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Un bambino che ride è un bambino che apprende meglio!

FLASH NEWS

Il legame cognizione ed emozioni ancora una volta sembra fondamentale, poiché le risate sarebbero delle vere e proprie promotrici di apprendimento psico-motorio, proprio e già a partire dai primi anni di vita.

 

Many studies have shown that making children laugh enhances certain cognitive capacities such as attention, motivation, perception and/or memory, which in turn enhance learning. However, no study thus far has investigated whether laughing has an effect on learning earlier in infancy. The goal of this study was to see whether using humour with young infants in a demonstration of a complex tool-use task can enhance their learning. Fifty-three 18-month-old infants participated in this study and were included either in a humorous or a control demonstration group…

Sull’onda di pagine di letteratura che parlano del legame tra emozioni e apprendimento, quelle sonore e autentiche risate dei bimbi nei primi anni di vita sono anche un buon segno per lo sviluppo cognitivo, motorio e comportamentale.

In uno studio alcuni ricercatori hanno manipolato proprio la variabile humor per indagarne gli effetti sull’apprendimento osservativo in bambini di 18 mesi.

Il task sperimentale prevedeva di prendere una paperella di gomma aiutandosi con un rastrello di cartone coinvolgendo bambini che ancora non erano in grado di farlo. I bimbi sono stati sottoposti a un piccolo training per riuscire nel task: alla metà del campione sono state date ripetute dimostrazioni serie (seppur con uno sperimentatore sorridente e gentile) su come raggiungere il giocattolo, mentre all’altra metà dei soggetti le dimostrazioni sono state fornite sotto forma di scherzi divertenti.

Al termine di questi micro-training, il momento della prova finale: i ricercatori avvicinano il rastrello alla mano del bambino per vedere se spontaneamente imita l’azione dell’adulto prendendo la paperella di gomma.

Tra i bambini nella condizione di dimostrazioni divertenti il 93% è riuscito nel compito (e tra questi è il 19% riesce nel compito anche se non ha riso durante il training), mentre il successo si è registrato solo per il 25% dei bambini cui venivano fornite istruzioni serie e non divertenti.

Dunque il legame cognizione ed emozioni ancora una volta sembra fondamentale, poiché le risate sarebbero delle vere e proprie promotrici di apprendimento psico-motorio, proprio e già a partire dai primi anni di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Setting e terapia con gli adolescenti: quando la complessità semplifica le cose

Giorgia Di Fabio

La costituzione del setting con l’adolescente, quindi, non può che subire l’influenza della soggettività del terapeuta, della sua posizione personale, della sua formazione, con la sua propria costellazione di difese ed angosce, con una sua “insatura sensibilità/curiosità” (Maltese, 2005, p. 113) verso la sua stessa adolescenza, con l’esperienza acquisita (Roussilion, 1995), professionalmente e non.

Quella della mobilità e della flessibilità del setting nella psicoterapia con gli adolescenti è una questione quanto mai attuale ed urgente su cui confrontarsi. Infatti nella progettazione della cura con un adolescente diviene sempre più cruciale intendere una pluralità di possibili scelte rispetto ai dispositivi disponibili, quando uno degli obiettivi da porsi è favorire la soggettivazione del ragazzo/a.

Per soggettivazione si intende, nell’accezione fornita da Cahn (2000), il processo continuo ed interrotto di appropriazione soggettiva della propria realtà psichica. Tale processo che implica l’acquisizione graduale di un proprio modo di essere e di sperimentarsi in modo vitale e creativo, va incontro ad una svolta cruciale in adolescenza, quando la posta in gioco è la capacità, o l’incapacità, di accedere alla posizione di soggetto della propria vita.

Allora entrano in gioco variabili nuove ed anche gli ingredienti, che, di norma, definiscono la relazione con l’adolescente, devono fare i conti con la necessità che il setting non sia rigido. Dato che il rapporto con il paziente giovane implica necessariamente l’incontro con tutto quello che la famiglia rappresenta e che questo coinvolgimento intensifica la trama del racconto e ne arricchisce l’intreccio, il concetto di duttilità diviene una caratteristica intrinseca e fondativa del lavoro di cura.

La variabile soggettiva del terapeuta, nella posizione di persona e rispetto alla propria adolescenza, si configura come condizione necessaria per la definizione di una geografia del campo terapeutico in cui si installa la cura e di cui il setting è espressione, fino all’ampliarsi dello scenario a vantaggio della cura stessa.

La costituzione del setting con l’adolescente, quindi, non può che subire l’influenza della soggettività del terapeuta, della sua posizione personale, della sua formazione, con la sua propria costellazione di difese ed angosce, con una sua “insatura sensibilità/curiosità” (Maltese, 2005, p. 113) verso la sua stessa adolescenza, con l’esperienza acquisita (Roussilion, 1995), professionalmente e non.

Si definisce quindi un percorso-processo che si sviluppa a partire dal progetto terapeutico per poi scorrere parallelamente ad esso e che riguarda anche il terapeuta ed il suo modo di pensare il setting, di realizzarlo o di modificarlo nel corso della cura.

La natura dinamica del concetto di setting, specie con adolescenti, modulato sulle richieste e sulle possibilità del ragazzo ma anche della sua famiglia, si fonda sulla capacità del terapeuta di avere dentro ben saldo il proprio setting, per cui ben oltre i vincoli di spazio, tempo e presenza di terapeuta-paziente, oltre i confini della stanza di terapia, il setting diviene “l’area generativa del discorso d’aiuto” (Baldini, 2005, p. 107).

In tal senso è, esso stesso, sede di processi trasformativi, area di scambio, di transito in cui co-determinare un campo comune (Baranger, 1990), dove si incontrano gli attori della terapia con i loro affetti passati e presenti. L’idea di setting, inteso come condizione preliminare che consente l’esistere di un campo mentale, matura da una riflessione antropologica: esso affonda le radici in un terreno socio-culturale e germoglia in un ambiente fisico-umano che definisce con le sue caratteristiche, il margine per cui il disagio psicologico può risolversi oppure cronicizzarsi.

In questa prospettiva il lavoro terapeutico viene concepito come “presa in carico della multi-appartenenza” del paziente ai diversi campi di vita e ai differenti luoghi e tempi fondativi della sua personalità: famiglia, gruppo sociale ristretto e allargato (D’Elia, 1988).

Se rendere più complesso il setting per semplificare il percorso di terapia può suonare come una contraddizione in termini, oppure un facile gioco di parole, in realtà è solo un buono spunto di riflessione nato dal pensiero delle difficoltà e delle insidie che si incontrano se si procede, nel tracciare le coordinate di un progetto terapeutico, ignorando che l’esistenza psichica è garantita anche dall’appartenenza attuale alle relazioni familiari.
Al contrario se si intende il paziente come una persona nel suo “essere-in-relazione”, la cui identità è anche il frutto dello scambio tra generi, generazioni e stirpi, è necessario ammettere che esiste un’ “anteriorità ontologica dei legami di appartenenza familiare e culturale rispetto al mondo rappresentazionale” (Cigoli, 2006, p. 35). Per questo può diventare cruciale, nel pensare la terapia con un adolescente, rivolgersi al mondo dei legami, creare spazi di rappresentazione scenica che permettano l’accesso al corpo familiare (Cigoli, 2006).

Inoltre, più che fermarsi all’intreccio delle trame e degli scambi generazionali, o al riconoscimento della loro verità affettivo-etica, diventa utile mettersi alla ricerca di una pluralità di senso (Cigoli, 2006), rifigurare le relazioni, restituire loro la complessità, agire in favore del legame, andando alla riscoperta, nella praxis familiare, delle ritualità, della mitologia, per costruire uno spazio transizionale.

In questo senso la scelta di utilizzare setting di cura diversi e mobili, cui far corrispondere, attraverso la matrice di interconnessione tra campo gruppale familiare e campo terapeutico, una nuova possibilità di mobilitazione delle risorse del paziente, come dei suoi familiari, può permettere di recuperare un organizzatore mentale della gruppalità verso il sociale.

Così anche il setting diviene, in questa nuova luce, un dispositivo che “deve essere mobile ed aperto a rapide variazioni a seconda dell’emergere della necessità di coinvolgere persone significative del mondo relazionale del paziente […]” perché “[…] il significante mentale <mobilità> diventi operatore psichico di nuove connessioni” (Pontalti, 1998, p. 19).

Ogni possibilità terapeutica richiede il suo progetto e soprattutto “una estrema duttilità di gestione sull’interfaccia del campo terapeutico e del campo familiare” (Pontalti, 2000, p. 47), nutrendosi della complessità di un itinerario che deve continuamente ripensare se stesso interrogandosi sulla pensabilità dei passaggi e dei movimenti psichici proposti al paziente.

Sintonizzarsi sulle possibilità della rappresentabilità psichica del paziente o dei familiari che entrano nel campo terapeutico significa marcare psichicamente i transiti evolutivi e co-evolutivi che la terapia dovrebbe preparare. Significa individuare i punti di ancoraggio, andando alla scoperta dei codici di significazioni che consentano di collocarsi, in modalità mobile, nell’interspazio di connessione tra un qui e un altrove, definendo nuovi codici di trasduzione tra una territorialità psichica e l’altra.

Questa prospettiva risulta vantaggiosa specie nel caso di adolescenti ‘separati’, ovvero figli di genitori separati, spaccati a metà e spesso, incapaci di ricomporre la scissione, paralizzati tra un prima e un dopo temporale cui facilmente corrisponde un blocco tra un dentro e un fuori geografico-spaziale, oltre che psicologico. Nel caso di questi adolescenti e delle loro famiglie, simbolicamente e fisicamente separate all’inizio e poi “sparpagliate” tra case, città e/o famiglie diverse, diviene necessario salvaguardare la cura del legame anche in presenza di un patto coniugale violato, attraverso la presentificazione di corpi familiari, non solo delle loro valenza rappresentazionali, e, con essi, delle loro storie di legami intergenerazionali.

A volte può essere fondamentale, allora, il recupero di luoghi e tempi passati, di volti in un altrove che è anche la storia delle ultime generazioni della famiglia. Inoltre ripensare i possibili transiti verso appartenenze del passato permette anche di lavorare su altre transizioni: per i genitori, dalla propria storia coniugale di coppia ad altre possibili storie di relazione; per l’adolescente, dal gruppo familiare ad altri gruppi nel sociale, dalla stanza di terapia, al mondo fuori.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Le sindromi culturalmente determinate: una classificazione obsoleta?

Fiammetta Monte, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il termine culture-bound syndrome, potrebbe essere tradotto con sindrome culturalmente determinata. Sta ad indicare un insieme eterogeneo di disturbi cognitivi e comportamentali, cosiddette sindromi, diffuse generalmente in specifici contesti geografici.

Come rileva Piero Coppo (Coppo, 1996), anche se recentemente alcuni autori hanno proposto di iscrivere nell’ambito delle sindromi legate alla cultura anche disturbi come l’anoressia nervosa, gli attacchi di panico e la depressione (in quanto patologie legate al contesto della cultura occidentale), i casi descritti in letteratura riguardano piuttosto sindromi non occidentali, non a caso prima che venisse introdotto il termine di sindromi reattive culture-bound (Yap, 1969), queste condizioni erano descritte come “esotiche” (termine eurocentrico ormai in disuso).
La psichiatria culturale in passato si è dedicata a scoprire analogie tra queste ed i principali disturbi generalmente riconosciuti dalla psichiatria (Yap, 1969).

Tra le sindromi culturalmente determinate, una delle più conosciute è l’Amok, individuato per la prima volta da Kraepelin. Si tratta di un improvviso attacco omicida che colpisce in particolare giovani uomini. L’individuo colpito da Amok inizia a correre armato e colpisce chiunque incontri sul suo cammino. Tale crisi si conclude con l’uccisione o la cattura del corridore il quale nel caso in cui sopravviva non ricorda nulla dell’accaduto. È stato identificato nell’Asia Sud-Orientale, Malaysia, Indonesia, Thailandia.

In Groenlandia, Alaska e nell’artico canadese è stato identificato “Pibloqtoq”: una smania incontrollabile di lasciare il proprio rifugio, strapparsi di dosso i vestiti ed esporsi all’inverno artico.

Presso alcune tribù amerindiane si crede che esista il Withigo, un gigantesco spirito cannibale fatto di ghiaccio, e sono frequenti le “psicosi da Withigo”, caratterizzate da un forte stato d’ansia e dalla paura di trasformarsi in Withigo, di poter mettere in atto atti cannibalici.
Il Koro fu inizialmente osservato in giovani uomini del Sud-Est asiatico; ma piccole “epidemie” si sono verificate più recentemente anche in alcuni paesi africani: esso comporta la convinzione delirante che il proprio pene si stia ritraendo nell’addome e la convinzione che, a ritrazione completata, sopravverrà la morte. Tentativi dettati dal panico di impedire al pene di ritrarsi possono provocare gravi danni fisici.

