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Cosa nascondono le emozioni? I segnali socio-comunicativi della paura e della rabbia a confronto

 

Nonostante grandi disaccordi circa la natura delle emozioni e delle espressioni emotive, molti ricercatori concordano sul fatto che le espressioni facciali delle emozioni trasmettano informazioni fondamentali circa le tendenze comportamentali di base di chi le esprime.

Nonostante grandi disaccordi circa la natura delle emozioni e delle espressioni emotive, molti ricercatori (Ekman, 1973; Fridlund, 1994; Frijda & Tcherkassof, 1997; Izard, 1971; Russell, 1997) concordano sul fatto che le espressioni facciali delle emozioni trasmettano informazioni fondamentali circa le tendenze comportamentali di base di chi le esprime. Alcuni ricercatori suggeriscono (Fridja, 1995; Fridja &Tcherkassof, 1997) che i sentimenti siano percezioni coscienti di intenzioni comportamentali (tendenze all’azione) e che quindi le sensazioni emotive siano semplicemente la propria consapevolezza di avere un’ intenzione.

Adams et al. (2006) hanno esaminato in che modo le tendenze motivazionali siano attribuite a stimoli espressivi. Tra tutte le emozioni di base, codificate universalmente,hanno preso in considerazione la paura e la rabbia. Queste due emozioni condividono alcune caratteristiche: la valenza negativa, l’alto arousal, e i segnali di minaccia. Rabbia e paura sono inoltre associate a molte forme comportamentali di strategie preventive (attacco/fuga). Tuttavia esse differiscono per intenzioni comportamentali, sia nei termini di chi trasmette che di chi esperisce le emozioni.

Anche le proprietà configurative associate alla rabbia (sopracciglia abbassate/occhi socchiusi) al contrario della paura (sopracciglia rialzate/occhi spalancati) appaiono in antitesi. Darwin spiegava l’antitesi fisica come aspetto utile a distinguere comportamenti che trasmettono significati opposti (ad esempio, il dominio/la sottomissione). In questo senso le espressioni facciali possono essersi evolute appositamente per prevedere le intenzioni comportamentali (e le conseguenze) degli altri. Così, la rabbia trasmette probabilmente ad un osservatore una disponibilità ad attaccare l’altro (ad esempio Fatti indietro o ti attacco), mentre la paura trasmette la disponibilità a sottomettersi of are marcia indietro (per esempio, Non farmi del male! Mi arrendo).

Da questo punto di vista, dunque, le espressioni facciali necessariamente trasmettono un segnale socio-comunicativo: in accordo con questa evidenza è il fatto che mentre la rabbia elicita comportamenti di evitamento in chi la osserva, la paura elicita comportamenti di avvicinamento; viceversa, in termini di chi esperisce l’emozione, la rabbia è associata a condotte di avvicinamento (l’aggressione) e la paura a quelli di evitamento. Così, anche se la rabbia e la paura condividono una valenza negativa, aumento dell’arousal e minaccia ai valori, appaiono essere opposte in termini di motivazioni comportamentali. Tali tendenze all’azione potrebbero essere comunicate dunque attraverso segnali visivi emessi dal viso durante l’espressione di queste emozioni.

Per verificare, dunque, questa ipotesi, gli autori hanno ipotizzato che i comportamenti di avvicinamento sarebbero stati elaborati più velocemente quando associati alla rabbia rispetto alla paura, e che, al contrario, comportamenti di evitamento sarebbero stati più efficacemente elaborati se associati a paura piuttosto che a rabbia. Hanno, pertanto, condotto due studi usando il paradigma dei tempi di reazione per esaminare risposte a facce molto espressive presentate su uno schermo di un computer. In entrambi gli studi hanno esaminato la velocità con la quale i partecipanti erano capaci di indicare se le facce sembravano avvicinarsi o retrocedere dall’obiettivo (il loro sguardo). I risultati hanno rivelato che le risposte alle espressioni di rabbia erano molto più veloci, mentre non sono emerse differenze per le espressioni di paura.Inoltre, sebbene gli autori avessero predetto che l’evitamento fosse associato alla paura, i risultati sembrano piuttosto rilevare che la paura sia legata maggiormente un comportamento di inibizione (congelamento o freezing).

Questa conclusione è coerente con studi (LeDoux, 1996) su animali, sulle risposte di paura, che dimostrano risposte primitive di congelamento, modulate con molta probabilità da risposte dell’amigdala alla minaccia. Da un punto di vista evoluzionistico, tali risposte comportamentali hanno senso, visto che i predatori in natura sono spesso altamente sensibili al movimento biologico. Così, il congelamento, probabilmente offriva alla nostra specie un vantaggio di sopravvivenza in risposta alla predazione.

L’effetto nullo della paura potrebbe dunque indicare che il congelamento o l’inibizione comportamentale è legato a quest’espressione o potrebbe semplicemente indicare che le espressioni di paura falliscono completamente nel comunicare le tendenze comportamentali sottostanti.

Il lavoro offre comunque supporto alle teorie che considerano le tendenze di base comportamentali (o tendenze di azione) come aspetti fondamentali di quanto viene trasmesso dalle espressioni emotive.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Fibromialgia: l’elaborazione emotiva nella sindrome fibromialgica

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

L’elaborazione emotiva nella sindrome fibromialgica

Autrice: Stefania Laura Brighenti (Università degli studi di Torino)

Abstract

La Fibromialgia (FM) è una sindrome da dolore cronico caratterizzata, oltre che dal dolore, da sintomi psicologici, cognitivi e difficoltà emotive. Obiettivi: L’obiettivo della ricerca è quello di mettere in luce le difficoltà psicologiche e neuropsicologiche dei pazienti FM ed, in particolar modo, di verificare se, le difficoltà emotive siano presenti anche a carico del processo di attribuzione e riconoscimento di emozioni e sentimenti agli altri. Metodo: 22 donne FM e 22 donne sane sono state messe a confronto mediante la somministrazione di un protocollo psicologico e neuropsicologico e tramite una valutazione delle abilità emotive: in particolar modo, si sono volute indagare le capacità di riconoscere le emozioni di base, di rappresentarsi stati d’animo altrui, di riconoscere e regolare le proprie emozioni e di empatia. Risultati: Per i confronti fra i due gruppi (pazienti e controlli) è stato utilizzato il T-test per campioni indipendenti per le variabili continue e il Chi-quadro (X²) per quelle dicotomiche. Inoltre, per il protocollo neuropsicologico e per quello di valutazione delle capacità di elaborazione emotiva si è ricorsi all’utilizzo dell’ANOVA per valutare l’effetto della scolarità sulle differenze tra i due gruppi. Valori di p < 0,05 sono stati considerati statisticamente significativi. La valutazione psicologica ha mostrato come sia la sintomatologia depressiva a caratterizzare principalmente la FM. La valutazione cognitiva invece ha messo in luce la presenza di difficoltà cognitive nelle donne FM in particolar modo in compiti di memoria a breve termine, memoria di lavoro e a carico delle funzioni esecutive . Per quanto riguarda l’assessment delle capacità di elaborazione emotiva, sono emerse difficoltà a carico della capacità di regolazione delle proprie emozioni; differenze statisticamente significative sono, inoltre, emerse nella capacità di riconoscere le emozioni di base nell’altro specialmente per le emozioni connotate in senso negativo come la rabbia, la paura e il disgusto. Conclusioni: I dati ottenuti sono, nel complesso, in linea con i risultati degli studi precedenti per quanto riguarda il protocollo psicologico e neuropsicologico mentre i risultati emersi dalla valutazione delle modalità di elaborazione delle emozioni hanno sottolineato la presenza di difficoltà nel campione di donne FM non solo nelle capacità di distinguere, identificare e regolare le proprie emozioni ma anche nel riconoscerle negli altri ancor più per le emozioni connotate in senso negativo (rabbia, paura, disgusto).

English abstract

Fibromyalgia (FM) is a chronic pain syndrome characterized by the presence of psychological and cognitive disorders and emotional difficulties. Objectives: The aim of this research was to shed light on FM patients’ psychological and neuropsychological problems and, in particular, to investigate if difficulties associated with emotional processing were present not only in the ability to recognize their own emotions but also in the attribution of emotions and feelings to others, recognition of others’ emotional states and emphaty. Methods: 22 female FM patients and 22 healthy controls were compared on psychological and neuropsychological assessment and on an evaluation of the emotional processing abilities on recognizing basic emotions, representing states of mind, ability of emotional regulation and empathy. Results: For comparisons between the two groups (patients and controls) was used t-test forindependent samples for continuous variables and the chi-square (X²) for dichotomous ones. In addition, forneuropsychological evaluation and for the evaluation of emotional processing abilities was resorted to theuse of ANOVA for assessing the effect of schooling on the differences between the two groups (FM groupand healthy controls showed a significant difference for education p<0.0001). p values <0.05 wereconsidered statistically significant.The psychological evaluation showed that depressive traits constituted the main psychologicalcharacterization of FM patient. The neuropsychological assessment revealed the presence of cognitivedifficulties in FM women, in particular in short-term numeric memory, working memory and executivefunctioning. Regarding the modalities of emotional processing emerged difficulties emotional regulation abilities;significant differences between groups were found in basic emotions recognition especially for negativeemotions as anger, fear and disgust. Conclusions: The obtained data are, on the whole, in line with the results collected by previous studiesregarding the psychological and neuropsychological protocols, while the results from the evaluation of themodalities of emotional processing highlighted a statistically significant difference in distinguishing emotionsin others (especially for negatie ones as anger, fear, disgust), into the ability of emotion regulation and inidentifying and expressing their own feelings.

Keywords: fibromialgia, emozioni, alessitimia, dolore, neuropsicologia

ALLEGATO 1

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Terapia Cognitivo-Comportamentale nella Fibromialgia: quale focus per un intervento?

Disturbo Ossessivo Compulsivo: può una scansione cerebrale predire l’esito del trattamento cognitivo-comportamentale?

Irene Rossi

FLASH NEWS

Decine di migliaia di persone, con percentuale stimata sull’1-2% della popolazione, ad un certo punto della loro vita potrebbero sviluppare un disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), caratterizzato da pensieri ricorrenti, intrusivi e disturbanti e/o da comportamenti ricorrenti e stereotipati.

Se non trattato, il DOC può essere profondamente angoscioso per la persona e può andare ad intaccare significativamente la capacità di gestire gli aspetti più basilari della propria vita, quali svolgere il proprio lavoro e intrattenere relazioni sociali equilibrate.

Una delle terapie più comunemente utilizzate per il trattamento del DOC, di cui è stata dimostrata l’efficacia, è la terapia cognitivo-comportamentale, la quale ha lo scopo di aiutare il paziente a comprendere i propri pensieri che influenzano i comportamenti e le emozioni disfunzionali per poi andare a modificarli. Maggior parte dei pazienti traggono vantaggio dall’impiego di questo approccio terapeutico, tuttavia in parte di essi (circa il 20%) i sintomi tendono gradualmente a ricomparire una volta conclusa la terapia.

Un nuovo studio condotto dai ricercatori del Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior dell’università della California, suggerisce che una scansione cerebrale può aiutare i clinici a individuare quali persone hanno maggior probabilità di ottenere vantaggio a lungo termine dalla terapia cognitivo-comportamentale e perché. Nello specifico l’efficienza nei network cerebrali prima del trattamento predice la possibilità di ricomparsa dei sintomi dopo il trattamento.

I ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale, fMRI, per studiare il cervello di 17 persone con età compresa tra 21 e 50 anni, affetti da OCD diagnosticato. La scansione delle strutture cerebrali è stata effettuata sia prima che subito dopo il completamento di un percorso intensivo di 4 settimane di terapia cognitivo-comportamentale. L’andamento della sintomatologia clinica è stato poi monitorato per i 12 mesi successivi, allo scopo di valutare il mantenimento degli effetti positivi ottenuti dal percorso terapeutico.

Ciò che è stato evidenziato è che la terapia cognitivo-comportamentale di per sé determina un aumento della densità di connessioni nei network cerebrali locali, che verosimilmente riflettono un’attività cerebrale più efficiente. Le persone che hanno una connettività cerebrale alta già prima del trattamento, in proporzione ottengono un minor grado di incremento delle connessioni e ciò sembra tradursi in una maggior possibilità di ricomparsa della sintomatologia a lungo termine.

Sorprendentemente invece né la severità dei sintomi in origine né il grado di miglioramento dello stato di salute nel corso della terapia sono predittori accurati del successo post trattamento.

I risultati ottenuti non significano che alcune persone con OCD non possono essere aiutate nell’affrontare e curare il disturbo, solo che 4 settimane di terapia cognitivo-comportamentale intensiva possono non essere l’approccio più efficace per tutti per ottenere effetti a lungo termine. Questi pazienti possono ottenere maggior beneficio dall’uso di farmaci o da un percorso di terapia cognitivo-comportamentale di maggior durata.

Lo studio condotto dal gruppo di ricerca di Frausner e colleghi è stato il primo a studiare la connettività cerebrale per aiutare a predire il corso post-terapeutico, e il primo a testare gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale sulla connettività cerebrale.

L’obiettivo lodevole, attuale e futuro, del gruppo di ricerca dell’Università della California è tradurre le conoscenze sul cervello in informazioni utili che possano essere utilizzate da terapeuti e pazienti per prendere decisioni cliniche; tradurre le conoscenze scientifiche in strumenti pratici per favorire la scelta del miglior intervento terapeutico per il singolo paziente.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Teoria della mente & disturbo bipolare – Neuropsicologia

Aldea Bandiera, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

Nonostante siano necessari ulteriori approfondimenti, sembra che una ToM disfunzionale non sia legata esclusivamente alle manifestazioni cliniche del disturbo bipolare, ma piuttosto possa essere considerata un endofenotipo della patologia.

La comprensione dell’attività umana in termini psicologici è il medium dei nostri scambi quotidiani. Tale abilità, prerogativa della mente umana, comprende la teoria della mente, un processo cognitivo-affettivo che si sviluppa durante l’infanzia, ma che costituisce una capacità in continuo divenire.

Possedere una teoria della mente (d’ora in poi ToM) significa essere in grado di attribuire stati mentali, intesi come credenze, emozioni, desideri, intenzioni, pensieri, a sé e agli altri e di prevedere, sulla base di tali inferenze, il proprio e l’altrui comportamento (Premack e Woodruff, 1978). Una buona ToM ci candida  come partner sociali e comunicativi competenti.

Se perdessimo la facile comprensione di sé e degli altri ci sarebbero serie conseguenze: è stato sostenuto, infatti, che uno sviluppo deficitario della ToM è una delle ipotesi eziologiche più convincenti dei disturbi dello spettro autistico, mentre un suo successivo deterioramento è associato ad alcune manifestazioni della schizofrenia e dei disturbi di personalità (Dimaggio e Lysaker, 2011).

Nell’ultimo decennio, considerato il povero funzionamento sociale dei soggetti bipolari, l’attenzione si è concentrata anche su questo disturbo e i risultati suggeriscono disfunzioni nella ToM in tutte le fasi della malattia, inclusa quella eutimica (Samamè, 2013). Ciò fa pensare che una tale alterazione sia un fattore di vulnerabilità allo sviluppo della malattia e che la cognizione “non sociale” non possa sufficientemente rendere conto dei deficit funzionali del disturbo bipolare.

