un profondo senso di frustrazione, impotenza e claustrofobia. Le guardie pian piano cominciano ad esercitare sempre di più il loro potere e ad umiliare, anche gratuitamente, i detenuti, che vengono privati del cibo, denudati, derisi, costretti ad estenuanti ed inutili esercizi fisici, sottoposti a vessazioni di carattere sessuale e a violenza psicologica.

Dall’altra parte i carcerati sono talmente influenzati dal loro ruolo, appunto, di carcerati dall’assumere ben presto un atteggiamento remissivo, rassegnato, impotente. 5 di loro furono forzati ad abbandonare l’esperimento, il primo dei quali dopo sole 36 ore, a causa di gravi crolli psicologico-emotivi. Ciò che più colpisce è che sebbene l’esperimento fosse diventato un inferno, nessuno di loro si appellò alla clausola che gli avrebbe permesso di andarsene in qualsiasi momento. Sebbene nessuno li costringesse a restare lì, non erano più studenti che stavano partecipando ad un esperimento, ma si sentivano e si comportavano come veri carcerati.

Lo studio di Zimbardo dimostrò come il contesto può influenzare in maniera rilevante il comportamento delle persone: un ambiente che favorisce la deumanizzazione, l’esercizio di potere e controllo, la diffusione della responsabilità, la pressione del gruppo, il disimpegno morale, l’anonimato (es. indossare occhiali a specchio), la deindividualizzazione dell’altro (assegnare un numero al posto del nome) può trasformare una brava persona in una cattiva persona.

Ciò non significa, però, giustificare gli atti dell’individuo, bensì riconoscere il contributo che ambiente e sistema possono offrire.
Non tutti, infatti, si comportano in maniera cattiva in determinate situazioni. Quali fattori possono spingere, pertanto, una persona a commettere buone azioni, a comportarsi da eroe? Purtroppo, afferma Zimbardo, non lo sappiamo perché le ricerche in merito sono molto scarse. Per questo motivo Zimbardo ha fondato un’associazione che si pone come obbiettivo quello di insegnare nelle scuole, attraverso programmi psicoeducativi basati sulla ricerca, ad essere degli EROI NEL QUOTIDIANO, insegnando a riconoscere e a lavorare su quei fattori che possono indurre una persona a comportarsi male. Perché oggi più che di supereroi abbiamo bisogno di eroi nella vita di tutti i giorni, perché anche non fare nulla di fronte al male è comunque una forma di male ed è tempo di trasformare la compassione in azione per creare un futuro in cui il male sia sempre meno presente.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Philip Zimbardo: lectio magistralis presso la Sigmund Freud University di Milano, 11 Luglio 2015

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Zimbardo P.G. (2008). L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? Raffaello Cortina Editore: Milano.

Trust (2010): l’adescamento online di minori – Cinema & Psicologia

Scritto e diretto dall’attore David Schwimmer, “Trust” è un film drammatico che racconta una delle piaghe sociali attuali più dolorose: l’adescamento on line di minori.

Il film si apre con la festa di compleanno della protagonista, Annie, un’adolescente quattordicenne che sta per iniziare il primo anno di scuole superiori. Chattando la ragazza conosce un sedicente adolescente, Charlie, con il quale sembra condividere non solo la passione per la pallavolo, ma anche i primi turbamenti e le prime curiosità sessuali. La conoscenza virtuale prosegue, i due diventano sempre più intimi e Charlie inizia a svelare la sua reale identità dichiarandosi prima ventenne e poi venticinquenne. Quando Annie decide di incontrarlo di persona, in occasione di una temporanea assenza dei genitori, è costretta a constatare con sconcerto che si tratta invece di un trentacinquenne il quale non esita, con fare manipolatorio, a portarla ad avere un rapporto sessuale con lui. Da quel momento in poi le sue tracce reali e virtuali si dileguano e, a seguito della segnalazione del reato da parte di un’amica di Annie, inizia un lungo calvario che coinvolge la vittima e la sua famiglia e i servizi sociali.

Se nella prima parte del film, dunque, lo sguardo si sofferma a osservare la subdola dinamica dell’adescamento on line della minore nelle sue varie fasi (primo contatto, instaurazione di un rapporto di fiducia, seduzione esplicita, incontro reale), nella seconda seguono parallelamente le diverse reazioni dei personaggi e la loro evoluzione nel corso della vicenda: il faticoso percorso di elaborazione del trauma da parte della ragazza che, se inizialmente non riesce a vedere lucidamente l’evento, si rende gradualmente conto, anche grazie ad un sostegno psicologico, di essere una delle tante vittime di un adescatore seriale; l’incapacità del padre di accettare l’esperienza traumatica della figlia con la conseguente difficoltà nel sostenerla emotivamente come risulta evidente dall’impegno attivo focalizzato sulla ricerca del delinquente.

