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Recensione – Il Trono di Spade – A Game of Thrones – Sul Narcisismo del Principe Joffrey

Il Trono di Spade affascina per una trama complessa, ricca di colpi di scena e con personaggi ben sviluppati dal punto di vista psicologico.

Di Gabriele Caselli, Sandra Sassaroli

Pubblicato il 17 Gen. 2013

 

Recensione - Il Trono di Spade (Game of Thrones)
Il Trono di Spade. Locandina HBO.

Il Trono di Spade affascina per una trama complessa, ricca di colpi di scena e con personaggi ben sviluppati dal punto di vista psicologico.

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Il Trono di Spade è una serie televisiva prodotta e trasmessa da HBO che racconta la trasposizione televisiva delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, collana di romanzi fantasy di George R.R. Martin.

La serie narra le vicende di un vasto regno sull’orlo di molte possibili guerre. Una guerra politica interna, tra le famiglie più influenti del vecchio continente. Una guerra contro il passato, la giovane erede di una dinastia da tempo detronizzata. Una guerra contro un nemico sconosciuto e misterioso: i temibili Estranei del nord.

Il Trono di Spade affascina per una trama complessa, ricca di colpi di scena e con personaggi ben sviluppati dal punto di vista psicologico, anche se a volte schematici e rudi.

Ecco perché nasce la curiosità e il gioco di riflettere su alcuni spunti e provare a condividerli con i lettori di State of Mind.

Tra le scene iniziali una ha colpito la nostra attenzione. Siamo nel terzo episodio della prima stagione e assistiamo a un dialogo tra la regina Cersei e suo figlio adolescente Joffrey, erede al trono. Biondo, fragile, carino, potenzialmente prepotente e violento. Ma prima occorre fare il punto sull’antefatto. Eddard Stark, lord di Grande Inverno, viene incaricato dal suo re (suo vecchio e amatissimo amico) di recarsi presso la capitale del regno per ricoprire la carica di Primo Cavaliere del Re. Durante il viaggio accade un increscioso incidente. Capita che il principe Joffrey, per farsi bello agli occhi della giovane figlia di Stark, minacci la sorella minore di quest’ultima (Arya) e un suo amico. Quando Arya si ribella a questo atteggiamento arrogante del suo principe, Joffrey si sente messo in discussione e alza il tiro impulsivamente: sfodera la spada.

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A questo punto la custode di Arya, una metalupa, (i cani/lupo protettori degli uomini) percepisce la minaccia che incombe sulla sua padrona, si avventa sul principe e lo ferisce a un braccio. Joffrey, che è pur sempre un adolescente abituato all’agio e alla riverenza, si spaventa, urla, piagnucola, invoca pietà e fugge umiliato. A questo punto si accende il dramma politico degli adulti, poiché l’onore del principe dev’essere riparato e Cersei è tutt’altro che una madre capace di cogliere le occasioni di dolore, come l’umiliazione, per insegnare qualcosa a suo figlio.

No, per lei educare è insegnare la forza. Anzi di più. Occorre convincersi della propria onnipotenza. In pubblico Cersei entra a difesa del ragazzo, non accetta di lasciare il gesto impunito, sarebbe una debolezza, una incrinatura inaccettabile della sua immagine di futuro re. Quindi pretende un atto riparatorio, la testa di uno dei metalupi degli Stark.

Questo avviene ed è una delle scene più dolorose e ingiuste della serie. Una volta riparato il danno pubblico, Cersei si trova a gestire quello privato. Ha il timore che il figlio possa sentirsi indebolito da questa vicenda. E infatti egli arriva per curarsi, è triste, addolorato e umiliato. Come reagisce Cersei? mentre cura la ferita di Joffrey: “Un re deve avere cicatrici. Hai respinto un metalupo. Sei un guerriero come tuo padre”. Induce un racconto falso. Inizialmente tanto falso che lo stesso principe ha un moto di onestà e di autocritica: “Non sono un guerriero. Non ho fatto niente, il lupo mi ha morso e io ho gridato. Le sorelle Stark hanno visto tutto”.

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 Hanno visto che non è che un semplice ragazzo spaventato. In quella espressione tutti noi possiamo sentirci un po’ vicini a Joffrey, provare pena e compassione. Lì il principe mostra il dolore umano di un ragazzo che ha sbagliato e può entrare in contatto con la propria debolezza. In quel momento può essere moralmente salvo. Cersei potrebbe cogliere l’occasione per riconoscere la normalità della paura e dell’umiliazione come esperienze di vita tollerabili. Joffrey potrebbe essere indirizzato a conoscere le proprie paure, responsabilità e magari chiedere scusa. Lì poteva cominciare a divenire un uomo saggio e compiuto. Poteva allontanarsi dall’assetto sprezzante della sua famiglia. Dalla loro violenza. Cersei risponde: “Non è vero. Tu hai ucciso la bestia. Hai risparmiato Arya solo per l’affetto che lega tuo padre al suo”.

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Questa versione è talmente assurda che il principe prova a protestare ancora. In quel momento chiede aiuto, vuole sentirsi compreso e accudito. Ma la regina considera l’arbitrio nella costruzione del mondo e il disprezzo della verità come segni di forza e potere regale.

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Della regalità coglie l’arroganza e mai la saggezza: “quando Aerys Targaryen sedette sul trono tuo padre era un ribelle e un traditore. Un giorno siederai sul trono e sarai tu a decidere la verità”. Cersei lo spinge a credere al falso a credere all’invenzione della storia ad allontanarsi da una visione corretta della realtà, gli impone che la lettura arbitraria sia suo diritto regale e che un re debba disprezzare la verità. La realtà è roba per il popolo non per i re.

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Lo tratta come se fosse un onnipotente che ancora non sa di esserlo. Il dolore non esiste, basta che tu muti la verità. Gli altri sono oggetti da usare o gettare e la regola è che nessun dolore è necessario per un re. Così con l’intento di renderlo forte, Cersei rende suo figlio un principe che non sa soffrire, non sa entrare in contatto con il proprio dolore e con quello degli altri. Un principe che dissocia per mantenere vivi i suoi sogni di grandezza e regalità. Mentre lo guardiamo ci fa pena. Noi sappiamo che il doloroso rispetto della forza della realtà è la necessità di ogni principe medioevale ma anche di ogni persona. Sappiamo che proprio nel momento della sua intuizione di onnipotenza futura egli è un uomo finito, un fantoccio di pezza che sarà vittima della sua stessa storia.

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L’educazione di Joffrey assomiglia all’educazione di un moderno narcisista che viene educato dai genitori a considerarsi migliore e superiore agli altri. Che non può avere accesso alla paura, alle emozioni di umiliazione o di depressione.

La grandiosità protegge i genitori dai propri problemi psicologici e dai propri timori sulle debolezze del figlio e danneggia il figlio che si sente grande ma non sa avere un contatto compiuto e saggio con la realtà. La grandiosità che dovrebbe divenire forza diviene invece debolezza e fragilità.

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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