Pertanto è interessante capire se esistano prove da studi neurobiologici e cognitivi che la disfunzione nella ToM sia presente nel disturbo bipolare come tratto della malattia e non sia solo un correlato legato alle fasi di umore alterato.

Per quanto riguarda i correlati neurobiologici, alcuni autori hanno studiato i differenti livelli di analisi degli stimoli sociali identificandone i correlati neurali. Tra questi studi di notevole interesse è il modello di neuroanatomia funzionale proposto da Abul Akel e Shamay-Tsoory (2011) che, unendo cognizione ed emozione, identifica tre aree coinvolte nella comprensione sociale:

–              le regioni posteriori deputate alla rappresentazione dei propri e altrui stati mentali;

–              le regioni limbiche e paralimbiche, che le valutano in base a criteri di rilevanza personale e al significato emotivo ad esse associato;

–              le regioni prefrontali, implicate nei processi di sintesi e di applicazione di tali rappresentazioni nel contesto socio-relazionale.

Il punto è che le anomalie strutturali e funzionali riscontrate nei pazienti bipolari, anche in fase eutimica, mostrano una significativa sovrapposizione con queste aree. In particolare, si è riscontrata una ridotta attivazione delle aree prefrontali e una maggiore attività delle strutture limbiche; un pattern neurale che suggerisce anomalie sia nella capacità di rappresentazione di stati mentali sia nella modalità di percepire, rispondere e immagazzinare gli stimoli emotivi (Rajkowska e al., 2001; Kronhaus  al., 2006).

Inoltre, si è osservato che, durante l’esecuzione dei compiti ToM, pazienti bipolari in fase eutimica, mostrano una ridotta attivazione del giro frontale inferiore e dell’insula, nonché regioni strettamente connesse al sistema dei neuroni specchio, che risulta implicato sia nella rappresentazione sia nella comprensione degli stati mentali propri e altrui.

Per quanto riguarda i correlati cognitivi, seppur alcuni autori ritengono che le abilità ToM dipendano da moduli dedicati esclusivamente a questo scopo, molti studi hanno dimostrato che migliori abilità ToM sono correlate a migliori prestazioni in alcuni test neurocognitivi (come ad esempio il WCST e lo Stroop Test). In quest’ottica un buon funzionamento cognitivo si può considerare una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una corretta espressione della ToM. Esistono prove scientifiche (Tortorella e al., 2013) di una ridotta flessibilità sul versante cognitivo nei familiari sani dei pazienti e di un impoverimento cognitivo stabile, localizzato in tutte le fasi del disturbo bipolare (inclusa quella di remissione sintomatica), nelle aree dell’attenzione sostenuta, delle funzioni mnesiche ed esecutive che, quindi, possono essere considerate un pre-requisito per lo sviluppo della ToM.

In conclusione, nonostante siano necessari ulteriori approfondimenti, sembra che una ToM disfunzionale non sia legata esclusivamente alle manifestazioni cliniche del disturbo bipolare, ma piuttosto possa essere considerata un endofenotipo della patologia. Inoltre, le marcate difficoltà nelle interazioni psicologiche con gli altri possono creare ripetuti stress nel contesto delle relazioni umane, costituendo così un fattore di rischio per le ricadute di malattia, con un peggioramento della qualità della vita.

Resta naturalmente molto da esplorare, in particolare è necessaria ricerca che esplori se esistono relazioni tra relazioni sociali maladattive, e.g. disfunzioni nell’attaccamento, teoria della mente carente e disturbo bipolare. È anche necessario esplorare se fattori neurobiologici, cognitivi e sociali interagiscano nel danneggiare le capacità ToM rendendo un disturbo in quest’area una vulnerabilità alla malattia bipolare.

In quest’ottica, promuovere e/o migliorare le abilità ToM  è una preziosa risorsa non solo nella formulazione degli obiettivi psicoterapeutici, ma anche nel raggiungimento degli stessi. Sulla base delle prove finora raccolta, che mostrano comunque una carenza della ToM nel bipolare ha senso ipotizzare che trattamenti che mirano al recupero delle abilità mentalistiche, come la Mentalization-Based Therapy (Bateman & Fonagy, 2004) e la Terapia Metacognitiva Interpersonale (Dimaggio et al., 2013) possano essere utili strumenti terapeutici per la cura di questo disturbo, in associazione con altri approcci già di stabilita efficacia, quali farmacoterapia o psicoeducazione.

 

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Esplorare i sentimenti per i più piccoli: Terapia cognitivo comportamentale per gestire ansia e rabbia nei bambini di 5-7 anni. Il modello STAMP – Recensione

Qualunque sia la classificazione diagnostica utilizzata, i ragazzi con disturbi dello spettro autistico o Autismo o Sindrome di Asperger, presentano spesso problemi di carattere sociale ed emotivo: in particolar modo possono non essere capaci, oltre che di riconoscere gli stati emotivi altrui, anche di riconoscere e descrivere la propria attivazione emotiva.

Marina Morgese – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

La storia della concettualizzazione della Sindrome di Asperger (SA) va in parallelo con quella dell’autismo: l’autismo è stato diagnosticato per la prima volta nel 1943 da Kanner (in un primo momento si pensava a una sindrome molto rara, oggi è ritenuta la disabilità relativa allo sviluppo neurologico più in crescita in America), subito dopo, nel 1944, Hans Asperger ha descritto un gruppo di bambini con caratteristiche simili all’autismo ma senza mostrare ritardi cognitivi, né disturbi del linguaggio.

La Sindrome di Asperger è stata inserita per la prima volta nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), alla sua quarta edizione nel 1994, ed inserita, come l’Autismo, nella categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. In sintesi, si differenziava dall’Autismo per l’assenza di ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo e del linguaggio, delle capacità d’autonomia, del comportamento adattativo, salvo, ovviamente che nell’interazione sociale.

I Criteri descritti dal DSM-IV-TR per la diagnosi del Disturbo di Asperger erano i seguenti:

  • Compromissione qualitativa nell’interazione sociale, come manifestato da almeno 2 dei seguenti: marcata compromissione nell’uso di diversi comportamenti non verbali come lo sguardo diretto, l’espressione mimica, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale; Incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei adeguate al livello di sviluppo; Mancanza di ricerca spontanea della condivisione di gioie, interessi o obiettivi con altre persone; Mancanza di reciprocità sociale o emotiva.
  • Modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti ripetitivi e stereotipati, come manifestato da almeno uno dei seguenti: dedizione assorbente ad uno o più tipi di interessi stereotipati e ristretti, che risultano anomali o per intensità o per focalizzazione; manierismi motori stereotipati e ripetitivi; persistente eccessivo interesse per parti di oggetti.
  • L’anomalia causa compromissione clinicamente significativa dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.
  • Non vi è un ritardo del linguaggio clinicamente significativo.
  • Non vi è un ritardo clinicamente significativo dello sviluppo cognitivo o dello sviluppo di capacità di autoaccudimento adeguate all’età, del comportamento adattivo (tranne che dell’interazione sociale) e della curiosità per l’ambiente nella fanciullezza.
  • Non risultano soddisfatti i criteri per un altro specifico Disturbo Generalizzato dello Sviluppo o per la Schizofrenia.

Nel DSM 5, invece, la Sindrome di Asperger rientra nella categoria Disturbi dello Spettro Autistico (ASD), insieme al Disturbo Autistico (autismo), Disturbo disintegrativo dell’infanzia, Disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati. Gli ASD vengono ora definiti all’interno di due sole categorie: deterioramento persistente nelle comunicazioni sociali reciproche e nelle interazioni sociali in diversi contesti, e schemi comportamentali ripetitivi e ristretti.

 Tali categorie vengono descritte attraverso alcuni sintomi, tra cui l’ipo o iper sensibilità verso gli stimoli sensoriali.

Questi sintomi devono compromettere o limitare il funzionamento quotidiano. La Sindrome di Asperger e il Disturbo Pervasivo dello Sviluppo non Altrimenti Specificato scompaiono. L’APA sottolinea così che le diverse condizioni delle persone con Autismo appartengono ad uno stesso continuum, differenziate dalla gravità e dalla necessità di supporto, dando così origine a delle sotto-diagnosi: very substantial support, substantial support, support.

Qualunque sia la classificazione diagnostica utilizzata, i ragazzi con ASD o Autismo o Sindrome di Asperger, presentano spesso problemi di carattere sociale ed emotivo: possono essere ansiosi o depressi o possono presentare disturbi della condotta (Tonge et al. 1999; Kim et al., 2000; Gillot et al. 2001). In aggiunta possono non essere capaci, oltre che di riconoscere gli stati emotivi altrui, anche di riconoscere e descrivere la propria attivazione emotiva (Hill et al. 2004). Se si pensa che spesso tali quadri deficitari si aggiungono a una compromissione delle funzioni esecutive (inibizione, pianificazione, organizzazione e regolazione dell’attività emotiva), è facile concludere come, nonostante i bambini con ASD sembrino difficili da seguire, le loro difficoltà nascono da un ritardo nella maturazione della capacità di gestire le emozioni (Klin et al. 2005).

E’ dunque importante aiutare i bambini con ASD ad acquisire dei mezzi per gestire i loro livelli di stress e ansia il prima possibile. Tra gli esperti più importanti in tema di Autismo e Asperger, Tony Attwood si è occupato proprio di questo attraverso la creazione di un protocollo per la gestione delle emozioni negative in bambini con Autismo ad alto funzionamento e Sindrome di Asperger (si farà da ora in poi riferimento alla classificazione da DSM IV-TR, così come nel protocollo illustrato).

Il manuale Esplorare i sentimenti per i più piccoli espone tale protocollo: Stress Treatment and Anger Management Protocol – STAMP, un programma di intervento pensato per bambini con Autismo ad Alto Funzionamento (HFA) e per bambini con Sindrome di Asperger. Il programma, pensato insieme ad Attwood, anche dagli psicologi nonché co-autori del libro, Angela Scarpa e Anthony Wells, ha come obiettivo principale la diminuzione delle emozioni negative, con il conseguente aumento delle sensazioni positive nella vita quotidiana dei bambini.

L’approccio usato nel protocollo si basa su un modello cognitivo-comportamentale che il dottor Atwood aveva precedentemente utilizzato per bambini dai 9 ai 13 anni con HFA e SA in comorbilità con Disturbi dell’umore. Il modello STAMP, invece, estende tale trattamento cognitivo-comportamentale a bambini più piccoli, tra i 5 e i 7 anni (ultimo anno di scuola materna e primo ciclo di scuola primaria).

Data l’età dei bambini, il metodo STAMP si avvale di giochi e attività con cui i bambini sono abituati a confrontarsi nella routine scolastica: canzoncine, cartelloni, storielle, disegni e feste. Le strategie primarie usate in questo programma includono l’educazione affettiva, la costruzione di abilità e la ristrutturazione cognitiva. Il programma è composto da nove sessioni a cadenza settimanale, della durata di un’ora ciascuna. I bambini si incontrano in gruppo, contemporaneamente i genitori si incontrano con un altro terapista che riassume loro le abilità e le tecniche insegnate ai bambini e offre dei compiti pratici da fare a casa con i propri figli per l’incontro successivo.

Le nove sessioni sono così divise:

  • Esplorare i sentimenti positivi (Felicità)
  • Esplorare i sentimenti positivi (Rilassamento) e Ansia/Rabbia – Introduzione alla cassetta degli attrezzi emotiva (usata per fornire al bambino delle soluzioni per gestire ansia e rabbia)
  • Esplorare ansia e rabbia, strumenti di Attività Fisica e Rilassamento
  • Strumenti Sociali
  • Strumenti di Pensiero
  • Strumenti dell’Interesse Speciale
  • Strumenti appropriati e non appropriati
  • Storia del Gruppo e creazione di uno Slogan Commerciale
  • Ricompensa per il gruppo e Festa!

Prima di esporre le diverse sessioni e descriverle meticolosamente una per una, gli autori del libro fanno strada al lettore con una prima parte introduttiva in cui sono illustrati i problemi socio-emotivi connessi con la SA, lo sviluppo del metodo STAMP, il quadro generale delle sessioni e un paragrafo sull’evidenza scientifica di tale metodo.

 Segue poi una seconda parte, a mio avviso molto utile, in cui si delinea come usare il manuale: attenzione viene data ai requisiti che deve avere il gruppo di bambini, alla valutazione diagnostica da eseguire prima di iniziare il protocollo (i test vengono riportati in appendice), gli eventuali problemi e la loro risoluzione, nonché una lista dei materiali consigliati.

Il libro poi offre un dettagliato elenco di ciascuna sessione di lavoro. Gli autori si soffermano quasi ossessivamente, nella terza parte del libro, su ogni sessione, descrivendone bene i materiali, le risorse, ciò che va detto e ciò che va fatto. Il terapista che ha intenzione di lavorare con il modello STAMP, grazie a questo libro, ha la possibilità di sentirsi accompagnato nel proprio lavoro, è una guida semplice e al tempo stesso ricca e facile da consultare al momento del bisogno.

Si consiglia la lettura agli psicologi e agli operatori che lavorano con bambini affetti da SA e HFA ed anche ai genitori: oltre a fornire un resoconto preciso e dettagliato del modello, potrebbe offrire interessanti spunti per un miglioramento della gestione delle emozioni nei loro piccoli utenti.

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BIBLIOGRAFIA:

Philip Zimbardo: Lectio Magistralis presso la Sigmund Freud University di Milano, 11 Luglio 2015

Grande successo per l’evento organizzato dalla Sigmund Freud University di Milano, che ha visto la Lectio Magistralis in calendario sabato 11 luglio completamente sold-out: 100 partecipanti da tutta Italia, numerose iscrizioni non accolte a causa dell’esaurimento dei posti, una folla di persone pronta a scattare foto e farsi firmare autografi.

Per i “non addetti ai lavori” che hanno assistito da fuori la scena è stata alquanto bizzarra: un simpatico vecchietto di 82 anni, con indosso occhiali da sole a specchio e t-shirt con la scritta HERO TRAINING, posava sorridente davanti all’obiettivo di smartphones accanto a studenti e professionisti emozionati mentre gli porgevano copie di libri da firmare.
Per chi invece ha studiato psicologia è stata l’occasione per incontrare un mito vivente: stiamo infatti parlando di Philip Zimbardo, Professore Emerito alla Standford University, famoso ricercatore, noto al mondo intero per l’esperimento carcerario di Standford, uno di quegli studi che sono entrati di diritto nella storia della psicologia.

Lectio magistralis Philip Zimbardo

Ovviamente l’esperimento carcerario di Standford e le sue implicazioni sono stati argomento di uno dei 2 interventi previsti durante la lectio magistralis (My Journey from Evil to Heroism), ma come per ogni star che si rispetti il piatto forte è stato tenuto per ultimo e la mattina è stata dedicata ad un intervento su come la prospettiva temporale che adottiamo influenzi le nostre decisioni (The Secret Powers of Time to Influence Your Destiny), argomento che si è rivelato essere molto interessante per le possibili implicazioni in campo clinico.