Ed è proprio la fiducia (“Trust”) la chiave di lettura di questa pellicola. Fiducia che il molestatore si conquista abilmente ad ogni chat condividendo i vissuti di insicurezza della giovane, divenendo per lei un importante punto di riferimento; fiducia che ingenuamente l’adolescente rinnova allo sconosciuto nonostante le reiterate menzogne sulla sua reale età e fiducia dei genitori nella figlia che non permette loro di cogliere il suo disorientamento adolescenziale prima, e le prime avvisaglie di malessere dopo.

Nell’età adolescenziale l’agile dimestichezza nella navigazione in rete, spesso non compensata da una completa maturità cognitiva ed emotiva, aumenta il rischio di ricerca di relazioni virtuali con sconosciuti che possano facilmente soddisfare il crescente bisogno di intimità e il fisiologico interesse per l’area sessuale.
Parlare dell’adescamento on line, anche tramite la visione condivisa di un film, può costituire un primo passo nel favorire nei giovani il riconoscimento di un pericolo reale e non solo virtuale e, dunque, nel prevenirlo.

 

TRAILER:

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Disconnect (2012): oggi che siamo sempre connessi ci sentiamo più soli che mai – Cinema & Psicologia

Cartoni animati & alimentazione dei bambini: gli effetti della visione di protagonisti sovrappeso sul consumo di cibi grassi

FLASH NEWS

Secondo uno studio recentemente effettuato da un team dell’Università del Colorado, i bambini tenderebbero a consumare cibi più grassi se appassionati di cartoni i cui protagonisti sono sovrappeso.

La ricerca, pubblicata online sul Journal of Consumer Psychology, dimostra per esempio che i bambini sono influenzati dalle rotondità di Grimace, un “ingombrante” personaggio amante dei milk-shake creato da McDonald negli anni Settanta. La dottoressa Margaret Campbell, docente di marketing presso l’Università del Colorado, afferma: [blockquote style=”1″]I ragazzi che seguono questo cartone consumano una doppia quantità di “cibo-spazzatura” rispetto a coloro che ammirano personaggi più sani o che non ne ammirano affatto.[/blockquote]

La prima scoperta interessante in merito è che i bambini tendono ad applicare gli standard umani di valutazione della massa corporea anche a personaggi immaginari. In altre parole, classificherebbero anche le figure dei cartoni animati, per cui non esistono degli standard definiti, come sottopeso, sovrappeso o sane.

Oltre a ciò, sembra proprio che affezionarsi a un personaggio “paffutello” renderebbe i ragazzi più indulgenti nella scelta del tipo di cibi da consumare. Lo studio coinvolgeva 300 bambini e ragazzi di 8, 12 e 13 anni, testati in gruppi suddivisi per età, ai quali era innanzitutto data la possibilità di esprimere le loro personali credenze sul tema della salute, scegliendo tra sei coppie di figure e parole legate a comportamenti quotidiani più o meno sani (per esempio giocare all’aria aperta vs guardare la tv, oppure latte vs coca-cola) prima di iniziare il test vero e proprio. Questo per cercare di capire in che misura le credenze personali e l’esperienza pregressa potessero influenzare i risultati dei test. Poi si procedeva alla visione di cartoni animati scelti proprio sulla base della forma fisica dei loro protagonisti, e in seguito si somministrava un test del gusto per indagare in che modo le scelte dei bambini si fossero modificate.

Come già accennato, la ricerca dimostra che la scelta dei ragazzi cambia in senso negativo, orientandosi verso scelte meno salutari, in seguito alla visione di questo tipo di cartoni animati. Lo studio ha risvolti importanti, considerando che viviamo in un mondo in cui i bambini si confrontano costantemente con personaggi di svariato genere (nei fumetti, nei videogames, nei film e nei programmi TV). Per questo motivo, sarebbe fondamentale che le grandi aziende facessero scelte di marketing più responsabili.

