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L’effetto negativo della deprivazione di sonno sull’equilibrio metabolico e sul ritmo circadiano

Un recente studio si è posto l’obiettivo di verificare gli effetti che la deprivazione di sonno di un’intera notte ha sull’equilibrio metabolico dei soggetti.

Diverse ricerche condotte su soggetti umani, così come studi su modelli animali, hanno cercato, nelle sessioni sperimentali, di simulare le turnazioni di lavoro che molte aziende predispongono per i lavoratori per verificare se esse hanno degli effetti sul fisico e se questi effetti siano positivi o negativi; ciò che emerge dai risultati è che gli orari di lavoro imposti dai turni possono causare una riduzione nell’impiego di energie, la compromissione della disponibilità generale di glucosio e una maggiore assunzione di cibo, condizioni che nel tempo possono risultare in uno scompenso metabolico ed in un acquisto di peso non indifferente.

Tuttavia se le conseguenze di una breve mancanza di sonno sull’omeostasi dell’organismo e sull’espressione dei geni clock implicati nella regolazione dei ritmi circadiani e nei processi metabolici dei tessuti periferici sono note, poco si sa circa quelle di un’intera notte di veglia; tale è la tematica su cui la presente ricerca ha tentato di far luce e ciò rende lo studio particolarmente interessante dato che oggi almeno il 15% della forza lavoro è impiegata in occupazioni che implicano turnazioni di lavoro con la maggior parte dell’attività che si svolge durante la notte.

Per questi motivi lo studio si è posto l’obiettivo di verificare gli effetti che la deprivazione di sonno di un’intera notte ha sull’equilibrio metabolico dei soggetti; a questo scopo sono stati considerati 15 uomini sani che hanno partecipato a due diverse condizioni sperimentali intervallate da quattro settimane, la prima prevedeva che i soggetti dormissero per tutta la notte, la seconda al contrario li costringeva ad una veglia forzata. La mattina seguente le due sessioni sperimentali veniva misurato il livello di cortisolo e venivano eseguite delle biopsie del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo sottocutaneo per l’analisi della metilazione del DNA e dell’espressione dei geni clock.

I risultati hanno mostrato che un’acuta deprivazione di sonno riduce la trascrizione dei geni clock, provocando un rimodellamento epigenetico degli stessi e quindi delle conseguenze metaboliche deleterie come l’alterazione della tolleranza al glucosio; in particolare la perdita di sonno per una notte intera causa un’ipermetilazione del DNA dei geni clock, effetto che è stato riscontrato nel caso del tessuto adiposo ma non in quello del muscolo scheletrico.

I risultati della ricerca, nonostante i limiti che hanno caratterizzato la procedura dell’esperimento come ad esempio il fatto che le luci sono state tenute accese solo durante la condizione di veglia, mettono in evidenza le conseguenze negative che le alterazioni del sonno hanno sull’equilibrio omeostatico e sul ritmo circadiano e quindi il rischio maggiore di disfunzioni metaboliche che è riscontrabile tra le persone a cui sono richieste turnazioni di lavoro.

 

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Fattori di mantenimento interpersonali nei disturbi del comportamento alimentare: il ruolo della famiglia

 

Nel corso della mia esperienza clinica con le persone affette dai disturbi del comportamento alimentare, ho sviluppato la convinzione sempre più marcata della necessità di coinvolgere il sistema familiare. Tale coinvolgimento sembra potenziare il buon esito dell’intervento terapeutico, migliorando la qualità della vita sia per chi soffre che per tutti gli altri membri della famiglia e il mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti (Treasure e coll., 2007).

Il disturbo del comportamento alimentare, per la complessità che lo caratterizza, la difficoltà del trattamento e la delicatezza degli aspetti personali, relazionali e sociali che coinvolge, necessita di un intervento in équipe multidisciplinare che possa coinvolgere in modo significativo le figure di riferimento oltre che il portatore del sintomo. Così facendo sarà possibile creare una rete di sostegno attorno alla persona in difficoltà e tra le figure che la prendono in carico.

Spesso sono gli stessi familiari che mi contattano per avere informazioni, conoscere, capire cosa sia un disturbo del comportamento alimentare tanto familiare per chi se ne occupa, oscuro e sconcertante per chi, non addetto ai lavori, si trova d’improvviso a farlo entrare nel proprio mondo.
Spiego che il loro ruolo è fondamentale, poiché la persona (spesso adolescente o giovane adulta) e il disagio che riporta, richiedono necessariamente una messa in gioco e un adattamento del sistema familiare in cui vivono.

Inoltre, la famiglia presenta una duplice potenzialità: se coinvolta e valorizzata può diventare o ritornare ad essere una risorsa estremamente preziosa, se lasciata ai margini può contribuire al mantenimento del disturbo in quanto molto spesso ciò che si fa per tentare di ridurre i sintomi produce l’effetto contrario (Treasure e coll., 2008). I sintomi dei disturbi del comportamento alimentare possono avere delle profonde implicazioni sociali ed emotive per le figure di accudimento. I sintomi variano per forma ed impatto, spaventano e sono frustranti ed intrusivi. Ogni parvenza di “normalità” scompare.

Janet Treasure e coll. (2008), in un interessante articolo, propongono una lista di caratteristiche e/o di reazioni presenti nei caregiver e in chi circonda la persona con disturbo del comportamento alimentare che possono contribuire al mantenimento del problema e che, quindi, vanno tenute in debita considerazione nell’intervento terapeutico.

– Rigidità e preoccupazione per i dettagli. Interferiscono nella possibilità di creare nuove forme di comportamento. Non consentono l’apertura ad una visione d’insieme, ma rinforzano l’attenzione su aspetti specifici, tipici della patologia.

– Emozionalità espressa: criticismo, ostilità ed eccessivo protezionismo. Non consentono alla persona di sviluppare in autonomia le proprie capacità e propensioni e di affrontare le sfide della vita. Un buon esito della terapia è connesso all’attivazione di un percorso terapeutico familiare parallelo a quello della persona con disturbo del comportamento alimentare.

Colpa, vergogna e stigma. Possono contribuire alla chiusura e all’isolamento sociale sia della famiglia che della persona ammalata, impedendo il confronto con modalità comportamentali e relazionali più funzionali. Tali atteggiamenti rendono difficile il potersi confrontare e parlare apertamente del problema.

– Mancata comprensione del disturbo del comportamento alimentare. Contribuisce ad appesantire il clima e a complicare le relazioni interpersonali conducendo all’utilizzo di strategie di gestione spesso improprie.

– Comportamento accomodante nei confronti della malattia. Spesso per paura di peggiorare la relazione, di accrescere l’ostilità ed evitare conseguenze peggiori, i familiari consentono alle regole del disturbo del comportamento alimentare di prendere il sopravvento regolamentando la quotidianità. Questo è forse uno dei fattori di mantenimento più potenti in quanto consente alla patologia di predominare e prosperare.

Accudire una persona cara con un disturbo alimentare è un compito difficile.
Secondo il modello di intervento proposto da Treasure e coll. (2008) lo scopo del coinvolgimento delle figure di riferimento è quello di renderli “allenatori” in grado di incoraggiare e supportare la persona, aiutandola a liberarsi dalle trappole in cui è imprigionata. I familiari della persona malata entrano, quindi, a pieno titolo nel percorso terapeutico. In questo modo sarà possibile costruire la continuità e la coerenza dell’intervento, necessari per un sostegno efficace.

L’intervento è volto a fornire strategie per poter migliorare le loro personali reazioni alla malattia e fronteggiare le difficoltà in modo funzionale, evitando di raggiungere livelli di stress troppo elevati.

Viene fornito un modello di comprensione e analisi del disturbo del comportamento alimentare, con particolare attenzione alla presenza e al ruolo dei fattori di mantenimento sopracitati. La presenza di “controllo” ed “emotività espressa” e le possibili combinazioni di queste due variabili, forniscono importanti informazioni circa gli stili di accudimento, che secondo gli autori rivestono un ruolo fondamentale.

Vengono presentati due stili di accudimento funzionali cui aspirare, adottando analogie dal regno animale per renderli più comprensibili ed applicabili (Treasure e coll., 2007):
– Il “delfino” presenta la giusta quantità di accadimento e controllo. È in grado di sospingere dolcemente verso la “salvezza”, a volte nuotando davanti e mostrando la strada, altre volte nuotando a fianco ed incoraggiando, oppure nuotando tranquillamente dietro.
– Il San Bernardo presenta la giusta quantità di compassione e coerenza. È calmo e padrone di sé, anche nelle situazioni più pericolose. Si dedica al benessere e alla sicurezza delle persone che si perdono. Una risposta di accudimento ottimale corrisponde ad un atteggiamento di calma, calore e compassione. Diventare modelli di calma e compassione aiuterà chi soffre a prendersi maggiormente cura di se stesso come importante passo verso il cambiamento.

Si lavora, inoltre, sulle rigidità e sui comportamenti estremi, sulla comprensione del “trasferimento” agli altri membri della famiglia di una elevata emotività espressa, in modo tale che ognuno possa migliorare le proprie capacità di regolazione emotiva.
Si forniscono strumenti per una comunicazione aperta, chiara ed efficace che possa consentire ad ognuno di poter esprimere adeguatamente il proprio vissuto senza colpevolizzare, ma attraverso l’accoglienza dell’altro.
Infine, si cerca di attivare o creare attorno alla persona e alla famiglia una rete sociale supportiva in questo delicato e lungo percorso (Treasure e coll. 2008).

 

 

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Che ruolo ha l’empatia nell’attuazione di condotte etero-lesive?

Roberta Cattani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

L’empatia consiste nella capacità di assumere la prospettiva altrui e quindi di comprendere quelli che possono essere i sentimenti di una persona in una certa situazione, e nella capacità di risuonare emotivamente, immedesimandosi nello stato emotivo dell’altro e rispecchiandone interiormente le emozioni.

In letteratura esistono numerose evidenze del fatto che l’empatia non è un tratto stabile ma che può invece essere considerata come una risposta di stato volontaria.

La maggior parte della discussione clinica relativa al costrutto di empatia e soprattutto la maggioranza delle sue misurazioni sperimentali si sono infatti per lungo tempo occupate di indagarne le manifestazioni in base all’assunzione che la capacità empatica fosse una disposizione trasversale a tutte le situazioni emotivamente salienti, stabile nei confronti di tutte le persone e costante nel tempo. Cottrell (1942) fu il primo ad avanzare invece delle critiche a questo approccio, ritenendolo inadeguato e sostenendo la necessità di identificare un contesto situazionale di riferimento, le cui caratteristiche fossero l’elemento cruciale in base al quale definire il peso dei processi empatici e quindi l’eventuale possibilità di sospensione degli stessi in determinate situazioni.

L’importanza di una contestualizzazione dell’empatia è stata sostenuta anche da Hoffman (1982), sulla base dell’idea che se gli esseri umani non fossero in grado di inibire volontariamente le loro naturali risposte empatiche in determinati momenti, essi esperirebbero un eccessivo coinvolgimento nella maggior parte delle situazioni quotidiane. Da ciò si evincerebbe perciò, secondo l’autore, l’importanza per la specie umana di essere in grado di reprimere talune spinte empatiche nelle situazioni che lo richiedano, allo scopo di funzionare in modo più adattivo ed efficace nelle interazioni sociali.

Nell’esperienza quotidiana sarebbe infatti possibile trovare numerose tracce di momenti in cui un funzionamento adattivo ed efficiente richieda una minimizzazione del rispecchiamento empatico, come negli esempi offerti da attività di evasione quali romanzi o film, i quali basano un sano coinvolgimento nella loro trama tanto sulla capacità di identificazione del lettore e dello spettatore nelle vicende e nei sentimenti dei protagonisti, quanto sulla possibilità di relativizzare tale partecipazione empatica all’artificiosità degli avvenimenti proposti.

La ricerca recente, superando la precedente concezione dell’empatia come tratto stabile e non condizionato da elementi esterni, sta in effetti fornendo sempre maggiore supporto all’idea che si tratti piuttosto di una risposta di stato, conseguente alla volontaria scelta del soggetto di agire secondo scopi più o meno prosociali, sulla base di una varietà di fattori contestuali.

Studi effettuati su campioni di sexual offenders hanno infatti dimostrato con particolare evidenza il fatto che la mancanza di empatia non risulti necessariamente un deficit generale ed esteso nei confronti di tutte le persone, ma che possa piuttosto verificarsi in maniera selettiva nei riguardi di una precisa vittima o di un gruppo.

Marshall e colleghi (1995) hanno infatti riscontrato in aggressori sessuali e in molestatori infantili deficit di empatia specificatamente circoscritti nei confronti rispettivamente di donne e di giovani ragazzi. A conferma di questa ipotesi, Fernandez e colleghi (1999) hanno testato un gruppo di soggetti pedofili resisi rei di molestie a danno di giovani vittime, attraverso l’uso di vignette raffiguranti tre diversi tipi di situazioni stressanti, in cui venivano coinvolti dei bambini: nel primo caso, il bambino protagonista dell’immagine risultava sfigurato a seguito di un grave incidente stradale; nel secondo caso, un bambino subiva molestie sessuali da parte di un estraneo ed infine, in una terza vignetta, veniva rappresentata la vittima stessa del soggetto testato. Una volta mostrate ai partecipanti tali vignette, veniva loro chiesto di scegliere lungo un elenco le emozioni attribuite ai bambini protagonisti di ciascuna immagine. In un secondo momento veniva poi chiesto di indicare nello stesso modo anche le emozioni da loro provate a fronte di ciascuna immagine.

Dai risultati sono emersi livelli empatici nella norma ed analoghi a quelli del gruppo di controllo nei confronti dei bambini sfigurati in incidenti stradali e punteggi solo leggermente più bassi durante l’osservazione delle vignette raffiguranti una generica violenza sessuale su minori. Significativamente, invece, tali livelli di empatia risultavano azzerarsi quasi completamente nel caso in cui l’immagine avesse per protagonista la loro stessa vittima.

I dati di questo studio hanno così confermato la presenza, in un campione di molestatori infantili, di una normale capacità di empatia nei confronti di bambini in generale, ma della possibilità di una sua inibizione selettiva nei confronti delle proprie vittime, ovvero in casi in cui determinati stimoli possano far prevalere la motivazione a subordinare il benessere altrui al prioritario soddisfacimento di piacere personale.

Anche Fernandez e Marshall (2003) hanno individuato analoghe soppressioni di empatia vittima-specifiche in molestatori autori di violenza su donne adulte. Analogamente ai risultati della ricerca precedente, anche in questo studio sono emersi livelli di empatia significativamente più bassi nei confronti di donne in cui i soggetti potevano riconoscere le loro stesse vittime, rispetto ai più alti punteggi di empatia emersi invece nei confronti di donne vittime di altri accadimenti violenti.

In considerazione degli analoghi risultati ottenuti da diversi altri studi (Farr et al., 2004; Fisher, 1997; Fisher et al., 1999; Marshall et al., 1997; Webster and Beech, 2000; Whitaker et al., 2006), si può quindi ritenere che tali dati forniscano sostegno alle più recenti ipotesi che fanno ritenere l’empatia come una risposta di stato volontaria, nonché suggeriscano degli elementi di maggiore comprensione clinica di alcune forme di comportamento deviante e di aggressività strumentale, come l’esito di una deliberata scelta di sospensione della risposta empatica in modo vittima-specifico, ossia nei riguardi di una precisa persona o gruppo di individui identificati come bersaglio della propria violenza.