Tra le donne Malaysiane, quelle che manifestano il Latah presentano un comportamento imitativo incontrollabile e la tendenza della persona che ne è colpita a comportarsi in modo lontano da quello per lei abituale (per esempio dicendo oscenità).
Così come l’obesità e l’anoressia sono legate al modo in cui una donna (o un uomo) fa esperienza del proprio corpo in relazione alle immagini della forma del corpo che sono della nostra cultura, allo stesso modo queste sindromi costituiscono nelle rispettive culture una rete di significati peculiari e sono associate ad un insieme di stress individuali e di risposte dell’ambiente e della società agli stessi, nonché alle rappresentazioni del benessere ed agli ideali che prevalgono nelle stesse culture.

Ad esempio l’Amok, come afferma Carr (Carr, 1978) è una forma di comportamento violento imposto dalla cultura malese, sancito dalla tradizione come risposta adeguata ad un certo tipo di condizioni. Il malese è incoraggiato dalla stessa società a mettere in atto tale comportamento nel momento in cui si trova a sperimentare una sensazione di malessere ed umiliazione che può essere provocata da diverse cause, come ad esempio essere esposti ripetutamente ad insulti, vivere un’esperienza di scacco particolarmente frustrante, o avere la sensazione di condurre un’esistenza priva di significato. Nella cultura malese, in altre parole, quanto più un individuo è mortificato, tanto più deve essere plateale la risposta che porta al riscatto. Il Latah è invece spesso favorita da un “rumore inatteso, un tocco o un gesto sperimentato in presenza di persone che la vittima considera superiori o che desidera compiacere” (Murphy, 1976): fu individuato per la prima volta alla fine del 1800, quando si diffuse in proporzioni quasi epidemiche in Malesia, tra gli indigeni e vicino gli insediamenti dei coloni europei. Dal 1920 divenne sempre più rara tra i giovani, e tra gli uomini, mentre si concentrò soprattutto nei luoghi lontani dai centri abitati dagli europei e tra le donne che lavoravano come domestiche presso le case dei coloni. L’epidemiologia del Latah, come osserva Alex Cohen (Cohen, 1999) fa riflettere sul rapporto tra questa sindrome e fattori sociali come ad esempio il rapporto con gli europei ed il cambiamento dei ruoli sociali nelle donne.

Alcuni antropologi e psichiatri hanno cercato, in una prospettiva epidemiologica, di tradurre le categorie popolari delle malattie di particolari società, per cercarne la corrispondenza con la nosologia classica. Secondo il modello da loro costruito le malattie derivano da processi universali, il modo in cui si manifestano però, è modellato dalla cultura cui l’individuo appartiene, in base alla quale gli individui selezionano alcuni sintomi associati ad una condizione di malattia e ne mettono in ombra altri: di fronte cioè ad uno stesso insieme di sintomi, individui che appartengono a diverse culture cercheranno cura per alcuni di questi e non per altri (Cozzi e Nigris, 1996).

A tale posizione universalistica si è contrapposta in passato quella del relativismo culturale: quella cioè di coloro che ritengono che in ogni società esista una certa nosologia, in quanto ogni società distingue comportamenti normali e patologici in modo peculiare. Di conseguenza anche il disagio prodotto da ogni cultura è unico e non confrontabile con il disagio prodotto da altre culture. Mentre insomma per gli universalisti le sindromi culturali sono espressioni culturalmente elaborate di fenomeni neuropsicologici o psicopatologici, per i relativisti culturali, una sindrome legata alla cultura è espressione di costrutti specifici di quella cultura e non può essere appresa in modo acontestualizzato, al di fuori di quella cultura, le cui credenze sono costitutive della sindrome.

È oggi senz’altro necessaria in una società multietnica come la nostra, in cui i flussi migratori si fanno sempre più intensi, ricercare ed adottare approcci che tengano conto della diversità culturale e che rendano possibile il trattamento delle “psicopatologie dell’immigrazione”, purtroppo sempre più frequenti e legate a cause diverse: dalla nostalgia per il proprio paese alla incapacità di orientarsi in un universo di valori completamente nuovo all’ostilità a volte espressa dai membri del paese accogliente. È importante predisporre spazi (mentali e fisici) di cura ed assistenza dotati di maggiore sensibilità culturale.

D’altro canto è specularmente importante tenere conto nella pratica clinica che proprio i flussi migratori, la globalizzazione, la nascita di comunità on-line e la condivisione al livello mondiale di simboli e stili di vita propri inizialmente soltanto di una certa società, favoriscono lo sviluppo di un processo di omogeneizzazione delle culture, dovuto all’incremento della possibilità che persone appartenenti ad orizzonti culturali differenti si incontrino e procedano ad un interscambio di usi, costumi, credenze ed abitudini, mettendo pesantemente in crisi, come sostiene Mantovani (Mantovani, 1998) l’idea che possano esistere culture separate, immobili, legate ad un solo contesto e ad un solo territorio e di conseguenza il concetto di sindrome culture-bound, almeno nella sua accezione classica.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Onicofagia: il mangiarsi le unghie ha un nome ed un perché

Quante persone soffrono di onicofagia? In molti di fronte a questa domanda con buone probabilità alzeranno un sopracciglio mostrando un’espressione perplessa. Eppure sono davvero tanti i soggetti che possono essere definiti degli onicofagi.

Perché l’onicofagia nient’altro è che il brutto e frequente vizio che molte persone hanno di mangiarsi le unghie. Un’abitudine riscontrabile in tantissima gente, la quale si rosicchia le unghie con una certa frequenza, talvolta asportando anche pellicine e cuticole sottostanti.

Una serie di ricerche ha messo in luce che sono soprattutto i bambini e gli adolescenti ad essere onicofagici. La fascia di età che va dai 12 ai 18 anni pare quella maggiormente coinvolta nella pratica di questo vizio. Tuttavia vi è anche un buon numero di persone che continua a mangiarsi le unghie anche in età adulta (Grant et al, 2010).

Si tratta di una cattiva abitudine da non trascurare. Il DSM IV TR (“Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, quarta edizione) annovera l’onicofagia tra i disturbi del controllo degli impulsi. La caratteristica principale di tali disturbi è l’incapacità di resistere ad un impulso o ad una tentazione di compiere un’azione che, in qualche modo, è dannosa.

Tra tali disturbi rientra anche la tricotillomania, ossia il toccarsi, tormentarsi e talvolta strapparsi i capelli, un’altra brutta abitudine che sovente è associata all’onicofagia. Tra i due disturbi però sembrerebbe vi sia una rilevante differenza: nella tricotillomania il soggetto riferisce di non provare dolore nel tormentarsi i capelli, piuttosto se li stuzzica senza rendersene contro; nell’onicofagia, invece, il dolore alle dita pare essere quasi sempre presente.

Rosicchiarsi le unghie potrebbe sembrare una pratica innocua, ma non è proprio così. Infatti è considerata una vera e propria forma di autolesionismo, che con buone probabilità può comportare anche dei danni alle dita. E non solo: i medici hanno messo in luce che le unghie, essendo un potenziale canale di trasmissione di infezioni, possono recare danno anche allo smalto dei denti, favorendo così il rischio carie.

Sarebbe quindi una condotta da evitare, e molti soggetti sono riusciti a debellarla distraendosi e creandosi alternative, quali potrebbero essere il tenere la bocca occupata con un chewingum, oppure il mantenere le mani impegnate maneggiando altri oggetti.

Ma la soluzione ideale per contrastare l’onicofagia è quella di risalire e comprendere le cause che originano il vizio, per poterle, se possibile, superare. 

Infatti dietro la pratica di mangiarsi le unghie può celarsi un perché. Quasi tutti i soggetti che soffrono di onicofagia dichiarano di aver cominciato in età infantile.

Le motivazioni sottostanti alla prassi di questo malsano comportamento possono essere molteplici, e all’origine di questa condotta vi è quasi sempre un motivo di natura psicologica (Roberts e all, 2013). L’onicofagia sembra manifestarsi prevalentemente nei periodi di non tranquillità.

Volendo scendere maggiormente nel dettaglio, queste sono le principali cause che sottendono al disturbo:

  • Pare che soprattutto nei momenti di stress e di ansia il soggetto onicofago scarichi il suo nervosismo e la sua preoccupazione mordendosi le unghie. Ciò gli darebbe un senso di sollievo momentaneo, in quanto gli permetterebbe lo sfogo di una tensione emotiva.
  • In altre circostanze l’onicofagia può essere percepita come una vera forma autolesionistica: in termini più semplici, un’emozione di rabbia o aggressività potrebbe essere scaricata sul proprio corpo anziché rivolta verso l’esterno. queste forme di autolesionismo si verificano prevalentemente in età adolescenziale
  • Vi sono poi situazioni in cui ci si mangia le unghie per noia, o meglio la persona che possiede questa abitudine ha difficoltà a controllarla, per cui con buone probabilità tenderà a manifestarla anche nei momenti di inattività e di non azione delle mani.
  • un’altra motivazione potrebbe essere quella imitativa: cioè si comincia in età infantile imitando qualche adulto che fa lo stesso, e poi, con il passare del tempo, questa abitudine semplicemente si protrae.

Comunque, secondo gli esperti, ad originare questa condotta sono soprattutto le cause ricollegabili ad ansia, stress e nervosismo: il soggetto si porta (spesso inconsapevolmente) le mani alla bocca e si rosicchia le unghie. In questo modo tiene in qualche modo a bada le proprie tensioni personali.

Si tratta di un gesto automatico e spontaneo, ma non è un salutare passatempo, in quanto consiste in una condotta difficile da controllare, con uno scopo ben preciso (quale potrebbe essere ad esempio quello di attenuare la tensione emotiva).

Talvolta, nei casi più gravi, potrebbe essere utile l’aiuto da parte di uno psicoterapeuta, il quale aiuti il soggetto ad individuare le cause che sottendono al disturbo per poter poi intervenire.

 

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Tra le tracce più tangibili ci sono i regali ricevuti dall’amante e quelli acquistati per l’amante e non ancora consegnati. L’amante non fa un regalo a caso ma sempre qualcosa di assolutamente improbabile, che non vi sareste mai comprati da soli e che va esibito: è un test, vediamo quanto ci tenete e accettate di correre il rischio o lo tenete vigliaccamente nascosto.

Infatti sarebbe possibile distruggere i regali ricevuti e stare sereni ma ciò non si può fare. In genere sono le donne a perdere i pezzi molto più degli uomini e a lasciare segni evidenti del loro passaggio (basti pensare ai profumi e ai rossetti) e seppure non è dato sapere esattamente il perché si possono fare varie ipotesi come un innato bisogno di marcare il territorio, oppure il fatto che i vestiti e gli ornamenti delle donne sono di più e più vari. Della stessa serie sono i segni corporei come morsi difficilmente attribuibili ai colleghi di lavoro, o profumi inconsueti.

Di fronte a questi segni si perseguono in genere due strategie: l’occultamento o il disvelamento. Chi occulta cerca di fare di tutto perché il coniuge non se ne accorga e quando ciò avviene cade dalle nuvole e mostra egli stesso meraviglia ma se non è bravo rischia l’imbarazzo che è sempre una mezza confessione; chi disvela gioca d’anticipo e appena entrato in casa chiama il coniuge, gli mostra il segno sul collo, gli chiede ansiosamente a suo avviso di cosa può trattarsi, si mostra preoccupato e telefona al dermatologo finendo la serata con massaggio di cortisone sulla parte lesa. Meno evidenti ma altrettanto allarmanti sono le rinnovate cure che il seminatore dedica al proprio corpo: dopo anni di gioiosa pinguedine il nostro quarantenne si iscrive in palestra quattro volte a settimana, salta il pranzo e lo sostituisce con integratori e la sera si contenta di bistecca e insalata; se smette di bere e magari di fumare la situazione è forse preoccupante e l’amante probabilmente giovane. A volte c’è anche un rinnovo del guardaroba con la scusa dell’avvenuto dimagrimento ma il nuovo stile è diverso, sportivo, ammiccante, quasi adolescenziale, talvolta francamente imbarazzante; ma si sa l’innamorato ignora il ridicolo.

In questo le donne sono meno sfacciate forse a motivo della maggiore cura che tradizionalmente hanno per il loro corpo cosicché il cambiamento è meno brusco, la discontinuità con il passato meno evidente. Tuttavia a un occhio attento non sfuggono sottili cambiamenti, una luminosità nuova un sorriso più accattivante, una generica maggiore benevolenza verso il mondo intero persino verso il vecchio e noioso coniuge che si illude di essere il destinatario se non l’artefice di tale cambiamento.