La dottoressa Campbell aggiunge: [blockquote style=”1″]Credo che i genitori dovrebbero essere consapevoli del modo in cui i loro figli associano cibo e divertimento. Il marchio Kellogg è l’esempio di una scelta responsabile in questo senso: anni fa, la figura della tigre Tony è stata modificata secondo standard più sani, rendendola un personaggio atletico e snello che richiama alla mente idee più salutari sul consumo di cibo.[/blockquote]

 

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Neuroscienze: il cervello degli adolescenti alla vista del junk food

BIBLIOGRAFIA:

Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante di Piero Cipriano (2015) – Recensione

Il libro del collega psichiatra Piero Cipriano si inserisce in un filone di (auto)denuncia sulla psichiatria di oggi, che in parte trae ispirazione dalle opere del giornalista americano Whitaker, citato a più riprese nel volume.

Cipriano, che si definisce un basagliano, svolge la propria attività in un SPDC di Roma e ha accumulato anni di esperienza nella “trincea” psichiatrica, fino a diventare riluttante all’attuale sistema di cura, che si avvale purtroppo ancora troppo spesso della contenzione fisica, per non parlare di quella farmacologica. Il libro è una sorta di confessione abbastanza confidenziale in cui l’autore racconta in modo critico la sua pratica clinica, arricchendo la narrazione con riferimenti a libri che ha letto, a film che ha visto, a convegni a cui ha partecipato.

Direi un racconto psichiatrico molto umanistico e umano, dove emerge fortemente l’amore dell’autore per la letteratura (in particolare Bolano) e l’interesse per le persone e la loro storia. Cipriano scrive bene, anche se a tratti indugia un po’ troppo sull’autocelebrazione dello psichiatra controcorrente, senza macchia e senza paura, paladino dei poveri pazienti indifesi, spesso vittime di colleghi sadici. Le parti più riuscite sono a mio avviso i racconti delle storie dei pazienti incontrati nell’SPDC romano, ottimo osservatorio dell’attuale patologia psichiatrica metropolitana, con tutti i risvolti sociologici del caso (tra le altre cose si parla anche di rom ed etnopsichiatria, di psicanalisti psicotici, di deliri da cannabis e cocaina, etc.).

Come altri libri del genere la parte di denuncia critico-distruttiva al sistema attuale è di gran lunga superiore a quella propositiva fatta di soluzioni reali e possibilmente efficaci per risolvere alcuni dei problemi della cura della patologia mentale più grave (schizofrenia e dintorni). C’è qualche accenno ad alcune soluzioni ispirate al modello triestino (zero contenzioni, SPDC aperti, Centri di salute mentale aperti 24 ore), che paiono sicuramente affascinanti, ma non hanno mostrato dove applicare queste rivoluzioni in termini di risultati terapeutici.

La denuncia desta sicuramente più clamore rispetto al racconto delle cose che funzionano, all’impegno silenzioso di tanti operatori che fanno del loro meglio per compiere il proprio dovere, spesso in condizioni lavorative difficili. Il problema delle contenzioni è sicuramente vitale e desta sempre molto clamore mediatico, ma pensandoci bene non è forse il problema principale della psichiatria di oggi, come possono esserlo lo stigma, l’esclusione sociale o una riabilitazione psichiatrica realmente efficiente che riporti la persona che soffre di un problema psichiatrico grave a un funzionamento e una qualità della vita accettabili.

Il manicomio chimico è un racconto sicuramente autentico, che a tratti ti fa arrabbiare non tanto per la questione delle contenzioni, quanto perché fa trasparire un certo senso di impotenza che abbiamo di fronte alla follia e alla sua cura.

 

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Le nuvole di Picasso di Alberta Basaglia: nella storia del manicomio liberato

BIBLIOGRAFIA:

Gli estremi contano fin dalla nascita: i neonati sfruttano la prima e l’ultima sillaba per riconoscere le parole

SISSA (Scuola Internazione Superiore di Studi Avanzati) – Comunicato Stampa

Il sistema cognitivo codifica meglio la prima e l’ultima sillaba delle parole. Un gruppo di ricercatori della SISSA, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera di Udine, ha dimostrato per la prima volta che questo meccanismo cognitivo è presente fino dalla nascita.

La ricerca è stata pubblicata sulla rivisita scientifica Developmental Science. Forse pensate che i neonati, quei deliziosi fagottini che sembrano intenti solo a dormire, ciucciare e piangere, non siano troppo coscienti di quanto accade intorno a loro. Vi stupirete dunque a sapere che i loro cervelli sono invece in piena e febbrile attività e che riescono già a cogliere informazioni importanti nel mondo intorno a loro. Per esempio sono attentissimi a ogni parola che sentono e già a soli due giorni dalla nascita elaborano il suono linguistico con processi tipici dell’adulto. Per esempio, come ha dimostrato un gruppo della SISSA, sono già più sensibili alla parte più importante delle parole, gli estremi, un meccanismo cognitivo più volte osservato negli   adulti e nei bambini più grandi.