L’aggressività strumentale, tipica ad esempio degli individui psicopatici, si distingue infatti da quella reattiva per il fatto di dipendere meno da aspetti di disregolazione impulsiva e di essere invece maggiormente finalizzata al raggiungimento di scopi e vantaggi personali.

In relazione a questa strategia inibitoria, ricerche di Ward e colleghi (1997) e di Marshall e collaboratori (2001) hanno riscontrato in campioni di molestatori sessuali una significativa correlazione tra il verificarsi di tali sospensioni di empatia in modo vittima-specifico e l’utilizzo di particolari bias cognitivi: questi consistono in modalità distorte e disadattive di ragionamento e di interpretazione della realtà, che permettono di adattare le informazioni ai propri convincimenti in modo coerente ed utilitaristico, giustificando così comportamenti immorali passati e facilitandone il mantenimento in futuro (Marshall et al., 1999).

Tra i bias più comuni nell’ambito delle condotte antisociali figurano soprattutto la dislocazione della responsabilità, attraverso la quale viene operato un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto ad altre persone o alle circostanze, e la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale viene invece operata una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione mentale delle conseguenze positive o negative di un’azione. Tali processi di distorsione cognitiva del contesto e della vittima possono così agire sinergicamente nel determinare un transitorio allentamento delle capacità empatiche ed una loro temporanea sospensione.

Un tipo di meccanismi in base ai quali si ritiene che vengano attuate temporanee soppressioni di giudizio morale sarebbero quindi le distorsioni che agiscono a livello rappresentativo, andando transitoriamente ad inibire le capacità empatiche ed i sentimenti prosociali, momentaneamente messi al servizio di scopi devianti dalla norma, in situazioni in cui vengano meno le motivazioni a dare peso morale ai danni procurati all’altro.

A conferma del fatto che le difficoltà empatiche rilevate in tali casi possono essere la conseguenza di deliberate soppressioni di sentimenti prosociali, alcune ricerche hanno individuato anche nello spostamento del focus attentivo un altro meccanismo rilevante ai fini di agevolare l’attuazione e la perpetuazione di comportamenti immorali: si ritiene infatti che l’evitamento dello sguardo della vittima possa rappresentare un modo per minimizzare volontariamente la percezione della sofferenza procuratale ed allontanare così la possibilità che eventuali accessi empatici di senso di colpa o di rimorso possano avere la meglio e trattenere il soggetto dal portare a termine i propri progetti.

Una serie di ricerche ha dimostrato infatti che la capacità di riconoscere le emozioni altrui è in genere pesantemente influenzata dal focus dell’attenzione e che, nello specifico, l’incapacità di provare empatia per i segnali di disagio espressi dalle vittime si normalizza nel caso in cui tali manifestazioni rientrino nel loro campo attentivo.
In una ricerca di Glass e Newman (2006) condotta su individui psicopatici, non è infatti stata trovata alcuna difficoltà di processamento emotivo nella condizione sperimentale in cui ai partecipanti veniva chiesto di identificare, tra diverse espressioni facciali presentate, quella che rappresentava una certa emozione, ossia nella situazione in cui tale indicazione veniva fornita visivamente in forma di parola circa un secondo prima della presentazione delle espressioni facciali stesse, dando così la possibilità al soggetto sperimentale di prepararsi a rivolgere la propria attenzione su quegli specifici aspetti indicativi di un certo stato emozionale.

In uno studio di Dadds e collaboratori (2006) è stato riscontrato tale fenomeno anche in bambini e in adolescenti con tendenze psicopatiche: è stato osservato che la loro capacità di riconoscimento delle espressioni facciali soprattutto di paura si normalizzava nel momento in cui venivano invitati a guardare specificamente gli occhi delle persone coinvolte nello studio come stimolo sperimentale.

Sostegno a quest’ipotesi proviene anche da un altro studio di Richell e colleghi (2003), nel quale è emerso che la capacità di attribuire stati mentali nel test di lettura degli occhi non appare in genere alterata negli psicopatici e che, quando si rintraccia invece una difficoltà di questo tipo, questa sembrerebbe dipendere proprio dal focus dell’attenzione e dunque, plausibilmente, sarebbe funzione dello stato mentale attivo nella mente del soggetto.

Questi dati dimostrano allora che la minore empatizzazione nei confronti delle vittime, da parte di chi commette azioni devianti o agisce aggressività strumentale, potrebbe dunque essere considerata come la conseguenza di un proattivo dislocamento dell’attenzione dagli elementi che abbiano rilevanza emotiva, tra i quali in particolare lo sguardo della vittima.

Queste ricerche suggeriscono dunque che la capacità di alcuni soggetti di agire in modo gravemente antisociale e lesivo del benessere altrui possa essere spiegabile come parte di una strategia tesa ad inibire l’attivazione di sentimenti prosociali e a poter mantenere un atteggiamento freddo, distaccato ed aggressivo nei confronti dell’altro, senza essere in ciò disturbati da risonanze empatiche che potrebbero sorgere se l’attenzione dovesse soffermarsi sullo sguardo della vittima.

In conclusione, in base ai dati della ricerca emersi, la perpetrazione della violenza e di alcune forme di aggressività sembra essere sostenuta da soppressioni transitorie della sintonizzazione emotiva in modo vittima-specifico, attraverso un insieme di strategie cognitive ed attentive, volte a favorire tale distanziamento empatico.

 

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Un nuovo approccio potrebbe rivoluzionare il trattamento della depressione

Vanessa Smiedth

 

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università del Maryland ha individuato promettenti composti che potrebbero trattare con successo la depressione in meno di 24 ore, riducendo al minimo gli effetti collaterali.

Attualmente, la maggior parte delle persone affette da depressione assumono farmaci che aumentano i livelli neurochimici di serotonina nel cervello. I più comuni di questi farmaci, come il Prozac e Lexapro, sono inibitori della ricaptazione della serotonina o SSRI. Purtroppo, gli SSRI sono efficaci solo in un terzo dei pazienti con depressione. Inoltre, anche quando questi farmaci funzionano, in genere impiegano da tre a otto settimane per alleviare i sintomi. Di conseguenza, i pazienti spesso soffrono per mesi prima di trovare una medicina che li fa sentire meglio. Questo non è solo emotivamente straziante; nel caso di pazienti che vogliono suicidarsi, può essere mortale. Sono chiaramente necessari migliori trattamenti per la depressione.

Un nuovo studio condotto da ricercatori dell’Università del Maryland ha individuato promettenti composti che potrebbero trattare con successo la depressione in meno di 24 ore, riducendo al minimo gli effetti collaterali.

Anche se non sono ancora stati testati nelle persone, i composti potrebbero offrire vantaggi significativi rispetto agli attuali farmaci antidepressivi. La ricerca, guidata da Scott Thompson, professore e presidente del Dipartimento di Fisiologia presso l’Università di Medicina del Maryland è stato pubblicato questo mese sulla rivista Neuropsychopharmacology.

Thompson e il suo team si sono concentrati su un altro neurotrasmettitore rispetto alla serotonina, un composto inibitorio chiamato GABA. L’attività cerebrale è determinata da un equilibrio di comunicazione eccitatoria e inibitoria tra le cellule cerebrali.

I ricercatori sostengono che nella depressione, i messaggi eccitatori in alcune regioni del cervello non siano abbastanza forti. Poichè non esiste un modo sicuro per rafforzare direttamente la comunicazione di tipo eccitatorio, è stata esaminata una classe di composti che riducono i messaggi inviati tramite inibitori GABA. Si prevede che questi composti, chiamati GABA-NAM, possano ridare forza eccitatoria e minimizzare gli effetti collaterali indesiderati perché sono precise: funzionano solo nelle parti del cervello che sono essenziali per l’umore.

I GABA-NAM sono stati testati in ratti sottoposti ad un lieve stress cronico che ha provocato negli animali agiti simili a quelli della depressione umana. Dare a topi stressati questi composti ha subito funzionato su un sintomo chiave della depressione: l’anedonia o incapacità di provare piacere.

Sorprendentemente, gli effetti benefici dei composti sono apparsi entro 24 ore, molto più rapidamente rispetto alle molteplici settimane necessarie per gli SSRI per produrre gli stessi effetti. Nei test effettuati con i ratti, i ricercatori hanno scoperto che i composti aumentano rapidamente la forza della comunicazione eccitatoria nelle regioni che sono state indebolite dallo stress e si pensa che esse siano indebolite anche nella depressione umana.

[blockquote style=”1″]Questi composti hanno prodotto effetti più drammatici nello studio sugli animali di quello che avremmo potuto sperare. Ora sarà tremendamente eccitante scoprire se essi producono effetti simili nei pazienti depressi. Se questi composti sono in grado di fornire rapidamente sollievo ai sintomi della depressione umana, come il pensiero suicida, potrebbero rivoluzionare il modo in cui i pazienti vengono trattati[/blockquote] ha detto il dottor Thompson.

 

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Essere genitori di bambini con autismo: gli effetti positivi del caregiving paterno sulla salute delle madri

Daniela Sonzogni

 

I padri che assumono un ruolo attivo nelle attività di caregiving con i bambini affetti da autismo promuovono un sano sviluppo dei loro figli. Una nuova ricerca, però, suggerisce che incrementano anche la salute mentale delle madri.

Le madri dei bambini con autismo hanno riportato un minor numero di sintomi depressivi a lungo termine (analizzati quando i loro bambini hanno raggiunto i 4 anni d’età) se il padre si è mostrato coinvolto, fin dai primi mesi di vita del bambino, in attività di alfabetizzazione, in attività assistenziali e in attività che calmano il bambino sconvolto.

Daniel J. Laxman, autore della ricerca, ha condotto lo studio analizzando 3550 bambini, di cui 50 con sindrome di autismo, 650 con altre disabilità. Sono state raccolte informazioni sul benessere delle madri e il coinvolgimento dei padri in diverse attività genitoriali come alfabetizzazione, gioco e caregiving quotidiano come fare il bagno.

Un maggiore coinvolgimento dei padri nella cura dei loro bambini affetti da autismo può essere particolarmente importante come dimostra una ricerca precedente che evidenzia come le madri di questi bambini spesso sperimentano livelli più elevati di stress, depressione e ansia rispetto alle altre madri.

I padri che leggono ai loro figli o rispondono quando il bambino piange, può dare tregua alle mamme, permettendo loro di svolgere altri compiti o impegnarsi in attività di autocura che aumentano il loro umore e riducono lo stress.

Uno dei criteri principali dell’autismo è la difficoltà di comunicazione e questo può spiegare perché le madri di questi bambini siano più soggette a stress e depressione.

Può essere molto frustrante per i genitori quando i bambini lottano con la comunicazione, fatto che risulta sconvolgente anche per i bambini stessi.

I padri che leggono, raccontano storie o cantano canzoni ai loro bambini, favoriscono lo sviluppo della loro capacità di comunicazione e per l’apprendimento di parole. Migliorano le capacità comunicative dei bambini e nello stesso tempo, il coinvolgimento dei padri in queste attività, allevia le preoccupazioni e lo stress della madre legate a questi problemi.

Nei sistemi familiari che includono i bambini con autismo, i fattori di stress sono enormi e le madri hanno bisogno di molto sostegno, sia che derivi dal padre del bambino, sia dai social network o dalle risorse online. Le madri hanno continuamente bisogno di sostegno aggiuntivo per essere in grado di continuare a funzionare in modo efficace.

Il campione di studio è stato limitato alle famiglie in cui entrambi i genitori biologici risiedevano con il bambino nei primi quattro anni per garantire la presenza del padre che potrebbe influenzare i sintomi depressivi della madre.

Alcune ricerche precedenti hanno suggerito che il conflitto tra madri e padri aumenta quando gli uomini sono più coinvolti nella cura del bambino. È importante quindi che i genitori discutano di come stanno funzionando nella gestione della disciplina o nelle attività quotidiane quali vestire o nutrire il bambino.

 

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Mindfulness per viaggiare in aereo, il programma di British Airways

 

BRITISH AIRWAYS LANCIA IL PROGRAMMA MINDFULNESS FOR TRAVEL

Che lo si faccia per piacere o per necessità, l’idea di prendere un aereo per tratte più o meno lunghe non è un pensiero che lascia tutti tranquilli. La compagnia British Airways, per rispondere alle esigenze dei suoi passeggeri, ha proposto il programma “mindfulness for travel”.

Negli ultimi anni è diventato di uso frequente in ambito psicologico l’utilizzo di questa parola. Ma che cos’è la mindfulness? Jon Kabat-Zinn, lo studioso che negli anni ’70 ha dato vita all’utilizzo clinico di tale pratica, la definisce come “la consapevolezza che emerge prestando attenzione intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante al presentarsi dell’esperienza momento per momento” (Kabat-Zinn, 2004).

È possibile sviluppare o migliorare questa capacità attraverso la meditazione di consapevolezza che deriva dal buddhismo theravada. Kabaz-Zinn sostiene che la capacità di essere consapevoli sia presente in ciascuno di noi. Quello che occorre fare è allenarsi a coltivare l’attenzione nel qui ed ora.

Capita a tutti noi abitualmente di sprecare tanta energia reagendo in modo automatico agli eventi esterni e a ciò che accade dentro di noi (pensieri, emozioni, sensazioni). Per la maggior parte del tempo la nostra attenzione è rivolta al passato o al futuro piuttosto che al presente, il vero momento in cui la vita si realizza.

Osservandoci, attraverso la pratica, possiamo scoprire che funzioniamo spesso con il “pilota automatico”, meccanicamente, senza renderci conto di ciò che stiamo effettivamente facendo o vivendo.

Possiamo rappresentare la consapevolezza come una lente in grado di concentrare e canalizzare le energie disperse e reattive della nostra mente in un’unica sorgente di energia che può aiutarci a gestire in modo adeguato le situazioni e ad apportare cambiamenti nella nostra vita in una direzione di maggior benessere.

Questa energia ha origine dentro di noi e quindi è potenzialmente sempre disponibile. La sfida è quella di provare a vivere ogni momento della nostra vita, anche quelli di maggior difficoltà, come unico, importante e con cui poter lavorare. Si può imparare ad affrontare la vita in un modo che conduca ad uno stato di armonia interiore, utilizzando la forza di una difficoltà per attraversarla, proprio come un navigatore utilizza la forza del vento per orientare la sua vela.

Meditazione è osservare deliberatamente il nostro corpo e la nostra mente, lasciando che le nostre esperienze scorrano liberamente momento dopo momento e accogliendole nel modo in cui esse si presentano, che ci piaccia oppure no. Meditazione non significa rifiutare, bloccare o reprimere ciò che si presenta, ma lasciar essere, non controllare nulla eccetto la direzione della nostra attenzione.

Quando si comincia a prestare attenzione in modo consapevole il rapporto con le cose cambia. Consente di vedere di più e più in profondità. È come un risveglio dalle abitudini nelle quali eravamo assorbiti poiché il presente è il solo momento di cui disponiamo.