Meno sfacciate sono le tracce lasciate con i pedaggi autostradali riportati dal riassunto del Telepass o le foto degli autovelox. Il riepilogo delle bollette telefoniche con tutti i numeri chiamati, il servizio telecom che permette di sapere l’ultimo numero che ci ha chiamato o il semplicissimo “richiama l’ultimo numero” (tastino R/P sul telefono di casa) che costringe a fare ogni volta, dopo una chiamata passionale, una chiamata a vuoto con il risultato che le telefonate all’amante costano il doppio (forse è fatto apposta). Ancora più subdolo è il conta chilometri dell’auto che implacabilmente conteggia tutti i nostri spostamenti: per cui la gita per andare fuori porta a trovare la vecchia zia risulta essere stata di 600 Km.

A volte le tracce non sono attuali, sono tracce riciclate di vecchie storie ormai finite o addirittura di storie precedenti all’attuale che erano assolutamente legittime e conosciute: anche con queste il seminatore riesce a perseguire i suoi scopi perché non è importante che ci sia effettivamente il tradimento ma che ce ne siano le tracce. In questo caso è sufficiente indugiare su qualche ricordo relativo a luoghi o abitudini di un tempo, riordinare archivi fotografici o vecchie agende: con poco impegno e senza l’aggravio di dover effettivamente iniziare una relazione il risultato può essere assolutamente soddisfacente con un ottimo rapporto costi/benefici. Tradire e lasciar tracce sono due cose diverse, anche se molto spesso si associano; infatti non tutti quelli che tradiscono lasciano tracce e non tutti quelli che lasciano tracce tradiscono: c’è infatti chi mette in atto dei comportamenti che sono indirizzati a sollecitare del sospetto pur senza effettivamente tradire. Gli scopi che li muovono sono identici a chi tradisce lasciando le tracce e molto diversi da chi tradisce senza lasciare tracce.

Infine c’è chi tradisce e viene scoperto senza aver avuto la minima distrazione ed avendo posto tutta l’attenzione e la perizia possibile per non essere scoperto: sono gli sfortunati colpiti dal caso che è comunque sempre in agguato; non sarebbe corretto includerli tra i seminatori.

Una donna invita a casa il suo amante solo dopo essersi assicurata che il marito alle 21 di sera fosse effettivamente in un albergo a 500 km di distanza, alle 23 lo chiama ancora per la buona notte e si dedica ad una notte di passione. Alle 24 il marito viene chiamato dalla madre che lo avverte di un grave malore del padre che sta andando in ospedale; si mette immediatamente in macchina e pensa di non avvertire la moglie per non allarmarla, passerà direttamente a prenderla intorno alle 5 del mattino. Lei, pensa, resterà sorpresa. Invece resteranno sinceramente sorpresi entrambi.

Un signore durante le vacanze della moglie pensa di fare un giro sopra la città con un aereo leggero insieme alla sua amante straniera: l’aereo cade ed entrambi muoiono. Questa è una variante particolarmente drammatica della grande categoria di eventi sfortunati dove gli amanti vengono scoperti perché coinvolti in un incidente stradale insieme e in un luogo dove non dovevano essere.

Un altro caso estremo non inconsueto riguarda la morte di uno dei due amanti durante un loro incontro segreto: liberarsi di un cadavere non è facile ed è anche un reato per cui in genere si viene scoperti e tutti quanti si vergognano da morire, tranne il morto.

 

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RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Fobia sociale sui social network: l’imbarazzo emerge anche dallo schermo

FLASH NEWS

Per i fobici sociali i social network hanno un appeal non da poco in quanto artefatti che consentono di evitare le interazioni faccia a faccia.

Ma non è da darsi per scontato che la fobia sociale scompaia online. Anzi un nuovo studio evidenzia che le persone con ansia sociale tradiscono comunque segnali di imbarazzo anche sui social network.

Più di 70 studenti di età media di 19 anni sono stati reclutati in un recente studio che ha previsto sia l’assessment dell’ansia sociale che l’analisi di diversi aspetti delle pagine di profilo personale di Facebook.

E sorprendentemente diversi indici correlano con l’ansia sociale: ad esempio, elevati punteggi di ansia sociale sono correlati a un minore numero di amicizie online, a un minore numero di aggiornamenti del proprio status e di foto caricate online.

Dunque la fobia sociale lascia traccia anche attraverso il web. Questo è stato visto dall’occhio clinico e scientifico degli psicologi, ma è visibile anche a chi di psicologia non è esperto? In un altro esperimento sono state mostrate le pagine profilo di alcune persone ad altri coetanei, chiedendo a questi ultimi di stimare l’ansia sociale della persona di cui stavano osservando il profilo su Facebook.

Che dire? Ansiosi sociali, mettetevi tranquilli: dai risultati all’occhio non esperto gli indizi sono solo in parte riconosciuti e rimane piuttosto difficile scovare l’ansia sociale sui social network.

Se è vero che l’evitamento sembra resistere online, i segni di fobia sociale sono sicuramente meno visibili rispetto al blushing e ad altri fenomeni non verbali che spesso si scatenano vis a vis quando entra in gioco l’ansia nelle relazioni interpersonali.

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Anche online le bugie hanno le gambe corte!

BIBLIOGRAFIA:

  • Weidman, A., & Levinson, C. (2015). I’m still socially anxious online: Offline relationship impairment characterizing social anxiety manifests and is accurately perceived in online social networking profiles Computers in Human Behavior, 49, 12-19 DOI: 10.1016/j.chb.2014.12.045 DOWNLOAD

 

 

BEING HERE: la tecnologia al servizio della psicoterapia

Davide Antognazza, Pedagogista, Ed.M Docente Ricercatore @ SUPSI

 

Con questo contributo intendiamo presentare ad un pubblico di specialisti della psicologia una APP, scaricabile gratuitamente da Apple Store ed Android Market, che permette agli utilizzatori di tenere traccia dei propri stati emotivi.

Denominata Being here, letteralmente “essendo qui” l’APP realizzata per una Scuola Universitaria Professionale elvetica, offre la possibilità di selezionare il proprio “sentire” del momento tra sei categorie di stati emotivi: benessere, disagio, rabbia, paura, felicità e tristezza, più una settima categoria definita “altro”.

Le sei categorie sono state in parte definite a partire dagli studi sulle emozioni proposti da Paul Ekman. Ekman postula infatti l’esistenza di sette emozioni di base a cui gli autori dell’APP hanno fatto riferimento, adattando comunque le categorie scelte per favorire un uso quotidiano e semplice dell’APP stessa.

Selezionando una tra le categorie elencate, una successiva schermata invita a scegliere più nel dettaglio l’emozione che la persona sente di stare vivendo in quel momento. Ad esempio, se si sceglie felicità, si può poi ulteriormente scegliere tra commosso, allegro, divertito, felice ed eccitato.

Scegliendo invece la settima categoria, “altro”, è possibile inserire una parola o una breve frase che descrive il proprio stato emotivo.

In seguito, si chiede di indicare con quale intensità si sta provando quello stato emotivo, e/o aggiungere dettagli tipo “cosa è successo”, “dove sei”, “perché ti senti così”, “quali sono i tuoi pensieri”, …

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Il monitoraggio degli stati emotivi

Tramite l’APP, i singoli utenti possono monitorare i propri stati emotivi nel corso di periodi più o meno lunghi, ottenendo un grafico facilmente consultabile sul proprio smart phone che illustra in una singola schermata la frequenza con cui un certo stato emotivo è stato percepito. L’utente può inserire i dati ogni volta che desidera, o può impostare il software in modo che, automaticamente, gli richieda tre volte al giorno di indicare lo stato emotivo che sta vivendo in quel momento.

Dopo le attività di sperimentazione, gli utenti segnalano una accresciuta capacità di percepire e nominare i propri stati emotivi, unitamente ad una maggior consapevolezza dei fattori (pensieri, situazioni, persone, …) che sono in qualche modo collegate al vivere certi stati emotivi.

 

L’articolo prosegue sotto al video: Emotional Life of Your Brain, Richard J. Davidson

https://www.youtube.com/watch?v=5GMSczR7xrs

 

 

APP come supporto e integrazione alla Psicoterapia

L’utilizzo per psicologi e psicoterapeuti è legato alla possibilità di fornire ai propri clienti un codice, che permette poi al terapeuta di ricevere in posta elettronica, con cadenza regolare, tutti i dati inseriti dall’utente, in modo da poter avere una panoramica del mutare degli stati d’animo del soggetto che sta utilizzando l’APP e di tutte le variabili ad esso correlate.

Durante gli incontri, lo psicoterapeuta può discutere di stati d’animo e situazioni specifiche, avendo inoltre lui stesso uno sguardo sull’andamento della vita emotiva del cliente per periodi di tempo determinati, verificando ad esempio se alcuni vissuti emotivi spiacevoli sono collegati a luoghi, persone o pensieri specifici o avvengono in particolari momenti della giornata o della settimana.

La lettura condivisa di quanto scritto dal cliente in termini di luoghi, tempi e situazioni – dati che il cliente stesso inserisce facilmente quando la situazione si verifica – facilitano inoltre il rivivere le emozioni e i ricordi del momento, agevolando il compito del terapeuta nel porre domande mirate nella sua richiesta di approfondimenti. Il fatto di ricevere in anticipo questi dati, aiuta a preparare la propria seduta, con tutti i vantaggi che da questo derivano in termini di prontezza di reazione e di capacità di approfondimento.

La possibilità di monitorare in modo semplice, asincrono e in remoto la vita emotiva dei propri clienti apre ulteriormente, per chi fosse interessato, la possibilità di svolgere ricerche che si avvalgono di dati aggiornati e sfruttano tecnologie disponibili a tutti. Sia in termini individuali, sia in termini aggregati, i dati ricevuti possono infatti essere rielaborati al fine di fornire statistiche sui vissuti emotivi più comuni, oppure sugli stati emotivi caratteristici di specifiche fasce di età o di campioni di clienti.

L’uso delle tecnologie in psicoterapia è un campo in rapida evoluzione e ricco di prospettive ancora inesplorate. L’APP “Being here” richiama nel suo uso quello di un diario, con il vantaggio di essere però sempre disponibile nella tasca o nella borsa dell’utente, a cui bastano pochi tocchi sul display per fissare uno stato emotivo, per sua natura passeggero. Al terapeuta il compito e la possibilità di utilizzare nella sua pratica, in modo anche innovativo e non necessariamente solo in quello  descritto in questo breve articolo, le informazioni che riceve, prendendosi il tempo di riflettere su come approfondirle e su come usarle a beneficio di un positivo sviluppo della relazione terapeutica.

 

Per maggiori informazioni su codici e ricezione dati in posta elettronica, e sui costi del servizio, scrivere a:

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BIBLIOGRAFIA:

  • Gyatso Tenzin (Dalai Lama) & Ekman P. (2014) Felicità emotiva. Sperling & Kupfer
  • Ekman, P. (2014). I volti della menzogna. Gli indizi dell’inganno nei rapporti interpersonali. Giunti Editore

Il disturbo psicosomatico e la somatizzazione – Introduzione Psicologia Nr. 24

Sigmund Freud University - Milano - LOGO  INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 24)

 

 

Da sempre, il disturbo psicosomatico, riveste un ruolo importante tra le malattie psichiche, poiché evidenzia come il corpo sia un perfetto strumento di comunicazione di uno stato di sofferenza mentale o di disagio psichico.

 

La malattia psicosomatica risale ai tempi di Freud che si occupò della stessa proprio attraverso una serie di studi realizzati in questo ambito.

Da sempre, il disturbo psicosomatico, riveste un ruolo importante tra le malattie psichiche, poiché evidenzia come il corpo sia un perfetto strumento di comunicazione di uno stato di sofferenza mentale o di disagio psichico.

Le emozioni possono essere espresse tramite il corpo? Sì, certamente! Vediamo come: la paura fa sudare freddo, la rabbia fa venire i bollori, l’amore fa battere il cuore o tremare le gambe e l’ansia fa rallentare la salivazione o venire le farfalle allo stomaco, etc. Chiaramente, si tratta di piccoli esempi che mostrano come il corpo è strettamente connesso alle emozioni.

Ai tempi di Freud questa malattia era definita come disturbo di conversione, e per riuscire a capire esattamente cosa si verificava in questi pazienti diede vita a una serie di osservazioni che formano i famosissimi Studi sull’isteria, primo tra tutti il celeberrimo caso di Anna O, ancora oggi studiato e largamente dibattuto.