L’effetto di “supremazia” degli estremi è ben noto a chi studia la memoria in generale e il linguaggio: quando dobbiamo ricordare e riconoscere delle parole il cervello dà un maggior peso all’informazione contenuta all’inizio e alla fine della sequenza di sillabe. Si tratta infatti di una regolarità generale nell’analisi del linguaggio: [blockquote style=”1″]l’informazione contenuta agli estremi è molto importante, e si riflette in molti fenomeni associati al linguaggio. Per esempio le particelle che nelle parole contengono informazione, quelle che denotano il genere, il numero, le declinazioni dei sostantivi e dei verbi, sono quasi tutte contenute all’inizio o alla fine delle parole, in tutte le lingue conosciute[/blockquote] spiega Alissa Ferry ricercatrice della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste primo autore della ricerca.

[blockquote style=”1″]È un fenomeno pervasivo e con il nostro studio dimostriamo che è presente già alla nascita. Qui alla SISSA erano già stati fatti degli esperimenti con bambini in età prelinguistica, di 7-­8 mesi, ma noi siamo andati ancora oltre e abbiamo lavorato con neonati di soli 2-­3 giorni di vita[/blockquote] commenta Ana Flo, ricercatrice SISSA coinvolta nello studio.

[blockquote style=”1″]I neonati hanno ascoltato una sequenza continua di 6 sillabe e sono in grado di distinguerla da un’altra molto simile in cui vengono scambiati gli estremi, mentre lo stesso non avviene quando si spostano le sillabe all’interno della parola[/blockquote] spiega Perrine Brusini, ricercatrice SISSA fra gli autori dello studio.

Nel linguaggio reale ci sono tanti segnali che segmentano il discorso in parole diverse, e che potrebbero aiutare a ricordare le parole da discorsi molto lunghi.  

[blockquote style=”1″]In un’altra serie di esperimenti poi abbiamo cercato di capire se è possibile fare in modo che il cervello dei neonati elabori anche le sillabe all’interno della sequenza. Abbiamo dunque introdotto una piccola discontinuità nelle sequenze, una pausa brevissima, quasi impercettibile anche all’ascolto più attento. Anche se si trattava solo di 25 millisecondi questa pausa divide la parola lunga in due parole corte, e grazie a questo trucco il cervello riusciva a distinguere le parole con le sillabe scambiate al loro interno[/blockquote] continua Ferry.

La supremazia degli estremi è dunque presente fino dalla nascita, e si manifesta senza alcuna esperienza o apprendimento da parte del neonato, concludono le ricercatrici della SISSA.  

Più in dettaglio…Come si fa a capire cosa succede nel cervello di un neonato (senza disturbarlo troppo, si intende)? Non è semplice, ma esistono metodologie sperimentali che sfruttano il fenomeno dell’ “abituazione”. Si usano per i bambini ancora incapaci di parlare: quando viene loro mostrato uno stimolo sempre uguale, ripetitivo, la risposta del cervello a questo stimolo cala rapidamente. Usando la spettroscopia a raggi infrarossi (un esame  non invasivo) possiamo misurare l’attività cerebrale: [blockquote style=”1”]Sapevamo quando una parola suonava diversa al cervello del neonato quando osservavamo un picco di attività cerebrale[/blockquote] ha spiegato Flo.

 

Sissa

Link  all’articolo  originale  su  Developmental  Science

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Terapia cognitiva in soggetti con disabilità intellettiva. Quali possibilità?

Laura Pizzacani – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi

La disabilità intellettiva rappresenta un disturbo complesso con esordio nel periodo dello sviluppo, che compromette in modo duraturo la conquista delle funzioni cognitive più elevate e di quelle adattive, specie negli ambiti concettuali, sociali e pratici.

Attualmente, tra i clinici, è ancora aperto il dibattito rispetto alla possibilità di considerare la disabilità intellettiva come una sindrome nucleare unica, il cui core è riconducibile ad un deficit dell’intelligenza, intesa anche come capacità di rispondere agli stimoli e di adattarsi all’ambiente circostante, o se si possa considerare come una sindrome eterogenea, ipotesi che sembra resa ancor più confermabile dalla varietà di cause che la determinano e di sintomi con cui si presentano i soggetti con tale disabilità.