Secondo tale prospettiva, la gestione e la riduzione di stati di tensione, ansia, preoccupazione che possono manifestarsi in chi deve prendere un aereo, sono strettamente connessi alla capacità di affrontarli nel momento in cui essi si presentano, accogliendoli nella propria esperienza senza bisogno di dover reagire o lasciarsi vincere da essi.

Ma in cosa consiste esattamente il programma sviluppato dalla compagnia di bandiera britannica? Grazie alla collaborazione con Mark Coleman, fondatore dell’Institute mindfulness della California, sono stati sviluppati tre brevi video che permettono al viaggiatore di affrontare il volo con maggiore serenità avvalendosi di tecniche meditative. Per aiutare tutti i viaggiatori che hanno paura di volare British Airways organizza anche dei corsi, chiamati Flying with Confidence, grazie ai quali si impara a gestire la paura di volare attraverso una sessione teorica e pratica con l’aiuto di esperti piloti e psicologi.

Il programma si divide in tre fasi, per ogni momento cruciale del viaggio: prima dell’imbarco, in volo e prima dell’atterraggio.

 

VIDEO 1 – Mindfulness prima della partenza

Anche solo raggiungere l’aeroporto può rappresentare una sfida. Dopo aver effettuato il check-in e aver raggiunto il gate, guardare il frenetico movimento attorno a noi e ascoltare il frastuono possono incrementare lo stato di tensione. Coleman suggerisce di prendersi 5 minuti per praticare un esercizio di centramento e radicamento:

Assumete una posizione confortevole, che vi faccia sentire a vostro agio. Chiudete gli occhi oppure fissate lo sguardo e portate la vostra attenzione al respiro. Portate l’attenzione dentro di voi, portate l’attenzione al respiro. Il respiro è un ottimo supporto nella mindfulness poiché vi aggancia al momento presente. Iniziate facendo delle lunghe inspirazioni ed espirazioni, notate le qualità energizzanti dell’inspirazione e quelle rilassanti dell’espirazione.

Rivolgete l’attenzione dentro di voi e prendete lunghi respiri. Immaginate che tutto ciò che vi accade intorno sia come il cielo. Tutto ciò che si presenta attorno a voi in questo momento e nella vostra mente è come nuvole di passaggio nel cielo e potete stare fermi e ben saldi mentre ciò accade, sentendovi a proprio agio, senza reagire. Se vi accorgete che la vostra mente viene catturata da qualcosa nel passato o nel futuro, riportatela gentilmente al momento presente, al vostro corpo seduto sulla sedia, al vostro respiro che va e viene, ai rumori, a ciò che si muove intorno a voi. Se vi sentite agitati o preoccupati per ciò che potrà accadere, riportate l’attenzione al momento presente, al vostro radicamento e a ciò che sta accadendo attorno a voi, conversazioni, bambini che giocano, ecc. e immaginate che tutto questo sia come l’andare e venire delle nuvole nel cielo e voi siete presenti e fermi come il cielo o come un albero in un giorno ventoso. Lasciate che lambisca le vostre estremità mentre rimanete saldi con i vostri piedi, con le vostre gambe. Quando questo passaggio di nuvole si è diradato potete riportare l’attenzione al presente, notando il senso di radicamento. Potete praticare questo esercizio ogni volta che avete bisogno di sentirvi più stabili e centrati.

 

VIDEO 2 – Mindfulness in volo

https://www.youtube.com/watch?v=zJs2EF5M5W8

Una volta raggiunta la quota o dopo un pasto, prendetevi un po’ di tempo per sviluppare un senso di tranquillità e confort per vivere al meglio la vostra esperienza di viaggio.

Prendetevi un momento per sentirvi a vostro agio nella posizione, magari reclinate leggermente lo schienale e allentate le cinture di sicurezza, tutto ciò che può farvi sentire a vostro agio. Trovate stabilità nel corpo e riflettete questa stabilità nella mente. Chiudete gli occhi o fissate lo sguardo e portate lo sguardo e l’attenzione dentro di voi. Prendetevi un momento per notare cosa significa essere seduti, in volo, in questo momento, come si sente il vostro corpo, come si sente la vostra mente. Ci sono alcune cose che possono apportare un senso di rilassatezza. Una di queste è portare l’attenzione nel momento presente, lasciando andare i pensieri e le preoccupazioni per il futuro. Notate se ci sono tensioni in qualche parte del vostro corpo, rilassate ogni muscolo. Quando sentite il corpo rilassato portate l’attenzione al vostro respiro e notate le caratteristiche del vostro respiro. Potete notare le sensazioni dell’inspirazione e dell’espirazioni. Fate alcuni profondi respiri e notatene le caratteristiche. Inspirare apporta un senso di energia e vigore, espirare un senso di rilassatezza e lasciate andare, fate alcuni respiri per fare questo. Mentre prestate attenzione al respiro, spostate l’attenzione dalla vostra idea di respiro all’esperienza che state vivendo, alle sensazioni dell’aria che entra, alla cassa toracica che si espande, alle spalle, ecc. state presenti nel corpo e nel momento presente. Senza cercare di controllare o manipolare il respiro, lasciatelo respirare da sé e siate presenti all’andare e venire del ritmo del respiro. Mentre siete seduti a bordo potete notare tante altre cose, le persone parlare, i passaggi dell’equipaggio, una lieve turbolenza, ecc.

  La pratica di mindfulness consiste nell’essere presenti alla propria esperienza nel momento senza reagire, senza giudicare, senza bisogno di volerla diversa, semplicemente notando queste cose come si presentano e ritornando alla presenza del respiro. Lasciate che sia il vostro rifugio, luogo dove sperimentare un senso di calma e centratura. Potete notare la vostra mente impegnata, pianificante, persa nei pensieri, tornate alla presenza del respiro e alla comodità del vostro corpo sul sedile.

È normale che la vostra mente divaghi più volte nel corso dello stesso esercizio, riportatela al respiro e notate la vostra stabilità tra un’espirazione e l’inspirazione successiva. Possono presentarsi anche emozioni e sensazioni, se succedesse, semplicemente osservatelo, non c’è bisogno di fare nulla e ritornate con l’attenzione al vostro respiro, l’ancora per la vostra attenzione. Una cosa che può interrompere uno stato di benessere e pace è la reattività alle cose. Notate se avete delle reazioni, a cosa succede attorno a voi e cercate una qualità di accettazione di accoglienza rispetto a ciò che sta accadendo, tornando ancora e ancora alla semplicità del momento presente. Prendetevi un momento per notare cosa sentite nel corpo e nella mente e cosa ha prodotto il prestare attenzione al momento presente.

VIDEO 3 – Preparazione all’arrivo

Qualunque sia la vostra destinazione, utilizzate questa pratica per vivere qualsiasi cosa vi aspetti con chiarezza e consapevolezza.

In preparazione all’arrivo, prendetevi un momento per notare cosa sta accadendo dentro di voi. La mindfulness è una forma di autoconsapevolezza che ci informa sul nostro stato e possiamo usare queste informazioni per essere più preparati a ciò che accadrà. Notate come vi sentite alla fine di questo viaggio. La mindfulness informa la nostra esperienza, chiarisce cosa sta succedendo. Notate come sta il vostro corpo. Notate come sta la vostra mente.

Forse avrete una conferenza, prendetevi un momento per notare l’eccitazione o la preoccupazione. Queste informazioni possono essere utilizzate per prepararsi a ciò che accadrà. Prendetevi un momento per riflettere sulle vostre motivazioni, aspettative, obiettivi, preparandovi mentalmente ad essere più presenti e pronti mentre vi avvicinate a quell’esperienza. Alcuni andranno a trovare parenti o torneranno a casa. Prendetevi un momento per riflettere su ciò che troverete o pensando a chi si è preso cura della vostra casa mentre eravate e via e lasciate spazio ad un senso di apprezzamento.

Forse andrete in vacanza e potreste sentirvi eccitati alle varie esperienze che vorrete fare. Prendetevi un momento per vivere questo senso di possibilità, di desiderio. Prendetevi un momento per immaginare i vari passaggi che vi condurranno alla vostra destinazione, la discesa dall’aereo, i controlli di sicurezza, ecc. notate se potete essere presenti con il corpo e con la mente ovunque voi siate con un’attenzione aperta e accogliente. Prendetevi un momento per tornare consapevoli dei vostri pensieri, lasciando le anticipazioni e tornando presenti al vostro respiro, alle vostre emozioni e abbracciando l’esperienza.

Il respiro può aiutarvi a sentirvi radicati in ogni passaggio che dovete affrontare.

 

VEDI ANCHE:  AEROFOBIAMINDFULNESS

BIBLIOGRAFIA

  • Kabat-Zinn, J. (2004). Vivere momento per momento. Sconfiggere lo stress, il dolore, l’ansia e la malattia con la saggezza di corpo e mente. Milano: TEA

Come nasce la terapia metacognitiva: intervista ad Adrian Wells

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) è una forma di psicoterapia di recente sviluppo che ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici.

L’approccio MCT è basato su una teoria introdotta da Adrian Wells e Gerald Matthews (1994) ed è stato applicato inizialmente al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000). In seguito la Terapia Metacognitiva è stata estesa a tutti i disturbi d’ansia e alla depressione con numerose evidenze sull’efficacia del trattamento che propone (per una sintesi vedi Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

Nel video il creatore della Terapia Metacognitiva, Prof. Adrian Wells, descrive come gli studi originali sul modello teorico alla base della MCT siano nati con l’intento di colmare l’incoerenza tra scienze cognitive e psicoterapia cognitiva nel descrivere come i meccanismi che compongono l’archittettura cognitiva interagissero nei disturbi psicologici.

https://www.youtube.com/watch?v=qyAqJGBqAVM

CONSIGLIATI: Terapia Metacognitiva MCT

Né lavoratore né pensionato: i problemi psicologici degli esodati

Gli esodati si sono sentiti improvvisamente mancare la terra sotto i piedi, quella terra fatta di una certa stabilità economica e sociale che avrebbe garantito loro una vecchiaia più serena.

Il termine Esodato è stato uno dei termini più utilizzati durante questo periodo di crisi economica. Esodato è colui che ha interrotto il proprio rapporto di lavoro, spesso accettando pacchetti o incentivi economici volti a tutelarlo fino al raggiungimento della pensione. E’ colui che avrebbe dovuto maturare i requisiti per andare in pensione nel 2012, con possibilità di pensionamento a partire dal 2013 dunque, ma che, a seguito della Riforma Fornero e dell’innalzamento dell’età pensionabile, ha visto drasticamente allungarsi l’attesa per raggiungerla. Spesso l’esodato, persona ormai adulta, ha a carico famiglie, figli non ancora autonomi, genitori malati o mutui.

Evidente è dunque il duro colpo economico che gli esodati hanno subito, ma cosa dire dei risvolti psicologici?

 In un periodo di transizione quale il passaggio dal sentirsi lavoratore al sentirsi pensionato, l’individuo rimette nuovamente in gioco se stesso e i suoi progetti, pian piano comincia a prepararsi alla sua nuova identità sociale; organizza mentalmente le attività da fare, con i risparmi di una vita di lavoro, quando sarà finalmente libero dagli impegni professionali, e forse fantastica già su quello sfizio che si sarebbe tolto una volta in pensione.

Gli esodati, invece, si sono sentiti improvvisamente mancare la terra sotto i piedi, quella terra fatta di una certa stabilità economica e sociale che avrebbe garantito loro una vecchiaia più serena. I soldi dunque mancano, le responsabilità familiari si accavallano e non si è più in grado di ridefinirsi socialmente, non si ha più un ruolo. Anche il duro colpo psicologico si fa ora più chiaro.

Nell’ambito del suo lavoro di tesi, il giovane psicologo Lorenzo Aragione, ha studiato gli effetti della riforma Fornero sulla salute psico-fisica degli esodati.

Nell’articolo consigliato, nel quale è riportata un’intervista al Dott. Aragione, si può leggere a fondo come è stata organizzata e come si è svolta la ricerca e gli importanti risultati emersi. Alcuni tra tanti? Gli esodati hanno mostrato una significativa presenza, maggiore rispetto ai coetanei lavoratori, di ansia, insonnia, depressione e malattie cardiovascolari. Sorgono sfiducia, scoraggiamento e la sensazione di essere inutili e impotenti. Per la vergogna, soprattutto gli esodati di sesso maschile, non si confidano fino in fondo né con la famiglia né con i conoscenti, è così dunque che si isolano dagli altri.

Quali azioni si fanno per contrastare gli effetti psicologici di tale crisi? Quale effetto avrà quest’ultima sul Sistema Sanitario Nazionale dato che gli scompensi sul piano sia fisico che psicologico degli esodati richiederanno un elevato livello di assistenza sanitaria?

Per un interessante approfondimento sul tema vi consiglio di proseguire con la lettura dell’intervista.

Le testimonianze raccolte nel corso della ricerca sono emblematiche di migliaia di storie di donne ed uomini, fuoriusciti dal mercato del lavoro, per motivi diversi e nel rispetto delle regole vigenti fino al dicembre 2011, ma che, a seguito dei provvedimenti della riforma Fornero, sono approdati gioco-forza in una «terra di nessuno». Pur nella diversità dei singoli vissuti, le testimonianze raccolte in questo lavoro presentano aspetti comuni e ricorrenti.

Drammatici riscontri di una ricerca scientifica: per gli esodati una vita di ansia, depressione, malattieConsigliato dalla Redazione

Né lavoratore né pensionato: i problemi psicologici degli esodati
di Raffaele Marmo – Nell’ambito del suo lavoro di tesi, il giovane psicologo Lorenzo Aragione, ha studiato gli effetti della riforma Fornero sulla salute psico-fisica degli esodati. (…)

Tratto da: QuotidianoNet

 

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Una “spugna” per coltivare neuroni: l’evoluzione dei neuroni in vitro dal 2D al 3D

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Con una tecnica tanto innovativa quanto semplice un team di ricercatori italiani (SISSA di Trieste, Università degli Studi di Trieste e IIT di Genova) sono riusciti a ottenere una cultura in vitro di neuroni primari (e astrociti) genuinamente tridimensionale.

Il network di neuroni ha mostrato una funzionalità più complessa di quelle bidimensionali. La struttura creata è anche la prima a incorporare nanotubi di carbonio, che favoriscono la formazione di sinapsi fra i neuroni in cultura.

La ricerca è stata pubblicata su Scientific Reports. La conoscenza del cervello (come anche le tecnologie nel campo della neuro-­‐ingegneria) trae grandi benefici dalla possibilità di far crescere network di neuroni vivi e funzionanti. Attualmente le culture neuronali sono essenzialmente bidimensionali (si sviluppano su un piano, immaginate il classico “disco di Petri”) , ma come appare intuitivo la condizione più “naturale” per un neurone e per una rete di neuroni è quella di crescere e vivere in uno spazio tridimensionale.