Insomma, con il termine malattia psicosomatica si indicano tutte quelle forme patologiche che si situano tra lo psichico e il corporeo, e soprattutto mostrano manifestazione di una sintomatologia organica imputabile a un mal funzionamento della psiche.

La somatizzazione è il processo alla base del disturbo psicosomatico. Infatti, con tale termine si intende il meccanismo che permette di trasformare i processi psichici in somatici, coinvolgendo il sistema endocrino ed immunitario.

Insomma, i disturbi psicosomatici (o somatoformi) mostrano sintomi fisici che suggeriscono l’esistenza di un disturbo organico (da qui somatoforme), i cui sintomi non derivano né da una condizione medica generale né dagli effetti diretti di una sostanza, ma solo dalla presenza di un disagio mentale.

Immaginiamo, a esempio, una situazione tipica in cui potrebbe verificarsi un disturbo psicosomatico: una rabbia non espressa, inibita, potrebbe essere gestita canalizzandola, attraverso un meccanismo di somatizzazione sul corpo producendo, in questo modo, un sintomo organico come il mal testa ricorrente.

Solitamente questi meccanismi sono determinati dalla presenza di forte stress, da ansia patologica, da paura costante o a un forte disagio. Si attiva, così, il sistema nervoso autonomo, che a sua volta risponde con reazioni vegetative che portano alla manifestazione di problemi fisici, come:

  • disturbi dell’apparato gastrointestinale: quali nausea, meteorismo, vomito, diarrea, colite, ulcera, gastrite, intolleranza a cibi diversi;
  • disturbi dell’alimentazione: quali anoressia, bulimia.
  • disturbi dell’apparato cardiocircolatorio: quali aritmia, ipertensione, tachicardia;
  • disturbi dell’apparato urogenitale: quali dolori e/o irregolarità mestruali, disfunzioni dell’erezione e/o dell’eiaculazione, anorgasmia, enuresi;
  • disturbi dell’apparato muscolare: quali cefalea, crampi, torcicollo, mialgia, artrite;
  • disturbi della pelle: quali acne, psoriasi, dermatite, prurito, orticaria, secchezza cutanea e delle mucose, sudorazione eccessiva;
  • disturbi pseudo-neurologici: quali sintomi da conversione come alterazioni della coordinazione e/o dell’equilibrio, paralisi o ipostenie localizzate, difficoltà a deglutire, afonia, cecità, sordità, amnesie;

Le manifestazioni organiche non sono prodotte intenzionalmente né tantomeno sono il frutto di simulazione, ma sono disagi reali. Questi sintomi organici possono portare ad un grado di sofferenza molto elevato in diverse aree del proprio funzionamento, come la vita affettiva, sociale, lavorativa e familiare.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La Terapia Gestalt nelle disfunzionalità di coppia

 

Questo articolo vuole, nella sua brevità e semplicità, proseguire in questo processo motivato e creativo, proponendo di applicare la terapia Gestaltica in un campo tecnicamente complesso, terapeuticamente impegnativo e umanamente coinvolgente come la terapia di coppia.

Introduzione

La terapia della Gestalt nel corso degli ultimi due decenni ha progressivamente integrato ulteriori e differenti costrutti teorici con conseguenti sviluppi dei suoi strumenti terapeutici, ampliando il tradizionale approccio individuale e di gruppo, vi è stata una crescita entro e oltre l’iniziale intuizione e cornice costruita da Fritz Perls (1951). Questo articolo vuole, nella sua brevità e semplicità, proseguire in questo processo motivato e creativo, proponendo di applicare la terapia Gestaltica in un campo tecnicamente complesso, terapeuticamente impegnativo e umanamente coinvolgente come la terapia di coppia.

Definizione teorico- clinica del setting

La tecnica Gestaltica ha come obiettivo e peculiarità tecnica di:

  • Permettere uno spazio d’incontro e di consapevolezza del piano emotivo, inteso come vissuto personale, intimo, profondo, irripetibile dell’individuo.
  • La verifica, ed eventuale, messa in discussione dei fondamenti e processi cognitivi dell’individuo alla luce delle sue concrete esperienze.
  • L’espressione e la comprensione – in una condizione protetta ed in una modalità specificatamente commisurata – del proprio vissuto, non soltanto attraverso il veicolo verbale.

Da questo è possibile evincere come, nel caso specifico della terapia di coppia, la tecnica Gestaltica offra un interessante spazio di manovra (Zinker, 1977).

Stili emotivi nella coppia

La coppia che si appresta a sperimentare un setting terapeutico presenta un vissuto emotivo molto variegato, che può essere suddiviso nei tipi (Nardone, 2010):

  • Depressivo/Aggressivo: predomina un ciclo emotivo riassumibile, in sostanza, nella modalità di tipo Frustrazione – Rabbia – Risentimento/Colpa. Questo ciclo, apparentemente chiuso, mina la capacità di riconoscere, incontrare ed attivare le risorse interne come anche verso le possibili risorse esterne. In questo caso l’evento disfuzionale che presenta la coppia ha funzione di problema/soluzione.
  • Ambivalente/Schizoide: predomina un ciclo emotivo rappresentabile nella modalità di tipo Manipolativa con un conseguente binomio richiesta/sfiducia, difesa/attacco, amore/odio. Il sentire l’emozione è considerato pericoloso e quindi vi è un meccanismo di auto-negazione e auto-mistificazione per cui il mondo interno emotivo è costantemente posto in una condizione di squalifica e tensione proiettando sul coniuge. In questo caso l’evento disfuzionale della coppia ha funzione di ridefinire, di volta in volta, i confini interni ed esterni nonché il potere individuale nella coppia stessa.
  • Ansiogeno/Ossessivo: predomina un ciclo emotivo rappresentabile nell’interazione di una modalità sia Depressa che Manipolativa e, nel comportamento manifesto, il binomio diviene: controllo/resistenza cui segue limite/collusione. Il bisogno di controllo verso l’esterno poggia su un vissuto di totale assenza di risorse – sia esse interne che esterne – provocando un effetto ansiogeno esponenziale, ove è richiesto progressivamente più controllo sino ad un evento risolutivo paradossale che evoca uno stallo nella quale nessun controllo è il massimo controllo. A questo punto, l’evento disfuzionale della coppia, è come una fonte di sedazione, come fonte di ristrutturatore interno. A questo vi è un ulteriore aspetto da aggiungere, ovvero che l’evento disfuzionale diviene capitale nell’economia della coppia tanto da divenirne l’unico tema possibile, tanto da essere poi percepito come risoluzione definitiva verso l’ansia relazionale.

I temi esistenziali della coppia

La coppia può presentare un variegato elenco di temi e situazioni, ma ognuno di questi è riconducibile a due elementari tematiche esistenziali:

  • Ossessivo/Aggressivo: i processi cognitivi e i loro contenuti hanno come presupposto funzionale e caratteristica saliente una ricorrenza e continuità molto serrata ed ossessiva che, in questo lavoro specifico e nella terapia di coppia, definirei come mind looping. L’obiettivo strategico di questi contenuti, nell’economia comunicativa della coppia, è la coazione a ripetere di concetti ritenuti aperti o non pienamente soddisfatti e l’elemento abbinato a questi processi e contenuti è l’aspetto aggressivo implicito.
  • Paradossale/Schizoide: le affermazioni fatte all’interno (verso se stessi e verso il proprio vissuto relazionale) e all’esterno (verso la realtà e le risorse disponibili) seguono una logica paradossale, nella quale la definizione delle cose e i rapporti tra le cose stesse riconducono ad uno schema rappresentabile come doppio legame e necessità di agire un potere all’interno e all’esterno dello spazio/coppia.

Abbiamo sempre e comunque due aspetti salienti da dover considerare, ossia una capacità comunicativa ed espressiva specifica:

  • Verbale: la comunicazione schiettamente verbale risente degli aspetti strutturali e funzionali che nella coppia sono sperimentati, di volta in volta, dai partners sia come egosintonici che egodistonici rispetto alle reazioni dell’altro. In tutti e due i casi abbiamo, quindi, una relativa verbalizzazione dei pensieri e un’ambivalenza fortissima nel definire e comunicare i sentimenti e le emozioni, sia proprie che altrui.
  • Non verbale: sono marcati gli atteggiamenti di chiusura estrema o di aperta sfida reattiva che si determinano in una vera e propria ristrutturazione sia degli atteggiamenti, sia della ripartizione degli spazi/potere.

Modalità di resistenza al contatto nella coppia disfunzionale

Da un punto di vista strettamente legato alla problematica della resistenza al contatto in Gestalt (Naranjo, 2009), la coppia disfunzionale si muove all’interno di uno spazio mai veramente definito e mai interamente vissuto, che comprende quattro aspetti distinti:

  • lo spazio d’intimità
  • lo spazio sociale
  • lo spazio della trasgressione
  • lo spazio della collusione

La coppia disfunzionale non vive in modo consapevole nessuno di questi spazi o, per meglio dire, il vissuto è presente ma è distorto e condizionato dai presupposti, dalle tematiche e dai giochi impliciti nella coppia stessa. Non riuscendo a vivere di volta in volta in modo funzionale questi diversi spazi, la coppia vive l’evento disfunzionale e problematico come unica realtà capace di concretizzare un qualche tipo di vissuto ed idea futura di coppia. In questo caso definiamo l’elemento disfunzionale come il mediatore e driver di ogni possibile vissuto emotivo e cognitivo e di ogni possibile atto sia esso agito che mancato.

La coppia disfunzionale è un tipo di evenienza clinica complessa, proteiforme e pluriforme che mantiene, sempre e comunque, delle precise costanti. Queste costanti sono gli elementi e i temi che esplicano la disfunzionalità relazionale della coppia stessa; l’evento, o gli eventi, disfunzionali non sono da considerarsi come un punto di inizio della problematica sistemico/relazionale, ma sono invece un punto di arrivo e di concretizzazione di tutta una serie di vissuti e fattori che hanno determinato come risoluzione di compromesso l’evento disfunzionale che è, al contempo, l’aspetto problematico, ma anche l’aspetto risolutorio di un processo disfunzionale alla base.

In questo senso la terapia della Gestalt aiuta a identificare tre processi salienti di contatto interno ed esterno della coppia disfunzionale:

  • Retroflessione: negazione della problematica disfunzionale o sua totale presa in carico da parte di un solo elemento della coppia. L’elemento strategico preponderante è la squalifica dell’elemento responsabilità e della contrattazione delle risorse disponibili.
  • Deflessione: il focus problematico e disfunzionale è riferito ad elementi che volutamente esulano dalla coppia. L’elemento strategico preponderante è la mistificazione delle responsabilità e delle risorse.
  • Confluenza: l’elemento problematico è posto in una modalità collusiva estrema. L’elemento strategico preponderante è l’aggressività come paradossale assunzione di responsabilità ma inutilizzo delle risorse da contrattare.

Metodo

Prendiamo ad esempio una coppia con problematica di etilismo. Sia che la coppia presenti tutti e due gli elementi come problematici o anche uno solamente, comunque vi sono delle evidenze ricorrenti che sono specifiche di questo sistema relazionale.

La coppia è un sistema a tre (Minuchin, 1974). In questo sistema l’Io incontra e sperimenta un Tu, in questo incontrare e sperimentare l’altro l’individuo percepisce, sperimenta, proietta, agisce/reagisce in un nuovo livello che è ben di più della semplice somma delle parti Io /Tu e tale livello nella sua qualità e quantità prende il nome di Noi.

L’Io che incontra il Tu lo fa a tutti i livelli del proprio essere accorpando ognuno dei seguenti sistemi integrati:

  • Fisiologico-Corporeo
  • Cognitivo-Comportamentale
  • Ideativo-Emotivo
  • Sistemico Relazionale

coinvolgendo, in modo diretto o indiretto, conscio o inconscio, tutto ciò che riguarda l’aspetto pregresso evolutivo dell’individuo stesso: i suoi condizionamenti; le distorsioni più o meno evidenti della personalità; i piccoli o grandi disturbi di personalità; i processi di inferenza sulla Realtà Presente e Futura; la manipolazione e l’interazione de facto di se stesso con l’ambiente a breve e lungo termine.

Se l’Io porta con sé tutto questo, la stessa cosa compie il Tu. Il Noi allora non è solamente un contenitore ove vanno a collocarsi ed agire le istanze e i processi individuali ma, paradossalmente, assume la funzione di un terzo elemento che è ben più della semplice somma delle parti, come dire: 1+1= 3, dove 1 e 1 stanno per un Io e per un Tu che interagiscono sia a livello proiettivo che concreto e dove 3 sta per un Noi e tutto ciò che concerne l’esperienza della coppia.