Questi sintomi pervadono tutte le sfere evolutive non compromettendole mai allo stesso modo, creando così quadri sintomatologici di volta in volta diversi, che riguardano sia aspetti cognitivi, che affettivi ed adattivi, includendo: difficoltà di assimilazione delle esperienze, deficit comunicativi e di linguaggio, difficoltà ad accedere al pensiero astratto e disomogeneità cognitiva, adattamento più lento e difficile, deficit nello sviluppo della personalità e alterazioni della condotta.

Secondo la definizione del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), tre sono i criteri fondamentali che consentono di diagnosticare la disabilità intellettiva:

  • Deficit nelle funzioni intellettive come ragionamento, problem solving, pianificazione, pensiero astratto, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza, confermati sia da valutazione clinica sia da test di intelligenza individualizzati, standardizzati;
  • Deficit del funzionamento adattivo che porta al mancato raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e responsabilità sociale. Senza un supporto costante, i deficit adattivi limitano il funzionamento in una o più attività della vita quotidiana, come la comunicazione, la partecipazione sociale e la vita autonoma, attraverso molteplici ambienti quali casa, scuola, ambiente lavorativo e comunità.
  • Esordio dei deficit intellettivi e adattivi durante il periodo di sviluppo.

I livelli di gravità del disturbo, distinti in lieve, moderato, grave ed estremo, vengono definiti sulla base del funzionamento adattivo, e non più esclusivamente sui punteggi relativi al quoziente intellettivo (QI), perché è stato valutato come sia proprio la capacità di adattamento, in particolare nelle aree della socializzazione e delle attività pratiche, a determinare il grado di sviluppo necessario per mantenere una condizione di vita accettabile e, di conseguenza, a stabilire il livello di assistenza richiesta dal soggetto.

Cenni relativi alla comorbilità

Secondo il DSM-5, e come confermato da numerose ricerche (Cooper et al., 2007), i soggetti con disabilità intellettiva hanno una prevalenza di disturbi mentali in comorbilità, che si stima da tre a quattro volte superiore rispetto al resto della popolazione. Le procedure di valutazione possono richiedere delle variazioni a causa dei disturbi associati, e sono da considerare fonti di informazioni attendibili per identificare sintomi quali irritabilità, alterazioni del tono dell’umore, aggressività, problemi dell’alimentazione e del sonno, e per la valutazione del funzionamento adattivo nei vari contesti di comunità.

I più comuni disturbi mentali e del neurosviluppo concomitanti sono: disturbi da deficit di attenzione/iperattività; disturbi depressivo e bipolare, disturbi d’ansia; disturbi del controllo degli impulsi (frequente il comportamento autolesivo e aggressività o comportamenti dirompenti).

Trattamento

Nonostante la presenza di disabilità intellettiva nella popolazione generale si assesti intorno all’1% circa, e vi sia un alto livello di comorbilità con altri disturbi, ad oggi la maggior parte dei servizi risultano essere creati per rispondere in maniera differenziata alle esigenze, ritenute prettamente assistenziali, di soggetti con disabilità intellettiva, o terapeutico/assistenziali per soggetti con patologie psichiatriche. Ciò contribuisce a favorire ulteriormente l’esclusione dei primi da interventi di tipo psicoterapeutico, limitando lo sviluppo di realtà in cui si trattino pazienti in doppia diagnosi, e nelle quali si renderebbe necessaria l’associazione, alle classiche strategie di intervento farmacologico, riabilitativo ed educativo, anche di attività terapeutiche.

 

Le finalità degli interventi tradizionalmente proposti, pur convergendo in un unico grande obiettivo riconducibile al miglioramento globale della qualità della vita del soggetto e alla promozione della salute mentale (Castellani, 2010), sono molteplici: da un punto di vista farmacologico, l’obiettivo è quello di trattare le eventuali alterazioni neurologiche connesse al disturbo e di ridurre i comportamenti problema, quali auto ed etero aggressività, stereotipie, iperattività; a livello riabilitativo, ci si concentra sul rafforzamento di abilità cognitive e metacognitive, che in questi soggetti risultano deficitarie, e che difficilmente si sviluppano e/o consolidano spontaneamente; a livello educativo, invece, si utilizzano frequentemente interventi di matrice comportamentale che consentono di correggere i comportamenti disadattavi, favorendo contemporaneamente la riproduzione di quelli più funzionali. Tra queste tecniche, che fino ad oggi sono state utilizzate come uno dei pochi strumenti di intervento efficaci per il paziente con disabilità intellettiva troviamo (Cavagnola, 1994):

  • Shaping, detto anche modellamento, consiste nel rendere possibile l’apprendimento di una abilità attraverso graduali passaggi che avvicinano alla meta;
  • Prompting, consiste nel fornire un aiuto fisico, gestuale o verbale per portare a termine un’attività;
  • Fading, detto anche attenuazione degli aiuti, rappresenta l’insieme di procedure che portano ad una riduzione degli aiuti e delle facilitazioni necessarie al conseguimento del compito.