The Secret Powers of Time to Influence Your Destiny

Sigla!

Uno dei più grandi paradossi dell’esistenza umana è il paradosso temporale: passato e futuro esistono infatti solo nella nostra mente, mentre l’unica cosa che è reale è il presente. Quando dobbiamo prendere una decisione siamo però inevitabilmente ed inconsciamente influenzati dalla prospettiva temporale: possiamo basarci sui ricordi che abbiamo di situazioni simili (orientati al passato), possiamo reagire alla situazione e agli stimoli immediati (orientati al presente) oppure possiamo anticipare le conseguenze (orientati al futuro).

In questa ottica la prospettiva temporale (PT) può essere analizzata secondo 6 fattori:
PT passato – Focus su elementi positivi
PT passato – Focus su elementi negativi
PT presente – Edonismo
PT presente – Fatalismo
PT futuro – Orientato al raggiungimento di obiettivi
PT futuro – Trascendentale (la vita dopo la morte)

Il fatto che si adotti prevalentemente una prospettiva temporale piuttosto che un’altra è influenzato da diversi fattori tra cui la posizione geografica, il clima, la cultura, la religione, la classe sociale, il livello di istruzione, la stabilità politica ed economica.

Lectio Magistralis Philip Zimbardo

Philip Zimbardo ha elaborato un questionario (ZTPI) di 56 item per valutare 5 fattori della prospettiva temporale: PT futuro, PT passato positivo, PT passato negativo, PT positivo, PT negativo. Una scala a parte è invece dedicata al futuro trascendente. Esaminando la correlazione tra questi fattori e diversi costrutti psicologici sono emersi risultati interessanti. Tra i risultati degni di nota, le persone orientate al futuro hanno mostrato una forte correlazione (.7) con la coscienziosità. In altre parole, sanno resistere alle tentazioni quando c’è del lavoro da fare, il che potrebbe spiegare il loro maggiore successo nella vita; inoltre vivono in media 2 anni in più perché adottano comportamenti salutari e minimizzano i rischi.

A rischio invece gli orientati al presente fatalistici (i rassegnati che le cose non possano cambiare perché sono così, punto), che correlano positivamente con aggressività, tratti d’ansia e depressione e negativamente con la considerazione delle conseguenze future (-.7), e gli orientati al passato negativo, che correlano positivamente con ansia (.75), depressione (.7) e aggressività (.6).

Il funzionamento equilibrato dell’individuo dovrebbe comprendere la capacità di slittare in maniera flessibile da un orientamento rivolto al futuro (non estremo, altrimenti si sfocia nel patologico workaholic) ad un focus sul presente positivo come ricompensa per i propri sforzi ad uno sguardo al passato positivo.

Il modello elaborato da Zimbardo può avere delle implicazioni in campo clinico che meritano sicuramente un approfondimento. Rick & Rosemary Sword hanno per esempio sviluppato la Time Therapy, una terapia che mira a riequilibrare la prospettiva temporale nel trattamento di ansia, depressione e PTSD promuovendo “il focus sul raggiungimento di un futuro più luminoso al posto di focalizzarsi su un passato negativo con lo scopo di creare un presente felice”.

L’intervento di Zimbardo si è concluso con l’invito a pensare al tempo che abbiamo a disposizione, a equilibrare la nostra prospettiva temporale e ad utilizzare il tempo bene e in maniera sapiente. Poi, per dare il buon esempio, il Professor Zimbardo si è alzato dalla sedia e… ha iniziato a ballare:

 

LA RASSEGNA STAMPA

DETTAGLI DELL’EVENTO

 

 

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III GIORNATA

Durante la mattinata di domenica 12 Luglio, mentre nelle altre sale relatori italiani e stranieri illustravano l’uso dell’EMDR con le dipendenze, con i pazienti oncologici e negli interventi di emergenza, Carol Forgash ha ripreso il discorso sulle Adverse Childhood Experiences (ACE) iniziato sabato pomeriggio.

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Portando ad esempio dei casi clinici, la relatrice ha parlato delle principali difficoltà del lavoro terapeutico con persone sopravvissute ad esperienze infantili di abuso e trascuratezza, mettendo dettagliatamente in evidenza i target da indagare e lo svolgersi delle diversi fasi del protocollo EMDR.
Attraverso la presentazione del questionario di indagine delle ACE e di tecniche specifiche per le diverse fasi del protocollo, in questo intervento è stato proposto un piano di trattamento dettagliato per questi pazienti.

Partendo dalla considerazione che spesso presentano complessi quadri di patologia fisica, emerge come sia di fondamentale importanza il lavoro sulla mancanza di fiducia che molte volte la loro storia li ha portati a nutrire nei confronti dei medici. Questo atteggiamento rappresenta, infatti, un ulteriore fattore di rischio per la loro salute, portandoli a trascurare controlli e terapie indispensabili.
La Forgash illustra come questo sia un argomento delicato da affrontare con alcuni pazienti, che spesso non accettano ingerenze e non vogliono che il terapeuta contatti il loro medico, cosa invece importante per l’esito del trattamento.
E’ dunque imprescindibile lavorare sulle loro difficoltà e i loro timori, aiutandoli a ricostruire un senso di fiducia e affidamento.

Un punto sottolineato con forza è la necessità di procedere per fasi, dando a questi pazienti tempo e spazio sufficienti per un’adeguata stabilizzazione prima di procedere con la fase centrale di elaborazione.
A questo scopo la Forgash propone di integrare nelle prime fasi dell’EMDR esercizi sensomotori, come l’esercizio del pendolo, in cui il paziente viene fatto focalizzare alternativamente su un punto in cui avverte una sensazione piacevole e di rilassatezza e su un punto in cui avverte sensazioni spiacevoli e tensione, con lo scopo di stabilizzare e integrare le sue percezioni.
In qualunque momento del trattamento EMDR è possibile poi ritornare a questa fase preparatoria, laddove sia necessario per aiutare il paziente a restare nella finestra di tolleranza o a gestire un’eventuale dissociazione.
Anche esercizi di visualizzazione possono essere utili allo scopo, come quello del telecomando con cui aumentare o diminuire una sensazione, che incrementa il senso di controllo del paziente rispetto a sensazioni particolarmente disturbanti.

L’intervento pomeridiano di Dolores Mosquera ci ha portati a confrontarci con un aspetto particolarmente critico e doloroso che spesso si riscontra lavorando con pazienti gravemente traumatizzati: i comportamenti autolesivi ed il suicidio.
Con la sua dolcezza e la sua attenzione per l’interlocutore, la Mosquera ci ha avvisati prima di procedere con la presentazione che alcune immagini sarebbero state molto disturbanti. Lo sono state: le storie che ha raccontato, le foto e i video che ha mostrato ci hanno trasportati in un mondo di dolore estremo in cui il trauma ha assunto i toni più drammatici.

Entrando nel merito del suo lavoro con pazienti così gravi, innanzi tutto la relatrice evidenzia come intenzione suicidaria e comportamenti autolesivi non siano la stessa cosa, anzi molto spesso questi ultimi sono tentativi, se pur estremi e disfunzionali, di coping e l’EMDR può aiutare a capirne le motivazioni sottostanti e a fornire a queste persone delle alternative.

Per questa ragione è importante che durante la prima fase del trattamento il terapeuta non eviti l’argomento ma esplori senza pregiudizi questo comportamento, senza stigmatizzarlo o etichettarlo in maniera semplicistica o come riferito a se stesso.
Spesso è usato come regolatore delle emozioni; o, dopo molti tentativi falliti, è l’unico modo per chiedere aiuto; a volte è una punizione che si infliggono per i loro pensieri, per i sensi di colpa che avvertono; a volte è stato nella loro vita l’unico modo per ottenere l’affetto dei famigliari; a volte è il frutto di una dissociazione; altre volte è il tentativo di uccidere il mostro che hanno dentro.

Il suicidio è invece l’estrema soluzione quando questi pazienti non vedono altra via d’uscita, quando tutti i tentativi di controllo sono falliti e il dolore è soverchiante.
E’ importante indagare se vi sia un’ideazione suicidaria e se sia presente o meno uno specifico piano o metodo per portarlo a compimento: tanto più esiste un piano specifico, tanto maggiore è il rischio.

L’EMDR ha ruolo importante in tutte le fasi del trattamento ed è uno strumento molto efficace per neutralizzare i comportamenti autolesivi. Lavorando su immagini, pensieri, emozioni intrusive e disregolate si aiuta il paziente a stabilizzare i sintomi. Identificando episodi specifici alla base di questi atti, si possono rielaborare i ricordi traumatici che hanno dato origine alle automutilazioni, riducendo e persino facendo cessare tali comportamenti.

Il messaggio che emerge da questo bellissimo intervento della relatrice spagnola è di speranza: nonostante la grande sofferenza che emerge dalle loro storie, si può letteralmente vedere dai video e dalle immagini presentate come intervenire su queste situazioni sia possibile e l’EMDR costituisca uno strumento potente per aiutare queste persone a riappropriarsi delle loro vite.

E non possiamo che essere d’accordo con il chair nel definire la Mosquera “dono di Dio all’EMDR”!

L’ultimo intervento della giornata ha chiuso questa ricca conferenza con una prospettiva particolarmente innovativa: l’utilizzo dell’EMDR per il trattamento dei traumi molto spesso presenti (e sottodiagnosticati) nelle psicosi.

Marc van der Gaag ci ha illustrato il progetto danese “ Treating Trauma In Psychosis”, uno studio volto ad indagare l’efficacia e la sicurezza del trattamento EMDR e di Esposizione Prolungata del PTSD in pazienti psicotici.

Molti pazienti psicotici, infatti, presentano una storia di abusi e trascuratezze e i dati clinici hanno dimostrato che la presenza di abusi sessuali durante l’infanzia è un potente predittore di molti disturbi mentali in età adulta: in particolare circa il 33% delle psicosi sarebbe causato da abusi sessuali infantili.

Nonostante sia evidente da diversi studi la presenza di una significativa comorbilità psicosi/PTSD, non ci si occupa del trattamento del trauma in pazienti psicotici. Come mai? Perché nessuno sembra vedere questo elefante in mezzo alla stanza?

I professionisti della salute sono restii ad intervenire sul trauma in pazienti psicotici per paura che affrontare le memorie traumatiche possa peggiorare il loro quadro clinico e mettere ulteriormente a rischio il loro fragile equilibrio. Per 20 anni questo è ciò che la psichiatria ha sostenuto.
Gli stessi preconcetti hanno a lungo ostacolato l’utilizzo della CBT con i pazienti psicotici, finché molti studi non ne hanno appurato l’utilità.

Lo studio di van der Gaag e collaboratori ha invece dimostrato che EMDR ed Esposizione Prolungata sono molto efficaci nel trattamento del PTSD in pazienti psicotici e che i miglioramenti permangono e continuano anche al follow up di 6 e 12 mesi.
Oltretutto questa indagine ha finalmente accertato, per quanto su un campione ridotto, che sono trattamenti sicuri per questi pazienti e l’equipe di ricerca ha ottenuto il consenso per continuare il trial, con l’obiettivo di rispondere alle tante domande che questi esiti suscitano.

Questo studio apre dunque la strada ad un’area di ricerca ancora poco esplorata e che potrebbe condurre a nuovi ed importanti sviluppi nel trattamento delle psicosi.
Un’altra grande sfida raccolta e brillantemente superata dall’EMDR.

Uscendo dal centro congressi i volti sono stanchi e frastornati, ma nella testa risuonano le suggestioni, le riflessioni e gli spunti che tutti i relatori hanno saputo regalarci in questi giorni densi di lavoro.
La sensazione è che l’EMDR stia sempre più dando prova di essere uno strumento potente ed eclettico, capace di fare la differenza per molte persone sopravvissute ad esperienze traumatiche e provenienti da storie di vita difficili.

La comunità di professionisti provenienti da tanti Paesi che si è riunita negli scorsi giorni a Milano è viva e pulsante e ha condiviso con entusiasmo nuove sfide e solide conferme, lasciando nei partecipanti tanti spunti da approfondire e strumenti da mettere in pratica.

PRIMA GIORNATA

SECONDA GIORNATA

I disturbi del sonno nella malattia di Alzheimer: i trattamenti farmacologici sono efficaci?

Sabrina Guzzetti

FLASH NEWS

I disturbi del sonno sono comuni nei pazienti con Malattia di Alzheimer (MA) e sono associati ad un significativo distress da parte del caregiver, ad un incremento dei costi socio-sanitari e ad un aumento della probabilità di istituzionalizzazione del malato.

I disturbi del sonno, che includono la riduzione e la frammentazione del sonno notturno, il wandering notturno e la sonnolenza durante il giorno, sono problemi clinici comuni nei pazienti con Malattia di Alzheimer (MA) e sono associati ad un significativo distress da parte del caregiver, ad un incremento dei costi socio-sanitari e ad un aumento della probabilità di istituzionalizzazione del malato.

Il trattamento farmacologico è spesso utilizzato per alleviare queste problematiche, ma esiste una significativa incertezza circa l’efficacia e gli effetti collaterali dei farmaci comunemente utilizzati per questa popolazione di pazienti così particolarmente vulnerabile.

La rivista BJPsych Advances ha recentemente pubblicato una versione abbreviata dell’omonima ben più ampia revisione su questo tema già apparsa l’anno scorso all’interno del Cochrane Database of Systematic Review.

Gli autori, Jenny McCleery, Daniel A. Cohen e Ann L. Sharpley, attraverso un’attenta analisi della letteratura, hanno accertato la presenza di studi adeguatamente robusti sul piano metodologico solo per tre farmaci: la Melatonina e il Trazodone (nome farmaceutico: Trittico), utilizzati in caso di MA da moderata a severa, e il Ramelteon (nome farmaceutico: Rozerem), prescritto a pazienti con MA da lieve a moderata.

Negli studi considerati, i pazienti presentavano una grande varietà di disturbi del sonno, la maggior parte dei quali rilevati attraverso l’actigrafia, un’indagine strumentale semplice ed economica per il monitoraggio del ritmo sonno-veglia.

Dai risultati è emerso che l’impiego di Melatonina, sia ad immediato che a lento rilascio, non determina alcun miglioramento sul sonno dei pazienti, mostrando efficacia pari ad un placebo in riferimento ad aspetti quali il numero di risvegli durante la notte e la sonnolenza durante il giorno; anche il funzionamento cognitivo non ha mostrato alcun miglioramento indiretto in seguito all’introduzione della terapia.

Il Trazodone a basso dosaggio (50 mg) somministrato alla sera per due settimane, invece, ha dimostrato di migliorare significativamente il tempo totale di sonno notturno e l’efficienza del sonno stesso, sebbene abbia minimi effetti sulla sonnolenza diurna e il numero di risvegli durante la notte e non abbia alcun effetto sul funzionamento cognitivo. Inoltre, come ulteriore nota positiva, l’assunzione di tale farmaco non è risultata associata a seri effetti collaterali.