Questo 3, il Noi, è da considerarsi come un nuovo elemento, definito con caratteristiche strutturali e processuali assolutamente nuove ed impreviste. Il Noi va inteso come sinergia di strutture e di tratti di personalità, quindi non può essere considerato come semplice somma di elementi, tanto meno è possibile pensare agli elementi costituenti come elementi a loro volta linearmente riconducibili ai separati contesti di Io e Tu.

Il Noi come una struttura che, per la sua complessità e funzionalità, obbliga ad un processo irreversibile o meglio parzialmente reversibile: dall’Io al Tu sino al Noi, ma da Noi all’Io ed al Tu si viene a perdere qualcosa, il processo inverso è funzionalmente carente. Prendete come esempio generico il processo di combustione in natura.

Il metodo di contatto e di lavoro con la coppia, quindi, prevede di:

  • Individuare quali sono i meccanismi di resistenza al contatto, chi li attua, quando e come.
  • Individuare quali sono, specularmente, i meccanismi di contatto, chi li attua, quando e come.
  • Come, attraverso il linguaggio non verbale ed il vissuto corporeo, è ulteriormente espresso e rappresentato il reciproco vissuto.
  • I giochi di potere, i vantaggi primari e secondari, impliciti nelle modalità di resistenza al contatto e nelle modalità di contatto vere e proprie.
  • Il ruolo eventuale dei figli – sia essi reali e presenti nella coppia e sia immaginativi in un futuro progetto – e la loro ripartizione sia implicita che esplicita nella dinamica di coppia.
  • Il rispettivo imprinting della famiglia di appartenenza e quindi: la storia famigliare, i temi esistenziali prevalenti nella famiglia di origine.
  • L’interazione reciproca tra le famiglie di origine – se questo evento accade nella realtà o anche se è ad un livello immaginativo.
  • Chi altro c’è nella stanza: le produzioni fantasmatiche psicodinamiche consce ed inconsce, che ognuno dei due termini della coppia porta con sé e che agisce nel setting: Produzioni fantasmatiche su di sé; Produzioni fantasmatiche sul compagno\a; Produzioni fantasmatiche sul terapeuta o la coppia di terapeuti; Le aspettative verso la terapia e verso una vita senza l’elemento alcool.

Tecnica

Nella terapia di coppia il termine terzo (Minuchin, 1974) è quanto di più evidente da riconoscere e, contemporaneamente, difficile da gestire. Ogni coppia che si reca da un consulente specializzato porta con sé ed attua il proprio terzo elemento e di più ancora questo fanno le coppie dove uno o entrambi i termini siano legati ad un evento disfunzionale o ad un aspetto di un preciso evento o sequela di eventi disfunzionali.

Questo perché già di per sé il Noi è un terzo elemento risultante da un sistema di relazione. Questo Noi si presta facilmente ad essere il contenitore non solo dei processi creativi e sani degli individui, ma diviene il contenitore preferenziale e l’agente primario anche di tutto ciò che concerne la patologia relazionale della coppia.

Come dire che è il Terzo che assume su di sé e contemporaneamente determina le regole, la qualità e l’intensità delle relazioni per poi retroattivamente determinare le regole, la qualità e l’intensità delle relazioni di ambedue i singoli individui. Stando così le cose, non è possibile definire il problema disfunzionale di una coppia come specifico di un termine solo e relativo per l’altro, ma ciò riguarda la coppia come sistema ed ambedue gli individui come reciprocamente interagenti.

Vanno considerati in modo specifico e motivato ambedue i termini della coppia come disfunzionali distinguendo in:

  • Disfunzionale Diretto: l’individuo che agisce attivamente la problematica.
  • Disfunzionale Indiretto: l’individuo che è agito passivamente dall’altrui problematica ovvero il compagno\a.

Da un punto di vista strettamente analitico rivediamo la consueta relazione Sadico-Masochista (Fromm, 1973) ove sia l’uno che l’altro agiscono, in turni paradossalmente già ben stabiliti, un comportamento di volta in volta aggressivo-passivo.

  • Per il disfunzionale diretto è l’aggressività cognitivo-emotiva delle proprie frustrazioni interne elaborate, poi, esternamente nella realtà in una aggressività egosintonica con ripercussioni dirette verso l’esterno.
  • Per il disfunzionale indiretto è la passività cognitivo-emotiva delle proprie frustrazioni e di impotenza innanzi al comportamento del compagno/a.

Nell’aggressività dell’etilista attivo, rimanendo sull’esempio precedente, vi è tutta la passività di fondo di chi agisce schemi comportamentali inadeguati all’elaborazione del disagio esistenziale e, di contro, nella passività del compagno/a chiaramente, identifichiamo, l’aggressività di difesa tipica di chi deve agire primariamente non tanto verso l’individuo in sé, ma verso il comportamento e le conseguenze del comportamento che l’altro significa. Il quadro è notevolmente complesso, ma è proprio ora che l’elemento terzo – il Noi – entra così chiaramente.

Tutto questo non avviene a carico esclusivo di un Io o di un Tu, ma avviene nel sistema relazionale della coppia, che è struttura e contesto significativo che agisce ed è agita dalla disfunzionale stessa. E ciò avviene in modo così forte e cementato che il paradosso della coppia disfunzionale è il seguente: avrebbe senso di esistere questa coppia, così come essa è, rimosso il problema che la assilla?

Ovvero: è la relazione di coppia ad essere patologica e la problematica presentata è solamente l’ennesimo approdo di un processo degenerativo a livello relazionale, o è l’elemento problematico contingente, con la sua capacità destabilizzante e demolitrice, a disintegrare una relazione invece potenzialmente sana?

Quindi la tecnica terapeutica avrà come obiettivi primari:

  • Incontrare e valutare l’aggressività e la rabbia presente nei rispettivi individui.
  • Incontrare e valutare la passività – la resistenza al cambiamento – e la frustrazione presente nei rispettivi individui.

Successivamente, se possibile, incentrare il lavoro sulla modalità di coppia:

  • Presenza e gestione delle responsabilità di coppia.
  • Valutazione e ricorso alle risorse interne ed esterne della coppia stessa.
  • Livello di manipolazione e gestione del potere presente nella coppia.

Un altro passo sarà valutare il senso della coppia, ovvero:

  • Come questa coppia è insieme e come è quando non si è insieme.
  • Quando questa coppia è insieme e quando non è insieme.
  • Quale obiettivo ha questa coppia nel rimanere insieme o nello sciogliersi..
  • Con chi si sta in questa coppia.

Vi è un doppio binario terapeutico da seguire e a cui attenersi: le emozioni e i concetti che individualmente vengono vissuti ed esperiti all’interno della coppia.

La tecnica Gestaltica è particolarmente utile in questo contesto poiché, pur non negando il valore profondo del passato come esperienza ed identità, centra l’individuo nel suo presente reale e sulle sue possibili risorse rispetto ad una problematica che rappresenta sofferenza e che provoca un blocco evolutivo.

Fondamentale sarà una linea di colloquio tesa a restituire alla coppia, e non tanto al singolo esclusivo individuo, le idee, le emozioni e gli aspetti non verbali che di volta in volta si presenteranno. In questo modo il terapeuta potrà:

  • Essere in una condizione di ascolto attivo significativo per sé e per la coppia.
  • Agire da terzo terapeutico con funzione di agente attivo e suppletivo nell’esame di realtà.
  • Evitare il proprio coinvolgimento, anche involontario, nel gioco delle parti o in assetti di potere.
  • Monitorare e facilitare, come Io ausiliario, l’espressione e gli eventuali blocchi nei livelli cognitivo-emotivo e corporeo.
  • Agire sulla coppia in una vera e propria terapia di coppia e non, erroneamente, come in una terapia individuale in coppia: agendo sul sistema in modo globale e completo, proteggendo, salvaguardando e valutando attentamente le risorse e le resistenze al cambiamento dei due individui.

 

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La terapia di Coppia in Psicoterapia Cognitiva

BIBLIOGRAFIA:

La comunicazione terapeutica: gli strumenti e le strategie per renderla efficace

La comunicazione connota le relazioni fra gli esseri umani. Il bisogno di comunicare è frutto, secondo Habermas, dell’agire sociale. In esso, un posto di rilievo lo occupa l’interazione fra curante e curato, che si concretizza nella comunicazione terapeutica. Esistono strumenti – strategie che la implementano e la rendono più efficace.

Intelligenze multiple, agire relazionale e pragmatica della comunicazione umana

Ogni essere umano è caratterizzato dal possesso di intelligenze multiple (Gardner, 1994). Fra queste, si trova l’intelligenza interpersonale, ovvero quella dimensione cognitiva che nel rapporto con l’alterità si impianta e si ipertrofizza. La comunicazione connota le relazioni fra gli esseri umani. Secondo Habermas (1997) il bisogno di comunicare nasce dal fatto che l’agire umano è sempre frutto di una coordinazione sociale, cioè si comunica per direzionare l’agire, conseguenza di interazioni sociali (agire comunicativo o relazionale).

La pragmatica della comunicazione umana, attraverso gli assiomi che governano il comunicare, ha stabilito che l’uomo non può non comunicare, anche il silenzio che si instaura in una relazione è frequentemente il prodotto di un’intenzionalità comunicativa. In altri termini, il silenzio trasmette il desiderio di non comunicare (Watzlawick, Beavin e Jackson, 1971, pag.41). D’altra parte, l’uomo parla continuamente. Lo fa esternando le sue parole ad un interlocutore, lo fa con se stesso attraverso il self – talk o linguaggio interiore. In entrambe le situazioni, dal punto di vista neuroscientifico, sono attivati gli stessi meccanismi neuronali, come dimostra una recente ricerca (Magrassi et al., 2015).

La teoria dell’informazione

Nell’ambito della teoria dell’informazione, il comunicare è il risultato di una relazione che si instaura fra emittente e ricevente. In pratica, l’emittente invia delle informazioni al ricevente, attraverso un canale (aria, ecc.). Laddove queste informazioni sono espresse in un codice conosciuto da entrambi diventano dei messaggi, che hanno la capacità di influire sui partecipanti alla comunicazione. [blockquote style=”1″]Quanto maggiore è la condivisione di codici (linguistico, affettivo, cognitivo) tanto maggiore è la possibilità di una comprensione del messaggio e di una risposta adeguata[/blockquote] (de Mennato, 1998, pag. 98).

Mappa cognitiva, sistema di significazione, identità culturale

Ogni persona percepisce la realtà in base alla mappa cognitiva che possiede. È proprio questo sistema di significazione che orienta la comunicazione, attraverso un’attenzione selettiva per quello che si sta ascoltando, per quello che dice l’interlocutore. In altre parole, è la mappa cognitiva che interviene nella selezione e nell’elaborazione dell’informazione. La mappa concettuale costituisce l’identità culturale dell’individuo. Solitamente <i soggetti…comunicano con minore tasso di fraintendimento nel momento in cui riconoscono reciprocamente l’appartenenza alla stessa identità culturale> (de Mennato, op. cit., pag. 99).

Comunicazione, relazione e contesto

La comunicazione fra gli esseri umani è sempre inserita nell’ambito di una relazione ed è proprio questo aspetto relazionale che la contraddistingue e la ipoteca, come affermato dal secondo assioma della pragmatica della comunicazione umana (Watzlawick, Beavin e Jackson, op. cit., pag. 44). In altre parole, laddove ci si sente a proprio agio nel rapporto con l’altro, la comunicazione diventa fluida, cosa che non succede in una situazione di disagio. In pratica,

[blockquote style=”1″]ogni atto comunicativo…non è comprensibile al di fuori del proprio contesto e della sequenza di atti comunicativi all’interno dei quali si colloca[/blockquote] (de Mennato, op. cit., pag. 101).

Le nostre conversazioni, il più delle volte, hanno come argomento principale noi stessi e il nostro mondo. È un modo per consolidare i legami sociali, attraverso la condivisione delle soggettività. Sembra che parlare di sé obbedisca ad un bisogno primordiale dell’essere umano. Infatti, una ricerca compiuta da Tamir e Mitchell della Harvard University ha dimostrato che quasi la metà delle nostre conversazioni ha per oggetto i vissuti relazionali, sia quelli che sperimentiamo nel rapporto con noi stessi che con l’alterità. I ricercatori paragonano questo bisogno, alla luce delle attivazioni cerebrali prodotte, al bisogno di mangiare. Di fatto, entrambi i bisogni incrementano l’attività del sistema dopaminergico mesolimbico (Tamir e Mitchell, 2012).