Alla luce di queste considerazioni, emerge come su questa tipologia di pazienti siano stati utilizzati separatamente due diversi approcci, e di come l’attenzione si sia concentrata prevalentemente su uno di essi anziché sulla loro integrazione: il primo, comunemente utilizzato, riguarda l’insegnamento di abilità specifiche e le attività volte al loro mantenimento, specialmente per ciò che concerne il comportamento; il secondo è invece relativo alle tecniche terapeutiche specifiche del modello cognitivo e cognitivo-comportamentale, che consentono di trattare i disturbi emotivi e comportamentali presenti in associazione alla disabilità intellettiva.

TCC e trattamento di soggetti con disabilità intellettiva in comorbilità

La terapia cognitivo-comportamentale deve molto all’opera di Beck ed Ellis, le cui tecniche convergono rispetto all’idea di indagare sistematicamente quelle rappresentazioni che precedono, accompagnano e seguono immediatamente uno stato emotivo problematico, al fine di comprendere le ragioni della sofferenza emotiva del soggetto e del suo perpetuarsi nel tempo.

Secondo Semerari (2006), è indispensabile valutare prima di tutto, nel corso dell’intervento, il contenuto problematico del soggetto, ossia i significati personali rilevanti per il suo disturbo e le sue emozioni, nonché le tendenze d’azione più di frequente connesse a questi significati.

Per far ciò si utilizza la tecnica dell’ABC (Ellis, 1977), attraverso la quale è possibile identificare, a partire da un evento, detto anche antecedente, una conseguenza a livello emotivo o comportamentale, che a sua volta si lega a specifici pensieri o credenze rispetto all’accaduto.

Affinché il soggetto possa utilizzare questa tecnica è necessario che sappia identificare e distinguere, a partire da un evento, pensieri o credenze presenti e le rispettive conseguenze emotive o comportamentali. Solo in questo modo sarà possibile riconoscere che le conseguenze prodotte da un determinato evento sono connesse prevalentemente ai propri pensieri e/o credenze disfunzionali, piuttosto che all’antecedente stesso, e procedere con la disputa di pensieri e credenze emersi. Ovviamente per procedere in questo percorso, è necessaria anche una valutazione delle risorse metacognitive del paziente e del loro livello di sviluppo, ossia delle funzioni mentali con cui egli riesce a comprendere e padroneggiare i propri contenuti problematici.

Attualmente non si riscontrano con frequenza terapeuti che lavorino con soggetti con disabilità intellettiva, proprio a causa dell’idea secondo cui queste persone abbiano abilità cognitive e comunicative ristrette, che limitano la loro capacità di comprensione del proprio mondo mentale, nonché la capacità di collaborare attivamente al lavoro svolto dal terapeuta, tutti fattori che apparentemente li escluderebbero dal poter trarre giovamento dalla terapia.

In realtà, le tre abilità di base considerate, a partire dai lavori di Beck ed Ellis, come indispensabili per accedere ad un intervento in ottica cognitiva, ossia il saper identificare, a partire da un evento, pensieri o credenze e le rispettive conseguenze emotive o comportamentali; il riconoscere che le conseguenze sono più connesse ai pensieri che all’antecedente e il poter procedere con la disputa di questi pensieri/credenze, sono state riformulate da diversi autori (Hutton, 2002; Bruce et al., 2010) in relazione al lavoro con soggetti con disabilità intellettiva. Le nuove abilità ritenute necessarie per fare in modo che anch’essi possano procedere al lavoro cognitivo diventano quindi: la presenza di capacità cognitive di base quali memoria, linguaggio e comunicazione; abilità ad identificare le differenti emozioni; abilità di comprendere le basi del modello cognitivo, ossia il ruolo chiave dei pensieri nello sviluppo degli stati emotivi.

Nonostante inizialmente le basi teoriche su cui poggia il modello, in particolare il legame tra pensieri, emozioni e comportamenti, possano essere poco accessibili per utenti con ritardo mentale, è possibile che uno specifico training possa aiutarli a comprendere meglio questi elementi di fondo indispensabili all’attività clinica. Il compito del terapeuta sarà quindi quello di fornire una sorta di educazione a quei pazienti che sembrino carenti in queste specifiche abilità, e di adattare le tecniche base della terapia cognitiva alle caratteristiche di questo tipo di utenza.