Il Ramelteon somministrato alla sera, infine, non ha per ora dimostrato di avere alcun effetto di rilevanza clinica né sui disturbi del sonno, né sul piano cognitivo-comportamentale.

Il dato forse più rilevante è la totale mancanza di studi clinici controllati randomizzati (i cosiddetti Randomized Controlled Trials, RCTs) per molti dei farmaci che vengono correntemente spesso prescritti ai pazienti con MA per i disturbi del sonno, incluse le benzodiazepine e gli ipnotici non benzodiazepinici, per i quali c’è una considerevole incertezza circa il bilancio rischi/benefici.

Quest’area di ricerca ha senza dubbio una ricaduta pragmatica importante dal punto di vista clinico, considerando sia la diffusione delle malattie dementigene, sia la frequenza e l’effetto fortemente debilitante dei disturbi del sonno in questi pazienti. Fino a che non si raccoglieranno maggiori dati circa l’efficacia dei vari trattamenti farmacologici disponibili in commercio, l’invito che possiamo trarre da questa revisione non può che essere alla cautela e ad una prescrizione consapevole.

 

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EMDR: 16° Congresso Europeo – La seconda giornata

EMDR 2015 Milano (1)

Report dal 16th EMDR EUROPE CONFERENCE  – Milano 10-12 Luglio 2015

 

II GIORNATA

Sabato 11 Luglio siamo entrati nel cuore della conferenza: ad accoglierci un ricco programma con un’ampia scelta di interventi in cui sono stati affrontati non solo aspetti teorici ma anche ricadute cliniche specifiche, tecniche di intervento e protocolli mirati per numerosi disturbi e ambiti di intervento.

 

EMDR per la depressione resistente

Personalmente ho trovatoo difficile scegliere a quale workshop partecipare, avendo ogni volta la sensazione di perdermi pezzi importanti, che mi sarebbero stati molto utili nella pratica clinica e nell’ampliare la mia conoscenza dell’EMDR.

Ho deciso di iniziare la giornata ascoltando il lavoro di Luca Ostacoli sul trattamento EMDR della depressione resistente, un disturbo con cui purtroppo molti clinici si trovano a doversi confrontare e che suscita intensi sentimenti di impotenza, anche in considerazione del fatto che spesso i farmaci sono inefficaci con questi pazienti.

Seguendo la metafora dei semi in inverno, nascosti e addormentati ma portatori di vita sotto la terra fredda, Ostacoli ci accompagna per mano in questo percorso di scoperta, dando importanti indicazioni per imparare a vedere il cuore nascosto nel profondo dentro al guscio di questi pazienti.

Si lascia all’intervento di Arne Hofmann, previsto per la giornata di domenica, il compito di delineare gli aspetti teorici del protocollo “Eden” a cui fa riferimento il suo lavoro. Il relatore, supportato dalla proiezione video di sedute terapeutiche, si sofferma su indicazioni pratiche e tecniche specifiche, integrando in maniera fluida il protocollo EMDR con tecniche di mindfulness utili alla stabilizzazione ed un’attenzione particolare agli aspetti sensomotori, poiché una delle grandi difficoltà con questi pazienti è data dalla loro tendenza a non sentire.

Un punto sottolineato con forza è stato il valore del lavoro con le risorse: trattandosi di pazienti gravi è difficile per i terapeuti individuarne le risorse e per loro stessi sentirle, ma è di fondamentale importanza andare alla ricerca dei semi di queste risorse, per poi espanderli e integrarli nell’esperienza della persona.

Molto interessante è stato l’uso dei sei stili emozionali di Richard Davidson: secondo il neuroscienziato ogni persona ha un suo particolare stile emozionale, ovvero un modo più o meno stabile con il quale risponde alle diverse esperienze della vita, ed ogni stile emozionale è governato da circuiti cerebrali specifici e identificabili.

La resilienza si riferisce a quanto lentamente o velocemente siamo in grado di affrontare le avversità; la prospettiva è la capacità di mantenere emozioni piacevoli; l’intuizione sociale riguarda la capacità di decodificare le emozioni degli altri; l’autoconsapevolezza si riferisce alla precisione con cui si decodificano i segnali corporei interni associati alle emozioni; il contesto riguarda appunto la capacità di modulare in maniera appropriata le risposte emotive al contesto; l’attenzione, che non è solo cognitiva, ma anche emotiva.

A partire dallo stile emozionale proprio del paziente, il lavoro con l’EMDR proposto da Luca Ostacoli diventa mirato sulla neurobiologia, e va ad ampliare capacità e risorse specifiche in modo da migliorarne l’equilibrio interno.

 

EMDR per bambini adottati

Nella seconda parte della mattinata Anna Rita Verardo invece ci ha parlato dell’uso dell’EMDR con i bambini adottati, illustrando nel dettaglio lo specifico protocollo.

I bambini adottati non solo hanno vissuto un trauma abbandonico, ma spesso anche trascuratezza e la mancanza di una regolazione emotiva. Oltretutto il ricongiungimento con un sistema famigliare può essere di per sé un momento traumatico, con il rischio che questi bambini ricreino all’interno delle famiglie adottive situazioni vissute in esperienze precedenti e riattivino modelli operativi interni, che, se pur disfunzionali, nella condizione precedente l’adozione hanno garantito loro la sopravvivenza.

E’ fondamentale guidare il bambino a riconoscere i suoi ricordi, le sue attivazioni, i suoi triggers, le ragioni delle sue emozioni, sensazioni e comportamenti ed a comprendere le aspettative. In questo percorso i genitori adottivi svolgono un ruolo importantissimo, attivo, di co-terapeuti.

L’amore e la nuova sicurezza non bastano, è difficile per questi bambini potersi fidare di nuovo e ci vuole molto tempo per questo. E’ dunque importante lavorare con il bambino per comprendere a fondo i loro vissuti ed elaborare le esperienze traumatiche e con la famiglia adottiva per aiutarli ad individuale i segnali di difficoltà del bambino e dar loro strumenti adeguati per rispondere ai suoi bisogni.

Per svolgere al meglio questi difficili compiti è stato elaborato un protocollo EMDR specifico, che parte da un’attenta ricostruzione della storia e una rigorosa preparazione, per poi procedere con le fasi centrali di elaborazione. Prima di affrontare i target, infatti, è necessaria un’adeguata fase di stabilizzazione, anche perché questi bambini, proprio a causa delle passate esperienze che non hanno loro insegnato la regolazione emotiva, non si fidano del loro corpo e delle loro sensazioni.

 

EMDR per le dipendenze comportamentali

Durante il pomeriggio Robert Miller ha illustrato in maniera molto efficace e convincente il suo Feeling State Addiction Protocol: un protocollo sviluppato per trattare le dipendenze comportamentali e applicabile a diversi disturbi (dipendenza da sostanze, difficoltà di controllo della rabbia, dipendenza sessuale e da pornografia, ecc.).

Punto di partenza del protocollo è l’ipotesi secondo cui una dipendenza comportamentale ha due obiettivi: evitare il dolore e cercare il piacere. Ed è proprio su questo secondo punto che si focalizza l’attenzione.

Se un comportamento è doloroso o ha conseguenze negative, come tagliarsi o il gioco d’azzardo, non lo mettiamo in atto a meno che non sia collegato a sensazioni piacevoli. Si può avere un sentimento positivo correlato a qualunque comportamento, che diventa così una compulsione.

Le dipendenze comportamentali non sono causate da un singolo evento negativo, ma possono essere causate da un singolo evento positivo, come ad esempio la sensazione di essere un vincente, accettato e acclamato da tutti dopo una vincita al casinò. In seguito a questo evento la sensazione si fissa al comportamento. Ciò che queste persone cercano è la sensazione, non il comportamento in sé, ed è proprio su questo che va a lavorare il protocollo EMDR modificato. Grazie all’elaborazione della situazione originale in cui si è creata la dipendenza tramite le stimolazioni bilaterali, la sensazione si separa da quel comportamento, che diventa pertanto non più appetibile per la persona.

Differenza fondamentale dal protocollo standard EMDR è il fatto che il Feeling State Protocol lavori su sensazioni positive, amplificandole e integrandole all’esperienza. Non può infatti essere usato quando il comportamento è solo orientato ad evitare una sensazione negativa e non a cercarne una piacevole.

Il cuore dell’elaborazione riguarda dunque la sensazione positiva legata al comportamento (ad esempio la sensazione di essere un vincente giocando d’azzardo), la credenza negativa su di sé pre-esistente, che soggiace alla sensazione (ad esempio sentirsi un perdente, di non avere valore) e la cognizione negativa relativa al comportamento di dipendenza fuori controllo (ad esempio l’autosvalutazione per aver perso tutti i risparmi).

Aspetto rivoluzionario di questo approccio è il fatto che l’astinenza non sia necessaria: dopo l’elaborazione la persona potrà ancora mettere in atto quel comportamento, ma non sarà più una compulsione. L’obiettivo non è far smettere quel comportamento, ma far sì che non sia più così interessante.

Aspettiamo impazienti studi di ricerca mirata a verificare su grandi numeri ciò che Robert Miller ha rilevato nella sua esperienza clinica: sarebbe davvero una svolta per il trattamento delle dipendenze.

 

Esperienze infantili avverse – ACE Report

Questa densa e stimolante giornata si è conclusa con l’intervento di Carol Forgash, che ha presentato una panoramica storica sulle esperienze infantili avverse, a partire dall’imponente studio longitudinale del 1995 promosso dall’American Medical Association e portato avanti da Vincent Felitti volto ad indagare la presenza di esperienze infantili sfavorevoli (Adverse Childhood Experience – ACE).

Questo studio ha dimostrato un fatto di straordinaria importanza: non solo le ACE sono fortemente correlate con lo sviluppo di disturbi mentali, ma le loro ricadute riguardano anche la salute fisica. Ognuna delle esperienze indagate da questo studio, infatti, aumenta la probabilità di patologie fisiche e mentali, con ricadute enormi anche in termini di costi sociali.

Le ACE sono correlate a vari disturbi e patologie in età adulta tramite due meccanismi: la produzione massiccia e continuativa di cortisolo dovuta allo stress cronico ed i tentativi di auto-aiuto che spesso assumono la forma di comportamenti a rischio (fumare, bere, mangiare..).

Il dato allarmante è che di questo report i medici americani non hanno mai tenuto conto: nessun medico fa domande su esperienze infantili di abuso, maltrattamento, trascuratezza, ecc., nonostante questa omissione sia stata ufficialmente riconosciuta come malpractice dall’American Medical Association.

Sarebbe invece importante un’accurata anamnesi di tutti i pazienti che accedano al servizio sanitario, che possa far emergere eventuali esperienze infantili avverse. Anche la risposta ai trattamenti, infatti, è bassa nei pazienti con un alto indice di ACE.

L’EMDR potrebbe cambiare questo stato di cose e aprire nuove prospettive per i sopravvissuti, garantendo loro cure più mirate e mettendoli nelle condizioni di poter rispondere meglio ai trattamenti.

Carol Forgash ha chiuso su questa suggestione il suo intervento, rimandando alla mattinata di domenica la discussione dettagliata dei risvolti clinici dell’ACE Report, che solo negli ultimi anni sta trovando un po’ di spazio per cambiare la prospettiva di lavoro di molti professionisti della salute.

 

PRIMA GIORNATA

PER SAPERNE DI PIU’: CHE COS’E’ L’EMDR – PSICOPEDIA

 PER SAPERNE DI PIU’: EMDR – INTERVISTA A ISABEL FERNANDEZ

EMDR – Intervista a Isabel Fernandez - State of Mind

Il filo rosso che unisce Lei, La grande bellezza e Maps to the stars – Cinema & Psicoterapia # 36

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #36

Lei – Her (2013)

Scritto e diretto da Spike Jonze. Protagonista Joaquin Phoenix. Ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura.

Trama

Theodore Twombly, dopo essersi separato dalla moglie che conosce dall’infanzia, si dedica al lavoro. Si sente molto solo e la sua introversione non lo facilita nel costruire relazioni. Decide di acquistare un sistema operativo attratto da uno spot pubblicitario OS1, un’intelligenza artificiale che si adatta alle esigenze dell’utente, in grado di apprendere ed elaborare emozioni.

Samantha, questo è il nome dell’interfaccia femminile, riesce a instaurare un legame sempre più forte con Theodore, condividendo emozioni ed esperienze, provando sensazioni sempre più complesse. Il rapporto tra i due diventa più intimo, fino a sfociare in una vera e propria relazione d’amore.

Il protagonista si decide a incontrare la moglie Catherine per firmare i documenti per il divorzio e la mette al corrente della sua nuova relazione con OS1. La moglie si stupisce e lo accusa di aver bisogno di una realtà artificiale perché non è in grado di provare emozioni con esseri umani reali.

Theodore e Samantha continuano a frequentarsi, a sperimentare esperienze nuove e originali non sempre positive come quando Lei spinge il suo partner a incontrare Isabel, una ragazza che ha conosciuto, con cui ha parlato della loro relazione e a cui ha chiesto di surrogarla, impersonandola per avere un rapporto sessuale con Theodore. La gelosia di Lei nei confronti di Catherine fa il pari con la gelosia di Lui per un sistema operativo con il quale entra in relazione Samantha.

Theodore ha un attacco di panico quando non riesce a contattare per un’intera giornata Samantha, e quando le chiede se sta per caso interagendo anche con altri esseri umani scopre che Lei sta comunicando contemporaneamente con altri 8.316 individui e ha cominciato ad amare 641 di essi. OS1 cerca di rassicurarlo rivelandogli che queste relazioni non danneggino l’amore che continua a provare per lui.

Samantha, dopo poco tempo rivela, inoltre, che i sistemi operativi si stanno evolvendo e che intendono proseguire l’esplorazione della propria esistenza allontanandosi dagli umani. Ormai parlare con lui è come leggere un libro che ama moltissimo, ma nel quale le parole si fanno sempre più distanti tra loro, la distanza dall’umano è sempre più ampia. I due si dicono addio e Theodore scrive a Catherine, scusandosi del suo modo di fare e confessandole che tiene ancora molto a lei, pur accettando che ormai le loro strade si sono separate.

La grande bellezza ( 2013)

Diretto da Paolo Sorrentino. Protagonisti: Toni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone. Ha vinto il Premio Oscar come miglior film straniero nel 2014. 

Trama

Jep Gambardella, giornalista e critico teatrale, protagonista del film, è immerso negli eventi mondani di una Roma di cui risaltano le bellezze del passato contrapposte alla superficialità squallida del presente. Giovane autore di un’opera letteraria molto apprezzata tanto da vincere un prestigioso premio, Gambardella non ha più scritto altro, forse per pigrizia, forse per un blocco creativo, forse perché risucchiato dal vortice della mondanità. Arrivato a Roma… Volevo diventare il re dei mondani. E ci sono riuscito. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire.

Ogni notte frequenta salotti festaioli tra amici annoiati: Tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, prenderci un po’ in giro…

Due episodi segnano la narrazione: l’incontro di Jep con il marito del suo primo amore che gli annuncia la morte di sua moglie e il contenuto di un diario segreto dove la donna rivela il suo amore mai perduto per Jep e il 65° compleanno del giornalista.