L’implementazione della comunicazione terapeutica

Alla luce dei costrutti delineati, la comunicazione terapeutica ha il paradigma fondante nella relazione che si instaura fra curante e curato. In altri termini, è proprio questa interazione che ipoteca al positivo o al negativo il comunicare. La comunicazione terapeutica si implementa attraverso alcuni strumenti e strategie, quali:
– l’essere il più concreti possibile per evitare fraintendimenti;
– mettersi sempre nell’ottica di comunicare con piuttosto che contro;
– “considerare ogni interlocutore degno di una storia che non possiamo conoscere se non è lui a narrarla” (de Mennato, op. cit., pag. 103);
– debellare ogni analfabetismo emozionale, ovvero essere coscienti delle emozioni provate e di quanto esse influiscono sui processi comunicativi (Contini, 1997).
– saper superare il proprio egocentrismo cognitivo/affettivo, ossia “decentrarsi” sull’altro per capire il suo messaggio (de Mennato, op. cit., pag. 106);
– implementare le abilità empatiche, cioè quelle competenze che ci permettono di “sentire il mondo personale” del nostro interlocutore, con l’obiettivo di capire il suo valore e il significato (Rogers, 1970, pag. 57).

 

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La comunicazione emotiva: un ponte tra linguaggio e musica

 

BIBLIOGRAFIA:

Credenze autocriticiste: la tecnica Directed Abstraction può modificare l’ idea negativa di noi stessi

FLASH NEWS

Faticoso quanto vero il fenomeno per cui le persone che hanno credenze negative su di sé mantengono- quasi involontariamente- tali assunti pessimistici a dispetto di contrarie evidenze concrete. In un nuovo articolo viene descritta una tecnica definita Directed Abstraction che può aiutare nel cambiamento delle proprie credenze autocriticiste.

Faticoso quanto vero il fenomeno per cui le persone che hanno credenze negative su di sé mantengono- quasi involontariamente- tali assunti pessimistici a dispetto di contrarie evidenze concrete: è un deficit di generalizzazione del successo, da un singolo evento positivo è difficile generalizzare a un tratto stabile della propria persona. E’ frequente inoltre generalizzare e legare gli effetti di una prestazione negativa a tratti stabili del sé e del valore personale.

In un nuovo articolo viene descritta una tecnica definita Directed Abstraction che può aiutare nel cambiamento delle proprie credenze autocriticiste.

In un primo studio i partecipanti dovevano stimare il numero di puntini proiettati su uno schermo; in seguito venivano forniti loro dei feedback estremamente positivi sulle loro performance, non sempre aderenti alle reale performance ma comunque convincenti e realistici. In seguito gli studenti sono stati divisi in due gruppi:

  • ad alcuni è stato chiesto di spiegare in che modo hanno portato a termine il compito, condizione che mantiene le credenze a un livello concreto e specifico (il come);
  • ad altri veniva richiesto di completare la frase Sono stato in grado di eseguire bene il compito perché sono…., condizione che stimola l’astrazione delle credenze relative al sé (il perché)

Secondo i risultati la condizione in cui si stimola l’astrazione delle credenze partendo da un successo (o evento positivo) darebbe particolare beneficio – che cioè si traduce in una maggiore autostima – proprio a quei partecipanti con delle credenze negative e pessimiste su sé stessi.

Similmente lo stesso trend di risultati si mantiene anche in un secondo esperimento in cui i soggetti sono sottoposti a public speaking.

Questa semplice tecnica, utilizzata frequentemente secondo diverse declinazioni in psicoterapia, trova un piacevole riscontro empirico in questo studio su campione non patologico.

 

 

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Manca un’adeguata assistenza psicologica ai detenuti nelle carceri

Caos carceri, Aupi denuncia: dieci minuti di assistenza psicologica all’anno ai detenuti, 1500 casi di tentato suicidio, agenti penitenziari in difficoltà, “esperti” esterni chiamati a lavorare per poche ore a settimana. 

[blockquote style=”1″]Ci sono 1500 casi di tentato suicidio all’anno all’interno dei penitenziari italiani. Molti finiscono bene, perché si riesce a intervenire in tempo. Altri, come dimostra la cronaca di questi giorni, purtroppo, hanno un tragico epilogo. Non possiamo tacere di fronte a questa situazione perchè coinvolge anche noi psicologi.[/blockquote] Così il segretario generale di AUPI (Associazione Unitaria Psicologi Italiani), Mario Sellini, sui due suicidi a distanza di poche ore nel carcere romano di Regina Coeli.

[blockquote style=”1″]Nessuno sa che i detenuti hanno mediamente dieci minuti di assistenza psicologica all’anno. Questo perché il Ministero della Giustizia non ha previsto all’interno delle strutture penitenziarie il riconoscimento di questa professione. In pratica, nelle carceri lavorano poche centinaia di cosiddetti “esperti”, personale esterno che ha un contratto di poche ore mensili e, dunque, non è nelle condizioni di poter fare assistenza psicologica. E oltre il danno la beffa: due anni fa il Ministero ha diramato una circolare dove faceva sapere che non venivano rinnovati gli incarichi dei vecchi “esperti”, per lasciare entrare nuove professionalità, con pochissima esperienza e impreparati a lavorare in un luogo tanto problematico.[/blockquote] continua Sellini.

Ma c’è un altro dato che fa riflettere e riguarda le condizioni di lavoro degli agenti penitenziari.

[blockquote style=”1″]Noi vogliamo dare sostegno agli agenti di polizia penitenziaria perché il personale è stato ridotto del 20 per cento e i turni sono massacranti. Oltre al fatto che trovarsi di fronte ad un suicidio mina la stabilità psicologica anche di queste persone che dovrebbero svolgere il proprio lavoro in condizioni appropriate, considerata la delicatezza del settore in cui operano[/blockquote] conclude Sellini.

 

Angela Corica
Ufficio stampa AUPI
333 9892161

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Inside Out: la psicoeducazione al cinema nel nuovo lungometraggio Pixar

 

Quest’anno la Pixar Animation Studios porta al cinema un vero e proprio laboratorio di psicoeducazione sulle emozioni, per insegnare simpaticamente a tutti come esse guidano i nostri agiti quotidiani.

Presa positivamente dalla Walt Disney Pictures, che ne promuove la distribuzione, l’idea prende certamente le mosse dal crescente bisogno di formare i bambini, oltre che alle materie della scuola, anche a quelle della vita, sperando in una crescita interiore che possa favorire uno sviluppo più sano. Non sono pochi nel mondo infatti gli istituti che hanno già preso seriamente la cosa, inserendo laboratori psicoeducativi all’interno dei propri programmi, numerose anche le ricerche a sostegno degli effetti positivi che una tale prospettiva possa apportare, e dunque benvenuto a questo simpatico lavoro che vedremo prossimamente nei cinema italiani.

Protagoniste sono le cinque emozioni primarie: gioia, tristezza, rabbia, paura e disgusto. Esse sono personificate da simpatici personaggi che vivono ovviamente nel cervello della giovane Riley (la protagonista reale) e delle persone che interagiscono con lei, e ne guidano le interazioni sociali. In questi apparentemente semplicissimi elementi si rintraccia già un atto psicoeducativo certamente non da poco.

È infatti riconosciuto che alla base di molti disturbi ansiosi c’è spesso un basso livello di metacognizione, e dunque un mancato riconoscimento del legame tra emozioni e azioni, o meglio tra emozioni e loro correlato fisiologico. Ecco perché non è certamente da poco portare al cinema, in un formato così appetibile, divertente e facilmente comprensibile, un film che ne insegni le basi. Così, allo stesso modo come farebbe un laboratorio sulle emozioni, il nuovo film della Pixar insegna molto più di quanto sembra, perché quello che porteranno a casa gli spettatori, non sarà solo una bella morale, ma un vero e proprio effetto terapeutico.

Punti di forza del film a mio avviso sono certamente i personaggi che rappresentano le emozioni. Fatti di tratti semplici ma che rappresentano perfettamente, nella loro fisionomia, gli stati d’animo di cui sono protagonisti. Essi esaltano ironicamente e a ritmo calzante le cinque emozioni, permettendo all’osservatore di riconoscerle facilmente ogni qualvolta esse si presentano; anche questo è un aiuto certamente basilare, nell’ottica psicoeducativa di cui parlavamo. Dunque davvero complimenti agli ideatori di questo interessantissimo lavoro, che potrà essere utilizzato certamente anche in contesti educativi, laddove esistano progetti scolastici o extrascolastici a riguardo.

TRAILER:

 

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Prevenzione dello stupro: attuato un programma nei college canadesi

Con la partecipazione di studenti frequentanti 3 college canadesi, è stato implementato un programma di prevenzione dello stupro.

Stupri e violenze sessuali che vedono le donne come vittime preferite sono purtroppo argomenti e notizie di cronaca all’ordine del giorno. Alcune di queste violenze è stato dimostrato che si consumano presso i college frequentati da giovani ragazzi: dalle stime emerge come una donna su 5 sia stata vittima di violenze nei college e le vittime segnalate siano spesso studentesse del primo anno.

Per questo, Charlene Y. Senn, autrice di questo studio canadese e psicologa sociale presso l’Università di Winsor, ha pianificato questo programma di prevenzione che ha coinvolto studenti del primo anno di 3 college canadesi.

Lo studio sembra aver riscontrato numerose resistenze da parte degli studenti; tuttavia, si sostiene essere stato un primo tentativo per sensibilizzare gli studenti all’argomento. Durante l’esperimento sono state insegnate delle strategie per proteggere se stessi ed evitare di diventare facilmente preda di violenze.

Charlene Y. Senn, the lead author of the Canadian study and a social psychologist at the University of Windsor, did not disagree. “It gives women the knowledge and skills they need right now, but the long-term solution is to reduce their need to defend themselves,” said Dr. Senn, who also supervises a campus bystander program.

College Rape Prevention Program Proves a Rare SuccessConsigliato dalla Redazione

Immagine: Fotolia_76240962_prevenzione dello stupro: attuato un programma di prevenzione presso college canadesi
A program that trained first-year female college students to avoid rape substantially lowered their risk of being sexually assaulted, a rare success against a problem that has been resistant to many prevention efforts, researchers reported Wednesday. (…)

Tratto da: New York Times

 

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La realtà virtuale in ambito clinico – Psicoterapia

Chiara Rotasperti – OPEN SCHOOL – Studi Cognitivi Milano

Gli ambienti ricreati mediante realtà virtuale rappresentano un ulteriore contesto di interazione sociale grazie al quale si rende possibile per l’utente sperimentare emozioni, azioni, mettersi in gioco con le proprie paure, le difficoltà, i comportamenti disfunzionali, facendo così emergere, nel contesto protetto di un laboratorio sperimentale, il materiale cognitivo che ne sta alla base.

Sono i primi anni ’90 quando la Realtà Virtuale inizia ad affacciarsi nel mondo della psicologia. Dopo i primi lavori base di ricerca, che per molti aspetti furono veri e propri tentativi pionieristici nella costruzione di nuove strade o poco più che stretti sentieri sconnessi, si iniziarono ad intravedere le interessanti possibilità di sviluppo di questo medium comunicativo nell’ambito della psicologia clinica.

Prese così vita una piccola comunità scientifica, caratterizzata da ricercatori di diversa origine geografica e culturale, ma tutti accomunati dalla curiosità verso ciò che man mano si rivelava sempre più uno strumento potenzialmente utile anche in campo psicologico.

Da allora sono stati fatti passi da gigante in quella e in altre direzioni: gli ambienti ricreati mediante le nuove tecnologie della realtà virtuale rappresentano un ulteriore contesto di interazione sociale grazie al quale si rende possibile per l’utente sperimentare emozioni, azioni, mettersi in gioco con le proprie paure, le difficoltà, i comportamenti disfunzionali, facendo così emergere, nel contesto protetto di un laboratorio sperimentale, il materiale cognitivo che ne sta alla base.

Cosa è virtuale?  Trasformazione da una modalità dell’essere a un’altra risponde Pierre Lévy (Lévy, 1995), cartografo della mappa del virtuale nel suo libro Qu’est-ce que le virtuel? del 1995 e prosegue dicendo: uno dei possibili modi di essere, contrapponibile non alla realtà ma alla attualità. Sì, perché Levy contrappone virtuale ad attuale e possibile a reale, definendole modalità dell’essere contemporaneamente presenti.

Possibile e virtuale hanno chiaramente un tratto in comune, ed è il motivo per cui spesso vengono confusi: sono entrambi latenti, non manifesti. Il reale e l’attuale invece sono entrambi presenti, manifesti.

Il virtuale quindi, visto con gli occhi di Levy, non è affatto il contrario del reale, ma:

un modo di essere fecondo e possente, che concede margine ai processi di creazione, schiude prospettive future, scava pozzi di senso al di sotto della piattezza della presenza fisica immediata.