Finora sono stati fatti dei tentativi di culture 3D che però sono sostanzialmente sovrapposizioni di tanti strati di culture 2D. La struttura creata da un team coordinato da Laura Ballerini della SISSA è la prima genuinamente tridimensionale, con neuroni e astrociti funzionanti (per “diverse settimane”). [blockquote style=”1″]Abbiamo usato uno ‘scheletro’ (in gergo tecnico scaffold) di materiale elastomerico, una sorta di spugna, sul quale abbiamo poi fatto crescere i neuroni.[/blockquote]

Ballerini e il suo team alla SISSA (Rossana Rauti e Denis Scaini) hanno lavorato in stretta collaborazione con il gruppo di Maurizio Prato dell’Università degli Studi di Trieste (in particolare Susanna Bosi, che condivide il primo nome come autrice della ricerca). Ballerini e Prato lavorano insieme da diversi anni proprio nello studio delle interfacce fra neuroni e nano-­‐materiali. Le registrazioni dell’attività dei neuroni – misurata in maniera indiretta attraverso imaging delle variazioni di calcio nel citoplasma di queste cellule, e non registrando direttamente l’attività elettrica con degli elettrodi, cosa complessa per questo tipo di struttura -­‐ hanno mostrato che i neuroni sviluppati sulla spugna 3D sono vivi e funzionanti. Ma non solo, la tecnica utilizzata ha permesso un confronto diretto fra la funzionalità della cultura tridimensionale e di un’analoga bidimensionale, mostrando che la prima è molto più complessa.

[blockquote style=”1″]La nostra tecnica è diversa da altri tentativi fatti finora, che si limitavano essenzialmente a impilare una sopra l’altra tante culture planari[/blockquote] spiega Rauti. [blockquote style=”1″]Questo approccio ‘a strati’ ha lo svantaggio di moltiplicare il numero di neuroni nella cultura, rendendo ambiguo un confronto diretto fra culture 3D e quelle tradizionali, che normalmente hanno un numero più esiguo di cellule. Con la nuova tecnica invece questo confronto si può fare, così abbiamo potuto osservare che la tridimensionalità migliora l’organizzazione funzionale (sinaptica) di piccoli raggruppamenti di neuroni[/blockquote] spiega Scaini.

Più in dettaglio… [blockquote style=”1″]La prova che la maggiore complessità funzionale è proprio conseguenza della struttura tridimensionale è arrivata da una serie di simulazioni al computer e studi teorici effettuati all’IIT di Genova, che hanno riprodotto fedelmente i nostri dati sperimentali[/blockquote] spiega Ballerini. Un altro elemento che rende unica la metodologia usata in questa ricerca è l’uso dei nanotubi di carbonio, materiale sul quale Ballerini e Prato lavorano da anni. [blockquote style=”1″]Abbiamo ricoperto le cavità dello scheletro di elastomero di nanotubi di carbonio che favoriscono la formazione di sinapsi fra neuroni in cultura, aumentando così ulteriormente la funzionalità delle cellule. Il vantaggio della nostra metodologia è l’estrema semplicità. Pensiamo che in futuro la nostra tecnica potrà venire adottata nei laboratori che effettuano questo tipo di culture, diventando magari uno standard[/blockquote] commenta infine Ballerini.

 

MATERIALE UTILE: • Una copia dell’articolo originale (Doi: 10.1038/srep09562) può essere richiesta dai giornalisti scrivendo a: [email protected]

IMAGES: • Copertina: Ricostruzione confocale di culture ippocampali su scheletro 3D (crediti: SISSA)

Altre immagini su Flickr

VIDEO: • Guarda l’animazione su Youtube

Contatti: Ufficio stampa: [email protected]

Tel: (+39) 040 3787644 | (+39) 366-­‐3677586

via Bonomea, 265 34136 Trieste

Maggiori informazioni sulla SISSA: www.sissa.it

 

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Cassazione: approvato il cambio di sesso all’anagrafe anche senza intervento chirurgico

Un passo in più per il rispetto dei diritti delle persone Trans: in data 20/07/2015 è stata deposta la Sentenza della Cassazione n° 15138/15 che consente il cambio di sesso all’anagrafe, anche senza intervento chirurgico.

 

Perché Fernanda è come una figlia e come una figlia vuol far l’amore, ma Fernandino resiste e vomita e si contorce dal dolore

F. De André

 

Non basta svegliarsi ogni mattina in un corpo che senti non ti appartenga; non basta lottare contro chi, per diversi motivi, si ferma alla superficie delle cose e se anche riesce a percepire un minimo di ciò che hai dentro, lo sfrutta non per vedere oltre, dentro di te, ma per etichettarti e intrappolarti in quella superficie di cui, forse, egli stesso è schiavo. Non basta camminare per la strada e, oltre a palazzi e alberi, avere la compagnia di sguardi indiscreti e battutine ormai sentite tante altre volte.

Questo non basta a chi vive nella condizione di non sentirsi a proprio agio con la sessualità che il corpo gli impone. Spesso bisogna fare i conti con la burocrazia e con la legge, anche quando, nonostante tutte le difficoltà, si è riusciti a raggiungere finalmente, seppur nel corpo ‘estraneo’, un equilibrio psico-fisico.

Di pochi giorni fa, tuttavia, la notizia: la Corte di Cassazione si è pronunciata favorevole al cambio di sesso all’anagrafe, anche senza intervento.

 Protagonista della vicenda è una persona trans di 45 anni che, più di 15 anni fa ha ottenuto l’autorizzazione all’intervento chirurgico di cambio sesso. Il protagonista vi ha però rinunciato poiché, vivendo come donna e sentendosi socialmente riconosciuta in quanto tale, ha raggiunto negli anni un equilibrio psichico e fisico. Tuttavia la legge aveva fino a questo momento respinto la richiesta di modificazione degli atti anagrafici senza previa esecuzione del trattamento chirurgico di cambio sesso.

In data 20/07/2015 è stata però deposta la Sentenza della Cassazione n° 15138/15 che, come sopra anticipato, consente il cambio sesso anagrafico senza l’ intervento chirurgico, prima invece necessario, definendo le precedenti decisioni giuridiche «restrittive dei diritti fondamentali della persona, quali l’identità personale, l’autodeterminazione, l’integrità psicofisica e il benessere psicosociale; è smentita da quanto normalmente avviene … per le persone per le quali è impossibile ricorrere all’intervento chirurgico». La Corte dunque afferma che il giudice di merito ha sbagliato nel ritenere che la mancanza del trattamento chirurgico fosse una sufficiente ragione per ritenere irreversibile il cambiamento dei dati anagrafici.

Si spera, adesso, che tale sentenza sia un primo passo per accogliere e rispettare i diritti delle persone trans, partendo dalla semplificazione burocratica, così come accade in molti altri Paesi.

E’ stata deposita ieri la sentenza n° 15138/15 della prima sezione della Corte di Cassazione in cui si accoglie il ricorso dell’associazione Rete Lenford sul caso di un uomo che voleva diventare donna e aveva richiesto, in un primo momento, l’autorizzazione al trattamento medico chirurgico per la modifica dei caratteri sessuali, allo scopo di ottenere la rettifica dei dati anagrafici. La Cassazione ha deciso che per ottenere la rettificazione degli atti anagrafici non è obbligatorio l’intervento di adeguamento degli organi riproduttivi.

Cassazione: si al cambio di sesso all’anagrafe anche senza interventoConsigliato dalla Redazione

Cassazione: approvato il cambio di sesso all’anagrafe anche senza intervento chirurgico - Immagine: 83204962

L’€™interpretazione restrittiva del giudice che impone l’€™intervento rischia di comprimere diritti fondamentali quali l‒autodeterminazione, l’€™integrità psicofisica e il benessere psicosociale. (…)

 

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Correndo con le forbici in mano – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 03

RUBRICA I CONSIGLI PER L’ESTATE DI LIBRI E FILM – Correndo con le forbici in mano (Nr. 03)

REGIA: Ryan Murphy
ANNO DI USCITA: 2006
TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: relazioni familiari complesse, psicanalisi, disturbi affettivi

TRAMA:
Il film “Correndo con le forbici in mano” di Ryan Murphy è uscito nelle sale cinematografiche nel 2006 ed è tratto dall’omonimo libro di Augusten Burroughs, nel quale l’autore racconta le esilaranti quanto tragiche esperienze della sua infanzia. Il protagonista, Augusten, vive i primi anni della sua giovinezza ai margini della vita familiare, con un padre alcolista e una madre bipolare con tratti istrionici di personalità. Augusten si barcamena assecondando le vane ispirazioni artistiche della madre e cercando di attenuare le frustrazioni del padre, fino alla decisione del divorzio. La madre, consapevole di non essere in grado di badare alle cure del figlio, sceglie di darlo in affidamento al suo storico ed eccentrico psicanalista.

Da questo momento in poi il film è un susseguirsi di situazioni tragiche e insieme esilaranti al limite della realtà. Il dottor Finch, psicanalista eclettico con poteri da alchimista, vive con la sua famiglia allargata in una vecchia casa d’epoca, colma di caos e disturbi psicopatologici. Ha tre figli, due femmine e un maschio, quest’ultimo francamente psicotico ma che il dottore si ostina a curare come un complesso edipico irrisolto.
Sebbene la parte comica sia divertente e surreale, è un film che lascia un retrogusto di tristezza, laddove l’animo esuberante del padre trascura i bisogni affettivi dei figli e della moglie, gravemente depressa quanto ignorata da tutta la famiglia, che passa le giornate davanti alla tv mangiando croccantini per cani. Ma sarà proprio grazie a lei che Augusten troverà il coraggio di costruirsi un’esistenza alternativa, lontana dalle complesse dinamiche familiari.

Un film tragicomico raccontato con humour nero, che estremizza in modo provocatorio gli stereotipi del mondo psicanalitico. Il regista riesce con raffinata abilità a prendersi gioco dei trattamenti psicologici “naif”, che dimenticano i principi deontologici e ottengono come effetto l’esasperazione del sintomo.

TRAILER:

 

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L’alfabeto elettrico del cervello: temporarizzazione e frequenza sono alla base dell’informazione nervosa

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati  

L’alfabeto del cervello è un mix di frequenza ed esatta scansione temporale degli impulsi elettrici: l’osservazione è stata fatta dai ricercatori della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) a Rovereto ed è stata pubblicata sulla rivista internazionale Current Biology.

Il lavoro mostra che nel sistema nervoso esiste un linguaggio “multicanale” che costituisce il “codice nervoso”, e cioè l’alfabeto che codifica l’informazione nel cervello. Il segnale nervoso è costituito da sequenze di impulsi elettrici che viaggiano sui canali di comunicazione, i circuiti neuronali.

Con quale alfabeto queste sequenze trasmettono informazione? In altre parole, in cosa consiste il linguaggio del cervello? Secondo un nuovo studio pubblicato su Current Biology, l’informazione è contenuta sia nella frequenza degli impulsi sia nella loro esatta distribuzione temporale, chiamata temporizzazione dagli scienziati. Per distinguere un messaggio da un altro, la frequenza degli impulsi (potenziali elettrici) varia in un arco temporale piuttosto lungo, di decine di millisecondi.

Questa “codifica a frequenza” è nota da molti anni. La novità di questo studio sta nella dimostrazione di un’altra codifica “a temporizzazione” sulla scala di pochi millisecondi. Al contrario di quanto si credeva finora, la ricerca dimostra, inoltre, che la temporizzazione può avere un’importanza anche superiore alla frequenza, ed entrambe si integrano a formare un messaggio più ricco di informazione. Lo studio è stato coordinato da Mathew Diamond, professore della SISSA a Trieste, e da Stefano Panzeri, ricercatore team leader del Centro di Neuroscienze e Sistemi Cognitivi dell’IIT a Rovereto.

[blockquote style=”1″] L’esistenza di due sistemi di codifica, basati su frequenza e temporizzazione, crea canali multipli sulla stessa linea di trasmissione[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]Se prendiamo per esempio la sensazione tattile, il cervello utilizza questi canali multipli per comunicare aspetti dello stimolo -­‐ intensità del tocco, grana della superficie, forma dell’oggetto e via dicendo -­‐ che non potrebbero essere comunicati con un singolo mezzo di informazione[/blockquote] specifica Panzeri. [blockquote style=”1″]Abbiamo dimostrato che, al contrario di quanto si sosteneva finora, l’esatta sequenza temporale con cui vengono prodotti gli impulsi elettrici codifica informazione che è molto importante e integra e supera, nel caso dei nostri esperimenti, quella veicolata dalla frequenza[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]La temporizzazione degli impulsi offre per esempio un’informazione molto più ricca poiché il numero possibile di messaggi è più vasto di quello offerto dalla sola frequenza. Grazie a questa scoperta sappiamo meglio come imitare il linguaggio del cervello, e quindi riprodurlo. Possiamo, infatti, pensare di sviluppare protesi robotiche, come arti per amputati, in grado di comunicare con il cervello in modo bidirezionale e complesso, così da permettere non solo un ripristino delle capacità motorie, ma anche dei sensi, come per esempio il tatto[/blockquote] conclude Panzeri.

Più nel dettaglio… Negli esperimenti condotti durante questa ricerca dei ratti ispezionavano con le vibrisse una superficie di rugosità variabile. La discriminazione della texture della superficie generava un’attività nervosa della corteccia cerebrale, che i ricercatori hanno registrato e analizzato. Lo studio ha mostrato non solo che l’informazione veicolata dalla temporizzazione era maggiore di quella veicolata dalla frequenza da sola, ma anche che la combinazione dei due canali era più accurata dei due codici presi separatamente.

[blockquote style=”1″]Abbiamo scoperto che il cervello codifica parte dell’informazione a scale di tempo molto veloci, in particolare in sequenze di impulsi emessi con precisione al di sotto di 5 millisecondi [/blockquote]conclude Panzeri. [blockquote style=”1″]Un’altra parte di informazione invece è codificata su scale di tempo più lente, gli impulsi trasmettono un messaggio in tempi di diverse decine di millisecondi. Il messaggio è uno solo, naturalmente, solo che viene letto con due ‘grane’ diverse, un po’ come se il cervello guardasse prima a occhi nudi e poi attraverso una lente d’ingrandimento. I nostri dati dicono che l’informazione sulla struttura temporale dettagliata degli impulsi non deve essere sottovalutata, e che il sistema nervoso riesce a comunicare aprendo diversi canali in un unico segnale. È probabilmente questo uno dei segreti alla base della ricchezza delle nostre percezioni[/blockquote] commenta Diamond.

 

IMMAGINI: • Crediti: Allan Ajifo

LINK UTILI: • Paper Originale su Current Biology

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Approccio clinico e realtà aziendale: quale possibile relazione?

Dott.ssa Anna Angelillo, in collaborazione con la Dott. ssa Alessandra L’Abbate e la Dott.ssa Giulia Tirelli

Sono molti gli studi (Flamholtz, 2001; Kotter & Heskett, 1992; Sisodia, Wolfe & Sheth, 2007) che hanno mostrato quanto la cultura di un’organizzazione possa influenzare la performance aziendale e consentire il raggiungimento di alti livelli di produttività, soddisfazione e di benessere aziendale e di coloro che ne fanno parte.

Secondo Schein (1985; 2000), la cultura organizzativa è la fonte principale dell’identità dell’organizzazione e la sua osservazione consente di identificare modalità di funzionamento relazionale e operativo di coloro che ne fanno parte. Essa può essere intesa come un sistema di cognizioni socialmente acquisite e condivise, che forniscono agli attori schemi mentali e strutture di significato utilizzabili per percepire e interpretare la propria esperienza e valutare e dirigere le proprie azioni (Gagliardi & Monaci, 1997; Manuti & Mininni, 2008).