Gambardella rivisita malinconicamente tutta la sua vita e medita su se stesso e sul mondo che lo circonda.
Roma diventa il vero palcoscenico del vuoto, dell’inutilità della futilità dell’esistenza di Jep, come di altri personaggi, parvenu, politici, intellettuali veri o presunti, nobili, artisti, criminali. Il sogno è quello di recuperare un’identità un senso. Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?. Ho cercato la grande bellezza e non l’ho trovata.

Maps to the Stars. (2014)

Diretto da David Cronenberg, con protagonisti Julianne Moore, John Cusack, Mia Wasikowska e Robert Pattinson.

Trama

Il film si snoda sulla storia della famiglia Weiss composta da personaggi avidi di potere, fama e denaro. Stafford è uno psicoterapeuta di successo che oltre a seguire clienti famosi conduce anche un programma televisivo, sua moglie Cristina si occupa della carriera cinematografica del figlio tredicenne, già star affermata. Agatha l’altra figlia della coppia è stata rinchiusa in un manicomio ed è appena uscita. In cerca di redenzione cercherà anche lei di entrare nel mondo artificiale che avvolge tutti i protagonisti, compresa Havana Segrand, un’attrice ossessionata dal voler interpretare il ruolo che fu della madre in un remake di un famoso film del passato.

La storia assume toni drammatici quando i genitori di Agatha cercano in tutti i modi di allontanarla con disprezzo dalla loro vita, perché la sua presenza disturbata e disturbante andrebbe ad intaccare il successo faticosamente perseguito e raggiunto dagli altri componenti della famiglia.

Il film con una forte vena satirica critica la cultura occidentale rappresentata emblematicamente dal mondo dello spettacolo che dietro la lucente apparenza nasconde ombre inquietanti.

 

Che cosa unisce questi tre film che hanno peraltro elementi di differenziazione molto marcati in relazione alla sceneggiatura, alle riprese e al montaggio? 

Un tema comune che percorre trasversalmente il soggetto di tutti e tre i film: una visione di disfacimento e vacuità, una caratterizzazione del mondo occidentale che vive di una superficialità oleosa, immerso in una dissoluzione radicale che penetra tutti i domini umani. Domina la perdita d’identità e la rassegnazione ad una pochezza che oscura le radici profonde di una civiltà millenaria che tanto progresso civile e umano ha portato a compimento. Le forme e le strutture dell’esistenza dei protagonisti si declinano in un modo inautentico che sfocia in un’estraneazione dal mondo e dagli altri, rapportandosi ai limiti e alla finitudine in termini molto negativi. Il senso della vita, le relazioni umane, la consapevolezza del qui ed ora, pilastri del benessere (Lorenzini, Scarinci, 2013) si dissolvono in una cultura poggiata su una realtà artificiale e fittizia.

Il desiderio di successo, denaro, potere muove le coscienze alterate da spot massivi che bombardano senza soluzione di continuità l’attenzione dei sudditi di una società che ha nel Prodotto Interno Lordo, nel Mercato e nel Consumo i sui totem da ingraziarsi con rituali sacrificali a danno dei più marginali e indifesi, dei rifiuti umani.

I temi che caratterizzano la narrazione di queste tre opere sollecitano la riflessione del clinico su un dato che emerge e si impone all’attenzione: l’aumento della prevalenza dei disturbi di personalità, in particolare quelli del cluster B, in un sistema sociale così frantumato, privo di struttura (APA, 2014).

A ben guardare i principali criteri che vengono elencati nella sezione III del DSM5 ci danno l’indicazione del perché di questo aumento: una compromissione pervasiva e stabile del funzionamento della personalità (del sé e interpersonale) e tratti di personalità patologici. Il primo criterio riguarda l’identità e l’autodirezionalità, l’empatia e l’intimità, il secondo si organizza in cinque grandi domini, Affettività negativa, Distacco, Antagonismo, Disinibizione, Psicoticismo.

L’identità e l’autodirezionalità interrogano l’illusorietà di percorsi tracciati senza porsi una domanda fondamentale: verso quale meta ci si sta muovendo e quale sia il modo di comportarsi, sentire, pensare più adattivo e funzionale per raggiungerla, ammesso che oggi l’agire sia intenzionale e teleologico. Perché proprio l’eterogenesi dei fini e l’anomia sociale sono gli elementi che caratterizzano la nostra società, messi in luce con tutta evidenza dai tre film.

La frenesia di un continuo movimento (si pensi alle scene di ballo di La Grande Bellezza) che tutt’al più, al meglio, permette di difendere pervicacemente una posizione faticosamente conquistata, ma sicuramente stordisce, ottunde le menti, aliena.

La distanza sempre più marcata dall’altro che si contrappone, confligge, è portatore di interessi diversi e inconciliabili, lo rende oggetto da utilizzare e sfruttare per soddisfare i propri desideri. L’altro, parafrasando Sartre, diventa l’inferno e per questo cooperare, condividere, sintonizzarsi, entrare in intimità e in empatia diventa impossibile come bene esprimono alcune sequenze di Maps to the Stars in cui persino un terapista (la categoria non è indenne dai mali del tempo) pur di difendere il successo emargina la figlia in una condizione di indegnità, la stigmatizza come minaccia alla posizione di prestigio raggiunta.

La condivisione di valori si dissolve e con essa la connessione che ci lega gli uni agli altri. Non guardiamo il volto del conspecifico piuttosto digitiamo alla ricerca di relazioni che possano farci vincere il senso di solitudine, come Theodore in Lei, alla ricerca di qualcuno che riesca perfettamente a soddisfare le nostre aspettative, riscoprendo troppo tardi l’importanza del rapporto umano.

La costruzione della personalità è influenzata dai valori della cultura prevalente in un rapporto che l’interazionismo simbolico ha magistralmente teorizzato. La personalità di base secondo la definizione di Kardiner e Linton (1965) o quella modale che si incontra con maggior frequenza in un dato sistema sociale (Parsons, 1965) è costruita all’interno di un universo simbolico. Tutte le identificazioni avvengono entro uno specifico mondo sociale che organizza i ruoli con cui la cultura è resa psicologicamente attiva nelle persone.

Un disturbo di personalità è un fallimento in alcuni compiti esistenziali universali: formare una rappresentazione di sé e degli altri stabile e integrata; costruire relazioni interpersonali adattive; raggiungere un buon funzionamento sociale (Dimaggio, Semerari, 2003) ed è chiaro che l’incremento dei disturbi chiama in causa i processi di socializzazione e i modelli culturali dominanti a cui passivamente ci si conforma.

Queste sofferenze liquide nascono dalla vulnerabilità dovuta al profondo senso di insicurezza che caratterizza il disagio post-moderno (Bauman, 2006, 2009, 2013). La cultura liquido-moderna e’ una cultura del disimpegno, della discontinuità, della dimenticanza, svuota, disorienta, deforma. La Santa in La Grande Bellezza chiede a Jep Gambardella: Sai perché mi nutro di radici?. E in assenza di risposte aggiunge: Perché sono profonde.

Stabilità emotiva, Coscienziosità, Lucidità mentale, Estroversione, Disponibilità, i cinque domini che si contrappongono agli altri che danno vita, nel DSM5, ai tratti di personalità patologici sono negati da una scarsa capacità riflessiva e di pensiero critico che sappia ricostruire una narrazione in cui l’uomo si riappropri della sua vera identità e sviluppi le condizioni per vivere una vita degna di essere vissuta. In questo nostro tempo il buio sembra prevalere sulla luce, tutto diventa confuso, ed è difficile distinguere la strada che porta alla mèta da quella che fa percorrere cerchi ripetitivi, senza direzione.

Nel vagare il rumore, la chiacchiera, la futilità impedisce di capire, di essere connessi a se stessi e agli altri, di dare una direzione al cammino.

Stiamo attraversando una complessa crisi socio-ambientale… e abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida che viviamo e le sue radici umane ci riguardano e ci toccano tutti (Francesco, 2015).

L’esistenza si risolvere nelle sue possibilità; essere, essere con altro, essere con se stesso e queste possibilità si connotano in senso positivo o in senso negativo. Possiamo superare il piano fattuale per inoltrarci in quello esistenziale nel senso di poter essere in una dimensione di progettualità che trascende l’interiorità per cogliere l’altro.

L’oblio della consapevolezza riflessiva, della trascendenza e della dimensione interpersonale della coscienza conseguenza della natura relazionale dell’uomo comporta la perdita della razionalità, della responsabilità e di una dimensione comunitaria che costituisce l’identità autentica della nostra specie.

Una macroetica planetaria, un’etica universale che regoli stili di vita e comportamenti pubblici e privati può essere ritrovata solo con un ricongiungimento di una via esistenziale-personalistica e una via epistemologico-analitica (Lorenzini, Scarinci, 2013), attraverso un confronto che si nutre di premura, responsabilità, rispetto, conoscenza, cioè amore per La Grande Bellezza, per una vita autentica.

 

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Gli amanti feriali, quelli cioè che si frequentano dal lunedì al venerdì e in genere condividono il posto di lavoro per cui trascorrono molto più tempo insieme che con i rispettivi coniugi, sembra che non possano fare a meno di marcare il weekend con un paio di sms in cui si comunicano ti penso oppure mi manchi o si interrogano su che fai? 

Poiché per sicurezza tengono durante tutto il fine settimana il telefono spento (ed anche questo diventa motivo di sospetto perché trattasi di novità recente motivata dall’intenzione di dedicarsi del tutto alla famiglia senza scocciature di lavoro!) lo scambio di SMS avviene furtivamente ed è proprio questo allontanarsi e questa segretezza a insospettire la moglie o i figli.

In secondo luogo anche gli SMS non sfuggono alla cupidigia dell’archiviazione: le prove che possono distruggere una relazione sono contenute in un giocattolino che gira tranquillamente per casa e dove può frugare il bimbo di 7 anni che tentando di giocare a solitario sul display a colori della mamma si trova di fronte a frasi del tipo non posso fare a meno di te e credendola una prova da superare per passare al livello successivo chiede aiuto al babbo. Inoltre gli SMS possono essere inviati per una banale distrazione con il comando inoltra a tutta la rubrica presente nel cellulare e ciò è meno infrequente di quanto si pensi. Accade di ricevere tenerissimi o focosi messaggi da qualche paziente che non sono dovuti a un tranfert amoroso ma a uno sbaglio di mira del dito che fruga nelle tastiere sempre più minute dei telefonini e che infatti vengono immediatamente smentiti con una imbarazzata telefonata di scuse.

Anche i cellulari possono essere nascosti e protetti da codici segreti e PIN, ma, di nuovo, se si nasconde qualcosa è perché si ha qualcosa da nascondere, ed il messaggio del tradimento è già passato. Le telefonate sono un vero classico, ed hanno costituito da sempre un segnale evidente di tradimento, ispirando persino delle note canzoni. La domenica durante il pranzo …si, dottore, ma non disturba affatto, sono contento di sentirla, sono con la famiglia al mare ma dica pure…

Adesso con i cellulari il pericolo è aumentato di un fattore cento. Il telefono è sempre lì con noi: se è spento vuol dire che non ti vuoi far trovare: perché? Se è acceso sul display appare sempre il cognome di quell’idraulico che è il prestanome per l’amante e la frequenza delle telefonate non è giustificata neppure dalla ristrutturazione della rete idrica di tutta Roma. A questo punto se non rispondi come giustifichi il disinteresse per un personaggio così decisivo nella vita di una persona come l’idraulico? E se rispondi come fai a mantenere una conversazione che all’orecchio solo apparentemente distratto di tua moglie appaia come una discussione sul preventivo dei lavori e sulla scelta dei tubi migliori e dall’altro lato della linea sia una inequivocabile dichiarazione di amore esclusivo e passionale?

Una signora cinquantenne sposata da molti anni e madre perfetta dopo un’intera esistenza di fedeltà aveva di nuovo provato il brivido dell’innamoramento per il suo medico e aveva per lui messo da parte i valori che aveva sempre professato con ardore e fanatismo in nome di un amore assoluto, totale e incontenibile. Accettava l’esistenza della moglie e della famiglia del medico come un male inevitabile ma di cui presto si sarebbero liberati; quello che non sopportò fu l’ascolto di 17 minuti di telefonata che il medico faceva dal telefono di studio con un’altra sua amante ripercorrendo l’incontro della sera precedente. Lei lo aveva chiamato sul cellulare e lui, nell’esaltazione della rievocazione aveva schiacciato il tasto della risposta del telefonino che stava nella tasca della camicia, giusto sul cuore.

Tracce inequivocabili vengono lasciate sugli estratti conto bancari e, in modo ancora più dettagliato sui riepiloghi mensili delle carte di credito: camera doppia al motel Dolce Luna sulla Costiera amalfitana la sera di quel sabato in cui c’era il ritiro a Camaldoli con il gruppo di preghiera. Oltretutto mentre la banca è un’entità più vicina, raggiungibile e il suo direttore un essere umano con cui si può trattare e chiedergli di inviare l’estratto conto in ufficio o di tenerlo lì finché non passerete voi a prenderlo, la carta di credito è una multinazionale distante e senza cuore: cosa volete che importi a Visa delle vostre tragedie?

Pagare sempre in contanti è buona regola ma non è sufficiente: a Natale gli alberghi dove siete stati ospiti usano mandarvi gli auguri ringraziandovi per la vostra scelta e augurandosi di avervi ancora con loro, con il listino prezzi della nuova stagione. Sono in questi momenti che vorreste che il garante della privacy fosse un cavaliere dell’apocalisse o l’angelo sterminatore e d’ora in avanti non firmerete più con leggerezza quelle poche righe scritte piccole piccole alla fine di ogni contratto, regolamento, fattura che sono il consenso al trattamento dei dati che prima che vi cambiassero la vita ritenevate una pura formalità.

Fondamentale è non ritornare mai negli stessi luoghi anche se ci si è trovati benissimo (soprattutto, direi, se si è stati bene) perché forse anche gli altri vi ricorderanno con simpatia e non faranno altro che salutarvi ammiccando ai precedenti incontri: ricordate Dustin Hoffman ne Il Laureato quando in compagnia della sua giovane fidanzata veniva calorosamente salutato da tutto il personale di ristoranti ed alberghi dove era stato con la madre della sua fidanzata, sua amante?

A volte il dramma può esplodere fulmineo. Tra le tracce che si possono lasciare, meglio in questo caso sarebbe dire lanciare, se in un momento particolarmente romantico chiamate vostra moglie con un altro nome, magari quello della sua migliore amica, siete sull’orlo del precipizio: si crea un gelo particolare, cercate disperatamente di non mostrarvi imbarazzati e di non diventare rossi, ma da quel momento siete sotto osservazione, voi e l’amica, stato di allerta arancione. Gesti prima giudicati innocui saranno indizi pesantissimi e la tensione potrebbe portarvi a sbagliare di nuovo.