Michel Serres (Serres, 1994), nel suo libro Atlas, descrive il tema del virtuale come fuori dal ci, fuori dall’esser-ci. Essere quindi svincolati da qualsiasi ci, per esempio:

Dove ha luogo una conversazione telefonica? Dove è una comunità virtuale? Essa vive senza un vero e proprio luogo di riferimento fisico, risiedendo ovunque si trovino i suoi membri erratici e quindi.. in nessun luogo.

Ciononostante il virtuale non può dirsi non reale. Sebbene non si sappia dove, la conversazione telefonica ha luogo, la comunità virtuale esiste, c’è. Ecco il fuori dal ci di cui parla Serres. Pensiamo ad una telefonata: il telefono separa la voce dal corpo fisico e la trasmette a distanza. Il mio corpo fisico è qui ma il mio corpo sonoro si sdoppia rendendosi presente contemporaneamente qui e altrove. Virtualizzandosi quindi il corpo si moltiplica, allo stesso modo nel quale i potenti strumenti diagnostici a disposizione della medicina (pensiamo a radiografie, risonanze magnetiche, TAC..) è come se aggiungessero strati sotto il nostro derma rendendoli visibili. Potremmo dire che hanno creato altri strati, derma nascosti, aree insospettate che emergono dal fondo dell’organismo. Ogni nuovo strumento, svelando un tipo di pelle, aggiunge un corpo visibile a quello attuale. Virtuale? Reale? Ecco perché questi due significati non sono sovrapponibili.

Non sempre la virtualizzazione è legata a uno scomparire, ma nei casi riportati finora, potremmo, al contrario parlare di una materializzazione: svincolando ciò che era solo qui e ora, essa apre nuovi spazi e altre velocità.

Come può, la realtà virtuale essere utilizzata in ambito psicoterapico? Quali sono gli aspetti che potrebbero venirci in aiuto, secondo la logica per la quale la tecnica propone e l’uomo dispone?

La realtà virtuale è uno strumento il cui apporto principale può essere cercato nell’importanza che in psicoterapia viene data all’immaginazione e alla memoria, aspetti entrambi che dipendono molto dal soggetto che ci potremmo trovare di fronte: Quanto è in grado di immaginare? Di ricordare? Quanto è disposto a farlo? E a rifarlo nella seduta dopo? E in quella dopo ancora?. Tutte domande e problematiche nelle quali la realtà virtuale ci viene in aiuto, con la sua flessibilità, con l’enorme varietà di modalità di intervento su svariati tipi di disagio psicologico, con la possibilità di strutturare stimoli controllati e contemporaneamente di monitorare le possibili risposte fisiologiche e non generate dal paziente, con l’opportunità impagabile di ricostruire scenari ad hoc creati sulle memorie del paziente stesso, sulla base dei suoi ricordi, dei suoi vissuti traumatici o no. Tutto ciò offre un considerevole aumento delle probabilità di efficacia terapeutica rispetto al solo utilizzo di procedure tradizionali.

Pensiamo ad uno scenario nel quale, all’interno del nostro studio psicoterapeutico, sia possibile sedersi col paziente, stilare con lui una lista dei suoi stimoli critici e su questa base co-costruita, stendere un programma nel quale si pianifica una desensibilizzazione progressiva dei suddetti stimoli critici, esponendo il soggetto all’esperienza di tali condizioni ricreate in virtuale. Fin qui tutto normale, potrebbe tranquillamente rientrare in una normale giornata di lavoro di uno psicoterapeuta cognitivo comportamentale.

Le differenze però iniziano subito dopo, quando, diversamente dalle esposizioni IN vivo, in ambiente virtuale le diverse componenti dell’ambiente ricostruito sono suscettibili di un ampio controllo da parte del terapeuta, il quale viene messo nelle condizioni di stabilire di volta in volta il grado di difficoltà a cui sottoporre il paziente, immaginando per lui un percorso tailor made direbbero gli americani, o su misura diremmo in Italia.

La possibilità di modulare in modo crescente le difficoltà, permette al terapeuta di creare un percorso sempre calato sullo stato attuale del paziente e al paziente di aumentare man mano la sua self-efficacy.

Bandura nel suo libro del 1977 Self-efficacy: Toward a Unifying Theory of Behavior Change annovera, fra gli aspetti che contribuiscono a generare il senso di autoefficacia, la possibilità di sperimentare performances di successo. La realtà virtuale si presta molto in questo ambito, grazie al fatto che il terapeuta, controllando gli stimoli somministrati, può fare in modo che il feedback per il paziente sia più o meno positivo rispetto alle sue performances, intervenendo in ogni istante sugli stimoli proposti e sulla loro intensità. Bandura stesso sosteneva che il senso di autoefficacia prodotto da ripetuti successi diminuisse l’impatto di eventuali fallimenti.

Gli ambienti virtuali sono quindi una via di mezzo fra la stanza del terapeuta (massima protezione) e l’ambiente esterno (altamente minaccioso), sganciati dal quel ci di cui parlava Serres, ambienti con elevato livello di flessibilità e programmabilità adatti come setting esperienziale nel quale il paziente possa approcciare gli stimoli ansiogeni senza che si senta minacciato. La potenza terapeutica di tale contesto è che situazioni, difficoltà, eventi e conseguenze possono essere sperimentate, poiché, pur sperimentando, non accade nulla al paziente, che grazie a ciò si sente libero di esplorare e di sperimentare.

La realtà virtuale entra così a far parte dell’alleanza terapeutica, del senso di fiducia verso il terapeuta e verso il processo di cura in atto, contribuendo a creare un senso di sé e della realtà altro rispetto a quanto sperimentato.

Tutto ciò non ci riporta forse alle tecniche cognitivo comportamentali per le quali l’assunzione del paziente di punti di vista alternativi ai propri è condizione sine qua non una correzione delle sue credenze disfunzionali considerate reali, date, inalterabili, non sarebbe possibile?

Per la psicologia dei costrutti personali di Kelly (Kelly, 2004) è fondamentale il concetto di validazione. Esso rappresenta la compatibilità (soggettivamente costruita) fra le previsioni che fa una persona e l’esito che essa osserva. Al contrario, l’invalidazione è l’incompatibilità (oggettivamente costruita) fra le previsioni e l’esito che ne osserva. Se in ciò facciamo rientrare anche la possibilità di creare nuovi costrutti, Kelly ritiene essenziale che tali costrutti altri siano prima presentati in contesti che non coinvolgano né il sé del paziente né persone a lui molto vicine. La creazione di un’atmosfera di sperimentazione è un’altra condizione favorevole alla formazione di nuovi costrutti, intendendo con ciò che le conseguenze delle proprie azioni sperimentali debbano essere viste come limitate e circoscritte. Tutto ciò, non riporta a scenari di realtà virtuale?

Analizziamo ora, sempre secondo Kelly, le condizioni sfavorevoli alla creazione di nuovi costrutti. Per Kelly, la condizione più sfavorevole è il senso di minaccia, cioè tutto quello che possa mettere in pericolo altri costrutti di ordine ancora superiore dai quali la persona fa dipendere la propria vita. Le conseguenze che questo quadro di minaccia/pericolo porta con sé, sono facilmente prevedibili: il paziente sarebbe inesorabilmente spinto ad aggrapparsi ancora di più ai suoi costrutti di base, esattamente come farebbe un naufrago se gli si tentasse di portare via il salvagente.

Anche l’assenza di laboratorio, per Kelly, rientra a far parte delle condizioni sfavorevoli nella formazione di nuovi costrutti, perché è improbabile riuscire a formare costrutti nuovi se manca un laboratorio nel quale metterli alla prova. Io non abbandonerei mai il salvagente che mi tiene a galla se prima non ho verificato che la cima che mi viene lanciata sarà in grado di trarmi in salvo.

Per laboratorio Kelly intende una situazione nella quale è presente una certa quantità della sostanza che una persona impiega, ridefinendola, per formare nuovi costrutti. Deve quindi essere un ambiente sicuro ma non troppo, altrimenti non riuscirei a sperimentare condizioni impegnative: sicuro che mi permetta di mettermi in gioco e non così sicuro da togliermi la possibilità di sperimentare eventuali difficoltà che potrei incontrare poi in ambiente esterno. Potremmo pensarlo come una sorta di base sicura bowlbiana nella quale il paziente può liberamente esplorare, sperimentare, vivere e rivivere sentimenti, pensieri e vissuti attuali o remoti senza sentirsi in pericolo. Il paziente è così messo nelle condizioni grazie alle quali può sperimentarsi e sperimentare il mondo esterno in modo nuovo, altro, inedito per lui.

Calando queste considerazioni in un’ottica di realtà virtuale, è facile capire quanto questo strumento possa essere d’aiuto per il paziente nel distinguere fra come sono convinto che le cose andranno e come invece potrebbero diversamente andare.

Quante sono le tecniche psicoterapeutiche che si fondano sulla manipolazione delle immagini mentali? Esse partono dal presupposto che ci sia connessione fra una rappresentazione disfunzionale ed il suo sviluppo e il mantenimento di un agire disfunzionale, causando così una compromissione più o meno marcata del funzionamento e dell’adattamento di un individuo nel mondo esterno. Se prendiamo ad esempio la terapia cognitivo comportamentale e una delle sue prospettive principali, cioè che il paziente è l’artefice principale del proprio cambiamento, è facile comprendere quanto sia importante che egli assuma un ruolo attivo nel proprio percorso di cura, in funzione del fatto che il paziente stesso è il massimo esperto delle esperienze che lo riguardano e che lui soltanto potrà fornire al terapeuta e a se stesso la chiave di accesso al suo sentire.

Le tecniche cognitive hanno dunque l’obiettivo di produrre cambiamenti a livello del pensiero, modificando quegli schemi disfunzionali causa dei comportamenti disadattivi del paziente. La tecnica espositiva, largamente utilizzata in campo cognitivo comportamentale, è un valido strumento volto a valutare l’inesattezza di determinate credenze all’origine della patologia, nonché uno straordinario strumento per sperimentare nuove modalità di interazione con l’ambiente.

Le tradizionali tecniche espositive, in immaginazione e in vivo, presentano alcuni limiti (difficoltà di immaginare, di raccontare, la reticenza ad esporsi in vivo) che la realtà virtuale può agevolmente superare, senza contare il fatto che utilizzare la tecnica espositiva facendo uso di ambienti virtuali (virtual environments) consente a paziente e terapeuta di condividere effettivamente l’esperienza: l’ambiente è infatti visibile ed accessibile ad entrambi, senza contare quanto questa modalità esperienziale aumenti in maniera esponenziale la compliance restituendo al paziente nuove prospettive per sentirsi artefice e protagonista del suo processo di cura, grazie al suo ruolo attivo (nel vero senso della parola) all’interno della terapia (pensiamo al suo muoversi all’interno di uno scenario virtuale, al fatto di poter compiere delle scelte e al fatto che sulla base di queste scelte ci siano, in presa diretta, conseguenze in tempo reale). Il paziente arriverà a percepire l’intero percorso terapeutico come parte integrante della propria vita, nella quale possiede un ruolo centrale di responsabilità e padronanza.

D’altro canto, anche per il terapeuta avviene un cambio di prospettiva. La valutazione del disagio e delle modalità attraverso cui si può manifestare avviene sulla base di una ricostruzione della realtà così come percepita dal paziente. Così facendo però il terapeuta a volte si trova in difficoltà nel delineare con chiarezza le rappresentazioni mentali e la sintomatologia che si manifesta nel momento clou del disagio, semplicemente perché non è presente, non è lì, e tutto è basato su una ricostruzione a posteriori (o a priori, nel caso sia una questione di ansia). Come può il terapeuta sapere quanto il paziente sarà efficace nel suo narrare? Quanti dettagli o informazioni importanti vanno perse basandosi su ricostruzioni?

Se però fosse possibile, attraverso un’osservazione diretta, verificare il modo in cui il nostro paziente reagisce di fronte agli stimoli patogeni, di quante informazioni in più, utili per l’intervento terapeutico, potremmo disporre? Molte. Moltissime.