Questo allenamento potrebbe iniziare con un intervento psicoeducativo di alfabetizzazione emotiva, finalizzato a migliorare la capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni, indispensabile quando la persona non è in grado di riconoscere espressioni di affettività in sé o negli altri perché non sa riconoscerli (Castellani, 2010).

Successivamente, si potrebbe procedere con attività volte a rafforzare l’abilità di discriminare, e successivamente collegare tra loro, pensieri ed emozioni. A tal fine, in uno studio proposto da Bruce e collaboratori (2010), è stato evidenziato come anche una sola sessione di training abbia portato significativi miglioramenti nella capacità dei partecipanti alla ricerca di distinguere tra pensieri ed emozioni e di collegarli tra loro, capendo così come siano i primi a determinare l’assetto emotivo delle persone.

Attraverso l’uso di questi strumenti, gli autori hanno contribuito a dimostrare come sia possibile per soggetti con disabilità intellettiva apprendere l’abilità di connettere pensieri ed emozioni, e successivamente di generalizzare questa acquisizione su nuovo materiale.

Questa ricerca può essere considerata come un primo tentativo concreto di utilizzo della terapia cognitiva con questi pazienti, soprattutto nel caso in cui sia presente una doppia diagnosi, che coinvolga in particolare, oltre alla disabilità intellettiva, problemi comportamentali, ansia, depressione o sintomi psicotici, trattati con efficacia secondo le tecniche dalla terapia cognitivo comportamentale standard, riviste alla luce dei bisogni di questa specifica utenza.

Per concludere, è necessario considerare che fattori importanti per il successo di un intervento psicoterapeutico non sono determinati solo dalla comprensione del ruolo di pensieri ed emozioni, ma coinvolgono anche le caratteristiche specifiche dei partecipanti alla terapia, così come la loro relazione e il grado di alleanza sviluppato. Evidenze dimostrano come l’aumento della compliance nella terapia possa migliorare significativamente il risultato degli interventi (Azam, 2012), favorendo ulteriormente la spinta al cambiamento.

Gli elementi che devono essere osservati, in quanto indispensabili a rendere realmente efficace un intervento sono, in sintesi, tre (Hassotis et al., 2011): gli obiettivi del trattamento, la loro definizione e il percorso da fare per raggiungerli devono essere chiari e condivisi; da parte del paziente deve esserci una comprensione reale di ciò che sta accadendo nella terapia, e per valutarla è possibile osservare quanto il paziente sviluppi il materiale proposto dal terapeuta, come homework ecc. (può essere utile fornire ai familiari o agli operatori delle strutture in cui i pazienti risiedono, informazioni aggiuntive che consentano loro di essere di supporto al soggetto per muoversi con successo nel programma di trattamento, favorendo il mantenimento di un buon livello di motivazione e di impegno); infine, dovrà esserci un buon livello di attivazione da parte del paziente, in quanto se anche il trattamento fosse stato definito e compreso, non potrebbe essere efficace se egli non parteciperà attivamente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il dolore acuto e prolungato nei neonati: ricerca esplorativa presso l’Unità Operativa Intensiva Patologia Neonatale di Padova

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Il dolore acuto e prolungato nei neonati: ricerca esplorativa presso l’Unità Operativa Intensiva Patologia Neonatale di Padova

Autore: Francesca Babetto 

 

PAROLE CHIAVE: Dolore, Prematuri, EDIN, FLACC, DAN

INTRODUZIONE:

[blockquote style=”1″]Il dolore che abbiamo sofferto in passato ha molto a che fare con ciò che siamo oggi[/blockquote] è da questa considerazione dello psichiatra americano William Glasser che ha preso origine questo mio progetto di tesi. Il dolore sofferto in passato ha un’influenza prepotente sulla nostra vita, sul nostro comportamento e sulle nostre relazioni.

E se il dolore fosse la prima esperienza che proviamo appena venuti al mondo? Se il momento tanto magico quanto fondamentale per lo sviluppo psico-motorio della nascita si trasformasse nella nostra prima esperienza di dolore e di abbandono? Come si riesce a capire se i neonati provano dolore vista la loro impossibilità ad una comunicazione verbale? Queste le domande che mi sono posta prima di iniziare quest’esperienza di tirocinio e di tesi.

Nella prima parte del mio elaborato ho infatti voluto evidenziare quali fossero le conoscenze attuali sul dolore: l’evoluzione della sua definizione nel tempo, gli aspetti biologici che lo determinano, i differenti tipi di dolore e, infine, l’evoluzione della diagnosi di dolore nel DSM. Successivamente ho voluto approfondire quelle che sono le conoscenze relative al dolore provato dai neonati, ed in particolare dai neonati prematuri, che si trovano quotidianamente ad essere sottoposti ad un gran numero di procedure dolorose.