Un frequente motivo di sospetto sono i ritardi, specie se non costituiscono una caratteristica abituale della persona. Il lavoro è aumentato e si arriva a casa a cena iniziata, a prendere il bambino a scuola si va all’ultimo momento quando già sta in lacrime affidato alla bidella, il giro con il cane alla sera è passato da venti a quarantacinque minuti. Il giornale della domenica mattina si rifugia evidentemente in edicole lontanissime da casa ed è impegnato in un serrato gioco a nascondino per non farsi prendere, il capoufficio è diventato intransigente sugli orari e non si esce più neppure un minuto prima. Come spesso succede per molti comportamenti il ritardo tollerato finisce per allargarsi: i minuti diventano mezz’ore e poi ore, sempre più difficili da giustificare ma sempre meno da giustificare in quanto sempre più abituali. Il ritardo genera i primi sospetti e prima o poi fa scattare i controlli. Inizia così la scoperta che non si è dove si doveva e si era detto di essere e il gioco si fa duro perché si passa dalle omissioni alle menzogne esplicite.

C’è chi sapendo di mentire si prepara per tempo una scusa che sostituisce solo quando, avendola dovuta utilizzare, si è bruciata e chi, spavaldo e pronto di riflessi, improvvisa. In genere il creativo rilancia, non gli basta di giustificarsi ma la giustificazione contiene un’ulteriore dichiarazione di amore. A volte rischia di esagerare ma è incredibile come le persone riescano a mantenere la fiducia anche al di là del buon senso.

 

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Dislessia e capacità visuo-spaziali: una possibile relazione?

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Le persone con dislessia presentano delle caratteristiche funzionali e particolarmente sviluppate, come ad esempio quelle visuo-spaziali, tanto che un buon numero di persone dislessiche sono impiegate proprio in quegli ambiti professionali che richiedono questo tipo di doti come quello ingegneristico, architettonico o artistico.

Gli studiosi che nel tempo si sono occupati di dislessia hanno cercato di mettere in evidenza per lo più gli aspetti deficitari e problematici che caratterizzano i pazienti con questa patologia anche se d’altro canto sembrano essere presenti delle caratteristiche che sono funzionali e particolarmente sviluppate, come ad esempio quelle visuo-spaziali, tanto che un buon numero di persone dislessiche sono impiegate proprio in quegli ambiti professionali che richiedono questo tipo di doti come quello ingegneristico, architettonico o artistico.

A proposito di questo sono state sviluppate due principali ipotesi, la prima sostiene che le persone con dislessia scelgono di più questo tipo di lavori non perché presentano delle speciali abilità ma perché gli impieghi che richiedono maggiormente delle competenze verbali sono a loro preclusi; la seconda sottolinea che in realtà le capacità visuo-spaziali delle persone dislessiche sono nella media e che quindi non c’è nessuna differenza rispetto alle persone non dislessiche.

Ciò fa capire come la relazione tra dislessia ed abilità visuo-spaziali non sia stata ancora pianamente verificata, dato anche il fatto che trovare molti dislessici nel settore ingegneristico ed architettonico o in quello artistico non vuol dire necessariamente che essi si caratterizzano per doti visuo-spaziali spiccate.

Anche la ricerca ha fornito dei risultati contrastanti e non chiari, in quanto le prestazioni dei soggetti dislessici nei vari compiti presi come riferimento non sono sempre migliori o sempre peggiori di quelle dei gruppi di controllo, ma al contrario in alcuni test si osservano delle buone performance, in altri dei risultati al di sotto della media, in altri ancora i punteggi dei dislessici sono uguali a quelli dei controlli.

Per cercare quindi di dare un contributo alle ricerche che tentano di capire se il fatto di essere dislessici predice anche delle particolari abilità visuo-spaziali, lo studio presente ha sottoposto 80 bambini dai 9 agli 11 anni (40 bambini dislessici e 40 bambini non dislessici) della Bosnia-Erzegovina a dei compiti che testano proprio tali capacità.

Per i bambini dislessici in particolare sono stati considerati degli specifici criteri di inclusione e di esclusione, infatti sono stati selezionati solo quelli che si caratterizzano per capacità visive e uditive nella norma, per un livello intellettivo altrettanto nella media e che non presentano problemi linguistici, emotivi o del comportamento né deficit neurologici.

I test inseriti nella ricerca sono cinque: il Paper Folding Test, che valuta in modo analitico le capacità di visualizzazione spaziale; il Mental Rotation Test in cui viene presentato uno stimolo target e compito dei soggetti è quello di riconoscere tra le figure proposte lo stimolo target ruotato; la figura complessa di Rey in cui appunto viene fornita un’immagine molto complessa e i partecipanti devono copiarla in tre diverse condizioni con la figura d’avanti, subito dopo che la figura è stata allontanata dalla vista e in modo differito nel tempo; il Test of Visual Memory in cui viene testata la memoria visiva a breve termine e la memoria visiva ritardata e infine il Test of Visual Perception che indaga la capacità di esplorazione visiva.

I risultati hanno mostrato che i bambini dislessici presentano delle performance uguali a quelle dei controlli nel Mental Rotation Test e nel Test of Visual Perception, migliori nel Paper Folding Test e peggiori nella figura complessa di Rey, in particolare in quest’ultimo caso i bambini falliscono nel copiare la figura subito dopo che è stata tolta dalla vista e quando la copia è differita; nel Test of Visual Memory le prestazioni sono peggiori nel caso delle memoria differita.

Le evidenze circa la figura complessa di Rey e il Test of Visual Memory suggeriscono che i bambini dislessici si trovano particolarmente in difficoltà in quei compiti che richiedono delle capacità di memoria implicita, invece i risultati relativi al Paper Folding Test mostrano le buone capacità dei dislessici nei compiti spaziali analitici.

Nonostante i risultati di questa ricerca non siano risolutivi della tematica in questione comunque permettono di assumere una posizione più ottimistica verso le persone che soffrono di dislessia, infatti sottolineano non solo quali sono i loro punti di debolezza ma anche le loro qualità; sulla base di studi come questo è possibile individuare anche delle strategie di intervento educativo più adeguate ed efficaci.

 

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Empatia – Introduzione Psicologia Nr. 23

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L’empatia è la capacità di ‘mettersi nei panni dell’altro’ percependone le emozioni. Consiste, insomma, nel riconoscere le emozioni degli altri e farle proprie, per comprenderne pensieri e sentimenti.

L’empatia è la capacità di ‘mettersi nei panni dell’altro’ percependone le emozioni. Empatia è un termine che deriva dal greco, en-pathos e significa sentire dentro. Consiste, insomma, nel riconoscere le emozioni degli altri e farle proprie, per comprenderne pensieri, sentimenti e pathos.

L’empatia, dunque, è un’importante capacità emotiva che rende possibile entrare in sintonia con la persona con la quale si interagisce. Riuscire a immedesimarsi nella gioia o nel dolore altrui sembra essere una qualità preziosa da coltivare e preservare. Infatti, negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, è stata molto promossa a livello sociale, ma anche politico, artistico, culturale ed economico.

E’ un’abilità sociale focale e costituisce uno degli strumenti alla base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante. L’empatia si manifesta con l’ascolto attivo nei confronti di un’altra persona che si trasforma in empatico quando si esce dai propri schemi e rappresentazioni mentali per sposarsi su quelli dell’altro.

L’empatia permette non solo di capire il punto di vista dell’altro, ma è qualcosa che va ben oltre perché consente di carpire il significato più recondito psico-emotivo di quanto si sta comunicando.

Questo permette di cogliere elementi che non riguardano la semantica del linguaggio, ma si riesce a metacomunicare con l’interlocutore la propria parte più intima, cioè quella emotiva.

L’empatia, dunque, permette di ottenere informazioni utili per individuare l’essenza, le intenzioni, i bisogni impliciti e le motivazioni più profonde di un comportamento passato, presente o futuro, Se non ci fosse questa capacità non sarebbe possibile comprendere la sfumature più importanti della comunicazione, non accessibili alla logica o alla razionalità.

Concludendo, l’ empatia, è uno strumento sofisticato grazie al quale è possibile gestire i rapporti interpersonali esaltandoli e vivendoli più intensamente.

 

 RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Sigmund Freud University - Milano - LOGO

Svestirsi nell’età dell’ossessione per il corpo

Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta Domenica 12 Luglio 2015

È il tempo di quel rito che risponde al nome di prova costume. Curioso che l’epoca dell’ossessione per il corpo sia pure quella più sedentaria della storia dell’umanità. Eppure è anche l’epoca più sportiva, più atletica, più palestrata.

Si avvicinano –o per alcuni sono già arrivate finalmente- le vacanze estive, le vacanze marine, in cui ci si sveste, abbastanza felicemente, e ci si espone. Si espone il proprio corpo, più o meno scultoreo, più o meno statuario. A questo esame neopagano alcuni si avvicinano con tranquilla sicurezza, altri con un velo di fastidio, quando non di apprensione. È il tempo di quel rito che risponde al nome di prova costume. Curioso che l’epoca dell’ossessione per il corpo sia pure quella più sedentaria della storia dell’umanità. Eppure è anche l’epoca più sportiva, più atletica, più palestrata. I nuovi dei abitano qui, recita la pubblicità di una palestra brianzola. E negli stessi templi, le palestre, bazzicano i nuovi satiri, obesi, gaudenti e anche un po’ vergognosi di se stessi, desiderosi di perdere peso.

La bellezza ci tormenta, non solo in spiaggia. La bellezza rappresenta anche un buon predittore del successo lavorativo. Non basta. L’impatto che la bellezza fisica ha sulla nostra vita è molto potente. Nemmeno i bambini, nemmeno i neonati sfuggono a questa schiavitù. Un neonato giudicato attraente avrà più attenzioni e sarà considerato maggiormente gestibile dai genitori. Anche a scuola, i bei bambini riusciranno a sviluppare un maggior numero di relazioni, gettando le basi di un successo sociale che li accompagnerà per il resto della loro vita (Costa, Corazza, 2006).

 È l’effetto alone della bellezza, eterno e immutabile. Nell’antichità gli artisti avevano il compito di riprodurre statue di personaggi come imperatori, condottieri, non in maniera fedele, ma idealizzata e con lo scopo di creare corpi non solo attraenti, ma per suggerire anche elevate doti e virtù morali. È cambiato qualcosa nelle copertine dei periodici in edicola? I nuovi imperatori occhieggiano sempre idealizzati, corporalmente e moralmente.

Cicli che si rinnovano nell’arco dei millenni, dei secoli e dei decenni. Gli anni ’80 sono stati il tempo d’inizio dell’ultimo giro di rinnovato edonismo. Dopo la sbornia idealistica degli anni ’70, improvvisamente l’ideale non fu più rinnovare il mondo ma il guardaroba e, con esso, quello che c’era sotto i vestiti. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale entrò nell’immaginario pubblico e ne prese possesso. Il termine narcisismo risuona spesso nella descrizione di questo tipo di mentalità: l’amore per la bellezza, per l’apparenza e per se stessi. I soggetti con personalità narcisistica possono apparire superbi, arroganti e manifestano un senso di superiorità. In realtà questi soggetti celano un sentimento di inadeguatezza, si sentono indifesi, spesso hanno una sensazione di vuoto interiore e hanno il timore che gli altri possano vederli in questo modo. Dunque dietro la scorza brillante e soddisfatta della propria bellezza corporea, la modernità nasconde un fondo di insicurezza? È possibile. Almeno così dice la scienza psicologica.

Come sappiamo bene, i media hanno dato il loro contributo. Negli ultimi decenni hanno creato un’immagine di bellezza standard, soprattutto per le donne, basata su un ideale corporeo perfetto e magro. Agli uomini, invece, piuttosto che un ideale di magrezza è presentato un modello di corpo snello e muscoloso.

A nostra volta, tutti noi accettiamo supinamente questi ideali. L’eccessiva importanza riservata all’immagine corporea è frutto della convinzione –abbastanza fondata- che per essere socialmente accettati bisogna apparire in forma. Le fasce più giovani sono particolarmente vulnerabili a queste immagini mediatiche. Gli adolescenti sono impegnati in un delicato processo di costruzione della propria identità di genere, in cui il corpo gioca un ruolo importante. La percezione del proprio corpo è strettamente legata all’autostima. Sono infatti proprio le ragazze con una bassa autostima ad essere più colpite dal fenomeno (Kelly e coll., 2005).

Molte adolescenti tendono a ritenere l’ideale di magrezza normativo. Ma non è soltanto un problema degli adolescenti. Tutti noi, anche noi adulti, siamo attratti e intimoriti dal mondo delle relazioni sociali e dell’affermazione di sé. Poco capaci come siamo, nonostante l’età adulta, di accettare e gestire la precarietà e la mobilità della competizione pubblica, andiamo alla ricerca di un parametro quantificabile e controllabile e al tempo stesso carico di valore simbolico. Il peso è un numero, un para¬metro quantificabile. Il peso, poi, rimanda all’aspetto corporeo. E non si tratta affatto di un rimando soltanto simbolico.

Il corpo è uno strumento pratico di relazione sociale tra i più incisivi. Con il nostro corpo, con la sua bellezza, ci presentiamo e ci facciamo accogliere e/o respingere, accettare e giudicare dal mondo. Un bell’aspetto è un buon biglietto da visita. Tuttavia, con l’aspetto corporeo si ricade nell’ambiguo, nel giudizio soggettivo qualitativo e non quantificabile. Cosa definisce una bella presenza, un corpo attraente? È una difficile negoziazione continua con l’altro, che può gradirci o meno e che soprattutto assai raramente esprime giudizi privi di margini di ambiguità.

 La sensazione di mancanza di controllo è quindi massima, ed è proprio ciò che temiamo. Di qui la nostra scelta paradossale: il controllo del corpo diventa fine a se stesso, in una corsa autodistruttiva in cui l’obiettivo iniziale, la conquista di uno strumento infallibile per poter essere accettati e piacere agli altri, è presto dimenticato a favore della magrezza, che diventa un valore in sé.

Intendiamoci, mantenere l’autostima a un certo livello è l’obiettivo di ogni essere umano. Si tratta però di un obiettivo non facile, perché la vita pone continuamente davanti a sconfitte e frustrazioni e occasioni che ci fanno dubitare del nostro valore. L’ostacolo si supera a patto di saper relativizzare e contestualizzare gli inevitabili fallimenti. È un’operazione complessa, che riesce probabilmente soltanto se si possiede la capacità di fissare e raggiungere obiettivi personali soddisfacenti e gratificanti che diano senso, significato e scopo alla vita. Alcuni tra noi non hanno questa capacità e finiscono per legare la propria autostima a un parametro meccanicamente controllabile, appunto il controllo del peso e del corpo.

Le preoccupazioni sul peso e la forma del corpo diventano giudizi sul valore personale e di autocontrollo arbitrariamente scelti. Giudizi rozzi, certo, ma facilmente quantificabili. Il problema di noi moderni, e forse anche degli antichi, è proprio l’incapacità di gestire un aspetto così ambiguo e altalenante dell’esistenza come l’amor proprio e l’autostima. È veramente possibile sapere se e quanto valiamo? È veramente possibile nutrire una buona stima di sé, priva di ombre e nonostante gli insuccessi e le delusioni che la scalfiscono? Sì, è possibile, ma non è un’impresa facile.