La realtà virtuale ce lo permette. Ci permette di essere presenti anche quando le ansie del paziente o le sue risposte disfunzionali avvengono in situazioni non riproducibili in vivo. Sostiene Giuseppe Riva (Vincelli, Riva, Molinari, 2007) in La realtà virtuale in psicologia clinica:

Gli ambienti sono flessibili e manipolabili fino a oltrepassare i limiti della realtà esterna, creando così nuove possibilità per l’azione terapeutica

Questi nuovi strumenti ed il ritmo incalzante con cui i sistemi di realtà virtuale si sviluppano, aumentando di volta in volta il loro grado di accessibilità, portano con sé la necessità di riflettere in modo cosciente ed etico rispetto ai possibili cattivi usi che se ne possa fare alla luce del fatto che i soggetti manifestano reazioni molto intense gli ambienti simulati. Wiederhold B. e Wiederhold M. in un articolo del 2003 A New Approach: Using Virtual Realty Psychotherapy in Panic Disorder With Agoraphobia hanno approfondito il fatto che alcune categorie di pazienti possono non essere idonee alle psicoterapie condotte mediante realtà virtuale, in particolare persone affette da gravi patologie cardiache, tossicodipendenti, persone affette da epilessia e persone con problematiche riguardanti la percezione della realtà, pensiamo ad esempio a psicotici che hanno già di per sé un senso della realtà compromesso. In questo caso, introdurre la realtà virtuale sarebbe controproducente, nonché dannoso per il paziente.

Se nei primi anni novanta la realtà virtuale era ai suoi albori e alla portata di pochi, oggi un qualsiasi terapeuta può permettersi un sistema di realtà virtuale nel suo studio, ma perché, nonostante ciò, il numero di terapeuti che hanno scelto di integrare questa tecnologia nella propria pratica clinica è ancora così esiguo?

Le risposte possono essere molteplici: il timore di costi troppo elevati, la poca conoscenza delle potenzialità di questo nuovo strumento o la paura di non essere in grado di saperla usare.

Affrontiamo il problema dei costi: un sistema completo di realtà virtuale – PC, casco e sensore di posizione – costava nei primi anni ’90, non meno di 150.000 dollari e il pc che supportasse tale tecnologia, un Silicon Graphic Onyx RE2, aveva le dimensioni di un frigorifero. Oggi, gli ambienti in virtuale sono supportati dalla maggior parte dei PC in circolazione, a patto che abbiano una buona scheda grafica, con costi che si aggirano attorno ai 1000 dollari. Anche i caschi immersivi (i cosiddetti head mounted display) sono passati dai 50.000/60.000 dollari degli anni novanta, ai 600 dollari nel 2000 per un Emagin Z800 3D che rispetto ai predecessori offriva una risoluzione di gran lunga superiore ed era capace di produrre un’immagine davvero tridimensionale per approdare ad oggi, quando un head mounted display di tutto rispetto può costare circa 300 dollari. Siamo quindi passati dai 150.000 dollari degli anni novanta ai 2.000 – 5.000 dollari dei giorni nostri e la cifra, visti i progressi della tecnologia e i costi sempre più abbordabili, è destinata a scendere.

Per quanto riguarda invece le remore riguardo la poca conoscenza di questo strumento o il timore di non saperlo utilizzare, basta controllare i principali database scientifici come Medline o PsycInfo per trovare oltre 1000 articoli relativi all’uso di ambito clinico della realtà virtuale. E se il numero relativo al costo è destinato a scendere, questo invece è destinato a salire.

Occorre ricordare però che non è il terapeuta a doversi adattare alla tecnologia, ma è quest’ultima che deve offrire nuovi stimoli e strumenti in grado di aumentarne le capacità di valutazione e intervento, ed è importante segnalare che mai la realtà virtuale potrà sostituire il terapeuta, perché in virtù del fatto che è uno strumento, non avrebbe alcun senso senza una mano che lo guidi. Una penna senza uno scrittore è un oggetto inerte, inutile e così è per la realtà virtuale.

A tutela di ciò, sarebbe auspicabile la creazione di un comitato ad hoc preposto alla creazione di linee guida etiche per l’impiego dei sistemi di realtà virtuale, che si occupi inoltre di garantire un monitoraggio del loro rispetto da parte di chi intende avvalersi di questo nuovo e potente strumento.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Pericolo ad alta quota: potenziare le strategie di coping dei piloti per aumentare la sicurezza in volo

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Le abilità di coping nelle situazioni di stress sembrano essere un fattore chiave da valutare e da potenziare nei piloti per la sicurezza dei voli.

Errare è umano, anche in aereo la regola vale: l’errore umano è tra le cause degli incidenti aerei, e lo stress facilita la possibilità di commettere errori. Dunque le abilità di coping nelle situazioni di stress sembrano essere un fattore chiave da valutare e da potenziare nei piloti per la sicurezza dei voli.

Infatti secondo una ricerca psicologica vi sarebbe un fattore predittivo di come i piloti reagiscono in situazioni difficili e stressanti: più dell’età, più degli anni di esperienza di volo, sarebbero le risposte dei piloti a due semplici domande inerenti il coping.

I ricercatori hanno coinvolto 16 piloti e li hanno sottoposti a una simulazione di volo in laboratorio. Dopo il decollo accade un imprevisto, una situazione ad elevato stress: un danno al motore, il protocollo prevede un atterraggio di emergenza. Proprio in questo momento specifico della simulazione vengono poste due domande al pilota:

  • quanto ti aspetti che questa situazione sia ardua e difficoltosa?
  • quanto ti senti in grado di affrontarla?

I piloti dovevano rispondere secondo una scala Likert. La differenza tra i punteggi delle due risposte fornisce una interessante indicazione: il grado con cui il pilota interpreta la situazione di emergenza come una sfida (quando le abilità di coping sono maggiori della difficoltà percepita) oppure come una minaccia (quando le abilità di coping sono percepite come carenti per affrontare la situazione).

E questo predice il reale comportamento del pilota alla guida durante l’ atterraggio di emergenza a seguito del danno al motore: coloro che interpretano la situazione più come una minaccia che come una sfida hanno performances significativamente peggiori rispetto agli altri. Performance peggiori in considerazione delle valutazioni di un insegnante di volo e di alcuni indici oggettivi di controllo dell’aeromobile, quali la regolazione della velocità e la direzione dello sguardo del pilota.

Il potere predittivo della percezione delle proprie abilità di coping sulle performance in situazioni critiche si mantiene anche tenendo conto dell’età e degli anni di esperienza.

E’ curioso inoltre che lo studio ha dimostrato che la percezione di minaccia influenza negativamente la regolazione dello sguardo durante l’atterraggio: un’interpretazione della situazione come più minacciosa è correlata a una fissazione oculare meno efficace con la concentrazione dello sguardo in alcune aree scorrette dal punto di vista della pratica del volo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Lucy e i tratti narcisistici di personalità – Peanuts Nr. 08

PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_RUBRICA (Nr.09)

 

Lucy e i tratti narcisistici di personalità

Come tutti i personaggi dei Peanuts, anche Lucy possiede particolari caratteristiche di personalità, descritte da Schulz in modo molto raffinato dal punto di vista psicologico.

Lucy è una bambina scorbutica, ipercritica e lamentosa. Spesso si rivolge all’amico Charlie Brown con tono sprezzante e utilizza il sarcasmo per ridicolizzare le sue fragilità. Dimostra di possedere poca empatia, soprattutto nei confronti del fratello Linus, quando gli nasconde la sua adorata coperta, senza considerare la sofferenza che gli procura.

E’ molto impegnata nella ricerca di auto-affermazione o ammirazione da parte degli altri, chiedendo conferme circa la propria bellezza e intelligenza, allo scopo di rafforzare un’idea grandiosa di sé. E’ inoltre sensibile alle critiche e al giudizio altrui, e preferisce dare consigli piuttosto che riceverne, per questo motivo la vediamo improvvisarsi psichiatra nel famosissimo banchetto.

Personalità narcisistica Lucy Peanuts Nr. 08

Tutte queste caratteristiche sono tratti riconducibili al disturbo narcisistico della personalità. La genialità di Schulz risiede ancora una volta nella sua capacità di rendere divertenti e ironici anche tratti di personalità così complessi e disfunzionali.

In questa vignetta è rappresentato il bisogno narcisistico di autocelebrazione: Lucy esprime il bisogno di progettare una festa per lodare pubblicamente le proprie doti e un’esistenza priva di difetti. Per giustificare il fatto che nessuno la aiuti in questa eccentrica impresa, Lucy afferma che le persone perfette debbano organizzarsi da sole, lasciando intendere implicitamente che non esistano altre persone all’altezza delle loro capacità.

Questa strategia le permette di immunizzare il senso di solitudine, lo stesso che possono provare le persone molto centrate su di sé e che faticano a creare delle relazioni sane e costruttive.

 

 

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PEANUTS, ALLEATI NELLA VITA E NELLA PSICOTERAPIA_- ARCHIVIO RUBRICA

Una nuova strategia contro le lesioni spinali: una tecnica multi-sito e a bassa frequenza per stimolare i neuroni

Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) – COMUNICATO STAMPA

Pazienti, medici e ricercatori guardano con grande speranza all’ elettrostimolazione epidurale, una metodologia medica che potrebbe alleviare la condizione delle persone affette da paralisi da lesione spinale. La tecnica è ancora relativamente rudimentale ma grazie alla ricerca è in continuo miglioramento.  

Un gruppo di scienziati  (anche della SISSA), che ha pubblicato una ricerca sulla rivista di riferimento in questo settore, Spinal Cord (del gruppo Nature), propone un nuovo approccio metodologico, basato sulla distribuzione della stimolazione e la modulazione della frequenza degli impulsi elettrici, che ha dato buoni risultati nei test in vitro. L’elettrostimolazione epidurale è una metodologia medica che già da qualche anno viene   utilizzata per aiutare i pazienti colpiti da paralisi a seguito di una lesione spinale. Consiste nell’impianto di elettrodi in prossimità delle radici dei nervi dorsali  (che portano il segnale “sensoriale” in entrata) del  midollo spinale al di sotto del livello del trauma e nell’applicazione di stimoli elettrici di varia intensità e frequenza.

Questa tecnica, che produce o facilita la produzione di pattern di attivazione nei nervi motori (ventrali,  in uscita) ha mostrato risultati promettenti e gli scienziati sperano che un giorno possa aiutare le persone paralizzate per esempio a stare in piedi in equilibrio e muovere qualche passo, oltre che a ripristinare il controllo degli sfinteri e la funzione sessuale. C’è ancora molta strada prima di raggiungere questo scopo, e per questo la comunità scientifica sta moltiplicando gli sforzi per migliorare questa metodologia.

 

[blockquote style=”1″]Finora la maggior parte della ricerca si è concentrata sui materiali e sulla tecnologia dei dispositivi. Il nostro lavoro invece si focalizza sulla natura e la qualità del segnale elettrico che viene erogato dagli elettrodi[/blockquote] spiega Giuliano Taccola, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste che ha coordinato lo studio.

[blockquote style=”1″]La domanda che tutti si pongono è la stessa: come fare per ottenere risposte locomotorie efficaci? Crediamo che in questo senso sia importante modulare meglio il segnale elettrico e individuare precisamente in quali punti debba venire applicato. Le tecniche attuali consistono nell’applicare un segnale ad alta frequenza in maniera generalizzata. In questo modo si ottiene una stimolazione ‘cumulativa’ e piuttosto indifferenziata di un gruppo di fibre nervose. Noi abbiamo invece adottato un approccio “multi-­‐sito”: la stimolazione elettrica viene applicata in diversi punti del circuito[/blockquote] spiega  lo  scienziato.

In  questo studio Taccola e colleghi hanno lavorato con dei circuiti neuronali spinali preparati in vitro.  Questo ha permesso di controllare in maniera molto fine i siti di stimolazione, oltre che registrare le risposte del network con grande precisione.    

[blockquote style=”1″]L’altra novità introdotta nel nostro studio è l’uso di stimolazione a bassa frequenza. La combinazione di questi due fattori (frequenza del segnale e siti multipli) ha prodotto pattern di risposta locomotoria molto efficienti. Con questo lavoro abbiamo definito una nuova strategia di stimolazione del midollo spinale per l’attivazione dei neuroni motori che potrebbe essere importata anche in molti degli attuali elettrostimolatori utilizzati in clinica. [/blockquote]

Il primo autore dello studio, svolto in collaborazione con il laboratorio SPINAL presso l’Istituto di Medicina Fisica e Riabilitazione (IMFR) dell’Ospedale Gervasutta di Udine (dove sono stati raccolti i dati sperimentali)  e dell’Università Cattolica di Lovanio in Belgio, è Francesco Dose, un giovane dottorando della  SISSA.

Articolo  originale  su  Spinal  Cord

Immagini: Nervi  spinali, crediti  immagine:  GreenFlames09; Grafici  esperimento:  DOWNLOAD.

 

Contatti Ufficio  stampa: [email protected]  

Tel:  (+39)  040  3787644  |  (+39)  366-­‐3677586    

via Bonomea, 265, 34136 Trieste    

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

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