La cultura aziendale riguarda, quindi, anche le relazioni umane: i suoi assunti si sviluppano intorno al modo in cui le persone di un’organizzazione si relazionano tra di loro, attraverso le proprie personali motivazioni e sulla base di valori personali e aziendali condivisi. In tal senso, gli effetti di un intervento sulle dinamiche relazionali e sull’assetto valoriale delle persone in un contesto aziendale si estenderanno naturalmente in altri contesti di vita.

Sulla base di queste riflessioni è stato realizzato un progetto volto a ridefinire l’assetto valoriale, riposizionare l’organico e le sue specificità e a valorizzare il potenziale di una realtà aziendale giovane e creativa, utilizzando un approccio clinico e mettendo a punto una metodologia di esplorazione e intervento, ispirata a teorie e pratiche di matrice cognitivista.

Il lavoro è stato articolato in due fasi: una prima fase osservativa durante un team building ed un secondo momento di valutazione tramite un questionario self report costruito ad hoc e colloqui individuali. Lo strumento principe è stato una griglia di osservazione, riadattata dal modello presentato da Cianitto e Mossi, presentato al XVII Congresso nazionale SITCC 2014, e ispirata alla teoria dei sistemi motivazionali (SMI; Liotti, 2005). Tale strumento è stato utilizzato sia durante la prima fase osservativa, che durante il momento di valutazione successivo.

Il team building ha permesso di rilevare l’assetto motivazionale di ciascuna risorsa attraverso l’osservazione delle dinamiche relazionali messe in gioco; durante la fase successiva, è stata utilizzata una griglia di rilettura dei colloqui effettuati individualmente, con una particolare attenzione all’assetto valoriale presentato da ciascuna risorsa in relazione all’azienda.

I cardini del costruttivismo (Bara, 2005; Guidano, 1988) – l’assetto relazionale, la complessità, la condivisione e la co-costruzione di significati – hanno accompagnato la fase ultima di restituzione. L’assetto di condivisione dei risultati all’interno dell’organico ha dato modo di vedere con occhi nuovi le aree critiche che rendevano opaca la propria realtà lavorativa e di sperimentarsi nella ricerca condivisa di nuove strategie di gestione, co-costruendo lo spazio per una riflessione autentica sulla complessità caratterizzante anche il contesto organizzativo.

L’incontro tra cognitivismo clinico e realtà aziendale ha permesso di esplorare le aree di significato delle risorse e i loro modi personali e originali di essere e stare nelle relazioni personali e professionali. Proprio in quanto somma di individui per definizione complessi, la realtà aziendale diventa essa stessa complessità.

Al suo interno, l’approccio clinico permette una maggiore attenzione alla persona e facilita l’acquisizione di consapevolezza che diventa punto di partenza per costruire nuove modalità di essere individui e professionisti più produttivi e più sani.

POSTER: SMI NELLA REALTA’ AZIENDALE

 

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Mindfulness in azienda: verso la progettazione di interventi efficaci

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bara, B., G. (2005). Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Bollati Boringhieri: Torino.
  • Cianitto E., Mossi M., (2014). “Questa azienda è una giungla.” Simposio presentato in occasione del XVII Congresso nazionale SITCC 2014.
  • Flamholtz, E. (2001). Corporate culture and the bottom line. European Management Journal, 19(3), 268–275.  DOWNLOAD
  • Gagliardi, P., & Monaci, M. (1997). La cultura. Utet: Torino.
  • Guidano, V.F. (1988). La complessità del sé, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Kotter, J., & Heskett, J. (1992). Corporate culture and performance. The Free Press: New York.
  • Liotti, G. (2005). La dimensione interpersonale della coscienza. Carocci Editore: Roma.
  • Manuti, A., & Mininni, G. (2008), (a cura di). Il senso dell’organizzazione. Lo sguardo della psicologia culturale. Carocci: Roma.
  • Schein, E., H. (1985). Organizational culture and leadership. Jossey Bass Publishers: San Francisco.  DOWNLOAD
  • Schein, E., H. (2000). Cultura d’impresa. Cortina Editore: Milano.
  • Sisodia, R., Wolfe, D., & Sheth, J. (2007). Firms of Endearment. FT Press: USA.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario

Resoconto del I Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

di Giampaolo Salvatore
con
Anna Maria Barbarulo, Valeria De Liso, Elisa Langone, Nicoletta Manfredi, Raffaella Marciano, Antonella Pallotta, Mariagrazia Proto, Anna Sateriale, Marianna Serio, Laura Vitagliano

 

Aveva una struttura mentale particolare,
non attribuiva molta importanza alla
propria persona: non era, ai suoi occhi,
quella creatura rara e insostituibile che
ogni uomo vede quando pensa a se stesso.

Irène Némirovsky

 

I PARTE

Il rendez vous

Spacco il secondo. Di solito sono vittima della mia urgenza di essere puntuale. Ha qualcosa a che vedere col timore di essere rimproverato. Stavolta ci si mette anche una certa tensione. Ho chiaro in testa cosa vorrei realizzare con questo primo esperimento, ma non so assolutamente se sarò capace di realizzarlo. Però immagino, un po’ infantilmente, che il punto di partenza per iniziare a realizzarlo sia rispettare il programma. La tabella di marcia del primo seminario intensivo sulla disciplina interiore del terapeuta. Che tra l’altro non suona mica male.

Dieci giovani psicoterapeute. Appuntamento alle otto del mattino. Arrivano cariche di aspettative, impazienza, curiosità e speranza. Qualcuna di loro arriva lottando contro una specie di attrito col suolo. L’inerzia frenante dell’incognita. Che fa stridere un po’ l’asfalto ma non intacca la voglia di essere lì. Nella mente di tutte il viaggio è iniziato parecchio prima della partenza:

AM: Vari interrogativi affollano la mia mente “ma la disciplina interiore del terapeuta implica autocontrollo?”… “e lo può ottenere qualsiasi persona con qualsiasi temperamento di base??”… “riuscirò a far tacere e a ridimensionare le mie emozioni vivaci e incalzanti??”…. “qual’è la giusta misura tra il sentirsi intensi sul piano emotivo e l’autocontrollo?”…quale sarà la giusta via di mezzo e come si fa a mantenerla stabile come fa lui? Un giorno l’ho paragonato a Spock, il vulcaniano di Star Trek, e da allora questo soprannome gli è rimasto. Nelle supervisioni individuali e di gruppo spesso lo stesso suggerimento “metti tra parentesi te stessa” altrimenti perdi di vista il paziente; COME SE FOSSE FACILE! E noi spesso in coro… “Spock ma come si fa praticamente?” Ed ecco il seminario esperenziale. Ha deciso di farci vedere praticamente il suo percorso, di farci vedere come lui ha imparato a mettersi tra parentesi, ad osservare la sua mente e il suo corpo senza giudicarsi severamente e a regolare le emozioni e le azioni improduttive! Potrò trasformare il mio bisogno di “verità assoluta” in una “verità pragmatica” e smettere di intellettualizzare. Due giorni intensivi in un’oasi del WWF: dormiremo insieme, mangeremo insieme ….che atmosfera da GRANDE FRATELLO! Mi sento già una delle protagoniste di una nuova serie televisiva “l’ISOLA DEI TERAPEUTI”. Come si comporta un gruppo di psicoterapeuti messi insieme per due giorni a disciplinarsi? Come allenano questa difficile funzione della mente per poi aiutare al meglio i loro clienti?

 

R: Sabato mattina ore 7.30, la partenza tanto attesa. Direzione Senerchia! Molti sono i pensieri, le aspettative “Chissà se riuscirò a dimostrare che sono brava nel mio lavoro… chissà cosa penseranno di me…. Chissà…” Arriviamo a destinazione, con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia. Tanti sono i nuovi sorrisi… l’imbarazzo cresce e la paura di essere giudicata resta, però la voglia di apprendere è tanta!

 

AN: Non volevo partecipare al Seminario! E probabilmente non lo avrei fatto se non mi fossi sentita costretta dagli eventi … eh già, perché questa è una costante per me …. i timori di fare brutta figura, di non essere all’altezza, di essere giudicata male, di sbagliare e di perdere quell’aura di perfezione a cui tenacemente sono stata aggrappata per anni, di non riuscire ad integrarmi eguagliano e spesso superano di gran lunga il desiderio di affrontare le situazioni che mi piacciono.

 

V: Sono in auto da sola, e penso, penso.. chissà cosa ci aspetta, chissà chi ci sarà, se riuscirò a lasciarmi andare come vorrei o sarò la solita evitante che prima di lasciar trasparire aspetti di sé ha bisogno di tempo tempo tempo.. Presentazioni, saluti, baci, quanta gente.. già mi sento piccola, e che cavolo!

 

E: Arrivano Giampaolo (G.) e le altre. Imbarazzo misto a sorpresa. Il momento dei saluti. Quanto odio quei baci, quelle mani. Non so mai come comportarmi. Mi sento sempre un’impedita. Come quando sono in fila da altre parti, tipo in chiesa, seguo la massa e copio i loro atteggiamenti.

 

Senerchia. Borgo medievale che, Wikipedia insegna, esiste dal IX secolo. Cultura contadina con la schiena deformata dalla lotta quotidiana contro la devastazione della dignità; l’ultima volta, dal terremoto dell’80. Senerchia nuova è stata ricostruita accanto a quella vecchia, la città fantasma in cui si avventura qualche gatto con problemi di appartenenza. Hanno deciso che le generazioni future avrebbero dovuto avere sempre a portata di sguardo le macerie, lo sgomento, per capire cosa significhi uscirne vivi.

Le cime del Boschetiello e del Croce. Le conosco bene. Le guardavo da bambino quando giocavamo al pallone nella piazza vecchia. I portieri hanno tempo per guardare le montagne. Ora lascio che quelle cime rivolgano uno sguardo di sfuggita, distratto, all’operosità un po’ da formiche che scandisce l’ambientamento del gruppo nella villa. La concitazione per stabilire prima possibile le condizioni minime di familiarità, e sottrarre più alimento possibile a quell’angoscia serale che molti di noi provano quando sono lontani da casa, in mezzo a parziali sconosciuti (come se poi gli sconosciuti potessero esserlo parzialmente).

Tinì, la proprietaria, si fa aspettare dieci minuti tondi (secondo me apposta, per mascherare a modo suo l’ansia prestazionale che prova). Si è sempre fatta chiamare Tinì (per i più anglofoni, Tiny o Tinj), ma in realtà si chiama Concetta. Un altro pezzo della mia connessione storica con Senerchia, oltre alla mia breve carriera di portiere. Mi ha visto crescere nonostante io abbia pochi anni meno di lei.

Siamo sempre noi che decidiamo chi ci vede crescere, per poi dire in sua presenza, a qualcuno da cui vogliamo farci conoscere un po’, “mi ha visto crescere” (Spesso qualcuno dice di noi a qualcun altro “l’ho visto crescere” e a noi dà fastidio perché non lo abbiamo deciso noi). Comunque, Tinì. I suoi cinquantun’anni non l’hanno privata di quella capacità che ha da quando ne aveva quindici: la simulazione autoironica della vezzosità. Efficacissima per mettere da subito a proprio agio le persone. Per disinnescare sul nascere qualsiasi predisposizione dell’altro (soprattutto, dell’altra) all’agonismo. Mi sfotto – e mi ci diverto – dicendo che siamo in ritardo di ventitré minuti e quattordici secondi sul programma.

 

L’introduzione

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 1

Ho quattro cose da trasmettere al gruppo prima di iniziare:

a) che la disciplina interna non è come il dialogo socratico, una tecnica che si può applicare quando serve; quando un paziente difficile lo rende necessario (che so, perché ci fa saltare i nervi, sentire incapaci, impotenti, privi di valore, non amabili, ecc.); al contrario, solo se è un assetto interno costantemente coltivato dal terapeuta attraverso un percorso personale funzionerà quando serve col paziente difficile;

b) che quello che cercheremo di fare insieme funzionerà solo se compiremo insieme una virata radicale dalla dimensione del giudizio su noi stessi e sugli altri a quella dell’accettazione equanime di sé e dell’altro e della condivisione; per cui da questo momento in poi sarà tutto concesso; qualsiasi manifestazione emotiva (piangere, ridere, andarsene, arrabbiarsi con me, arrabbiarsi e basta, fare la pipì in pubblico, ecc.);

c) che non sono lì per insegnare; insegnare implicherebbe, almeno idealmente, che chi insegna fosse giunto alla fine del percorso che si accinge a insegnare; piuttosto sono lì per mostrare la strada che io seguo quotidianamente per tentare di funzionare meglio con i pazienti; poi loro sceglieranno se fa al caso loro e se approfondire;

d) che seguire una strada del genere significa sapersi guardare continuamente allo specchio e ammettere con umiltà quando da quella strada ci si allontana, per poi, se possibile, riprenderla.

La via più diretta verso questo quadruplice scopo è essere il primo a mettersi in gioco:

 

 

R: Tavolo, lavagna improvvisata, introduzione teorica… e a un tratto, inaspettatamente avviene una condivisione importante, carica di emozioni forti e di aperture profonde, la sua forza è tale da sgretolare una parte del mio muro di pregiudizio. Inizio a stare a mio agio, anche se ancora avverto molta confusione dentro di me…

 

AM:Silenzio, attenzione condivisa su un caso clinico complesso di Spock: i suoi interventi sono chiari e mirati ma il paziente chiuso nella sua sfida a demolirlo non li coglie; lo conosco e so quanto è bravo a tollerare anche pazienti cosi ostili, ma questa volta la mia attenzione è rapita da un colpo di scena inatteso: cambia la prosodia della sua voce, non ha più il solito tono rassicurante e di apertura all’altro, alza il tono e il volume della voce in un confronto dialettico e critico…non sono abituata a vedere Spock arrabbiato…..per un momento mi disoriento….lo sta cacciando fuori dallo studio?…si lo ha cacciato, non lo vuole piu vedere! Respiro, sono stupita e commossa! Bravo Spock, mi sei piaciuto!…..la distanza emotiva che spesso avvertivo si riduce…lo sento più vicino, mi sento più in sintonia con lui! Subito dopo, mentre spiega e parla anche di se e della fase di vita in cui ha visto quel paziente, mi diventa molto chiaro cosa significa conoscere le proprie aree di vulnerabilità, gli stati contingenti del terapeuta, lo scenario interiore e l’agire le azioni improduttive! Tutto molto più chiaro! Osservo gli altri, mi rivedo nei loro sguardi, sento in maniera molto forte che siamo di nuovo accomunati dalla stessa emozione di stupore e affetto per lui! Si è strutturata la coesione del gruppo, anche se non ci conosciamo bene, abbiamo tutti noi qualcosa in comune con lui; è il nostro comune denominatore e ci riconosciamo in lui e tra noi. Questo rispecchiamento mi piace, mi perdo e mi ritrovo nello sguardo e nelle parole degli altri, è una bella sensazione, è come se nessuno dicesse qualcosa che sento “fuori posto”, avverto una strana libertà di espressione e di movimento.