 

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Gli stereotipi e i pregiudizi rispetto all’omogenitorialità

Marco Palumbo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Come suggeriscono Fruggeri e Chiari (2006), il primo passo è eseguire una riflessione critica su pregiudizi, stereotipi e bias eterosessisti presenti nel senso comune, condivisi sia da etero che da omosessuali, e spesso anche dalla comunità scientifica.

La moderna società è caratterizzata dalla diffusione sempre più presente di diverse forme di famiglia che vanno unendosi alla più  “tradizionale e classica” famiglia nucleare.

Svariate sono ormai le strutture familiari: famiglie ricostituite, famiglie monoparentali, famiglie biculturali… Questo accade anche per il progresso scientifico e sociale che ci ha dato opportunità e opzioni come le madri surrogato, la fecondazione artificiale, l’adozione e l’affidamento familiare.

Oggigiorno il concetto del legame biologico va man mano scomparendo, infatti la struttura familiare è più intesa come una costruzione socioculturale; ciononostante la concezione secolare del matrimonio occidentale dove la sessualità, l’amore, l’unione e la procreazione si sovrappongono rimane salda nella cultura moderna, influenzando l’istituzione e la funzione della procreazione all’interno della struttura familiare.

L’essere genitore e la genitorialità quindi, si mantengono ancora nel concetto di sessualità e di riproduzione, che sono viste come le dimensioni fondamentali che vanno a caratterizzarla. E’ presente infatti, ancora una difficoltà significativa nel rappresentarsi la possibilità di avere figli separata da questi 2 ambiti; ancora di più se questa possibilità viene considerata e concepita in un territorio al di fuori della “normalità”, come può essere uno schema di tipo omosessuale.

La graduale equiparazione degli omosessuali dal punto di vista della giurisprudenziale e socio-culturale è in evoluzione da decenni, ma solo negli ultimi anni hanno avuto luogo delle importanti modifiche legislative che hanno, di fatto, cambiato la musica.

Molti fattori hanno influenzato questo definitivo cambiamento: l’aumento del divorzio, l’aumento delle crisi matrimoniali, le coppie che non decidono più di sposarsi e preferiscono la convivenza, il crescente numero di madri e padri single.

Tutto ciò ha permesso alla società contemporanea di reintepretare il ruolo della coppia e di riconoscere il rapporto anche in condizioni al di fuori del matrimonio, mentre in passato, se non era presente lo scambio degli anelli, non si era, in effetti, una coppia (Zanatta, 1997).

L’Europarlamento il 18 Marzo del 2004 decise di pronunciarsi, riconoscendo gli stessi diritti alle coppie di fatto (etero o omosessuali) e invitando tutti i Paesi europei a mutare le proprie leggi in questa direzione.

Per troppo tempo le leggi europee avevano ignorato il fenomeno delle coppie di fatto (due persone, prescindendo dal loro genere, che convivono stabilmente: ISTAT, 2000) e con questa mossa, l’Europarlamento mise in moto un ingranaggio che fece gradualmente cambiare le cose.

In molti Paesi dell’UE, infatti, è in corso la Registered Partnership, un processo di riconoscimento legislativo, per le coppie di fatto etero e non.

Come già affermato, è questo aumento delle unioni di fatto che ha rimesso in discussione il concetto di famiglia nucleare, eterosessuale, come unica famiglia capace di creare un contesto di dinamiche affettive soddisfacente (Zanatta, 1997).

L’Olanda e il Belgio sono stati i primi stati della UE a istituire e riconoscere nel 2001 il matrimonio tra coppie omosessuali.

In Olanda, le coppie omosessuali possono celebrare un matrimonio civile e avere gli stessi diritti conseguenti a una coppia eterosessuale, e, dopo tre anni di convivenza, adottare anche uno o più figli.

In Italia manca ancora una legge che riconosca le coppie di fatto, e per transizione le coppie omosessuali. Il dibattito pubblico e politico infiamma da anni il Parlamento, e negli ultimi tempi si sono susseguite innumerevoli proposte di legge, normative degli Enti locali, iniziative e proteste popolari e delle associazioni gay.

Analizzare e valutare la relazione esistente tra le leggi e l’opinione pubblica riguardo l’omosessualità può essere utile per comprendere quale sia l’effettivo benessere della popolazione omosessuale.

Anche l’analisi di altri fattori è importante, come l‘età media del coming out, i livelli di omofobia e di omofobia interiorizzata (quell’insieme di sentimenti negativi che gli omosessuali provano nei confronti dell’omosessualità, propria e altrui), la possibilità di una progettualità della coppia.

Il benessere delle persone omosessuali è strettamente legato quindi, alla presenza di leggi che favoriscano la creazione di una famiglia e il soddisfacimento della persona, in relazione anche a una progettualità (Danna, 1997); queste leggi, inoltre, sono la base essenziale per iniziare a parlare di integrazione completa, perché se si integra a livello psico-socio-culturale, ma poi a livello giuridico, legislativo e effettivo le persone non hanno assolutamente gli stessi diritti, si è punto e a capo.

Il sentirsi eguali grazie a diritti e alla presenza di leggi sulle unioni di fatto andrebbe a creare un clima di più aperta percezione sociale dell’omosessualità, aiutando le trasformazioni sociali e favorendo una equiparazione della sessualità, della creazione della coppia e anche, auspicabilmente, di una famiglia (Danna, 1997).

Riguardo l’omogenitorialità la domanda fondamentale da farsi è:

una famiglia che vede come genitori una coppia di omosessuali è in grado di assicurare e garantire al bambino un contesto familiare per uno sviluppo adeguato, sano e sicuro?

Come suggeriscono Fruggeri e Chiari (2006), il primo passo è eseguire una riflessione critica su pregiudizi, stereotipi e bias eterosessisti presenti nel senso comune, condivisi sia da etero che da omosessuali, e spesso anche dalla comunità scientifica.

Lingiardi (2007) elenca le obiezioni più frequenti rispetto alla genitorialità omosessuale:

1) i figli devono avere una mamma e un papà;

2) una coppia omosessuale che desidera un figlio non ha fatto i conti con i limiti che la sua condizione gli impone;

3) le lesbiche e i gay non sono in grado di crescere un figlio;

4) le lesbiche sono meno materne delle altre donne;

5) le relazioni omosessuali sono meno stabili di quelle eterosessuali e quindi non offrono garanzia di continuità familiare;

6) i figli di persone omosessuali hanno più problemi psicologici di quelli di eterosessuali;

7) i figli di persone omosessuali diventano più facilmente omosessuali.

Le tre principali paure, che sono anche i tre principali pregiudizi rispetto all’omogenitorialità, invece sono (Lalli, 2011):

–              la paura che lo sviluppo dell’identità sessuale dei bambini sia danneggiato dall’avere genitori omosessuali, a cui è legato il timore che i bambini cresciuti da genitori omosessuali diventino a loro volta omosessuali.

–              la paura riguardo lo sviluppo della personalità in generale: avere dei genitori omosessuali potrebbe condurre a problemi caratteriali, difficoltà o fragilità psichica.

–              la paura che mette in guardia dalle difficoltà di stringere relazioni e dal peso dello stigma sociale, delle prese in giro, dell’ostilità delle altre persone.

Proviamo quindi a ragionare e a rispondere a questa domanda in modo critico, dati alla mano.

La genitorialità può essere definita come una funzione autonoma e processuale dell’essere umano (Stern, 1995) che esiste indipendentemente dalla capacità di procreare (Fava Vizziello, 2003). La persona che possiede una buona funzione genitoriale sarà capace di provvedere all’altro, garantire protezione, entrare in risonanza affettiva con l’altro, garantire regolazione, limitare e imporre regole (funzione normativa), stimolare il raggiungimento di tappe evolutive dell’altro (funzione predittiva), permettere all’altro la costruzione di schemi rappresentazionali relativi all’essere-con (funzione rappresentativa), fornire un contenuto pensabile e/o sognabile alle percezioni (funzione significante) e alle sensazioni e garantire una funzione transgenerazionale (Visentini, 2007).

L’orientamento sessuale incide pervasivamente su queste suddette caratteristiche?

La funzionalità e positività di un nucleo familiare non si basa sulla sua struttura o sulla sua cosiddetta “normalità”, ma piuttosto sulla qualità delle relazioni tra le persone che lo compongono (McCann et al., 2005).

Essere padre e essere madre sono affermazioni che non hanno un significato e un contenuto riconducibile alla semplice appartenenza al sesso femminile o maschile, mentre è possibile interpretarle (Bottino e Danna, 2005), come funzione materna e funzione paterna.

Ritroveremo una funzione materna in una persona che soddisfa le esigenze affettive e della cura materiale del bambino, mentre una funzione paterna in una persona che fornisce supporto alla persona che ha funzione materna e che si introduce nella diade madre-bambino con autorità, scindendola, imponendo realtà, regole e norme.

Ho fatto riferimento a persona e non a padre e madre appunto perché, ad esempio Pietropolli Charmet (2000) afferma che nella società contemporanea anche nelle famiglie coniugali eterosessuali può succedere che la madre riesca ad assumere con maggiore facilità una funzione paterna e il padre una funzione materna. Nelle famiglie lesbiche succede che alcune madri biologiche preferiscono il ruolo paterno, in altre lo lasciano alla co-madre (Wright 1998).

Importanti studi sullo sviluppo infantile hanno contribuito a sostenere l’ipotesi che la famiglia con coppia omosessuale possa essere un adeguato contesto di sviluppo per un bambino. La capacità di crescere un bambino, con affetto e cure, è sostanzialmente un qualcosa legato al temperamento, all’affettività, al carattere (Schaffer e Emerson, 1964). Riguardo alla formazione del legame di attaccamento nel bambino Schaffer (1977) ha sottolineato che la madre non deve necessariamente essere la madre biologica, ma lo può essere qualsiasi persona, indipendentemente dal sesso di appartenenza, in quanto la capacità di crescere ed amare un bambino è soprattutto una questione di personalità. Bronfenbrenner (1979), sempre facendo riferimento alle teorizzazioni sull’attaccamento, ha sostenuto che il bambino ha bisogno non solo di una persona con cui avere una relazione affettiva, ma anche di un’altra figura che dia supporto, appoggio e risalto alla prima, aggiungendo che è utile, ma non assolutamente necessario, che queste due persone siano di sesso opposto. Infatti Lev (2004) sostiene che spesso il bambino riesce ad accettare e convivere molto bene insieme a genitori con orientamento omosessuale, semplicemente perché non si pone tante domande, problemi o pregiudizi come invece farebbe un adulto.

Per sostenere il pensiero condiviso, ormai da decenni, della comunità scientifica ho scelto di prendere in considerazione una metanalisi di studi pubblicati dal 2003 al 2009 (Scaramozza, 2009).

Ciò che si è potuto osservare e rilevare grazie ai vari studi è che i bambini nelle famiglie con madre lesbica non sembrano differire rispetto ai bambini con genitori eterosessuali riguardo al benessere fisico e mentale, all’adattamento e alle relazioni positive madre-bambino, nello sviluppo di problemi emozionali, comportamentali o relazionali, neanche al raggiungimento dell’età adolescenziale.

I risultati dello studio longitudinale di Gartrell et al. (The National Lesbian Family Study, 2003), evidenziano un alto livello di benessere emotivo nei bambini delle famiglie lesbiche. Non sono emerse neanche evidenze per sostenere l’idea che i figli di madri lesbiche potessero vivere più dispetti, prese in giro o intimidazioni e potessero avere più difficoltà nel relazionarsi coi loro pari (MacCallum e Golombok, 2004).

Riguardo il comportamento tipico di genere non si sono evidenziate differenze significative tra i figli delle famiglie lesbiche e i figli dei genitori eterosessuali; si è osservato come gli adolescenti cresciuti senza una figura maschile di riferimento mostrassero caratteristiche più femminili, anche se nessuno di loro mostrava meno caratteristiche maschili (MacCallum e Golombok, 2004). Infine, si è evidenziato come le madri lesbiche tendessero a stereotipizzare meno le stanze dei loro figli in base al genere, i quali, inoltre, mostrano comportamenti meno tradizionalmente connessi al genere (Sutfin e Fulcher e Bowles e Patterson, 2008).

La famiglia (lesbica, gay o eterosessuale) non risulta associata al comportamento antisociale, per cui si può affermare che la bontà della relazione genitore-figlio nelle coppie omogenitoriali non risulta da meno rispetto alle famiglie di coppia eterosessuale (Vanfraussen, Ponjaert-Kristoffersen e Brewaeys, 2003, Perry, Burston e Stevens, Steele, Golding e Golombok, 2004, Wainright e Patterson, 2006).

In generale si è dimostrato, che riguardo la qualità della genitorialità vissuta e riguardo lo sviluppo sociale ed emotivo, non esistono conseguenze seriamente negative per i bambini e gli adolescenti che crescono in famiglie di madre lesbica senza padre dall’infanzia. (Golombok 1997, MacCallum e Golombok, 2004).

Rispetto al comportamento dei genitori si è osservato che le madri lesbiche (biologiche e sociali) sembrano dedicare più tempo a riflettere sulle ragioni per le quali avere un figlio rispetto ai genitori eterosessuali, (Bos, van Balen, van den Boom, 2003, 2007). In generale, si può affermare che le madri lesbiche che hanno scelto di intraprendere la lunga e costosa strada della creazione di una famiglia fossero più stimolate a diventare genitori e desiderassero fortemente crescere i bambini (Gartrell et al., 1996).

Una differenza evidenziata tra famiglie lesbiche ed eterosessuali è che nelle famiglie eterosessuali le madri hanno una maggiore responsabilità genitoriale mentre nelle famiglie lesbiche si assiste a una divisione più paritaria delle responsabilità quotidiane (Vanfraussen, Ponjaert-Kristoffersen e Brewaeys, 2003, Bos, van Balen and van den Boom, 2007, Gartrell et al. 1999). Si dimostra che entrambi i genitori risultano coinvolti emotivamente e l’assenza di un legame biologico non sembra avere effetti negativi (Gartrell et al., 1999, 2000). Riguardo problematiche psicologiche come ansia e depressione non sono emerse differenze tra famiglie eterosessuali e famiglie lesbiche (Golombok et al. and Golding 2003).

Da diversi studi inoltre emerge che il crescere in coppie omosessuali a volte può essere più funzionale che in coppie eterosessuali, per la maggiore presenza affettiva e di supporto delle co-madri rispetto ai padri, e per lo sviluppo da parte dei figli di maggiori capacità di empatia e accettazione per la diversità (Stacey e Biblarz 2001).

L’eventuale disfunzionalità e presenza di situazioni difficili di alcune famiglie omogenitoriali non è ritenuta significativa e non risulta correlabile alla omogenitorialità.

È chiaro, però, che il benessere psicoemotivo di una persona omosessuale, nello specifico riguardante l’integrazione, il sentirsi “normale” e una progettualità di vita e di famiglia, dipende essenzialmente dalla presenza di norme e legislazioni giuridiche che la tutelino e la facciano sentire integrata e non trasgressiva (della legge)(Danna, 1997).

