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Perché non tutti gli estremisti diventano terroristi?

La rivista American Psychologist ha dedicato diversi articoli al tema del radicalismo e del terrorismo e gli esperti hanno fornito delle risposte importanti

Di Greta Lorini

Pubblicato il 02 Mag. 2017

Terrorismo: Poiché la maggior parte delle persone che possiedono idee radicali ed estreme non diventano terroristi, quali sono i fattori che spingono alcune di loro a commettere atti di estremismo violento? Esiste un legame tra malattia mentale e coinvolgimento in atti terroristici? Perché alcuni interrogatori ricorrono alla tortura quando innumerevoli prove dimostrano che costruire un rapporto con i sospettati è un metodo più efficace?

 

Terrorismo e radicalismo: la rivista American Psychologist fornisce delle risposte

Queste ed altre domande sono affrontate all’interno di un numero speciale di American Psychologist, la rivista di punta della American Psychological Association. Gli articoli raccolti al suo interno riguardano temi come “perché gli individui diventano radicalisti?”; “come si può prevedere chi diventerà un terrorista?”; “come avviene il passaggio progressivo dalla non-violenza alla radicalizzazione del terrorismo?” e, infine, “qual è il ruolo della resilienza della comunità nel prevenire l’avvicinamento dei giovani all’estremismo violento?”.

Il terrorismo è uno dei più complessi problemi sociali del nostro tempo” ha dichiarato J. G. Horgan, guest editor del numero e professore di psicologia presso la Georgia State University. “Gli sforzi per capire il terrorismo abbondano in ogni disciplina accademica, ma molte domande riguardanti le modalità di predizione e prevenzione del terrorismo rimangono senza risposta. Non c’è mai stato un bisogno più urgente di un maggiore impegno da parte della psicologia.”

Ecco una breve carrellata degli articoli del numero speciale:

“Understanding Political Radicalization: The Two-Pyramids Model”
(Comprendere la radicalizzazione politica: Il modello della doppia piramide)
di Clark McCauley e Sophia Moskalenko, (Bryn Mawr College).

In questo articolo, gli autori propongono la distinzione tra radicalizzazione di opinioni estreme e radicalizzazione di azioni estremiste come fenomeni psicologici distinti. Essi descrivono una “piramide delle opinioni” costituita da gradi di condivisione sempre più elevati di idee estremiste ed una “piramide delle azioni” con livelli che vanno dalla passività all’attivismo legale alla violenza politica fino al terrorismo. “La giustificazione del modello a due piramidi è data dall’osservazione che il 99% degli individui che possiedono idee radicali non le agiscono necessariamente” scrivono i due autori. “Al contrario, molte persone si uniscono ad azioni radicali, senza possedere idee radicali.” Programmi per contrastare l’estremismo violento che non distinguano le idee estreme dalle azioni estremiste finiranno con il moltiplicare inutilmente la minaccia terroristica.

“Risk Assessment and the Prevention of Radicalization from Nonviolence Into Terrorism
(Valutazione del Rischio e Prevenzione della Radicalizzazione della Non-violenza nel Terrorismo)
di Kiran M. Sarma (National University of Ireland, Galway).

E’ possibile identificare coloro che verranno da coloro che non verranno coinvolti in attività terroristiche in futuro? Questa domanda è di importanza centrale per tutti quelli che hanno il compito di valutare il rischio rappresentato da individui propensi alla violenza. In questo articolo, Sarma discute la sfida di condurre una valutazione del rischio del terrorismo. Egli descrive alcuni degli strumenti utilizzati per lo screening di persone segnalate alle autorità come potenzialmente a rischio. Sarma sostiene che, sebbene la valutazione del rischio terroristico sia irto di sfide etiche ed empiriche, il vero progresso può essere ottenuto nell’ambito del giudizio umano e del processo decisionale ed, in particolare, nel modo in cui i valutatori accorpano e sintetizzano i dati e prendono decisioni in merito. “I valutatori dovrebbero considerare sia la presenza di fattori di rischio che la loro rilevanza” scrive Sarma.

“Building Community Resilience to Violent Extremism Through Genuine Partnerships”
(Costruire Comunità Resilienti all’Estremismo Violento attraverso Partnership Genuine)
di B. Heidi Ellis (Harvard Medical School) e Saida Abdi (Boston University School of Social Work).