 

AN: La premessa di G….”dobbiamo fare esercizio di sospensione del giudizio”! Il primo a mettersi in gioco è proprio lui quando ci fa ascoltare la registrazione di una seduta con un suo paziente durante la quale si mostra ben diverso dal terapeuta perfettamente disciplinato e imperturbabile che siamo abituate a conoscere. Lo stupore è generale. Non riesco immediatamente a sospendere il mio giudizio. Nella mia testa si affollano domande sul motivo per cui si sia arrabbiato tanto e sul perché non sia riuscito a controllarsi… A molte delle mie riflessioni danno voce i miei compagni e le motivazioni più profonde vengono espresse. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è il clima sereno con cui G. si sottopone al fuoco di domande. Sembrano essersi scambiati i ruoli, non so più chi è il supervisore e chi il supervisionato. Non vedo in lui la paura di mostrarsi inefficace, vulnerabile o infallibile come terapeuta e come persona (come accade spesso a me e a molte delle mie colleghe) e ciò mi rassicura perché mi offre un esempio di come essere “bravi” non sia sinonimo di essere “perfetti”. E poi lo sento davvero vicino, come noi….un amico che può capire come ci sentiamo quando sbagliamo e preda delle stesse violente onde emotive.

 

MG: “Osservare se stessi, spostandosi coscientemente dal giudizio alla condivisione”. Di supervisioni di gruppo ne ho fatte tante, ma per la prima volta sento dentro di me un clima interno favorevole per prendere le distanze dall’assetto giudicante. È il momento della famosa registrazione. È lui il primo a mettersi a nudo, mostrando anche la sua di vulnerabilità. Vedo lui e sento che nei giorni a venire potrò fare lo stesso e superare un mio limite…per un istante mi sento più serena, tranquilla in quel luogo.

 

N: Il passaggio dal giudizio all’accettazione. G. da subito ci mostra la sua vulnerabilità… una seduta audioregistrata in cui trova spazio la parte umana del terapeuta…sento il suo dolore. Mi risuona la mia voce interna “ti prego fermati!”… Accettare la sofferenza emotiva diventa l’unica per l’autodisciplina … forse per la prima volta nella mia vita ho sentito che la rabbia è davvero l’espressione del dolore …

 

E: …la sua spiegazione sul valore di sé e sull’amabilità come dimensioni fondamentali che il terapeuta sente spesso messe in pericolo mi rispecchia appieno. Io lo vivo in modo costante da sempre. È il momento della sua registrazione. Che paura quando lui grida rivolto al paziente. Quando G. gli dice che il giorno prima era morta sua madre mi sento triste. Penso subito “anche G. ha perso sua madre come me”. Il mio pensiero va a lei, a quanto è difficile far finta che tutto vada bene, al male che in vita le ho procurato, al mio immenso senso di colpa…A un certo punto interviene Tiny. Penso “che c’entra questa donna con noi? Perché si intromette”. Poi mi fermo e dico attenta al giudizio, aspetta. In realtà questa donna fa delle uscite inaspettate, ma non è inopportuna, solo schietta, dice quello che vuole nel momento in cui lo sente. Che scoperta! Sarebbe bello parlare senza cercare di anticipare l’effetto che potrebbero fare le proprie parole sugli altri.

 

A: G. è il primo ad esporsi…non immaginavo una rabbia così intensa… Mi parte l’accudimento e penso a quanto sia stronzo il paziente….poi mi distacco dal giudizio sul paziente, d’altronde mette in atto il suo funzionamento, e vedo la sofferenza di G. e come quanto anche lui sia umano…come anche lui nei momenti difficili può sbagliare, ma resta pur sempre una “guida” ….per un attimo provo il mio dolore di qualche tempo fa e mi viene in mente il giorno in cui ero devastata e scelgo comunque di vedere pazienti….m’interrogo sul perché avessi scelto di vederli…sulla mia necessità a volte di far la “super donna”, quella che non si può far perturbare dal suo dolore, anche se le casca il mondo addosso, per non apparire fragile e debole, …che si corazza nel suo dolore ed esternamente appare fredda e distaccata…G. ha sbagliato, lo riconosce ed utilizza questo errore come materiale didattico….mi si apre un mondo….il clima di gruppo diviene sempre più vivo.

 

V: Non poteva esserci premessa migliore.. ora ho il permesso di essere così come sono (o almeno lo credo). Grazie. È quello di cui ho bisogno, sento un’energia che mi dà il permesso, un’energia proveniente da G. e da tutte loro. Penso che pur non conoscendoci abbiamo già tante cose in comune; il percorso di studi, gli anni di specializzazione, la scoperta graduale di noi stesse, i primi dubbi sulla professione, il bisogno di rivolgerci a una guida; e poi siamo qui, tutte a Senerchia, in questo luogo immerso nel verde, tutte con la voglia di scoprire cosa questo seminario ci regalerà; tutte attente, desiderose di imparare, capire, riuscire.

 

CONTINUA

TORNA ALL’INIZIO PARTE 2PARTE 3 – PARTE 4

II PARTE

Tai chi chuan

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 2

Ricordate la premessa (si veda I parte)? Non sono qui per dispensare soluzioni universali, ma solo per mostrare loro i miei metodi per affinare la disciplina interna; li indosseranno, valuteranno come li sentono addosso, e poi sceglieranno).

Ho sperimentato che per affinare la disciplina interna la mente deve essere aiutata a ricordare il potere che il corpo ha su di lei. Anzi, per dirla alla Damasio, il cervello deve essere aiutato a ricordare il potere che su di lui ha il resto del corpo. Quanto chi kung e tai chi siano potenti per questo processo l’ho già descritto in questa sede (si veda il post “Arti marziali e benessere psicologico; I e II parte”). Ho descritto anche come la scienza occidentale riporti risultati sperimentali sempre più stringenti sul loro potere terapeutico e preventivo.

 

Insegno loro le basi essenziali della respirazione taoista, o diaframmatica inversa. Faccio loro sperimentare cosa significhi pacificare la mente attraverso questa potentissima forma di respirazione; spostare la mente dalle sue stanze abituali, spesso stagnanti nell’odore di chiuso, all’addome, il punto da cui il respiro nasce, muore, rinasce; far scaturire dalle alterne, lente fasi del respiro, ogni movimento; essere in costante, impercettibile movimento anche quando apparentemente fermi, e fermi, centrati, radicati, anche nel movimento più rapido ed esplosivo.

Non pretendo che imparino in due giorni, ma che osservino, così che nella loro mente simulante si riattivi una connessione posseduta ma andata in disuso. Col tempo potrebbero comprendere che si può provare a essere centrati, fluidi, potenti, essenziali come nel tai chi anche al cospetto del paziente.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 4

AM: Aiuto, il corpoooo? Questo sconosciuto che spesso trascuro e ignoro! E’ il momento del TAI CHI che ci aiuterà a imparare la respirazione al meglio, strumento essenziale per gestire l’intensità degli stati emotivi! Tutti noi osserviamo Spock affascinati: esegue una serie di movimenti lenti e circolari che sembrano una danza silenziosa ma in realtà mimano la lotta con un opponente immaginario. I movimenti sono coordinati con la respirazione. Ci chiede di ripeterli con lui, è paziente e incoraggiante; é difficile, ma ci impegniamo al meglio, ogni tanto ci guardiamo divertiti e interrompiamo il movimento con chiassose risate…è rilassante non giudicarsi e guardarsi con benevola ironia.

 

N: è il momento del Tai chi… un cerchio disegnato dal gruppo nel verde… i movimenti di G., lenti ed estremamente coordinati… mi arrabbio come sempre con me stessa quando non ci riesco…poi la respirazione… La dolcezza del corpo in pace con la propria mente… è un’apertura tra il mondo e te stesso…. fra te e l’altro… non penso per una volta… mi piace…

 

R: Il corpo come mezzo per accarezzare la propria anima, il corpo come strumento per disciplinarsi. Ecco, movimenti strani, apparentemente non naturali… Tai Chi… boh! da subito l’ho vissuto come una cosa totalmente lontana da me, essere goffo, impacciata nei movimenti, non elastica…davanti ai miei occhi solo i miei limiti! E succede di nuovo, si crea un clima di condivisione ed accettazione… la pratica, l’esempio diretto mi guidano verso il modo giusto di vivere il mio corpo… per la prima volta mi sono esercitata insieme ai miei stessi limiti… e ad un tratto quelli che sembravano insormontabili sono spariti… non sarò Bruce Lee, ma nemmeno Gamba di Legno!

 

A: “Forse è meglio mi metta dietro”…. “Sono troppo alta, coprirò la visuale e tutti saranno concentrati sui miei movimenti goffi”….pian piano scopro questa nuova disciplina e penso riuscirò mai ad imparare qualcosa? In fondo ho visto da spettatrice diversi allenamenti di arti marziali, ma non mi sono mai reputata capace di eseguire quei movimenti…Comincio a muovermi, mi sento un po’ impacciata…mi lascio guidare dal respiro, ma gli arti sono del tutto privi di coordinazione…smetto di giudicarmi e continuo a provare…poi provo a lavorare con L. La vedo molto concentrata, la seguo…ma ad un certo punto non sono più attenta alla prestazione, ma al piacere di condividere l’esercizio con lei…

 

E: Mosse strane. Io non so fare niente. Di fianco ho MG., la vedo più brava di me. Glielo dico e lei mi confessa che in realtà non fa molta attività fisica. Qualcosa cambia. L’atmosfera muta. I movimenti sono strani per me e non li ho mai fatti. Non mi sento più giudicata. Anzi rido insieme agli altri per gli sforzi che facciamo tutti. Negli esercizi in coppia io sono con R. Quante risate… Sono imbranata, ma non mi pesa esserlo.

 

MG: Durante l’esecuzione vengo ipnotizzata dai movimenti precisi e calmi che un corpo umano è in grado di eseguire, trasmettono pace anche in chi semplicemente osserva. Mi impegno per quanto mi è possibile, di tanto in tanto mi distraggo, incrocio qualche sguardo e rido per poi ritornare concentrata.

 

M: L’armonia. I corpi leggeri ed armonici si muovono nello spazio. I corpi si muovono con il tai chi. I piedi, le gambe, le mani, il bacino, l’anca spostano delicatamente l’aria e generano energia. Non importa il saper fare, fai. Osservo il mio corpo, la fatica che ne deriva e i miei limiti. Siamo noi, siamo tra noi.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 3

 

Supervisione I

Emmanuele Carrère è uno scrittore francese che ci tiene molto a dichiarare sempre “da dove parla”, “da dove scrive”. E si tratta sempre di luoghi interni. Di fasi storiche del sé. I suoi romanzi si richiamano continuamente l’uno con l’altro, come per mantenere attivo un sottotesto autobiografico che prescinde dalla trama narrativa contingente. Il risultato è che se leggi tutti i suoi romanzi capisci che attraverso la scrittura questo autore ha cercato di capire chi è nonostante i suoi molteplici radicali cambiamenti nel tempo; e nonostante lui sia uno scrittore geniale e noi no, ti fa sentire nella stessa barca con lui rispetto alla frustrazione che può derivare da questa ricerca. In un paio dei suoi romanzi Carrere cita un sutra buddhista che fa capire essere stato importante per la sua maturazione:

“Chi crede di essere superiore, inferiore, o uguale a un altro essere umano, non capisce la realtà”.

Non so se qualcuno di loro abbia mai letto questa frase, ma mentre sediamo attorno al tavolo si comportano come se ne comprendessero il significato. Ci sentiamo indubbiamente ‘nella stessa barca’, liberata della zavorra del giudizio percepito, dalla credenza cancerosa (spesso non errata) che si insinua negli interstizi dei rapporti umani: ‘il mio errore, e l’infelicità che ne consegue, renderà sottilmente felice l’altro’:

 

AM: Propongo il mio caso; non è la prima volta che parlo di questo paziente, è un caso complesso che Spock mi ha spinto ad accettare: dice che impariamo a disciplinarci meglio accettando la sfida a risolvere i casi che ci spaventano. La psicosi l’avevo studiata bene dai libri ma gestirla nello spazio di terapia è tutt’altra cosa. Spock aveva ragione, alla fine mi sono molto legata a questo paziente che mi mette cosi a dura prova sull’efficacia terapeutica. Evidenzio un momento di stallo, in cui provo dispiacere rispetto ad una regressione del mio paziente e mi chiedo ‘perché non mi tiene presente nella sua mente quando si sente spaventato’…..e qui, all’improvviso, si introduce nella mia mente una scena di me piccola che si sente sola e non vista….cerco di reprimerla, ma ritorna..Spock mi aiuta ad esprimerla. Mi imbarazzo, ma questa volta cerco di abitare questa sensazione e di superarla. Lei entra, gli altri l’accolgono in maniera cordiale, io la osservo con benevola ironia, non sorrido per distanziare il dolore ma per accoglierlo senza drammi. Incrocio lo sguardo di An. e A., che mi guardano con tenerezza, e il loro sguardo mi incoraggia a non vergognarmi della mia parte vulnerabile. Cercherò di preoccuparmi meno di essere nella mente del mio paziente e di trovare un modo per farlo sentire meno compreso, cosi come sarò più benevola e comprensiva rispetto alla mia parte vulnerabile e alla mia storia. Le osserverò in maniera indulgente e la metterò tra parentesi! Poi tocca a M. Anche lei presenta una caso tosto e un momento terapeutico durissimo: il paziente in seduta non parla, lunghi silenzi in seduta, M. cerca argomenti condivisi, ma niente! Che angoscia, come la capisco! ….mi sembra che abbia gestito al meglio quel silenzio insopportabile ma Spock incalza anche con lei….e anche M. ci presenta la sua parte vulnerabile. Wow, due psicoterapeute dal temperamento diverso, due pazienti diversi, due momenti terapeutici diversi, ma lo stesso processo mentale. Tutto più chiaro Spock!….piano piano i miei quesiti cominciano a trovare la loro risposta.

 

M: Semplicemente mi sento parte del gruppo. Parlo del paziente ma in realtà parlo di me. Sento silenzio dentro e fuori di me, nessun giudizio. Non c’è spazio per il giudizio.

 

MG: Tutti intorno al tavolo, Am. inizia a descrivere il suo paziente. G. la porta al nucleo personale. Il desiderio di essere importante per il suo paziente; più in profondità, la paura di non essere importante per l’altro. Mi fa tenerezza perchè leggo il bisogno di affetto che è anche il mio.

 

E: Supervisione. Ascolto quella di Am. Mi ricordo del mio primo paziente, schizofrenico. Poi piano piano mi distacco da questo pensiero, mi concentro su Am. e sulla sua esigenza di essere vista. È molto simile alla mia, la sento vicina. È la volta di M. che con voce tremante esprime la sua difficoltà con il suo paziente. Quando racconta di sé e del suo imbarazzo vedo un pezzetto di me, di tutte le volte che mi sento diversa e mi piacerebbe fare parte del gruppo, la tristezza di essere l’ultima di tre figli che vive all’ombra del principe.

 

A: Ecco comincia il lavoro di supervisione… “Io chi porterò…boh….ascolterò gli altri, sicuramente non parleremo tutti”…è Am. lei a rompere il ghiaccio. …nella sua esposizione ci fa sorridere continuamente….mentre parla ci guarda, come a chiedere di essere sostenuta…la osservo con tenerezza….e mi rendo conto che anche lei ha le sue paure come me….la vedo nelle sue fragilità e la sento sempre più vicina …La parola passa poi a M.…delle volte mi vedo un po’ come lei…ho paura di espormi, di non dire la cosa giusta….poi G. ci chiede un feedback della giornata….ecco il mio turno… “Che dico ora? Quello che sento”…ma ad un certo punto mentre parlo mi trema la voce per il significato che quei contenuti hanno per me, sento un brivido nel corpo, lo riconosco, ma riesco comunque a dire quello che volevo.