Successivamente ho voluto compiere una ricerca bibliografica sull’evoluzione della valutazione del dolore in ambito medico, anche alla luce della recente normativa (Legge n. 38 del 15 marzo 2010) che prevede, assieme ai parametri vitali, l’inserimento della valutazione del dolore nella cartella clinica sia infermieristica, sia medica. Successivamente ho proseguito la mia ricerca individuando e confrontando tra loro i principali strumenti utilizzati ed utili per la valutazione del dolore in ambito pediatrico e neonatale.

Nell’ultimo capitolo, ho esposto obiettivi, ipotesi, caratteristiche dei partecipanti, strumenti utilizzati, analisi dei dati e discussione della ricerca che ho condotto, nel periodo compreso tra marzo e giugno 2014, presso l’Unità Operativa di Terapia Intensiva e Patologia Neonatale dell’Azienda Ospedaliera di Padova.

Nella mia ricerca ho concentrato l’attenzione su due aspetti del dolore, procedurale e prolungato, provato dai neonati ricoverati presso quell’Unità Operativa. Da un lato ho voluto osservare la differente percezione del dolore dei neonati sottoposti a prelievo venoso piuttosto che a puntura sul tallone, nel caso in cui queste procedure fossero associate o meno a suzione non nutritiva. Dall’altro lato ho voluto valutare il dolore prolungato provato dai piccoli pazienti, conducendo una prima indagine sulle proprietà psicometriche di uno strumento osservativo mai utilizzato prima con bambini così piccoli, la scala FLACC. (Merkel, Voepel-Lewis, Shayevitz e Malviya, 1997).

L’obiettivo principale della analisi esplorativa che ho condotto è stato quello di apportare un contributo alla ricerca nell’ambito dello studio del dolore nei neonati prematuri. Le ipotesi che hanno guidato la presente ricerca si sono mosse in due ambiti principali, uno relativo al dolore acuto e uno relativo al dolore prolungato. Per quanto riguarda il dolore acuto ho voluto indagare se vi fosse una differente risposta comportamentale, nel caso in cui il bambino venisse sottoposto a venipuntura o a puntura da tallone, previa o meno somministrazione di saccarosio. Per raccogliere i dati di queste osservazioni ho utilizzato la scala DAN (Douleur Aigue du Nouveau-né, Carbajal, Paupe, Hoenn, Lenclenr & Olivier-Martin, 1997).

La decisione di concentrarmi su queste due procedure dolorose è data dal fatto che, durante la giornata, i neonati ricoverati vengono sottoposti anche più volte a questo tipo di controlli decisamente dolorosi, come evidenziato all’interno delle linee guida per la prevenzione e il trattamento del dolore nel neonato: “Considerare l’uso della venipuntura piuttosto che il prelievo dal tallone nei neonati a termine e nei prematuri di maggior peso, perché meno dolorosa e più efficace in mani esperte”(Lago, Merazzi & Garetti, 2008). Mi aspetto quindi che il neonato percepisca meno dolore quando viene sottoposto a venipuntura, rispetto alla puntura da tallone. Mi aspetto inoltre che percepisca meno dolore quando gli viene somministrato saccarosio prima del prelievo, qualsiasi sia la locazione della puntura, e che il ritorno allo stadio basale sia più rapido se gli viene somministrato il saccarosio prima del prelievo. Mi aspetto infine che vi sia una relazione tra i giorni di vita del bambino e la sua percezione del dolore: bambini che sono stati sottoposti ad un maggior numero di procedure dolorose manifesteranno, a mio avviso, un comportamento di dolore più evidente. Relativamente al dolore prolungato ho invece voluto provare a validare la scala FLACC (Face, Legs, Activity, Cry, Consolability, Merkel, Voepel-Lewis, Shayevitz e Malviya, 1997), uno strumento già utilizzato per valutare il dolore nei bambini ma validata solo per bambini dai 2 mesi di età in poi.

Per capire se questa scala potesse essere utilizzata con i neonati prematuri, l’ho confrontata con lo strumento attualmente utilizzato per la valutazione del dolore prolungato presso l’Unità Operativa di Terapia Intensiva e Patologia Neonatale, ossia la scala EDIN (Echelle Douleur Inconfort Nouveau-né, Debillion, Zupan, Ravault, Magny & Dehan, 2001).

 

 

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

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