Secondo questo articolo, la connessione sociale è il fulcro delle comunità resilienti e delle strategie volte a prevenire l’avvicinamento dei giovani all’estremismo violento. Riconoscendo l’enorme polemica che circonda le iniziative esistenti, gli autori sostengono che la creazione di partnership sane tra enti governativi e membri della comunità possa, se fatta bene, fornire adeguati e precoci sistemi di allarme per prevenire l’estremismo violento. Ciò potrebbe richiedere un cambiamento dei paradigmi utilizzati da un tradizionale approccio top-down (dall’alto al basso) ad un nuovo approccio bottom-up (dal basso verso l’alto) scrivono i due autori. Se condotti in modo errato, gli sforzi top-down per definire e rispondere al rischio di estremismo violento corrono il rischio di compromettere l’assetto comunitario piuttosto che contribuire al suo recupero. Per esempio, un’enfasi eccessiva su un particolare gruppo come vulnerabile all’ideologia estremista e violenta porterà alla stigmatizzazione e alla discriminazione di quel gruppo, e ciò può minare un senso positivo di identità sociale per i membri di quel gruppo e degradare la resilienza della comunità.

“Toward a Psychology of Humiliation in Asymmetric Conflict”
(Verso una Psicologia dell’Umiliazione nei Conflitti Asimmetrici)
by Clark McCauley (Bryn Mawr College)

Questo articolo esplora come l’umiliazione (definita come combinazione corrosiva di vergogna e di rabbia) sia spesso un fattore chiave per i conflitti terroristici.
Quando gli analisti discutono il ruolo svolto dall’umiliazione nella guerra, nel terrorismo e nel genocidio, spesso parlano come se tutti sapessimo cosa sia umiliazione e come essa agisce” scrive McCauley, “ma il fatto è che l’umiliazione deve essere meglio compresa prima che possa aiutarci a capire la violenza interpersonale. La ricerca sull’umiliazione come costrutto psicologico è soltanto all’inizio”.
La ricerca sull’umiliazione è fondamentale anche per comprendere le reazioni del governo al terrorismo – qualcosa che è stato finora poco studiato dagli interessati al terrorismo. Forse l’implicazione più sorprendente di questa analisi è che non siano solo i deboli a poter essere umiliati, ma che anche i potenti possono essere umiliati dai deboli se – come spesso succede nel caso di attacchi terroristici – il governo preso di mira è incapace di reagire in modo diretto verso i responsabili.

“There and Back Again: The Study of Mental Disorder and Terrorist Involvement,”
(Andata e Ritorno: Lo Studio dei Disturbi Mentali e del Coinvolgimento Terrorista)
di Paul Gill e Emily Corner (University College di Londra).

Riassumendo gli ultimi 40 anni di ricerca sulla connessione tra disturbi mentali e il coinvolgimento terroristico, concludono gli autori, non v’è alcun profilo psicologico comune per i terroristi. Piuttosto, l’evidenza suggerisce che alcuni tipi di terroristi possono possedere più probabilmente alcuni tratti psicologici rispetto alla popolazione generale e che quei sottogruppi con alti tassi di disturbi mentali sono al di sotto del 50%. Nessun disturbo mentale di per sé sembra essere un predittore di coinvolgimento terroristico. Gli autori suggeriscono che esperire un disturbo mentale può essere solo uno dei tanti fattori di rischio che spingono e attirano un individuo in attività terroristiche.

“Revenge Versus Rapport: Interrogation, Terrorism, and Torture”
(Vendetta versus Relazione: Interrogatori, Terrorismo e Tortura)
di Laurence Alison e Emily Alison (Università di Liverpool).

L’idea che generare impotenza, paura e terrore nel sospettato sia una strategia affidabile per ottenere informazioni è contraria alla ricerca, secondo questo articolo. Tattiche come privazione del sonno, esposizione al caldo o al freddo e stress compromettono il richiamo, danneggiando il valore delle informazioni generate. Perché, dunque, la tortura viene ancora usata? “Il motivo, almeno in parte, potrebbe risiedere nella nostra natura umana di accettare che venga utilizzata solo quando non vi è alternativa e quando sembra essere utile per il bene superiore”. Gli autori hanno sviluppato una tecnica per l’analisi audio-video degli interrogatori filmati per misurare l’efficacia delle tecniche di interrogatorio e lo hanno applicato ad un ampio insieme di dati. Essi hanno scoperto che, tra le molte altre competenze interpersonali, un approccio autoritario adattivo da parte dell’intervistatore consente di ottenere maggiori informazioni di un approccio patologico (caratterizzato dall’essere esigente, dogmatico, saccente e rigido).

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