 

AN: Il focus è centrato su di noi. La paura di dovermi esporre, di dover lasciare quel posto sicuro costituito dai miei silenzi e dal mio “saper ascoltare” per timore di essere giudicata, derisa o forse semplicemente perché é più semplice mantenere il proprio fragile equilibrio se a parlare sono gli altri. E invece, con mio stupore, mi ritrovo ad ascoltare pezzi della mia storia in ciascuna di loro: nella difficoltà di M. di integrarsi nel gruppo dei coetanei, che mi riporta a tutte le volte che è accaduto a me in passato, o forse ancora oggi, sebbene sia diventata molto brava a dissimulare; nel desiderio di Am di essere pensata dal suo paziente che, anche se per motivi diversi, fa parte del mio vissuto. Rivedo me stessa, le reazioni che ho con i pazienti e provo un sentimento di vergogna e senso di colpa perché spesso anch’io non mi sintonizzo con loro a causa delle reazioni emotive che mi suscita il contatto con i loro stessi sentimenti o atteggiamenti e che mi fa reagire “contro” di loro. Ma, d’altro canto, sono umana, così come le mie colleghe, e mi conforta il pensiero di condividere con loro molte ansie, preoccupazioni e temi di vita.

 

N: Discussione sui casi… il clima è aperto… Am. per prima, poi M. Esprimono le loro difficoltà con due pazienti difficili perché attivano in loro i propri bisogni preesistenti e all’improvviso dentro di me cambia tutto… non solo sento il loro bisogno ma per la prima volta rintraccio il mio … mi sposto sul loro piano provo a rappresentarmi cosa si sarebbe attivato in me con quei pazienti e capisco…mi viene alla mente una scena con una mia paziente… domani ne parlerò… le ringrazio senza di loro non ce l’avrei fatta…

 

Dormiamo pochissimo perchè a cena tiriamo fino a tardi. Tiní ha tenuto banco raccontando aneddoti su senerchiesi illustri, gli stessi che raccontava suo padre, “o’ prufessor'”, mio padre di riserva (anche se il titolare se la cavava benissimo). Ha anche raccontato di me da piccolo. La scalata interna dell’atleta per soppiantare il nerd. Sull’aneddoto della mia prima comunione contornato da quattro damigelle il gruppo tocca l’estasi:

 

AM: E’ sera, siamo tutti un po’ affaticati nel corpo e nella mente…mi piace questa sensazione di fatica…mi fa sentire il momento del pasto un ristoro meritato. Conversiamo in maniera sciolta e fluida e sembriamo tutti stupiti e divertiti dai racconti di Tinj sulla vita di Spock. Ci svela particolari anche intimi della sua giovinezza in maniera naturale e spontanea. Tinj comunica senza filtri, i suoi schemi di pensiero cosi liberi, si incastrano pienamente col tema della giornata. Sospendere il giudizio e lasciar fluire la mente. Osservo Spock e non mi sembra infastidito dai suoi racconti, sembra quasi divertito, avverto che sono uniti da un affetto storico molto solido.

V: Nottata di insight!

 

La domenica mattina, alle 6.30, vedo un gruppo di zombie riacquisire in mezz’ora qualità umane.

Dopo l’allenamento mattutino di tai chi e la colazione mi osservo pensare che il seminario sta andando benissimo. Molti sorrisi pieni. Mi vengono in mente frasi da animatore turistico, tipo ‘ehi ragazzi, sento un’energia positiva (tre punti esclamativi)’ , che però non dico, perchè mi hanno sempre fatto venire i nervi quando le ho sentite dagli animatori turistici che ho subìto nella vita.

Poco dopo succede una cosa. Ricevo una notizia tragica. Realizzo quanto quello che sta succedendo – una combinazione semplicissima: qualcosa va benissimo mentre qualcos’altro malissimo – sia una versione concentrata, iperbolica, quasi caricaturale, della realtà delle cose. Mi viene sbattuta in faccia l’applicazione pratica di uno dei contenuti più nucleari tra quelli che cerco di trasmettere in questo seminario: un successo significativo e il più tragico dei fallimenti sono la stessa cosa; entrambi non ci accadono, accadono e basta. Come se un testimone dicesse: ‘vuoi insegnare roba del genere, ma sai veramente di che parli?’. Andare fino in fondo è l’unico modo per capire se so veramente di che parlo.

CONTINUA

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III PARTE

La cascata

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 7

Il torrente Acquabianca alza sempre più la voce man mano che ci avviciniamo a quella spaccatura del monte che crea la cascata. Trenta metri di forza pura, inconsapevole di sé. Il gruppo mi segue in silenzio. Hanno paura della cascata. Di quello che immaginano proveranno. Ci sono passato. Freddo, paura, vergogna, panico. Hanno paura di quello che immaginano. Come quando sono davanti a un paziente difficile che li porta a immaginare di non valere o di essere non amabili. Penso di nuovo ‘siamo nella stessa barca’, anche in questo preciso momento. Anche io ho paura. L’unica differenza è che io ho paura che oggi la cascata non mi basterà. Poi osservo questa paura mentre cammino. Arriviamo. Conosco l’effetto che fa a chi la sa ascoltare e guardare. Il dono spiazzante, che non ti aspettavi:

 

E: Scene indimenticabili. Pietre enormi. Il rumore dell’acqua che scorre. Che pace. Tutto è grande. Mi sento piccola. Quello che vedo mi piace. Attraversiamo l’ultimo ponte. Ecco la cascata. Bisogna attraversare un tratto d’acqua breve, ma non è difficile come me lo immaginavo. G. ci mostra come fare. Ci dice di urlare e “tirare fuori tutto”. Lui va per primo e poi resta fermo lì. C’è per ciascuno di noi. Io mi metto dietro a V. Ci sosteniamo l’un l’altra. Sento un’energia dentro. È il mio turno, mi avvicino e mi immergo. Vedo la luce dell’arcobaleno. È bellissima. Urlo anche se è un urlo strozzato. Sento la mano di G. che m’invita a rimanere ancora lì. Resisto un po’. Mi volto e non sono sola. Lui c’è per aiutarmi e ci siete anche voi compagni di avventura. Riprovo di nuovo ad andare. Ora è diverso. Lo faccio per sentire ancora.

 

N: Zainetto in spalla siamo all’ingresso dell’oasi…gli scorci che si presentano ai miei occhi devo racchiuderli in fotografia. Resteranno per sempre con me…quelle rocce immense da cui respiro la brezza dell’aria pura e austera mi sostengono…la fermezza è nella mia mente. Finalmente la cascata tanto attesa. G. si avvicina alla cascata. La sua postura ferma con le braccia bloccate, la guarda con le spalle rivolte a noi. Lì capisco: ‘Cascata aiutami, svuotami’. Lui per primo ci insegna ad avvicinarci… l’urlo per anestetizzare il freddo, la calma per essere un tutt’uno con essa….lo seguo e mi sento forte, viva, libera… dopo di me uno dopo l’altro l’euforia di ognuno sostiene il prossimo, cresce la condivisione … fortissimo il mio abbraccio con Mg. L’esperienza che ci stringe …più unite di prima… io e Mg. riproviamo…questa volta senza paura.

 

MG: Ho le gambe doloranti, ma sono emozionata per la tanto attesa cascata… “se mi fa paura posso anche non farlo, anche questo sarebbe un atto di coraggio”. Cammino lungo la valle, dietro a quell’uomo che a volte vivo come schivo, ma che per me è un gigante buono. Sono un passo dietro di lui, nel silenzio, solo il rumore dei nostri passi e dello scorrere dell’acqua. Vedo lui cosa fa e nel suo urlo mi sento un po’ sollevata. Poi la mia mano viene stretta, sorretta, sostenuta, incoraggiata…io non saprei rifarlo un urlo come il suo, però sotto quella cascata ho urlato il mio dolore e mi sono sentita piacevolmente svuotata e poi compresa, accudita, amata da quella montagna. Infreddolita, ho cercato riparo per poi ritrovarmi in un emozionante abbraccio con N.

 

A: All’Oasi ci si para davanti uno scenario incantevole…osservo il paesaggio, respiro aria di tranquillità, mi sento rilassata…ogni angolo sembra una nuova scoperta…è imponente, decisa …solo ad osservarla diffonde energia…ci spogliamo per preparaci alla nostra esperienza…mi avvicino timorosa, sento freddo…ho paura di non riuscire…sono in fila…osservo il gruppo e l’urlo di ciascuno diventa un po’ il mio…solo quando giunge il mio turno mi accorgo di essere l’ultima…ma c’è già qualcuno pronto a farlo di nuovo…mi dico “dai forza” e vedo la mano di G. tesa verso di me…è proprio il mio turno…mi affido a quella mano e mi lascio andare…è un momento unico, meraviglioso …difficile da mettere in parole…improvvisamente non ho più freddo, sento l’acqua attraversare tutto il mio corpo, come se mi “ripulisse” anche interiormente di tutti quei pensieri e sciocchi timori che attraversavano la mia mente…mi sento svuotata, finalmente libera con una potente sensazione di leggerezza …mi volto verso la mia sinistra e trovo ancora lì quella mano tesa…e poi i volti elettrizzati dei miei compagni di viaggio… sento quanto sia emozionante lasciarsi andare e ritrovare comunque gli stessi punti di riferimento lì ad aspettarmi, a sostenermi ad incitarmi…sento l’energia di quella cascata e mi sento un tutt’uno con essa.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 5

L: …quando ci siamo uniti tutti con gli occhi chiusi vicino la cascata. Piena di paura serro le palpebre e comincio a respirare, tremo per il freddo che arriva da lei. Sento il suono sferzante dell’acqua che cade violenta e libera goccioline che come cristalli di ghiaccio raggiungono la mia schiena. Mi lascio trasportare dal freddo e dallo spaventoso suono… e improvvisamente il miracolo, non percepisco nè il freddo nè la paura. Tutto è scivolato via e senza timore abbraccio e mi lascio abbracciare dalla cascata.

 

R: Ecco l’acqua scendere ed attraversare il mio corpo, portandosi via un po’ di quella fuliggine che mi opprime il petto. Non c’era freddo, non c’era più nessuno…. Io, il vuoto calmante della mente e l’abbraccio dell’acqua…Esci e ritorni alla realtà, ritrovi la stessa mano che ti ha mostrato la giusta strada guidandoti … e guardi negli occhi dei tuoi compagni di avventura e non c’è più bisogno di parlare…Ora si, mi sento pronta a condividere parte di me… il mio muro del pregiudizio è sparito!

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 8

 

AM: Stranamente non ho paura, mi sento unita alla volonta degli altri, è come se non fossi io a decidere ma il gruppo e non posso trasgredire al patto di metterci alla prova, di sperimentare nuove sensazioni, sento che siamo tutti uniti in un vortice di coraggio contagioso e potente. La forza della natura, la forza di Spock, la forza del gruppo. Ce la posso fare, voglio far parte di loro fino in fondo. Inizia lui, la forza del suo corpo si confonde con quella dell’acqua in un urlo acuto e liberatorio che ancora mi sembra di sentire; l’adranalina sale, il coraggio aumenta, è il turno di N. poi Mg, poi M. Mi nutro del loro coraggio, l’adrenalina continua a salire, mi sento forte…vado…mi avvicino….sento la mano di Spock che con delicatezza mi trattiene sotto l’acqua, è fredda, violenta ma incredibilmente piacevole….urlo e cerco nel vuoto il suo sostegno per uscire. Mi sento forte, soddisfatta! Non dimenticherò più quella scena, sarà uno dei miei posti sicuri nella mente e potrò richiamarla ogni volta che avrò paura e starà li a ricordarmi che non sono sola e che ce la posso fare! Tutti abbiamo una strana voglia di farlo ancora, abbiamo gia dimenticato tutti i nostri timori; sono affascinata dal potere di questa unione natura-gruppo alla guida di un uomo coraggioso. Dimentico il mio imbarazzo per il costume e mi stendo al sole tranquilla, quasi incurante degli sguardi altrui, sono troppo concentrata sulle mie sensazioni, sento il fresco del costume ancora bagnato, il sole che mi accarezza il corpo affaticato ma stranamente vigoroso, il silenzio interrotto solo dal rumore della cascata e da qualche voce in sottofondo, l’odore del verde. Spock è dentro e fuori la scena, in dei momenti è con noi sul ponte a lasciarsi scaldare dal sole e in altri è solo su una roccia immersa nel verde in una posizione da osservatore distaccato. Facciamo la foto di gruppo sul ponte. Stupenda. Resterà anche lei nella mia mente come esempio di piena condivisione ed unione per un obiettivo comune.

 

AN: Da principio non riesco a fidarmi….già, perché è sempre una questione di fiducia….che sia un’attività davvero utile alla nostra crescita personale ma anche che non sia pericolosa…ma ad un tratto il mio sguardo incontra quello sorridente di G., che mi comunica sicurezza. In sottofondo le mie compagne urlano a gran voce “Anna Anna Anna…” . Mi incitano come fossi un atleta durante le Olimpiadi, come ho visto fare tante volte alla Tv, e penso “non posso deluderle” anche se ho paura. Le loro voci mi sostengono, prendo la mano di G. e sono sotto la cascata ghiacciata…intorno è solo fragore quasi assordante dell’acqua. Riesco a sentire il mio respiro che sembra rimbombare. Apro gli occhi e mi sorprendo a scorgere un arcobaleno sulla parete…è bellissimo con i suoi colori intensi. Mi lascio avvolgere da quella pace e non sento più il freddo dell’acqua. Mi sembra di non sentire nulla oltre al respiro e mi sento piena, carica, felice.

 

V: Non ci sono più dubbi, non ci sono paranoie, non c’è più nessuno.. ci sono io negli altri e gli altri in me. E tutte fuse con la spettacolare natura che ci circonda. Siamo lì sul ponte, tutte ferme, nella pace e nel relax più assoluto. Il sole ci scalda e ci asciuga, il suono della cascata ci accompagna, la guardiamo e ora è nostra amica, piccola, calda.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 6

 CONTINUA

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IV PARTE

Supervisione II

 

Per l’ultima volta attorno a un tavolo, a parlare di sé attraverso il racconto dei pazienti. Alla cascata è successo qualcosa. Qualcosa ha fatto un click dentro. Avrà bisogno di tempo per essere elaborato, trasformato in concetti da scambiarsi, ma questo non gli impedisce di agire:

 

R: Dopo la cascata sono pronta a buttare fuori ciò che provo… ciò che sento.. finalmente riesco a chiedere aiuto… Lì succede una magia, individui diversi per carattere ed esperienze di vita, si sintonizzano su di me… sulle mie emozioni con estremo tatto e delicatezza… accolgono la parte di me che temo di più, che cerco di nascondere disperatamente, mettono fuori gioco la facciata della donna acida, stakanovista… quella che non ha bisogno di nessuno, per lasciar emergere la mia parte fragile ed estremamente delicata. E proprio come la cascata, ho buttato tutto fuori una piccola parte di quel dolore, di quella rabbia che non mi permetteva di ritrovarmi. Mi ritrovo imbarazzata, ma con la sicurezza di avere tante mani pronte a sorreggermi… una sensazione unica, potente… leggerezza, serenità! La potenza della condivisione incondizionata, dell’accettazione di sé e dell’altro, non c’era più differenza, l’emozione dell’altro diventa un po’ tua.