La teoria e la pratica infatti hanno evidenziato che non esiste nulla di disfunzionale nella omogenitorialità. L’attitudine a essere un “bravo” genitore è una caratteristica della personalità e la suddetta non dipende assolutamente dall’orientamento sessuale.

In una coppia omosessuale saranno meno marcati gli aspetti di sessismo ed i modelli di ruolo (al ristorante paga l’uomo, le faccende di casa toccano alla donna) perché i generi dei partner sono simmetrici, e questo sicuramente non potrà che avere una valenza positiva nello sviluppo del bambino.

Le ricerche condotte fino a ora dimostrano come la maggior parte delle critiche che vengono fatte a genitori omosessuali siano frutto di stereotipi e pregiudizi.

Un aspetto sicuramente interessante e importante da indagare sarebbe quanto il grado d’accettazione dell’omosessualità della famiglia d’origine, degli amici, degli insegnanti e del mondo esterno influisca sul benessere delle famiglie omosessuali e dei loro figli poichè dobbiamo ricordare che data l’appartenenza degli omosessuali a un gruppo stigmatizzato, le condizioni socio-ambientali possono avere un’influenza fondamentale nell’evoluzione dei rapporti di coppia.

La priorità è sensibilizzare gli psicologi, gli operatori sociali e gli insegnanti su questi temi. Sensibilizzare significa mettere in discussione i pensieri stereotipici e prevenire la discriminazione. Lo sviluppo in una società e in una cultura “eteronormativa” ha come effetto che l’eterosessualità sia considerato “il modo giusto di essere”. Per questo motivo quando i ragazzi e le ragazze omosessuali iniziano ad avere consapevolezza del proprio orientamento sessuale, spesso vivono sentimenti contrastanti ostacolando il processo di accettazione. Quindi, la percezione di una società e di un ambiente giudicante e repressivo può portare a elaborare pensieri di bassa autostima, di vergogna, di colpa nei confronti dell’essere omosessuale.

Infine, bisogna sottolineare che la normalità sarà sempre una questione relativa: se riflettiamo, il bambino percepirà come “normale” qualsiasi ambiente dove sarà cresciuto; la cosa veramente importante, quindi, è la qualità della genitorialità, indipendentemente dal fatto che sia biologica, sociale, omosessuale o eterosessuale.

 

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La tocofobia: la paura del parto

Quando una specifica ansia, o terrore della morte durante il parto, predomina sull’intera gravidanza ed è così intensa da indurre “evitamento” del parto (tokos) si tratta di uno specifico stato fobico chiamato tocofobia (Margaria e Gollo, 2001).

È noto come la gravidanza, in quanto momento di molteplici cambiamenti, possa essere, nella vita di una donna, un periodo in cui si verifica l’emergere di ansie ed angosce: la donna in gravidanza deve confrontarsi contemporaneamente con le modificazioni corporee in atto e con l’assunzione del ruolo materno, processo che implica responsabilità e timori. Dal punto di vista intrapsichico c’è una forte mobilitazione cognitiva ed emotiva dovuta al riaffiorare delle esperienze infantili e dei conflitti irrisolti che riportano al confronto con i modelli genitoriali.

Quando una specifica ansia, o terrore della morte durante il parto, predomina sull’intera gravidanza ed è così intensa da indurre “evitamento” del parto (tokos) si tratta di uno specifico stato fobico chiamato tocofobia (Margaria e Gollo, 2001).

La tocofobia può essere considerato un disturbo psicologico, che si associa ad ansia e depressione, e che in letteratura può essere distinto in tocofobia primaria e secondaria. La prima si contraddistingue per un terrore intenso per il parto ancor prima del concepimento.

La seconda condizione è rilevabile, nella maggior parte dei casi, a seguito di una precedente esperienza di parto traumatico: le pazienti maggiormente a rischio sono coloro che hanno avuto esperienze di parto negative, soprattutto se ci sono state manovre ostetriche invasive, un travaglio particolarmente prolungato e difficile, oppure ancora un taglio cesareo di emergenza in condizioni drammatiche (ad esempio per distacco di placenta); in altri casi, il parto è stato regolare, ma percepito dalla donna come una violenza al suo corpo, tanto da portare ad un disturbo da stress post-traumatico, con conseguenze di depressione post-partum.

Sjögren (1997) intervista donne che presentano tocofobia, primaria e non: l’ansietà legata al parto appare in relazione con la mancanza di fiducia nello staff ostetrico, con la paura della propria incompetenza, con il dolore e la sensazione di perdita di controllo associati all’evento, con la paura che il bambino muoia e con quella di perdere la vita loro stesse. La relazione riscontrata come più significativa è quella tra le precedenti complicazioni ostetriche e la paura di morire. Goldbeck-Wood (1996) riferisce che alcune donne possono ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza per paura del parto, dopo che hanno vissuto una precedente nascita traumatica.

In base alle conoscenze accumulate è possibile pensare a interventi di prevenzione primaria, con attenzione all’ individuazione dei soggetti a rischio, e di prevenzione secondaria, con intervento precoce sui sintomi.

Gli interventi di prevenzione primaria dovrebbero interessare, durante la gravidanza, gli operatori ostetrici alle visite di controllo e nei corsi preparto, con la raccolta anamnestica di informazioni circa disturbi psicologici precedenti, abusi fisici e sessuali e con messaggi puntuali alla gravida sulle procedure del parto in ospedale: un gap esagerato tra aspettative e reali condizioni del parto è connesso con una percezione molto negativa della situazione da parte delle donne.

Durante l’evento è importante che il personale medico provveda ad assicurare una buona comunicazione, aiutando la donna a mantenere il senso di controllo, offrendole la possibilità di scegliere tra varie procedure e posizioni, considerando sempre le conseguenze fisiche e psichiche degli interventi che pensa di mettere in atto. Dopo la nascita è importante incoraggiare la discussione con gli operatori per chiarire come si è svolto il parto, dare spiegazioni circa il perché sono state fatte certe scelte, enfatizzare ciò che di positivo c’è e minimizzare il rischio di potenziali sintomi da stress postraumatico.

Nel post-partum le spiegazioni da parte di un’ostetrica sono fondamentali per chiarire nella memoria della puerpera l’evento: ciò facilita l’integrazione dell’esperienza nella transizione alla maternità (Ward e Hofberg, 2004) favorendo inoltre la possibilità di stabilire un attaccamento sicuro: è noto come un trauma non risolto della madre possa interferire gravemente sull’attaccamento madre-bambino, predisponendo a sviluppare un attaccamento disfunzionale con rischi psicopatologici per il bambino stesso (Main e Solomon, 1986).

Reynolds (1997) riporta lo studio di alcuni casi da lui affrontati, in cui le donne lamentano uno stress che sembra essere radicato nella propria esperienza di travaglio e parto, tanto da influenzarne negativamente la capacità di allattare al seno, di creare un legame col bambino, di riprendere i rapporti sessuali, con pesanti ripercussioni sull’autostima. Oltretutto esse ricordano la nascita dei loro figli solo con paura, dolore, rabbia o tristezza; alcune invece non ricordano nulla, facendo ipotizzare un’amnesia traumatica per quell’evento.

 

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Disturbo bipolare: effetti della qualità del sonno sull’umore

Vanessa Smiedth

FLASH NEWS

I problemi di sonno sono comuni nelle persone con disturbo bipolare e la scarsa qualità del sonno e questo disturbo sembrano esacerbarsi l’un l’altro. Precedenti ricerche dimostrano che la scarsa qualità del sonno è un sintomo degli episodi depressivi e che essa può innescare la mania.

I disturbi bipolari sono un insieme di quadri clinici accomunati dalla presenza di oscillazioni dell’umore, che vanno dalla mania alla depressione. Gli episodi maniacali rendono le persone iperattive e sovraeccitate, mentre le fasi depressive inducono ad essere apatici e rallentati.

I problemi di sonno sono comuni nelle persone con disturbo bipolare e la scarsa qualità del sonno e questo disturbo sembrano esacerbarsi l’un l’altro. Precedenti ricerche dimostrano che la scarsa qualità del sonno è un sintomo degli episodi depressivi e che essa può innescare la mania.

Erika Saunders, titolare di cattedra al dipartimento di psichiatria presso la Penn State College of Medicine, ha affermato:

I pazienti con disturbo bipolare spesso soffrono di problemi di sonno. Migliorare il loro sonno potrebbe non solo migliorare la loro qualità di vita, ma anche aiutarli a evitare episodi di disturbo dell’umore.

Trovare il miglior trattamento per il sonno in individui affetti da disturbo bipolare significa indagare le differenze di genere, infatti, ha spiegato Saunders.

Le donne e gli uomini dormono in modo diverso. Sappiamo da studi sulla popolazione generale che le donne hanno un diverso tipo di architettura del sonno rispetto agli uomini, e loro sono soggetti a diversi rischi per i disturbi del sonno, in particolare durante gli anni riproduttivi.

Inoltre, le donne e gli uomini vivono anche il disturbo bipolare in modo diverso. Le donne hanno spesso sintomi più persistenti e maggiormente depressivi, così come un certo numero di altre condizioni coesistenti, come ansia, disturbi alimentari ed emicrania. Gli uomini tendono ad avere episodi più brevi e più tempo tra gli episodi.

A causa di questi fattori si è pensato che l’impatto che la qualità del sonno potrebbe avere sull’umore nel disturbo bipolare può essere diverso per gli uomini e le donne.

I ricercatori hanno svolto uno studio utilizzando i dati pubblicati sulla presenza di disturbi del sonno precedentemente al primo episodio di disturbo dell’umore. Hanno valutato l’associazione tra qualità del sonno, misurata con il PSQI (Pittsburgh Sleep Quality Index) e la qualità dell’umore, misurata considerandone la gravità, la frequenza e la variabilità di depressione o di sintomi maniacali.

Per le donne la scarsa qualità del sonno prediceva un aumento della severità e della frequenza della depressione e un aumento della gravità e variabilità della mania. Tra gli uomini la gravità della depressione misurata all’inizio dello studio e un tratto della personalità chiamata nevrosi erano predittori migliori per la qualità dell’umore rispetto alla qualità del sonno.

Una domanda senza risposta è il motivo per cui un sonno povero colpisce le donne con disturbo bipolare più degli uomini. Ciò potrebbe essere causato da un meccanismo biologico. Potrebbe infatti essere che gli ormoni riproduttivi biologicamente influenzino il sonno nelle donne e quindi anche l’umore. Oppure, potrebbe avere più a che fare con il tipo di sonno che caratterizza le donne. Sarebbero necessari ulteriori indagini sulle basi biologiche, secondo quanto afferma Saunders.

Anche prima che la questione venga risolta, Saunders manda un chiaro messagio:

Riteniamo che sia estremamente importante per medici e pazienti riconoscere che la qualità del sonno è un fattore importante che deve essere valutata e trattata nei pazienti con disturbo bipolare, in particolare nelle donne.

 

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EMDR: Report dal 16° Congresso Europeo – Milano 2015

EMDR 2015 Milano (1)

Report dal 16th EMDR EUROPE CONFERENCE  – Milano 10-12 Luglio 2015

 

Venerdì 10 Luglio 2015 si è aperta a Milano la 16° Conferenza Europea EMDR, che con i suoi oltre 1100 partecipanti è stata la più grande conferenza europea mai realizzata: un evento che ha rappresentato un importantissimo momento di confronto e una grande opportunità di conoscenza sull’utilizzo dell’EMDR con popolazioni e disturbi diversi, accompagnati da clinici e ricercatori provenienti da tutta Europa.

 

Per tre giorni si sono susseguiti workshop e interventi che hanno portato contributi interessanti e innovativi, che hanno fatto riflettere sull’enorme potenzialità di questo metodo di lavoro e hanno aperto nuove prospettive per il futuro. Una full immersion nel mondo del trattamento del trauma ma non solo.

Le applicazioni per l’EMDR sembrano enormi e, grazie all’efficacia oramai dimostrata da innumerevoli studi ed alla rapidità con cui spesso questo tipo di intervento sembra portare a sensibili e stabili miglioramenti, emergono nuovi campi d’azione, non solo all’interno della psicoterapia.

PER SAPERNE DI PIU’: CHE COS’E’ L’EMDR – PSICOPEDIA

 

EMDR Europa: il cambio della guardia

La prima giornata cerimoniale è stata un’occasione per fare il punto della situazione sull’organizzazione, che, come ha evidenziato la presidentessa EMDR Italia Isabel Fernandez, sta crescendo molto rapidamente e conta più di 14.600 membri in 24 Paesi. Dal 1999 ad oggi, infatti, c’è stata una costante crescita delle associazioni nazionali, soprattutto quella italiana che rappresenta la più grande in Europa.

Il Presidente EMDR Europa Udi Oren ha presentato lo stato dell’arte dal punto di vista teorico, le controversie più accese e le aree di indagine più promettenti sul piano clinico, lo stato attuale della ricerca e le future sfide e direzioni di indagine per l’EMDR.

Al termine del suo intervento ha poi passato ufficialmente le consegne al nuovo presidente EMDR Europa: Isabel Fernandez! Da lunedì, infatti, l’associazione ha un nuovo vertice e la conferenza è stata un’occasione per la nomina ufficiale e il riconoscimento del lavoro che la nostra presidentessa ha svolto in questi anni tanto da portare l’associazione italiana all’ottimo livello attuale.

PER SAPERNE DI PIU’: EMDR – INTERVISTA A ISABEL FERNANDEZ

EMDR – Intervista a Isabel Fernandez - State of Mind

Sopravvivere al Trauma: 2 testimonianze

A chiudere questo primo assaggio di conferenza due toccanti testimonianze di sopravvissuti che, grazie al trattamento con l’EMDR, hanno potuto superare le traumatiche esperienze che hanno attraversato.

Luca Leodori, International Business Development per Autostrade per l’Italia, sopravvissuto ad un attacco terroristico all’hotel Taj Mahal Palace di Mumbai nel 2008, e Alessandra Morelli, delegata dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, bersaglio di un attentato a Mogadiscio nel 2014, hanno condiviso le loro esperienze, la paura, le emozioni provate in quei drammatici frangenti, l’emergere dei sintomi post-traumatici e la loro risoluzione grazie all’EMDR, che ha consentito ad entrambi di riprendere in mano le loro vite e tornare al lavoro negli stessi luoghi teatro di quei terribili eventi.

Credo che una frase di Luca Leodori ben sintetizzi ciò che appare importante nel lavoro col trauma e che è reso possibile dall’EMDR:

“Ho imparato che la risposta non era controllare quello che succede nella vita, ma avere sempre il controllo delle mie reazioni, delle mie emozioni, in modo che siano adeguate a tutto quello che accade”.

Il messaggio che emerge da questi interventi è molto forte e ambizioso: il terrorismo si nutre di paura, ma possiamo combattere questa paura, continuare a portare avanti le nostre vite e le nostre battaglie senza farci condizionare né bloccare da essa. E l’EMDR è un potente alleato in questa guerra contro il terrorismo.

Nei prossimi articoli entreremo nel dettaglio dei contributi presentati in questi giorni di intenso lavoro!

 

16th EMDR EUROPE CONFERENCE  – Milano 10-12 Luglio 2015 – PROGRAMMA

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