 

N: Rientriamo…il tempo di pranzare e poi intorno al tavolo a discutere dei casi è il turno di R. Una paziente le ripropone continuamente in terapia la sua devitalizzazione proprio quando lei si sente allo stesso modo… il dolore bloccato, e che ti blocca, perché per esprimerlo hai bisogno che prima qualcuno si occupi del dolore di tua madre. Poi tocca a me. La scena di una mia paziente che si mostra bambina, dipendente, incapace di reagire, mi riporta alla mia infanzia. Due scene, le più dolorose. Capisco la mia rabbia, abbraccio me stessa…per la prima volta mi sento vista per quella che sono e ringrazio tutti per avermi accolta.

 

MG: Da ieri osservo R., non la conosco, ma sembra sofferente, ripete spesso di sentirsi devitalizzata ed ora ne capisco il perchè…parla, si commuove e sulla mia guancia scorre una lacrima. So molto bene cosa prova, quel senso di impotenza che ti logora e ti spegne. Nella mia mente un susseguirsi di immagini di vita vissuta, chiudo gli occhi.

 

E: R. parla della sua devitalizzazione. Fa uscire tutta la sua sofferenza. Cerco di starle accanto. È dolcissima. Mi dispiace troppo che stia male. So che però questo in quel momento le serve per poter stare bene. Poi N. parla del suo caso, ma soprattutto di lei. Dietro a quella facciata da dura esprime la sua fragilità. Anche lei come me ha avuto una mamma depressa. Che dolore…Osservo come G. ci aiuta a riflettere su di noi e centrarci su quello che sentiamo.

 

AN: Basta che R. apra una piccola finestra sulla sua storia perchè in un attimo ci sentiamo tutte figlie della stessa madre malata ma combattiva. Siamo tutte R. e sentiamo tutte il suo dolore farsi largo nei nostri cuori. Dice di vergognarsi di piangere ma io vorrei dirle soltanto “grazie” perché non si può far altro che essere grate ad una persona che ti permette di vedere la sua parte più fragile e sceglie di farsi consolare dal gruppo piuttosto che viversi il dolore in uno sterile isolamento. Come solita fare io del resto, per non dare fastidio, per non essere un peso nelle giornate degli altri o per sembrare più forte di ciò che sono. Come se la forza o la debolezza dipendessero da quanto riusciamo a controllare e dissimulare la nostra sofferenza…Mi rendo conto in quel momento che ho ancora tanta strada da fare a livello personale per accettare e accogliere la mia vulnerabilità. Quella che tutti abbiamo ma che io ho visto sempre come una nemica da sconfiggere e da tenere a debita distanza di sicurezza. R. si è lasciata andare e adesso mi sembra più forte di prima. Anche il racconto di N. mi tocca molto. Mi rivedo nella bambina N. alle prese con i suoi problemi di salute e con la determinazione di chi non vuole arrendersi al destino crudele e beffardo che rischia di minare irrimediabilmente la sua autonomia, nel tentativo di dimostrargli “io sarò più forte” ma soprattutto nel suo desiderio di tranquillizzare i genitori nascondendo le sue paure, le sue difficoltà dietro una facciata di iperefficienza.

 

V: Ultima supervisione. Non sono pronta ma non mi interessa. Ho la spinta adatta per andare a guardare lì dove non mi piace guardare e questo è un successo. Va bene così, pazienza se non è il mio momento. Ci penso su e questo mi aiuterà. Non andrò via a mani vuote. Quello che le altre mi lasciano è ugualmente prezioso o forse di più.. risulta più semplice guardarmi attraverso le altre piuttosto che guardare direttamente me stessa. Ascolto le loro parole, le difficoltà, le espressioni e tutto diventa più nitido, le vedo così come sono. Grazie.

 

Meditazione

L’ultima pratica prima di salutarci. Molti non si sono mai seduti su uno zafu. Non sanno nemmeno cosa sia. (N, per esempio, ha comprato da Decatholon una specie di mattone grigio sorcio di gomma pressata che chiama “sedile da yoga” e che le anestetizzerà le natiche). Per altri non è una novità. Provengono da scuole di specializzazione in cui parecchie ore sono dedicate alla mindfulness.

Insegno loro le basi essenziali della postura. Li rassicuro sul fatto che in questi quarantacinque minuti è escluso che verranno folgorati dal samadhi. Quindi è importante evitare la perdita di tempo di ricercarlo e sentirsi frustrati nel non trovarlo. Dovranno solo ascoltare il loro respiro e le cose che leggerò.

Uso il metodo di uno dei miei maestri di arti marziali, un monaco zen, che dopo l’allenamento ci faceva sedere in zazen e leggeva alcuni brani tratti dai testi classici. Immobili, senza alcuna fatica, ascoltavamo e respiravamo. Un brano, poi una lunga pausa, poi un altro brano. Nelle nostre posture, diventavamo macigni, ma le parole, quella voce, non incontravano alcuna resistenza. La semplice realtà delle cose entrava nel ventre:

 

 

E: Trovo il mio posto. Ascolto i brani. La mente va. Vedo scene confuse e il pensiero si distrae. Lo riporto alla situazione presente ancorandomi al respiro, ma la mente si distrae. Mi fanno male i muscoli. Perdo la posizione. Voglio concentrarmi. Poi mi rivedo nel brano IO SONO, in quello che parla di abbandonare la centratura su sé. Lo voglio fare nei giorni a venire.

 

 

N: In meditazione non so se riuscirò a star ferma. Ci provo, poi G. mi rassicura. Le sue parole profonde, semplici mi consentono di continuare a rilassarmi e ascolto attraverso i concetti sempre più me stessa, il mio corpo in contatto leggero con la mia mente..

 

MG: Le luci sono soffuse, ognuno sul suo zafu per iniziare la meditazione “le gambe mi fanno male in questa posizione, non mi piace chiudere gli occhi e ho difficoltà a stare ferma”. G. inizia a leggere e io decido di trovare una posizione più comoda. Ha una voce calda e penetrante, i contenuti sono profondi e mi rilassa ascoltarlo.

 

A: la voce rassicurante di G. mi guida verso la calma e il rilassamento…sento dolore alle gambe, aggiusto la posizione e riprendo il piacevole contatto con il mio corpo, abbandonandomi alla serenità.

 

V: Momento meditazione. Ginocchia a pezzi… parole che si insinuano nella mia mente e trovano un posto comodo. Ci stanno benissimo.

 

Commiato

Ci salutiamo un po’ frettolosamente, quasi distrattamente, come se dovessimo rivederci di lì a poco e si attivasse un termostato anti-enfasi. Una specie di imbarazzo nel leggere, ciascuno nel viso dell’altro, per non più di una frazione di secondo, quanto sia, per quanto necessario, piuttosto innaturale salutarsi. Penso: ‘ho regalato loro un’esperienza nuova, forse l’inizio di un importante cambiamento interno…’; poi si aggiunge un altro strato di pensiero: ‘…hanno fatto lo stesso con me’.

 

N: Il momento dei saluti. La prima cosa che penso è che é come se avessimo prima di questo momento condiviso altro, come se ci fossimo già conosciuti …poi penso che c’è bisogno di proseguire…ognuno di noi sente che dovremmo riunirci presto, ritornare qui.

E: Ci mettiamo in macchina e parliamo delle cose che ci porteremo di questa esperienza. Per me saranno la certezza che le cose non sono difficili come credo, il mondo è più importante della mia sola esistenza e soprattutto il mio essere stata bambina non può influenzare continuamente il mio essere adulta. I propositi per il futuro sono pensare meno prima di parlare, fare e dire le cose solo perché ho voglia di farlo e portare meno l’attenzione a me e più al mondo. Senerchia è stata un’occasione per scoprire che si è al mondo non per forza per produrre qualcosa ma solo per stare.

R: Avere un modello non vuol dire solo avere un contenitore con tante caselle dove inserire le persone…. Avere un modello vuol dire interiorizzarne i significati, abbracciare uno stile di vita, abolire il giudizio e promuovere la condivisione genuina di tutte le parti di sé, anche quelle poco piacevoli. Dove la differenza tra te e l’altro non esiste.

MG: Siamo in macchina, guardo dal finestrino Senerchia, sto ferma, sono calma e serena.

L: Le osservo, senza giudizio, per quello che oggettivamente sono: la celata delicatezza di A., la forte tenerezza di An., la calma determinazione di M., la dolce energia di N., il silenzio birbante di Mg, la solare inquietudine di R., la delicata profondità di V., la silenziosa cura di E., lo spaventato affetto di Am. La felice tristezza di L.
Sarà questa la disciplina interiore? Lasciarci guidare dalle cose che ci spaventano senza evitarle? Osservare ciò che ci circonda senza giudicare, arricchendoci del nostro guardare l’altro mentre guardiamo noi stessi? Si dice che all’essere umano fa paura ciò che non conosce. Noi a Senerchia abbiamo convissuto con ciò che non conoscevamo.

 

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Master Online in Disturbi Specifici dell’Apprendimento

Dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia: queste sono alcune problematiche che si possono riscontrare in alcuni bambini in età scolare e prescolare e che rientrano nella categoria dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

I DSA consistono nella mancanza di alcune abilità specifiche nella lettura, nella scrittura e nella capacità di padroneggiare numeri e calcoli: tale carenza non permette al soggetto di essere autonomo nell’apprendimento.

Spesso questi disturbi, ancora poco conosciuti sia dal personale docente che dagli stessi genitori, sono causa di grande stress psicologico e di emarginazione del bambino, oltre che di compromissione del percorso formativo.

Riconoscere i sintomi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento e attuare misure di intervento tempestive è quindi fondamentale per guidare il bambino verso l’autonomia e la completa integrazione nel gruppo.

Il MIUR garantisce il diritto allo studio delle persone affette da DSA, secondo quanto stabilito dalla legge 170/2010.

E proprio il MIUR ha riconosciuto anche I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l tra gli enti idonei a somministrare percorsi formativi in materia.

I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l offre un Master Universitario Primo Livello Online sui Disturbi dell’Apprendimento, per formare personale specializzato in questo settore, in grado di fornire tutte le competenze necessarie per conoscere e riconoscere la presenza di questi disturbi e introdurre misure di sostegno contro l’insorgenza di eventuali insuccessi scolastici.

Il Master, erogato completamente online, si sviluppa in 1500 ore da distribuire in 12 mesi.

È possibile usufruire anche di un finanziamento della Comunità Europea per coprire parzialmente il costo, oltre alla disponibilità di accedere a pagamenti rateizzabili.

Essendo I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l un Istituto Universitario, l’attestato che sarà rilasciato “Master Universitario primo livello Disturbi Specifici dell’Apprendimento, 60 CFU e 50 ECM” ha valore legale sia in Italia che all’estero, utile per:

  • concorsi pubblici
  • libera professione
  • graduatorie scolastiche
  • cooperative sociali
  • avanzamento di carriera

Ai professionisti nel settore sanitario verrà rilasciato un Certificato di 50 Crediti Formativi / ECM (Educazione Continua in Medicina), in quanto, I.CO.TE.A. C.A.T. S.r.l. è stata accreditata presso il Ministero della Salute in qualità di Provider n. 4182 per la formazione ECM – Educazione Continua in Medicina.

Ai Liberi Professionisti, Dipendenti Pubblici o Privati iscritti presso Ordini/Albi/Collegi verranno riconosciuti Crediti Formativi Professionali.

Il piano di studio prevede la disamina dei seguenti argomenti:

  • I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: caratteristiche generali e tipologia
    • I DSA e Problemi Sociali ed Emotivi Connessi
    • Legge 08/10/2010 n. 170
    • Il Ritardo Mentale: caratteristiche del disturbo
    • La Famiglia e DSA – le Connessioni dei Disturbi
    • La Dislessia Evolutiva: caratteristiche del Disturbo e Funzionamento dei soggetti Dislessici
    • I fattori Eziologici della Dislessia
    • La Diagnosi di Dislessia: criteri e strumenti Diagnostici
    • La Riabilitazione Neuropsicologica della Dislessia
    • Dislessia test
    • La Disortografia Evolutiva: caratteristiche del Disturbo
    • La Disgrafia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
    • La Disprassia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
    • La Discalculia: caratteristiche del Disturbo – criteri e strumenti diagnostici
    • Esercitazione Pratica: Relazione Clinica DSA ed Esercizi
    • Esempio Prove di Lettura e Scrittura
    • Strumenti di Diagnosi
    • Esempio Redazione Piano Educativo Personalizzato.

 

Per maggiori informazioni visita il sito www.icotea.it o scrivere a [email protected]

Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo-compulsivo di Aaron Karo – I consigli per l’estate di libri e film Nr. 02

RUBRICA I CONSIGLI DELL’ESTATE DI LIBRI E FILM – Mi chiamo Chuck, ho diciassette anni e, stando a Wikipedia, soffro di disturbo ossessivo compulsivo di Aaron Karo (Nr. 02)

TEMI PSICOLOGICI TRATTATI: disturbo ossessivo-compulsivo, adolescenza, relazioni tra pari, bullismo.

Chuck Taylor ha diciassette anni e si lava continuamente le mani, controlla i fornelli e vive nel terrore che i germi possano contaminarlo. Trascorre le sue giornate sempre in bilico tra il bisogno di assecondare i pensieri ossessivi e i goffi tentativi di costruirsi delle relazioni sociali. Ha un unico amico del cuore, Steve, vittima delle angherie dei bulli della scuola e una sorella, Beth, che al contrario è amata dai coetanei e prende le distanze da Chuck fino a non accettare la sua amicizia su Facebook.

Le giornate del giovane protagonista sono costellate da regole, imposizioni rigide e ripetuti controlli. Ha una collezione di Converse All Star di diverso colore, che indossa a seconda dello suo stato emotivo, rosse quando è arrabbiato, gialle quando è nervoso, e così via.

I genitori sono sempre più preoccupati e lo convincono, nonostante le sue rimostranze, a rivolgersi a uno psichiatra. Sarà poi l’arrivo di una nuova compagna di classe a dare una svolta alla sua vita e a fargli aggiungere un nuovo colore alla collezione di scarpe da tennis.

La lettura di questo libro è piacevole e divertente, nonostante venga trattato un tema delicato come il disturbo ossessivo-compulsivo negli adolescenti. Lo sguardo si amplia anche nel trattare le dinamiche dell’amicizia e del difficile rapporto con i coetanei, che non sono pronti ad accettare la diversità che accompagna il sintomo di un disturbo.

I genitori del ragazzo sono una grande risorsa, perché lo avvicinano alla cura in modo supportivo e lo aiutano ad affrontare il delicato tema del farmaco, senza imposizioni o comportamenti iper-protettivi.

Un buon libro da leggere sotto l’ombrellone e da consigliare a tutti gli interessati all’ argomento, psicologi dell’età evolutiva, educatori, genitori e figli che vivono da vicino situazioni analoghe.

 

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